Bollando gli arabi come una ‘minaccia esistenziale’ Bibi evoca una spaventosa storia di violenza etnica

Dahlia Scheindlin

18 novembre 2019 – +972

Domenica notte Netanyahu ha convocato un incontro di emergenza del Likud, in cui ha accusato i cittadini palestinesi in Israele di sostenere il terrorismo. Noi sappiamo fin troppo bene come questo tipo di cose può andare a finire.

Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, nella sua accanita battaglia per impedire al suo avversario di formare un governo con l’appoggio della Lista Unita, coalizione a prevalenza araba, ha nuovamente accusato i leader del partito arabo di rappresentare una minaccia esistenziale per Israele. Domenica notte il presidente [della Lista Unita]Ayman Odeh ha risposto facendo circolare sui social una sua foto in pigiama mentre legge delle favole ai suoi tre affettuosissimi bambini. “Alla fine di una lunga giornata devo far addormentare queste minacce esistenziali!” ha scritto, contribuendo al divertimento virale dei lettori.

Anche se può essere una soddisfazione vedere come Odeh abbia fatto a pezzi Netanyahu con l’umorismo, le parole del primo ministro costituiscono in se stesse un grande pericolo.

Le deliranti diatribe anti-arabe di Netanyahu stanno accelerando in velocità e gravità. Nel 2015 aveva messo in guardia che i cittadini arabi stavano andando a votare “a frotte.” In vista delle elezioni di settembre la sua pagina Facebook dichiarava che “i politici arabi ci vogliono distruggere tutti.” (Netanyahu ha detto che si è trattato di un errore di un impiegato della campagna elettorale.)

Domenica Netanyahu ha tenuto un incontro di “emergenza” dei membri del Likud (l’emergenza non era una pioggia di razzi, ma l’eventualità di una coalizione di minoranza sostenuta dalla Lista Unita). In quell’occasione aveva tuonato che Blu e Bianco, il partito rivale, stava negoziando con i parlamentari arabi e che, ha continuato, “sostiene le organizzazioni terroristiche e vuole distruggere lo Stato.”

Non potendo trovare delle prove che la leadership della Lista Comune, formata da politici di lungo corso e attivisti della società civile, abbia il desiderio o le possibilità di distruggere Israele, ha citato invece Khamenei, l’ayatollah iraniano, che recentemente ha invocato la distruzione di Israele. Queste sono parole esecrabili, ma non riescono a trasformare l’ayatollah in un politico arabo in Israele.

Ancora più preoccupante è che fare della “minaccia esistenziale” dell’Iran una cosa sola con i cittadini arabo-palestinesi imita la retorica ideologica che sta dietro alle peggiori violenze etniche del mondo.

Un’analisi attenta delle origini di queste atrocità mostra che i responsabili avevano un’immagine distorta di una imminente distruzione che li aveva portati a commettere violenze estreme contro una collettività “altra” , giustificandole con la difesa nazionale. I leader e le élite spesso mettono insieme un reale trauma storico collettivo con una sfida politica del momento, o un’offesa, come prova di distruzione incombente.

Nei primi anni ’90, i miliziani serbi non si sono svegliati un mattino e hanno deciso di terrorizzare, stuprare e commettere un genocidio contro i loro vicini non-serbi. Secondo Stuart Kaufman, uno studioso di conflitti etnici, sebbene il collasso della Jugoslavia avesse naturalmente comportato violenze da parecchie parti, per molti anni i leader e gli intellettuali hanno sottolineato l’idea che le minoranze serbe delle ex-repubbliche della Jugoslavia si trovassero ad affrontare una “estinzione etnica”. Accademici di fama pubblicarono un memorandum, affermando che in Kosovo gli abitanti stavano cospirando per commettere un genocidio della popolazione serba locale. Il nazionalismo albanese in Kosovo stava infatti crescendo e molti, come nelle altre repubbliche, rivendicavano l’indipendenza.

L’influente documento sottolineava che i serbi non erano mai stati in un tale immediato pericolo dagli anni degli ustascia, quando il regime croato fantoccio dei nazisti aveva terrorizzato e massacrato circa mezzo milione di serbi. I serbi avevano fatto circolare voci di stupri commessi da albanesi e di un traffico croato di organi di combattenti serbi morti. Slobodan Milosevic aveva anche lui denunciato che i kosovari albanesi stavano progettando un “genocidio demografico.” Alla fine furono i serbi bosniaci ad essere condannati per il genocidio.

In Ruanda nel 1994 il regime dominato dagli hutu mobilitò la partecipazione di massa a un genocidio contro la minoranza dei tutsi che uccise circa 800.000 persone in circa 100 giorni. Il ruolo della propaganda e l’incitamento attraverso i media sono ben documentati. Ma in realtà che cosa affermava l’incitamento allo sterminio? Un rapporto di Human Rights Watch [associazione statunitense per la difesa dei diritti umani, ndtr.] ha riscontrato il seguente messaggio:

I tutsi costituivano una minaccia per gli hutu che erano sempre le vittime, sia che si trattasse del potere militare dei tutsi o della loro furbizia (usare le donne per sedurre gli hutu, usare i loro soldi per comprare gli hutu) e così gli hutu avevano il diritto di difendersi.”

Il rapporto di Human Rights Watch continua: “In particolare fu l’ultima idea, cioè che gli hutu fossero in pericolo e che dovessero difendersi, ad aver avuto il successo maggiore nel mobilitare gli attacchi contro i tutsi dal 1990 fino al genocidio del 1994.”

Anche qui il pericolo imminente era attribuito alle sofferenze storiche e recenti degli hutu per mano dei tutsi. Nel vicino Burundi, gli hutu erano vissuti sotto il dominio tutsi per decenni. Quando il primo governo a guida hutu salì al potere nel 1993, il leader fu assassinato in un colpo di stato tutsi e le violenze reciproche uccisero centinaia di migliaia di persone. La distruzione si potrebbe considerare come la continuazione della storica dominazione di una monarchia a guida tutsi in Ruanda durante il colonialismo, prima di un colpo di stato nel 1959.

Mescolare dei torti veri con la ripetizione ossessiva di minacce esistenziali imminenti dovrebbe far paura a chiunque.

A suo modo le fantasie di Netanyahu sono persino più vergognose. Mancano di ogni base di un danno causato dai cittadini arabo-palestinesi in Israele, nel passato o nel presente. Questi gruppi non sono mai stati coinvolti in terrorismo organizzato e anche gli incidenti singoli sono estremamente rari. La comunità non ha tendenze secessioniste, ha partecipato al processo politico in Israele per decenni e dichiara ripetutamente il suo desiderio di una maggiore integrazione politica, civile ed economica. L’unica richiesta che sfida gli ebrei israeliani è simbolica: la conservazione della loro bistrattata identità palestinese. La principale richiesta politica, associata a quella dell’identità, è di porre fine all’occupazione militare dei territori palestinesi durata 50 anni e di riconoscere loro l’indipendenza.

Trasformare i cittadini arabo-palestinesi in una minaccia esistenziale di reale distruzione è un falso a livello di quello di una calunnia che provoca spargimento di sangue e questo è qualcosa che gli ebrei dovrebbero capire.

Dahlia Scheindlin è un’analista di fama internazionale degli orientamenti dell’opinione pubblica e una consulente strategica, specializzata in cause progressiste, in campagne politiche e sociali in oltre una dozzina di Paesi, incluse democrazie nuove/in transizione e nella ricerca su pace/conflitto in Israele, con esperienze nell’Europa orientale e nei Balcani. Lavora per un grande numero di organizzazioni locali e internazionali che si occupano dei temi del conflitto israelo-palestinese, diritti umani, processi di pace, democrazia, identità religiosa e problemi sociali interni. Ha conseguito un dottorato di ricerca in scienze politiche alla TAU, l’università di Tel Aviv e co-presenta il podcast The Tel Aviv Review.

