Il 7 ottobre l’IDF ha ordinato la messa in pratica della direttiva Hannibal per impedire che Hamas prendesse in ostaggio dei soldati

Yaniv Kubovich

7 luglio 2024 – Haaretz

C’era un’isteria folle e le decisioni hanno iniziato ad essere prese senza informazioni verificate”: documenti e testimonianze ottenute da Haaretz rivelano che in tre strutture militari infiltrate da Hamas è stata messa in pratica la direttiva operativa “Hannibal”, che ordina l’uso della forza per evitare che vengano catturati dei soldati e che potrebbe aver colpito anche civili.

Nelle prime ore del 7 ottobre le operazioni della divisione Gaza e i bombardamenti aerei erano basati su poche informazioni. I primi lunghi momenti dopo il lancio dell’attacco di Hamas sono stati caotici. Stavano arrivando informazioni il cui valore non sempre era chiaro. Quando è stato compreso il loro significato si è capito che stava avvenendo qualcosa di orribile.

Le reti di comunicazione non potevano stare al passo con il flusso di informazioni, come nel caso dei soldati che mandavano i loro rapporti. Tuttavia il messaggio inviato alle 11.22 del mattino nella rete della divisione Gaza è stato capito da chiunque: “Non un solo veicolo può tornare a Gaza” è stato l’ordine.

In quel momento l’IDF [l’esercito israeliano, ndt.] non era cosciente della quantità di rapiti lungo il confine di Gaza, ma sapeva che molte persone erano state coinvolte. Quindi era assolutamente chiaro cosa significasse quel messaggio e quale sarebbe stata la sorte di alcune delle persone rapite.

Non è stato il primo ordine impartito dal comando di divisione con l’intento di sventare rapimenti anche a spese della vita dei rapiti, un’operazione nota nell’esercito come “procedura Hannibal”. Documenti ottenuti da Haaretz e testimonianze di soldati e ufficiali di medio e alto livello dell’IDF rivelano una serie di ordini e procedure stabilite dal comando della divisione Gaza, dal comando meridionale e dallo stato maggiore dell’esercito israeliano fino al pomeriggio di quel giorno e che mostrano quanto sia stata diffusa questa procedura dalle prime ore seguite all’attacco e in vari punti lungo il confine.

Haaretz non sa se o quanti civili e soldati siano stati colpiti in seguito a queste procedure, ma i dati raccolti indicano che molti dei rapiti erano a rischio, esposti al fuoco israeliano, anche se non erano l’obiettivo.

Alle 6.43 del mattino, ora in cui è stata lanciata una raffica di razzi contro Israele e migliaia di miliziani di Hamas hanno attaccato le piazzeforti dell’esercito e le strutture di osservazione e comunicazione della divisione, il suo comandante, brigadiere generale Avi Rosenfeld, dichiarò che “i filistei [nome biblico qui sinonimo di palestinesi, ndt.] hanno invaso”.

Quando un nemico invade il territorio israeliano questa è la procedura: un comandante di divisione può assumere un’autorità straordinaria, compreso l’uso di fuoco di armi pesanti all’interno del territorio di Israele per bloccare un’incursione nemica.

Una fonte molto importante dell’IDF ha confermato ad Haaretz che il 7 ottobre è stata attuata la procedura Hannibal, aggiungendo che essa non è stata utilizzata dal comando di divisione. Chi ha dato l’ordine? Ciò, dice la fonte, forse verrà stabilito da indagini dopo la fine della guerra [a Gaza].

In ogni caso, afferma un ufficiale della Difesa al corrente delle operazioni del 7 ottobre presso la divisione Gaza, nelle ore del mattino “nessuno sapeva cosa stesse succedendo fuori.” Dice che Rosenfeld era nella sala operativa, senza uscirne, “mentre fuori infuriava una guerra mondiale.”

“Tutti quanti erano scioccati per il numero di terroristi penetrati nella base. Neppure nei nostri peggiori incubi avevamo piani per un tale attacco. Nessuno aveva la minima idea del numero di persone rapite o dove si trovassero le forze dell’esercito. C’era un’isteria folle, con decisioni prese senza alcuna informazione verificata,” continua.

Una di queste decisioni è stata presa alle 7.18 del mattino, quando un punto di osservazione dell’avamposto di Yiftah ha informato che qualcuno era stato rapito al valico di confine di Erez, nei pressi dell’ufficio di collegamento dell’IDF. “Hannibal a Erez” è arrivato l’ordine dal quartier generale della divisione, “inviate uno Zik.” Lo Zik è un drone d’assalto senza pilota, e il significato di quell’ordine era chiaro.

Non è stata l’ultima volta che tale ordine si è udito nella rete di comunicazione. Nella successiva mezz’ora la divisione ha capito che i terroristi di Hamas erano riusciti a uccidere e rapire soldati in servizio al valico e nella vicina base. Poi, alle 7.41, è successo di nuovo: Hannibal a Erez, un assalto al valico e alla base, solo per fare in modo che nessun altro soldato venisse preso. Questi ordini sono stati dati anche in seguito.