(Traduzione di Mirella Alessio)




La Corte Suprema sentenzia che Israele può espellere il direttore di Human Rights Watch

Henriette Chacar

5 novembre 2019 – +972

 

Il massimo tribunale di Israele sancisce che Omar Shakir può essere espulso, ratificando gli sforzi del governo per mettere a tacere chi critica le sue politiche. Il suo caso è stato descritto come uno spartiacque per la difesa dei diritti umani e per la libertà di espressione in Israele.

Martedì, dopo una lunga battaglia legale per consentirgli di rimanere nel Paese, la Corte Suprema di Israele ha approvato l’espulsione del direttore di Human Rights Watch di Israele e Palestina, Omar Shakir.

I giudici Neal Hendel, Noam Sohlberg e Yael Willner hanno accolto l’accusa dello Stato in base alla quale Shakir, cittadino statunitense, appoggia il movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), ed hanno respinto l’appello di Shakir e di Human Rights Watch contro la sua espulsione.

Shakir dice che ora ha 20 giorni di tempo per andarsene o subire l’espulsione.

Il caso di Shakir è stato descritto come uno spartiacque per la difesa della libertà di espressione e dei diritti umani in Israele. Ordinando la sua espulsione, Israele si affianca a Paesi come la Corea del Nord, l’Iran, Cuba e il Venezuela, che hanno anch’essi vietato l’ingresso ai membri dello staff dell’organizzazione.

La sentenza si basa sull’emendamento del 2017 alla Legge di divieto di ingresso in Israele, che autorizza il Ministro dell’Interno a rifiutare i visti temporanei o la residenza a qualunque cittadino non israeliano che abbia pubblicamente invitato o si sia impegnato a partecipare al boicottaggio di Israele. In agosto Israele ha fatto ricorso a questa legge per impedire alle deputate del Congresso [USA] Ilhan Omar e Rashida Tlaib di entrare nel Paese.

L’anno scorso il Ministero dell’Interno israeliano ha revocato il permesso di lavoro di Shakir ed ha ordinato la sua espulsione entro due settimane. È stata la prima volta che il governo israeliano ha utilizzato l’emendamento del 2017 alla Legge sull’ingresso per espellere qualcuno che era già presente nel Paese.

La decisione di Israele si è basata in larga parte su un dossier dell’ intelligence che il Ministero degli Affari Strategici ha elaborato riguardo all’attivismo di Shakir in favore dei diritti dei palestinesi prima di entrare a far parte di HRW. In quanto co-presidente degli ‘Studenti per equi diritti per i palestinesi’ a Stanford, Shakir aveva richiesto all’università di disinvestire dalle aziende che traggono profitti dall’occupazione.

HRW, rappresentata dagli avvocati israeliani per i diritti umani Michael Sfard, Sophia Brodsky e Emily Schaeffer Omer-Man, ha quindi presentato ricorso contro l’ordine di espulsione del governo.

Israele sostiene di avere il diritto di difendersi e di proteggere i propri cittadini da “un boicottaggio politico-diplomatico da parte di soggetti non statali che intendono minare le fondamenta dell’esistenza dello Stato in questione.” Tuttavia la legge anti-boicottaggio non fa distinzione tra gli inviti al boicottaggio della colonizzazione da parte di Israele, che viola il diritto internazionale, e le dichiarazioni e le azioni dirette contro lo Stato.

Lo Stato ha inoltre dichiarato che la questione non si pone rispetto a HRW come organizzazione, bensì rispetto a Shakir come singolo individuo. Nella sentenza di martedì il giudice Hendel ha detto che “Human Rights Watch non è classificata come organizzazione che boicotta – e può richiedere di incaricare un altro rappresentante che non sia coinvolto fino al collo nelle attività del BDS.” Tuttavia, secondo HRW, Shakir ha seguito e messo in atto le politiche dell’organizzazione.

HRW, organizzazione statunitense non profit indipendente fondata nel 1978 ed oggi presente in 90 Paesi, “non prende posizione sul boicottaggio di Israele. Non si tratta di una politica specifica riguardo a Israele, fa parte del nostro modo di lavorare dovunque nel mondo”, ha detto Shakir nel Podcast di +972 a maggio.

Oggi la cartina di tornasole politica per entrare in Israele sembra essere l’appoggio al boicottaggio. Potrebbe domani essere la richiesta alla Corte Penale Internazionale di aprire un’inchiesta, oppure l’invito a eliminare le colonie, o affermare che la Cisgiordania è occupata? Oggi queste limitazioni vengono usate per impedire a qualcuno di entrare nel Paese. Potrebbe domani essere questa la base per limitare le attività dei difensori dei diritti israeliani e palestinesi?” ha aggiunto.

Secondo Shakir, il suo caso non riguarda il BDS, come sostiene Israele, ma “costringere al silenzio la difesa dei diritti umani”. Decine di associazioni israeliane e palestinesi per i diritti umani hanno criticato l’ordine di espulsione, come anche il Segretario Generale dell’ONU, 27 Stati europei e 17 deputati del Congresso (USA), descrivendo l’impatto agghiacciante che questo avrà su coloro che sfidano le politiche di Israele.

Alla fine di ottobre Israele ha vietato all’attivista palestinese di Amnesty International Laith Abu Zeyad di recarsi in Giordania per il funerale di sua zia, a causa di ciò che le autorità israeliane hanno definito “considerazioni di sicurezza”. Amnesty, da parte sua, ha scritto che questa è stata “una sinistra iniziativa imposta come punizione per il suo lavoro in difesa dei diritti umani in Palestina”. Nel 2017 Israele ha vietato l’ingresso al direttore per la sensibilizzazione dell’organizzazione per il Medio Oriente e Nordafrica, Raed Jarrar, in occasione di una sua visita personale nei territori occupati in seguito alla morte di suo padre.

L’anno scorso Israele ha vietato l’ingresso a quattro dirigenti statunitensi di associazioni per i diritti umani che stavano visitando Israele e la Cisgiordania per comprendere meglio la situazione sul terreno. I membri che sono stati espulsi includono Vincent Warren, direttore esecutivo del Centro per i Diritti Costituzionali (CCR) e Katherine Franke, presidente del Consiglio del CCR e docente di diritto, gender e studi sulla sessualità alla Columbia University. I due sono stati interrogati relativamente alla loro affiliazione politica a gruppi critici verso Israele e Franke è stata accusata di essere membro del movimento BDS.

Henriette Chacar è redattrice della rivista +972 che si occupa delle notizie arabo-palestinesi. È cittadina palestinese di Israele, nata e cresciuta a Jaffa. Si è laureata alla Scuola di Giornalismo della Columbia ed ha lavorato per ‘Mount Desert Islander’, ‘PBS Frontline’ e ‘The Intercept’.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Alcuni rapporti svelano che negli attacchi contro Gaza sono stati deliberatamente presi di mira civili

Oren Ziv

14 giugno 2019 – +972

Due diverse inchieste di B’Tselem e Human Rights Watch hanno stabilito che l’esercito israeliano e gruppi armati palestinesi hanno illegalmente colpito la popolazione civile durante la più recente escalation a Gaza.

Secondo un nuovo rapporto di B’Tselem [organizzazione israeliana per i diritti umani, ndtr.] reso noto mercoledì, nella sua ultima campagna a Gaza Israele ha ucciso 13 civili palestinesi che non erano coinvolti nelle ostilità né affiliati a gruppi di miliziani. Due delle vittime erano bambini e tre erano donne, una delle quali a fine gravidanza. “Queste morti sono il prevedibile risultato dell’illegale e immorale politica israeliana di bombardare case a Gaza,” ha stabilito B’Tselem.

In base all’inchiesta di B’Tselem, dal 3 al 6 maggio Israele ha lanciato attacchi aerei ed ha bombardato più di 350 obiettivi a Gaza, ferendo 153 persone. L’associazione per i diritti umani ha anche scoperto che nessuno degli attacchi “è stato preceduto dal alcun adeguato avvertimento che potesse dare agli abitanti l’opportunità di cercare rifugio o di salvare i propri beni.”

Durante questo periodo i gruppi di miliziani legati ad Hamas e alla Jihad Islamica hanno lanciato circa 700 razzi contro Israele, uccidendo tre persone e ferendone 123. Un razzo lanciato da uomini della Jihad Islamica ha colpito una casa a Gaza ed ha ucciso una donna incinta e la sua nipotina di un anno, e un missile anticarro sparato da quei gruppi ha ucciso un civile israeliano. Secondo il rapporto “il fatto di prendere di mira la popolazione civile in Israele è illegale e immorale,”.

Come negli attacchi precedenti, il rapporto ha rilevato che Israele ha di nuovo preso di mira edifici residenziali e uffici. Secondo le Nazioni Unite, è stato distrutto un totale di 33 unità abitative e altre 19 sono state gravemente danneggiate, lasciando senza casa 52 famiglie – 327 palestinesi, tra cui 65 bambini. Altre centinaia di abitazioni sono state parzialmente danneggiate.

B’Tselem ha sottolineato che sparare contro strutture residenziali in aree densamente popolate come la Striscia di Gaza “comporta inevitabilmente il rischio di danneggiare civili. Il pericolo non è ipotetico: negli scorsi anni Israele ha già ucciso migliaia di civili, comprese centinaia di minori, in attacchi aerei contro le loro case.” Nella sola operazione ‘Margine protettivo’ del 2014 Israele ha ucciso almeno 1.055 palestinesi – tra cui 405 minori e 229 donne – che non avevano preso parte alle ostilità.

Il rapporto evidenzia anche come questi attacchi non siano stati provocati da combattenti criminali che hanno trasgredito gli ordini militari, ma di fatto “parte di una politica formulata da personalità del governo e da importanti comandi militari.” Gli attacchi “hanno avuto l’appoggio dei corpi MAG [Military Advocate General, ufficio legale che fornisce la consulenza legale per giustificare le prassi dell’esercito israeliano, ndtr.], che emanano pareri giuridici che sostengono questa politica.”

Israele, continua il rapporto, ha giustificato questi attacchi affermando che sono conformi alla legge umanitaria internazionale, ma “quest’interpretazione è irragionevole, legalmente errata e basata su una visione del mondo moralmente distorta. Dovrebbe essere categoricamente rifiutata.”

In un altro rapporto reso pubblico anch’esso mercoledì, una ricerca di Human Rights Watch sull’escalation di maggio ha confermato i risultati di B’Tselem: “Quattro attacchi israeliani hanno colpito bersagli che non sembravano contenere alcun obiettivo militare o potrebbero aver provocato sproporzionate perdite civili in violazione delle leggi di guerra.” HRW ha anche affermato che, dato che i razzi sparati dai gruppi armati palestinesi non potevano prendere di mira un particolare obiettivo militare, il loro uso in zone civili è “intrinsecamente indiscriminato in violazione delle leggi di guerra.”

Entrambi i rapporti includono testimonianze di sopravvissuti agli o testimoni degli attacchi. Un missile sparato contro la casa della famiglia al-Madhun nel quartiere di al-‘Atatrah della città occidentale di Gaza Beit Lahiya ha ucciso quattro persone: ‘Abd a-Rahim al-Madhun, 60 anni, suo figlio ‘Abdallah al-Madhun, 21 anni, membro del braccio militare della Jihad islamica; sua nuora, Amani al-Madhun, 36 anni, madre di quattro figli che era incinta di nove mesi, e il loro vicino, Fadi Badran, di 33 anni. L’attacco ha anche ferito sei bambini.

Muhammad al-Madhun, figlio di ‘Abd a-Rahim, che era in casa al momento del bombardamento, ha detto a B’Tselem: “Sono arrivato a casa alle 14,30. Mia moglie e i bambini erano andati a dormire, perché pensavamo che non avremmo potuto chiudere occhio di notte, data l’escalation e i bombardamenti. Sono andato a dormire accanto a loro.”

“Mi sono alzato alle 17 e mi sono seduto in soggiorno a prendere un caffè con mio cugino e un vicino. Sono andato in cucina per fare il caffè per il mio vicino e quando sono tornato improvvisamente ho sentito una pesante esplosione in casa. Era fortissima, ma in un primo momento ho pensato che provenisse da qualcosa che era successo fuori. Mi ci è voluto un momento prima di capire che era avvenuta in casa. L’ho compreso quando ho visto schegge di vetro, di metallo, pietre, sabbia, polvere e fumo intorno a me. Sono rimasto lì scioccato e non mi potevo muovere. Sono semplicemente rimasto lì ed ho sentito i detriti e le macerie che cadevano giù attorno a me.

Ho chiamato i vicini e ho chiesto loro di tirare fuori da sotto i detriti i feriti – mia moglie e due dei miei bambini. Il mio vicino Muhammad al-Far è uscito dalle macerie e si è messo a camminare verso la strada portando mia figlia Fatimah di due anni e mezzo. L’ho sentita gridare e lamentarsi per il dolore.

Sono stato portato in ambulanza all’ospedale Indonesiano. Sono stato visitato ed hanno constatato che stavo bene. Sono andato ad identificare i corpi. Ho identificato quello di mia moglie Amani ed ho anche visto il corpo del feto. Poi ho identificato i corpi di Fadi Badran e di mio fratello Abdallah.”

Il padre di Mohammad è morto alla fine della giornata all’ospedale al-Shifa per le ferite riportate.

In un altro attacco due missili hanno colpito il tetto di un edificio di cinque piani, sempre a Beit Lahiya. L’esplosione ha ucciso sei persone di due famiglie, compreso un bambino di 3 mesi.

In quell’attacco Mohammad Abu al-Jidyan, 26 anni, ha perso entrambi i genitori. Stava tornando a casa quando suo padre l’ha chiamato per dirgli di affrettarsi a causa degli attacchi lanciati contro Gaza. “Circa 5 minuti dopo che mio padre aveva chiamato, sono arrivato al portone e sono entrato nell’edificio. In quello stesso momento l’appartamento in cui vivo con i miei genitori è stato bombardato,” ha detto al-Jidyan a B’Tselem.

“Sono corso su per le scale per vedere cosa fosse successo. Ho visto tutti i vicini correre giù e ho temuto che la mia famiglia fosse stata uccisa. Nessuno mi ha sentito. C’è un appartamento vuoto al quarto piano. Quando sono arrivato lì ho visto che il quinto piano, dove vivevamo i miei genitori, mio fratello ‘Abd a-Rahman ed io, era crollato e caduto sul quarto. Date le condizioni in cui era tutto quanto, ero sicuro che i miei genitori e mio fratello fossero caduti come martiri.

Le mie due sorelle ed io abbiamo perso tutta la famiglia – nostro padre, nostra madre e nostro fratello – senza un avvertimento e senza la possibilità di dirci addio. L’attacco è stato così brutale che non abbiamo neppure trovato i loro corpi tutti interi. Quando abbiamo sepolto i miei genitori, il corpo del mio fratellino era disteso nella stessa tomba con mia madre. Era nato dopo dieci anni di tentativi di rimanere incinta…Mi sento solo al mondo, senza i miei genitori e senza la nostra casa, che è rimasta completamente distrutta. Spero di riuscire a trovare la forza per superare quello che ci è successo.”

L’alleggerimento del blocco contro Gaza che Israele aveva accettato di mettere in atto nell’ultima serie di negoziati deve ancora essere realizzato pienamente e, dato che è previsto che le proteste presso la barriera di confine ricomincino venerdì, probabilmente è solo questione di tempo prima che ci sia un’altra ‘escalation’ nelle ostilità. Di conseguenza sarebbe saggio per Israele riconoscere il pesante prezzo che i palestinesi della Striscia di Gaza pagano persino durante periodi di ‘calma’ mentre resistono a condizioni di vita insopportabili a causa del blocco.