Il valico di confine di Erez non è stato l’unico posto in cui ciò è avvenuto. Informazioni ottenute da Haaretz e confermate dall’esercito dimostrano che durante tutta quella mattina la procedura Hannibal è stata utilizzata in altri due luoghi in cui erano penetrati i terroristi: nella base militare di Re’im, dove si trovava il quartier generale di divisione, e nell’avamposto di Nahal Oz, in cui si trovavano donne di vedetta. Ciò non ha impedito il rapimento di sette di loro o l’uccisione di altre 15 vedette, così come di altri 38 soldati.

Nelle ore immediatamente successive il quartier generale di divisione ha iniziato a mettere insieme i pezzi, comprendendo le dimensioni dell’attacco di Hamas, ma ignorando l’invasione del kibbutz di Nir Oz, che le prime forze dell’esercito hanno raggiunto solo dopo che i terroristi se n’erano andati. Riguardo alla frequenza dell’impiego della procedura Hannibal, sembra che niente sia cambiato. Quindi, per esempio, alle 10.19 del mattino è arrivato al quartier generale della divisione un rapporto secondo cui uno Zik aveva attaccato la base di Re’im.

Tre minuti dopo è arrivato un altro di questi rapporti. In quel momento le forze del commando Shaldag [unità d’élite dell’aeronautica israeliana, ndt.] erano già nella base e combattevano contro i terroristi. Finora non è chiaro se qualcuno di loro sia stato ferito in un attacco con il drone. Quello che si sa è che sulla rete di comunicazione c’era un messaggio che chiedeva a tutti di essere certi che nessun soldato fosse all’esterno della base, dato che le forze dell’IDF stavano per entrare ed espellere o uccidere i terroristi che vi rimanevano.

La decisione di attaccare negli avamposti, afferma un ufficiale superiore della difesa, perseguiterà i comandanti per tutta la loro vita: “Chiunque prenda una simile decisione sapeva che anche i nostri combattenti nella zona sarebbero stati colpiti.”

Ma risulta che tali attacchi sono avvenuti non solo all’interno degli avamposti o delle basi. Alle 10.32 del mattino è stato emanato un nuovo ordine, in base al quale ogni battaglione presente in zona doveva sparare con i mortai in direzione della Striscia di Gaza. Discussioni interne all’esercito hanno fatto notare che questo ordine, attribuito al brigadiere generale Rosenfeld, è stato pesantemente criticato poiché in quel momento l’IDF non aveva un quadro completo di tutte le forze nella zona, compresi soldati e civili. Alcuni di essi si trovavano in zone aperte o nei boschi lungo il confine, cercando di nascondersi dai terroristi.

A quel punto l’esercito non sapeva quante persone erano state rapite: “In quella fase pensavamo che si trattasse di decine,” dice ad Haaretz una fonte militare. Sparare con i mortai verso la Striscia di Gaza avrebbe messo in pericolo anche loro. Inoltre un altro ordine dato alle 11.22 del mattino, secondo il quale a nessun veicolo sarebbe stato consentito di tornare a Gaza, ha fatto fare un ulteriore passo avanti.

“Ormai tutti quanti sapevano che quei veicoli avrebbero potuto trasportare civili o soldati presi in ostaggio,” dice ad Haaretz una fonte del comando meridionale. “Non ci sono stati casi in cui un veicolo che portava persone rapite è stato attaccato coscientemente, ma non si può veramente sapere se c’erano tali persone in un veicolo. Non posso dire che ci fosse un chiaro ordine, ma chiunque sapeva cosa significasse non lasciar tornare alcun veicolo a Gaza.”

Alle 14 c’è stato un nuovo sviluppo. A tutte le forze è stato ordinato di non far uscire verso ovest, in direzione del confine, le comunità sul confine, sottolineando di non inseguire i terroristi. A quel punto la zona di confine era sottoposta a un intenso fuoco, diretto contro chiunque si trovasse nell’area, rendendola una zona pericolosa.

“Le istruzioni,” dice una fonte del commando sud, “intendevano trasformare l’area attorno alla barriera di confine in una zona di morte, chiudendola verso ovest.”

Alle 18.40 l’intelligence militare credeva che molti terroristi avessero intenzione di scappare insieme di nuovo verso la Striscia di Gaza in modo organizzato. Questo è avvenuto nei pressi dei kibbutz Be’eri, Kfar Azza e Kissufim. In seguito a ciò l’esercito ha lanciato incursioni dell’artiglieria nella zona della barriera di confine, molto vicino ad alcune di queste comunità. Poco dopo sono stati sparati proiettili di artiglieria contro il valico di confine di Erez. L’IDF sostiene di non sapere di civili colpiti in questi bombardamenti.