Una versione in ebraico di questo articolo è già stata pubblicata su Local Call.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Airbnb e Israele: il voltafaccia sulla presenza nelle colonie sarebbe peggio che stare zitti

Kieron Monks

Domenica 23 dicembre 2018, Middle East Eye

Il caso di Airbnb potrebbe rivelarsi uno spartiacque che potrebbe consolidare e far progredire il movimento BDS oppure renderlo di nuovo marginale

In base a standard particolarmente bassi, l’iniziale decisione di Airbnb di interrompere le attività nelle colonie illegali della Cisgiordania è sembrata lodevole. La non complicità in crimini di guerra non dovrebbe costituire un livello molto alto in termini di responsabilità sociale d’impresa, ma decine di imprese internazionali che tranquillamente fanno profitti nelle colonie non lo soddisfano.

Perciò va riconosciuto qualche merito a Airbnb per aver almeno ammesso la realtà.

Una pratica dannosa

Molta più fiducia, ovviamente, è dovuta agli attivisti e ai gruppi per i diritti umani che hanno passato anni a spiegare al colosso globale degli annunci quanto sbagliate e dannose fossero le sue attività nei territori occupati e quanto gravemente contraddicessero i valori progressisti professati dall’azienda.

Organizzazioni come Human Rights Watch (HRW) e la US Campaign for Palestinian Rights [Campagna USA per i Diritti dei Palestinesi] (USCPR) sono state capaci di rompere la cortina fumogena di espressioni come “territorio conteso” e “status controverso”, per mostrare che le colonie sulla terra palestinese occupata non sono nient’altro che un’impresa criminale in base all’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra.

Nessuna seria autorità, dalla Corte Internazionale di Giustizia al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, lo mette in discussione.

La decisione di Airbnb ha coinciso con lo storico rapporto di HRW ‘Bed and Breakfast su terra rubata’, che dettagliava la provenienza oscura degli annunci messi a disposizione dei turisti, che offrono viste favolose e servizi moderni. Molti si trovano in colonie su terreni di proprietà privata palestinese che sono stati rubati da banditi armati, sia coloni che soldati.

I veri proprietari, esclusi da quelli che ora sono diventati terreni vietati, devono vedere la loro proprietà data in affitto a stranieri.  Il rapporto di HRW segnala che i profitti derivanti dagli annunci di Airbnb producono un notevole flusso di introiti che aiuta a sostenere l’impresa criminale.  

Feroce reazione violenta

Sembra ragionevole ipotizzare, come fa Michael Koplow del Forum sulla Politica di Israele, che Airbnb non sapesse veramente in che cosa si stesse cacciando con la sua avventura in una delle dispute più aspre e accese del mondo.

La successiva, feroce reazione da parte di dirigenti del governo e di gruppi di pressione statunitensi ed israeliani, comprese minacce di querela e aperte accuse di antisemitismo, era ovviamente difficile da ignorare. La notizia che i dirigenti di Airbnb avevano iniziato colloqui di controllo dei danni con il ministero israeliano del Turismo, che aveva fatto della questione un’assoluta priorità, non ha destato sorpresa.

Ma adesso l’azienda si trova messa all’angolo, e rilascia dichiarazioni contraddittorie con due discorsi diversi, il che le procura solo disprezzo da entrambe le parti. Ogni ambiguo tentativo di placare la situazione non fa che aumentare la pressione e la visibilità del caso. Al momento, gli annunci per le colonie si trovano ancora sul sito di Airbnb.

È diventato un problema gigantesco. Questo episodio, inizialmente una storica vittoria per il BDS, potrebbe però trasformarsi in una sconfitta che accelera un più ampio ridimensionamento del movimento che ha fucili puntati su di esso in termini legali negli Stati Uniti e in Europa. L’appoggio al boicottaggio di Israele viene rapidamente criminalizzato, dal ‘Decreto contro il boicottaggio di Israele’ del senatore Ben Cardin fino a leggi dei singoli Stati che obbligano i logopedisti a firmare giuramenti di fedeltà.

Mentre il movimento BDS ha conseguito straordinari risultati, quali l’entrata nel Congresso di sostenitori del BDS come Ilhan Omar e Rashida Tlaib [due parlamentari elette nelle ultime elezioni di medio termine, ndtr.], non ha mai affrontato grandi minacce.

Il caso di Airbnb potrebbe essere uno spartiacque che consolida e promuove il movimento di boicottaggio, oppure renderlo di nuovo marginale, ponendo anche un’interessante domanda strategica agli attivisti BDS, se possa valere la pena focalizzare la loro campagna sulle colonie, se è quello che può far guadagnare terreno.  

Pesante responsabilità

Ora che Airbnb è finita, forse inconsapevolmente, in mezzo a un plotone di esecuzione che la circonda, l’ impresa si è trovata con una responsabilità poco invidiabile.

Qualunque altra cinica impresa che opera in Cisgiordania può borbottare delle scuse per “non venire coinvolta in questioni politiche”, abbassare la testa e continuare a fare soldi. Ma Airbnb ha alzato la testa, ha riconosciuto i fatti e l’ingiustizia messa in luce dai promotori della campagna, ed ha affermato – anche se non esattamente con queste parole – di non voler far parte di un’impresa criminale. 

Fare marcia indietro adesso, con la completa consapevolezza della realtà dei fatti, dopo una serie di incontri segreti con dirigenti del governo israeliano, impegnati a fondo a vendere all’ingrosso crimini di guerra, e con leader della stessa criminale impresa coloniale, sarebbe molto più vergognoso delle azioni di altre aziende che operano in Cisgiordania, che non hanno mai preteso di rispondere alla propria coscienza. 

Non esiste una via d’uscita facile. Se Airbnb “sospendesse l’attuazione” della politica di disdetta, si potrebbe comunque aspettare un’altra violenta reazione da parte di gruppi per i diritti umani e di attivisti della solidarietà con la Palestina, che potrebbe mettere in luce la bancarotta morale dell’azienda ed essere in sintonia con i giovani cittadini progressisti delle aree metropolitane che costituiscono buona parte del mercato principale dell’azienda.

Airbnb deve soppesare questo rispetto alla furia e ai colpi degli apologeti delle colonie, che faranno del loro meglio per dare una punizione esemplare. Con la prospettiva di una IPO (Offerta Pubblica Iniziale, per quotarsi in borsa) attesa per l’anno prossimo, gli imperativi commerciali peseranno fortemente sul giudizio.

Quando Airbnb è stata contattata da MEE per un commento, ha rilasciato la stessa dichiarazione del 17 dicembre, che dice: “Airbnb ha espresso il suo inequivocabile rifiuto del movimento BDS ed ha comunicato il proprio impegno a sviluppare i propri affari in Israele, permettendo a più turisti da tutto il mondo di godere delle meraviglie del Paese e del suo popolo.”

Un grave biasimo

Possiamo solo sperare che vengano fatte anche altre considerazioni. Per un colosso internazionale da molti miliardi di dollari come Airbnb, dichiarare aperto sostegno a flagranti crimini di guerra e violazioni di diritti umani sarebbe un grave insulto al concetto stesso di leggi internazionali e diritti umani.

Una simile decisione darebbe legittimità all’impresa coloniale israeliana e delegittimerebbe i suoi oppositori. Comunicherebbe ai governi e agli uomini d’affari in tutto il mondo che le leggi sono un optional e le violazioni possono essere convenienti.

Spereremmo probabilmente troppo se ci aspettassimo un comportamento etico da parte di un’azienda senza priorità che vadano oltre il suo bilancio. La direzione deve provenire dal basso, così come gli attivisti e i gruppi per i diritti umani che sono stati una spina nel fianco dell’impresa coloniale, con alleanze solo transitorie e di convenienza con le potenze commerciali.

Ma se Airbnb decidesse di dare la sua approvazione ai crimini di guerra apponendo il proprio logo su proprietà rubate mentre i proprietari non hanno prospettive di giustizia, l’ impresa potrebbe almeno smettere di pretendere di avere valori degni di questo nome e tenere la bocca chiusa la prossima volta che si pone la questione.

Kieron Monks vive a Londra e scrive per testate tra cui CNN, The Guardian e Prospect Magazine, occupandosi di movimenti sociali, sport e i rapporti reciproci tra questi due ambiti.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Il ministro del governo israeliano Erdan invita a boicottare Airbnb

21 novembre 2018, Al Jazeera

La risposta del ministro arriva dopo che Airbnb ha affermato che avrebbe rimosso 200 annunci di appartamenti in colonie israeliane nella Cisgiordania occupata.

Un ministro del governo israeliano ha chiesto il boicottaggio di Airbnb ed ha pubblicizzato uno dei suoi concorrenti, intensificando la risposta del governo contro la decisione dell’impresa per l’affitto di case di togliere dalle offerte colonie israeliane nella Cisgiordania occupata.

Lunedì Airbnb ha affermato che avrebbe eliminato 200 annunci dal suo sito – che consente a proprietari di affittare a persone le proprie stanze, appartamenti e case – provocando una reazione da parte degli israeliani.

Oggi faccio un appello a tutti quelli che appoggiano Israele e si oppongono a boicottaggi discriminatori. Dovrebbero smettere di utilizzare Airbnb e rivolgersi ad altri servizi,” ha detto mercoledì il ministro degli Affari Strategici Gilad Erdan ad una conferenza a Gerusalemme.

Peraltro Booking.com è un ottimo servizio,” ha aggiunto Erdan, il principale responsabile dei tentativi del governo israeliano di combattere il boicottaggio filo-palestinese.

Airbnb ha affermato che l’iniziativa si è fondata su uno schema interno utilizzato per giudicare come gestisce le offerte nei territori occupati nel mondo.

Abbiamo concluso che avremmo dovuto togliere gli annunci nelle colonie israeliane in Cisgiordania, che sono al centro della disputa tra israeliani e palestinesi,” ha affermato un comunicato sul sito web di Airbnb.

L’impresa toglierà offerte nelle colonie israeliane nella Cisgiordania occupata, ma ciò non include Gerusalemme est e le Alture del Golan occupate.

Il direttore di Human Rights Watch [organizzazione per i diritti umani con sede a New York, ndtr.] per Israele e i territori occupati, Omar Shakir, ha detto che la decisione di Airbnb è “un passo positivo”.

Airbnb ha mandato un importante messaggio al resto del mondo degli affari,” ha detto Shakir ad Al Jazeera.

Non è posibile fare affari (nella Cisgiordania occupata) senza contribuire a gravi violazioni delle leggi umanitarie internazionali e dei diritti umani dei palestinesi.

Stava accettando una politica per cui chi ha un documento di identità palestinese non ha il permesso di entrare in insediamenti solo per quello che è – e questo sembra essere l’unico caso al mondo in cui i padroni di casa di Airbnb hanno l’obbligo per legge di discriminare in base all’origine nazionale,” ha aggiunto.

Mercoledì, rivolgendosi ad un’altra conferenza, la ministra della Giustizia Ayelet Shaked ha appoggiato la richiesta di Erdan di boicottare Airbnb ed ha suggerito che anche Israele ricorra alle proprie leggi contro le discriminazioni.

Israele ha affermato che si rivolgerà all’amministrazione Trump e potrebbe appoggiare azioni legali contro Airbnb all’interno di Stati degli USA che hanno leggi contro il boicottaggio a Israele.

In un comunicato spedito ad Al Jazeera il responsabile globale di Airbnb per la politica commerciale e la comunicazione, Chris Lehane, ha affermato: “Israele è un luogo speciale e i nostri oltre 22.000 padroni di casa sono persone speciali che hanno accolto centinaia di migliaia di ospiti in Israele. Comprendiamo che si tratta di un problema difficile e complicato e prendiamo in considerazione la prospettiva di tutti.”

Colonie israeliane

Tutte le colonie israeliane sono illegali in base alle leggi internazionali.

Gli annunci di Airbnb in Cisgiordania sono stati a lungo criticati dalla comunità palestinese e dagli attivisti per i diritti umani.

In un rapporto del 2016 Human Rights Watch ha affermato che imprese che operino all’interno o in coordinamento con le colonie israeliane nei territori palestinesi traggono vantaggio e contribuiscono a un sistema illegale che viola i diritti dei palestinesi.

Secondo Peace Now [ong israeliana contraria all’occupazione dei territori palestinesi, ndtr.] i progetti di colonizzazione in Cisgiordania sono aumentati dall’inizio del 2017, quando il presidente Donald Trump, un alleato fondamentale del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha assunto l’incarico di presidente degli Stati Uniti.

Secondo dati palestinesi, nella Cisgiordania occupata ora vivono più di 700.000 coloni ebrei in 196 insediamenti (costruiti con l’approvazione del governo israeliano) e in più di 200 avamposti di coloni (costruiti senza la sua approvazione).

Le leggi internazionali vedono la Cisgiordania e Gerusalemme est come territori occupati e considerano illegale ogni colonia ebraica sul territorio. Esse sono anche viste come uno dei principali ostacoli ai tentativi di pace, in quanto sono costruite su terre che i palestinesi vogliono destinare al proprio futuro Stato.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’Autorità Nazionale Palestinese e Hamas guidano Stati di polizia paralleli — Human Rights Watch

Annelies Verbeek

23 ottobre 2018, Electronic Intifada

Un nuovo rapporto di Human Rights Watch ritiene sia l’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania che Hamas a Gaza colpevoli di fare largo uso di arresti arbitrari e di tortura per reprimere le critiche e l’opposizione politica.

Il rapporto, intitolato “Due autorità, un sistema, zero dissenso”, è il risultato di due anni di ricerca. Si avvale di 86 casi di studio e 147 interviste, la maggior parte di ex detenuti.

Venticinque anni dopo Oslo, le autorità palestinesi hanno ottenuto un potere molto limitato in Cisgiordania e a Gaza, eppure, laddove hanno autonomia, hanno sviluppato stati di polizia paralleli”, ha detto Tom Porteous, un rappresentante di Human Rights Watch.

Gli appelli dei dirigenti palestinesi per salvaguardare i diritti dei palestinesi suonano vuoti dal momento che sopprimono il dissenso.”

Gli arresti arbitrari prendono di mira soprattutto coloro che criticano le autorità o esprimono sostegno per l’opposizione politica sui social media, sui giornali e nei campus universitari. Secondo Human Rights Watch le autorità spesso giustificano gli arresti sulla base di leggi generiche che criminalizzano attività che “provocano tensioni settarie” o “offendono le più alte autorità.”

Il rapporto riferisce numerosi esempi di casi individuali di abuso. Un uomo, precedentemente incarcerato da Israele, è stato in seguito arrestato 15 volte dalle forze di sicurezza dell’ANP per essersi affiliato al gruppo di Hamas quando era in prigione.

Un altro esempio è la detenzione per 15 giorni di un giornalista di Gaza che ha scritto su Facebook: “Mi chiedo se i figli dei nostri dirigenti dormono sul pavimento come i nostri figli”. È stato accusato di “uso scorretto della tecnologia” e definito “un istigatore alla sovversione”.

Tortura “abituale, deliberata e largamente utilizzata.”

Nel rapporto si afferma che la tortura e gli abusi durante la detenzione sono “abituali, deliberati e largamente impiegati”.

Entrambe le autorità utilizzano frequentemente un metodo di tortura chiamato ‘shabeh’, in cui i detenuti sono costretti in posizioni dolorose.

Human Rights Watch descrive i metodi usati come “analoghi alle annose prassi israeliane contro i palestinesi.”

Altri abusi documentati includono l’uso di scosse elettriche e colpi [inflitti] con cavi.

Human Rights Watch chiede agli USA e all’ Unione Europea, che sostengono finanziariamente l’Autorità Nazionale Palestinese, come anche al Qatar, all’Iran e alla Turchia, che sostengono Hamas, di sospendere l’assistenza alle forze di sicurezza coinvolte nei diffusi arresti arbitrari e torture. Inoltre raccomanda che gli arresti arbitrari e gli abusi da parte dell’ANP e di Hamas siano inclusi in ogni futura inchiesta della Corte Penale Internazionale sulla Palestina.

Sia Hamas che l’ANP negano che gli abusi siano sistematici e che vadano oltre casi limitati ed eccezionali. Inoltre entrambe le autorità affermano che tali casi vengono sottoposti ad indagine quando siano portati all’attenzione delle autorità.

Lo staff di Human Rights Watch non ha potuto recarsi a Gaza a parlare con le autorità di Hamas riguardo alle accuse, poiché Israele ha negato l’ingresso ai ricercatori.

Sia l’ANP che Hamas sono dotati di meccanismi interni idonei per presentare denunce contro gli abusi delle autorità. Centinaia di denunce sono state presentate da cittadini e organizzazioni per i diritti umani ma, secondo il rapporto di Human Rights Watch, solo “una esigua minoranza” ha avuto come esito un’azione disciplinare.

Associazioni per i diritti umani in Cisgiordania hanno posto l’Autorità Nazionale Palestinese – guidata da Mahmoud Abbas – sotto attenzione particolare a causa del suo coordinamento sulla sicurezza con Israele. L’ANP trasmette ad Israele le registrazioni dell’intelligence e degli interrogatori e vi sono stati casi documentati in cui gli israeliani che li interrogavano hanno detto ai prigionieri palestinesi di aver ricevuto le registrazioni dei loro interrogatori dall’ANP.

C’è la sensazione che non si possa criticare la leadership palestinese perché questo distoglierebbe l’attenzione dall’occupazione israeliana”, ha detto Yara Hawari del gruppo di esperti palestinese al-Shabaka.

Ma noi dobbiamo parlare degli abusi in modo da fornire il quadro completo. L’ANP e Hamas non stanno nel vuoto. Molte delle violazioni dei diritti umani che commettono avvengono sotto gli occhi di Israele e con l’avallo israeliano.”

Questo abuso di potere dimostra che le leadership palestinesi sono assolutamente deboli ed incapaci di guidare il loro popolo”, ha detto Hawari a ‘The Electronic Intifada’.

Ciò è triste. Ma io penso che questo tipo di rapporti sia importante perché dà ai palestinesi l’opportunità di ragionare su che genere di leadership in realtà vogliono e su che cosa, piuttosto che su chi, verrà dopo Abbas.”

Annelies Verbeek è una giornalista belga che vive a Ramallah.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




“Stato-Nazione ebraico”: come Israele introduce l’apartheid nel suo ordinamento

Ben White

giovedì 19 luglio 2018, Middle East Eye

La legge è solo il più recente tentativo di discriminare legalmente i palestinesi

Giovedì il governo israeliano ha formalmente approvato la legge “Stato-Nazione ebraico”. Con le vacanze estive della Knesset alle porte, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha cercato di far approvare la legge prima della pausa.

“Questo è un momento decisivo negli annali del sionismo e nella storia dello Stato di Israele,” ha detto Netanyahu alla Knesset dopo il voto.

L’iniziativa ha dominato il dibattito pubblico in Israele, con interventi di alto profilo da parte di oppositori e sostenitori. Lo scorso martedì in una lettera aperta il presidente Reuven Rivlin ha messo in guardia in merito a quelli che ritiene essere i pericoli insiti nella legge – soprattutto un articolo destinato a proteggere e promuovere l’esistenza di comunità esclusivamente ebraiche.

Tentativi di pressione

Prima del voto una serie di dirigenti ebreo-americani ha sollecitato con forza Netanyahu a cambiare idea, intensificando i tentativi di pressione per evitare l’approvazione della legge.

Purtroppo, ma prevedibilmente, queste reazioni sono state caratterizzate dalla mancata comprensione o dal fatto di non aver preso sufficientemente in considerazione quanto lo status di Israele come “Stato ebraico” si sia sempre tradotto in leggi e in prassi e, soprattutto, quanto ciò abbia colpito i palestinesi fin dal 1948.

Molte leggi discriminatorie sono già nei codici e in Israele esistono già sistemi legali per creare comunità segregate. Non c’è diritto all’uguaglianza, e Israele non è uno Stato di tutti i suoi cittadini. La spesso citata “Dichiarazione di Indipendenza” non è una legge costituzionale, e la “Legge Fondamentale” [che ha valore di costituzione, ndtr.] privilegia già la protezione dello “Stato ebraico” rispetto all’uguaglianza dei cittadini non ebrei.

Come ha spiegato nel 2012 una relatrice speciale dell’ONU [Raquel Rolnik, architetta e urbanista brasiliana, ndtr.], le autorità israeliane perseguono già “un modello di sviluppo territoriale che esclude, discrimina ed espelle le minoranze.” Allo stesso modo la commissione ONU sull’Eliminazione della Discriminazione Razziale ha evidenziato “l’adozione di una serie di leggi discriminatorie su questioni relative al territorio che colpiscono in modo sproporzionato le comunità non ebraiche.”

In effetti il problema di comunità solo ebraiche, che ha dominato le recenti critiche sulla legge approvata giovedì, è spesso discusso senza riferimenti al fatto che Israele ha già centinaia di tali comunità segregate, grazie al ruolo dei “comitati di ammissione”.

Risalire fino alla Nakba

Un decennio fa Human Rights Watch ha segnalato come questi comitati “siano formati da rappresentanti del governo e della comunità locale, così come da importanti funzionari dell’Agenzia Ebraica o dell’Organizzazione Sionista, e notoriamente siano stati utilizzati per escludere arabi da comunità rurali ebraiche.”

Questa discriminazione istituzionalizzata decenni fa, che può essere fatta risalire alla Nakba, rende risibile l’affermazione da parte di Mordechai Kremnitzer, dell’“Israel Democracy Institute” [istituto di ricerche israeliano indipendente, ndtr.], secondo cui la nuova legge costituirebbe in qualche modo “la fine di Israele come Stato ebraico e democratico.”

Tuttavia, come analizzato dal centro per i diritti giuridici “Adalah” [centro israeliano/palestinese per la difesa dei cittadini arabo-israeliani, ndtr.] in un nuovo documento di sintesi pubblicato domenica, la nuova legge rappresenta un’innovazione, sia dal punto di vista giuridico che politico; godendo dello status di legge fondamentale, la legge dello Stato-Nazione ebraico inserirebbe nella costituzione prassi razziste.

L’informazione dei media occidentali ha, nel suo complesso, riproposto le lacune delle critiche israeliane alla legge. Inoltre l’omissione dell’esperienza dei cittadini palestinesi in questo Stato “ebraico e democratico” è aggravata da un’analisi che non indaga affatto in profondità sul perché questa legge sia stata proposta.

La legge dello “Stato-Nazione ebraico” non è il prodotto di uno scontro interno alla destra tra il “Likud” [partito di destra e di maggioranza del governo, ndtr.] e “Casa Ebraica” [partito di estrema destra dei coloni, anch’esso al governo, ndtr.], o tra Netanyahu [capo del governo e del “Likud”, ndtr.] e Naftali Bennett [ministro dell’Educazione e leader di “Casa Ebraica”, ndtr.]. Al contrario, seguire le origini di questa proposta di legge rivela che, nella sua essenza, si tratta di una reazione ai tentativi dei cittadini palestinesi negli ultimi due decenni di affermare la propria identità nazionale e di chiedere uno Stato per tutti i cittadini.

Raddoppiare

Poco dopo che l’ex-capo dello Shin Bet [servizio di spionaggio interno di Israele, ndtr.] Avi Dichter ha iniziato i tentativi di far approvare una legge per lo “Stato-Nazione ebraico” nel 2011, il giornalista israeliano Lahav Harkov – ora caporedattore del “Jerusalem Post” [giornale israeliano di centro-destra in inglese, ndtr.] – ha lodato l’iniziativa citando “campagne per delegittimare Israele in aumento sia all’interno che fuori dal Paese.”

Quindi la risposta dal mondo politico israeliano ai cittadini palestinesi mobilitati per chiedere una vera eguaglianza è stata raddoppiare la discriminazione, affermare provocatoriamente in modo ancora più esplicito l’esistenza dello “Stato ebraico” e proteggerla dal punto di vista giuridico.

Ma ciò presenta i suoi vantaggi, come evidenziato dallo scalpore in merito alla nuova legge. Perché quello che la proposta di legge minaccia non è l’esistenza di un Israele ‘democratico’, ma piuttosto l’idea problematica di uno Stato “ebraico e democratico” (o almeno la plausibilità di sostenere quest’idea).

Con la sua rozzezza, la legge minaccia la possibilità da parte di Israele di perpetuare una discriminazione di lunga durata, istituzionalizzata, senza costi a livello internazionale, una prospettiva segnalata dagli avvertimenti della procura generale di Israele e dal leader degli ebrei americani, il rabbino Rick Jacobs.

Guerra demografica

“La vera faccia del sionismo in Israele” ha scritto la scorsa settimana sulla rivista +972 [sito di notizie israeliano, ndtr.] Orly Noy, è “una intrinseca, continua guerra demografica contro i cittadini palestinesi. Se Israele vuole essere ebraico e democratico, deve garantire concretamente una maggioranza ebraica.”

La legge dello “Stato-Nazione ebraico” è parte di questa storica e continua guerra demografica, testimoniata dall’attivismo dei cittadini palestinesi, e un tentativo di reprimerlo.

Poiché Israele consolida lo Stato unico de facto tra il fiume [Giordano] e il mare, questo non sarà l’ultimo tentativo di vedere ulteriormente riflessa nella legislazione la realtà dell’apartheid sul terreno.

– Ben White è autore del nuovo libro “Cracks in the Wall: Beyond Apartheid in Palestine/Israel” [Crepe nel muro: oltre l’apartheid in Israele/Palestina]. E’ un giornalista e scrittore freelance e i suoi articoli sono stati pubblicati da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, the Electronic Intifada, the Guardian’s Comment is Free ed altri.

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Ufficiale israeliano in carcere per nove mesi per aver ucciso un adolescente palestinese

Chloé Benoist

mercoledì 25 aprile 2018,Middle East Eye

La famiglia di Nadim Nuwara dice che ricorrerà in appello contro Ben Deri, che ha sparato alla schiena al figlio di 17 anni durante la marcia del 2014 per commemorare la Nakba.

Un poliziotto di frontiera israeliano sarebbe stato condannato a nove mesi di prigione e multato con il corrispettivo di 13.955 dollari per aver ucciso nel 2014 il ragazzo palestinese Nadim Nuwara durante una manifestazione in commemorazione della Nakba.

Il giornale israeliano Haaretz ha riportato che mercoledì un giudice della corte distrettuale di Gerusalemme ha condannato Ben Deri, riscontrando un “significativo livello di negligenza” e ne ha chiesto l’incarcerazione, pur specificando che Deri è “un eccellente ufficiale di polizia rispettoso degli ordini.”

Siyam Nuwara, padre di Nadim, ha detto a Middle East Eye che la famiglia stava pensando di presentare appello contro il verdetto e ha chiesto alla comunità internazionale di intervenire sul caso.

Non c’è giustizia in Israele,” ha detto. “Abbiamo raccolto tutte le prove, ma non c’è giustizia.”

Nuwara aveva 17 anni quando venne colpito alla schiena fuori dalla prigione di Ofer, l’unica prigione israeliana situata all’interno della Cisgiordania occupata, durante una protesta per ricordare il 66° anniversario della Nakba, l’espulsione di 750.000 palestinesi durante la creazione di Israele.

Telecamere di sicurezza e troupe televisive ripresero il momento in cui Nadim fu ucciso.

Quel giorno anche un altro giovane palestinese, Mohammed Odeh Abu al-Thahir, venne colpito ed ucciso, tuttavia le autorità israeliane non hanno aperto nessuna inchiesta giudiziaria sulla sua morte.

Alcuni gruppi per i diritti umani, compreso Human Rights Watch, hanno affermato che il ragazzo non costituiva una minaccia imminente quando è stato ucciso, e HRW ha definito il caso “un evidente crimine di guerra”.

Inizialmente le forze israeliane negarono che quel giorno fossero stati sparati proiettili veri, mentre alcune fonti ufficiali israeliane, tra cui l’allora ambasciatore negli Stati Uniti, Michael Oren, sostennero che le morti di Nuwara e al-Thahir erano una messa in scena.

L’esame autoptico dimostrò che Nuwara era stato colpito al torace. Deri venne arrestato sei mesi dopo e in un primo tempo accusato di omicidio.

La difesa di Deri si è imperniata sulla versione secondo cui un proiettile vero era caduto “accidentalmente” nel caricatore dell’arma dell’ufficiale, mentre lo stava caricando con pallottole di acciaio ricoperto di gomma.

All’inizio del 2017 Deri ha accettato un patteggiamento che ha derubricato l’imputazione contro di lui a omicidio colposo per negligenza.

La famiglia di Nuwara ha contestato il patteggiamento di fronte al tribunale, sostenendo che era stato raggiunto senza che loro ne fossero a conoscenza e che quel giorno Deri aveva usato consapevolmente proiettili veri.

Il gruppo israeliano per i diritti umani B’tselem ha affermato in un comunicato: “Il processo a Ben Deri esemplifica come il sistema investigativo e legale di Israele insabbi le continue uccisioni di palestinesi.”

Persino in questo caso, inusuale in quanto le accuse sono state formulate e si è persino arrivati al processo, l’insabbiamento continua. Il giudizio è finito con una sentenza vergognosamente mite, che serve solo a sottolineare il solito messaggio: le vite dei palestinesi sono a perdere.

Israele sicuramente si vanterà di questo processo come un chiaro esempio della sua capacità di fare giustizia. Al diavolo i fatti, quello che conta è la propaganda.”

L’udienza di mercoledì si è tenuta mentre Israele affronta le critiche per la politica di fuoco indiscriminato nella Striscia di Gaza assediata, dove dal 30 marzo l’esercito israeliano ha ucciso 39 palestinesi e ferito altre migliaia di manifestanti che partecipavano alla “Grande Marcia del Ritorno.”

Le autorità israeliane raramente incriminano soldati che hanno ucciso palestinesi. Quando membri delle forze israeliane sono imputati per queste morti, le condanne sono spesso brevi – creando quello che l’ong israeliana per i diritti umani Yesh Din ha chiamato un contesto di “quasi impunità”.

Hanan Ashrawi, membro direttivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ha denunciato il doppio standard del sistema giudiziario israeliano.

È ridicolo che la ragazzina palestinese Ahed Tamimi, che ha affrontato un soldato israeliano che stava invadendo casa sua nella Cisgiordania occupata, sia stata obbligata a scontare otto mesi in una cella di un carcere israeliano,” ha detto.

Nel contempo il poliziotto di frontiera israeliano Ben Deri…ha avuto una sentenza di soli nove mesi.”

Finché la comunità internazionale rimarrà in silenzio, l’ingiustizia e l’oppressione del popolo palestinese continueranno senza sosta. Israele deve essere chiamato a rendere conto della sua violenza incontenibile e delle gravi violazioni contro il popolo palestinese.”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Parlamentari USA esortano i soldati israeliani a sfidare l’ordine di sparare ai manifestanti palestinesi

Ali Abunimah

13 Aprile 2018, Electronic Intifada


Giovedì alcuni attivisti hanno contestato Nikki Haley, ambasciatrice USA alle Nazioni Unite, perché il suo governo ha bloccato ogni inchiesta internazionale sulle uccisioni israeliane a Gaza.

Haley non ha trovato modo di rispondere, mentre i membri del gruppo contro la Guerra “CODEPINK” hanno affermato che “Israele merita di essere considerato responsabile esattamente come qualunque altro Paese” per “l’uccisione di manifestanti pacifici.”

Nel contempo cinque membri del Congresso USA hanno rotto quello che è stato un silenzio quasi totale.

Appoggiano l’appello di B’Tselem [organizzazione israeliana per i diritti umani, ndt.] ai soldati israeliani perché sfidino l’ordine illegale di aprire il fuoco contro palestinesi disarmati che partecipano alle proteste nella Striscia di Gaza occupata.

Elogiamo i gruppi israeliani per i diritti umani che stanno chiedendo ai soldati israeliani di resistere a questi ordini illegali dei loro superiori e stanno chiedendo alle forze dell’esercito israeliano di rispettare integralmente le leggi internazionali e di esercitare la massima moderazione nell’uso di una forza letale,” dicono i parlamentari alla vigilia del terzo venerdì dei raduni per la “Grande Marcia del Ritorno”.

Questi mezzi devono essere utilizzati solo come ultima risorsa per impedire un’imminente minaccia mortale.”

Profondamente turbati”

Durante gli ultimi due venerdì – 30 marzo e 6 aprile – le forze israeliane hanno perpetrato un massacro premeditato e calcolato di decine di manifestanti palestinesi che non rappresentavano nessuna minaccia di alcun genere, provocando un avvertimento senza precedenti da parte del pubblico ministero della Corte Penale Internazionale (CPI), secondo cui i dirigenti israeliani potrebbero essere incriminati.

Fino al pomeriggio di questo venerdì un palestinese è stato ucciso e centinaia sono stati feriti quando le forze israeliane hanno di nuovo aperto il fuoco oltre la frontiera contro migliaia di dimostranti riuniti per chiedere la fine del blocco israeliano di Gaza e il diritto dei rifugiati a tornare alle terre da cui Israele li ha espulsi e da cui li esclude in quanto non ebrei.

I cinque democratici del Congresso – Mark Pocan del Wisconsin, Pramila Jayapal di Washington, Keith Ellison del Minnesota, Barbara Lee della California e Henry “Hank” Johnson della Georgia – dichiarano: “Siamo profondamente turbati dalle tragiche morti delle ultime due settimane di proteste portate avanti all’interno del territorio di Gaza, con più di dieci palestinesi uccisi da cecchini – compreso un adolescente disarmato e uno stimato fotogiornalista – e molte altre centinaia feriti da proiettili letali.”

Infatti tre minori palestinesi – di 13, 15 e 17 anni – sono stati tra le decine di persone ferite dalle forze israeliane a Gaza nelle ultime due settimane.

I deputati affermano anche di “respingere fermamente la pericolosa affermazione” del ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman “secondo cui ‘non ci sono persone innocenti nella Striscia di Gaza’,” così come gli ordini dati dai comandanti israeliani “in violazione delle leggi internazionali” di impiegare “il fuoco di cecchini contro abitanti di Gaza che siano arrivati a 300 metri dalla barriera di confine o siano coinvolti in altre azioni che non mettono a rischio la vita [dei soldati].”

Difendere i minori

Betty McCollum, una democratica del Minnesota che ha presentato una storica legge per proteggere i bambini palestinesi dall’arresto e dai maltrattamenti da parte dell’esercito israeliano, non ha firmato la dichiarazione.

Ma McCollum è stata una dei pochissimi deputati che hanno condannato il massacro di civili palestinesi dopo la prima manifestazione della “Grande Marcia del Ritorno”, il 30 marzo.

Ha dimostrato la propria volontà di continuare a pronunciarsi a favore dei diritti dei palestinesi tweettando la foto di un incontro che ha tenuto giovedì con il direttore di “B’Tselem” Hagai El-Ad.

Stiamo lavorando insieme per porre fine agli arresti, ai maltrattamenti e alle torture dei minori palestinesi da parte dell’esercito israeliano,” ha scritto McCollum.

Chi usa “scudi umani”?

E’ molto raro che membri del Congresso critichino apertamente Israele ed appoggino i diritti dei palestinesi.

Ma ciò che è altrettanto significativo è la quasi totale mancanza di parlamentari, repubblicani o democratici, che intendano difendere le uccisioni israeliane a Gaza.

L’AIPAC, il potente gruppo della lobby israeliana, è tuttavia riuscito a trovarne una manciata e li ha ritweettati sul suo tweetter ufficiale.

Il repubblicano dell’Indiana Jim Banks ha ripetuto l’argomento del governo israeliano secondo cui le manifestazioni a Gaza sono uno stratagemma di Hamas “che utilizza civili innocenti come scudi umani.”

Anche il repubblicano della Carolina del Sud Joe Wilson ha affermato che “Hamas ha usato deliberatamente una protesta di civili per fomentare la violenza e mettere a rischio vite innocenti.”

Entrambi i parlamentari sollecitano il Senato ad approvare la “Legge per la Prevenzione degli Scudi Umani di Hamas”, una legge promossa da Wilson.

La legge, approvata dalla Camera in febbraio, in apparenza chiede sanzioni contro i dirigenti di Hamas che avrebbero utilizzato questa prassi.

Da molto tempo Hamas è definita come organizzazione “terroristica” dagli Stati Uniti ed è già soggetta a dure sanzioni. La legge pertanto sembra essere poco più di un modo di mettersi in mostra per promuovere una sconclusionata narrazione israeliana che intende incolpare i palestinesi per i loro morti e feriti.

Un’inchiesta di Human Rights Watch sulle uccisioni del 30 marzo da parte di Israele non ha trovato “prove che i manifestanti abbiano usato armi da fuoco o che qualche soldato dell’IDF (l’esercito israeliano) affermi che ci sia stato l’uso di colpi di avvertimento con armi da fuoco nei confronti dei manifestanti.”

Benché, come ha riconosciuto Human Rights Watch, alcuni dimostranti – delle decine di migliaia che hanno partecipato alle manifestazioni – abbiano bruciato copertoni e lanciato pietre contro postazioni israeliane pesantemente protette, neppure un israeliano risulta essere stato ferito durante settimane di proteste in cui migliaia di palestinesi sono stati uccisi o feriti da proiettili mortali e gas lacrimogeni.

Mentre membri del Congresso come Banks e Wilson promuovono le false accuse israeliane secondo cui i palestinesi utilizzano “scudi umani”, essi ignorano le prove inconfutabili che le forze israeliane hanno fatto esattamente questo per anni, sia a Gaza che nella Cisgiordania occupata.

Gente di speranza”

Anche in Canada gli attivisti stanno denunciando il silenzio del loro governo sui massacri israeliani a Gaza.

Durante la lotta contro l’apartheid in Sud Africa è stata la società civile, compresi chiese, sindacati, iniziative di amministrazioni locali e attivisti studenteschi che hanno fatto pressione sugli USA e su altri governi perché ponessero fine alla loro complicità con il regime razzista bianco.

La lotta per la giustizia in Palestina sta seguendo un cammino simile: questa settimana il consiglio comunale di Dublino ne ha fatto la prima capitale europea che appoggia il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS).

E in seguito all’ultimo bagno di sangue a Gaza, 15 confessioni cristiane e gruppi religiosi degli USA hanno emesso quello che per molti di loro è forse il più duro comunicato in appoggio ai diritti dei palestinesi.

Le organizzazioni religiose sostengono l’avvertimento del pubblico ministero della CPI ai dirigenti israeliani, inoltre invitano i soldati israeliani a sfidare gli ordini illegali, esprimono pieno appoggio ai diritti dei rifugiati palestinesi, chiedono che gli USA considerino Israele responsabile per come utilizza i miliardi di dollari in aiuto militare e fanno appello perché venga tolto il blocco di Gaza.

Con le manifestazioni i palestinesi hanno cercato di portare l’attenzione del mondo sui propri diritti e di rivendicarli– in quanto rifugiati, di manifestare e di vivere in modo dignitoso,” affermano i gruppi cristiani. “Hanno incontrato un rifiuto immediato e terribile di questi diritti, ma, come persone di speranza e nel periodo di Pasqua, crediamo che questi diritti alla fine prevarranno.”

(traduzione di Amedeo Rossi)