Fuoco indiscriminato

Un caso in cui è noto che sono stati colpiti civili, e che ha ricevuto un’ampia copertura mediatica, è avvenuto nella casa di Pessi Cohen nel kibbutz Be’eri. Quando l’IDF l’ha attaccata vi erano tenuti in ostaggio quattordici prigionieri, 13 dei quali sono rimasti uccisi. Si prevede che nelle prossime settimane sull’incidente l’IDF pubblicherà i risultati della sua inchiesta, che risponderà alla domanda se il brigadiere generale Barak Hiram, comandante della 99 divisione e responsabile delle operazioni a Be’eri il 7 ottobre, abbia messo in atto la procedura Hannibal. Ha ordinato ai carrarmati di avanzare anche a costo di vittime civili, come ha affermato in un’intervista rilasciata in seguito al New York Times?

In tutti i mesi passati da allora l’IDF si è rifiutato di dire se questa procedura è stata impiegata contro civili che erano stati presi in ostaggio. Ora sembra che anche se la risposta è positiva, la domanda possa essere stata solo parziale. Le azioni di Hiram possono essere state solo coerenti con il modo in cui quel giorno l’IDF ha operato.

Per quanto ne sa Haaretz, persino alle 21.33 questa era ancora la situazione sul campo. In quel momento c’è stato un ulteriore ordine del comando sud: chiudere tutta l’area di confine con i carrarmati. Di fatto tutte le forze nella zona hanno ricevuto il permesso di aprire il fuoco contro chiunque si avvicinasse alla zona di confine, senza alcuna restrizione.

Il portavoce dell’IDF ha risposto dicendo che “l’esercito ha lottato per sei mesi molto intensamente su vari fronti, concentrato sul raggiungimento degli obiettivi della guerra. In parallelo l’IDF ha iniziato a condurre inchieste interne su quanto accaduto il 7 ottobre e nel periodo precedente. L’intento di queste indagini è di imparare e ricavare una lezione che possa essere utile nel prosieguo della lotta. Quando queste indagini saranno concluse, i risultati saranno presentati all’opinione pubblica in modo trasparente.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il crollo del sionismo

Ilan Pappé

21 giugno 2024-The New Left Review

L’assalto di Hamas del 7 ottobre può essere paragonato a un terremoto che colpisce un vecchio edificio. Le crepe cominciavano già a farsi vedere, ma ora sono visibili fin dalle fondamenta. A più di 120 anni dalla sua nascita il progetto sionista in Palestina – l’idea di imporre uno Stato ebraico a un paese arabo, musulmano e mediorientale – potrebbe essere di fronte alla prospettiva del collasso? Storicamente una pluralità di fattori può causare il capovolgimento di uno stato. Può derivare da continui attacchi da parte dei paesi vicini o da una guerra civile cronica. Può derivare dal crollo delle istituzioni pubbliche che diventano incapaci di fornire servizi ai cittadini. Spesso inizia come un lento processo di disintegrazione che acquista slancio e poi, in un breve periodo di tempo, fa crollare strutture che una volta apparivano solide e stabili.

La difficoltà sta nell’individuare i primi indicatori. Qui sosterrò che questi sono più chiari che mai nel caso di Israele. Stiamo assistendo a un processo storico – o, più precisamente, all’inizio di uno – che probabilmente culminerà nella caduta del sionismo. E, se la mia diagnosi è corretta, allora stiamo anche entrando in una congiuntura particolarmente pericolosa. Perché una volta che Israele si renderà conto della portata della crisi, scatenerà una forza feroce e disinibita per cercare di contenerla, come fece il regime di apartheid sudafricano nei suoi ultimi giorni.

1.

Un primo indicatore è la frattura della società ebraica israeliana. Attualmente è composta da due schieramenti rivali che non riescono a trovare un terreno comune. La spaccatura deriva dalle anomalie nel definire l’ebraismo come nazionalismo. Mentre a volte l’identità ebraica in Israele è sembrata poco più che un argomento di dibattito teorico tra fazioni religiose e laiche, ora è diventata una lotta sul carattere della sfera pubblica e dello Stato stesso. Questa lotta viene combattuta non solo nei media ma anche nelle strade.

Un campo può essere definito lo “Stato di Israele”. Comprende ebrei europei più laici, liberali e soprattutto, ma non esclusivamente, appartenenti alla classe media e ai loro discendenti, che furono determinanti nella creazione dello Stato nel 1948 e rimasero egemoni al suo interno fino alla fine del secolo scorso. Non lasciatevi fuorviare, la loro difesa dei “valori democratici liberali” non influisce sulla loro adesione al sistema di apartheid che viene imposto in vari modi a tutti i palestinesi che vivono tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Il loro desiderio fondamentale è che i cittadini ebrei vivano in una società democratica e pluralista dalla quale gli arabi siano esclusi.

L’altro campo è lo “Stato della Giudea”, che si è sviluppato tra i coloni della Cisgiordania occupata. Gode ​​di livelli crescenti di sostegno all’interno del Paese e costituisce la base elettorale che ha assicurato la vittoria di Netanyahu alle elezioni del novembre 2022. La sua influenza ai vertici dell’esercito e dei servizi di sicurezza israeliani sta crescendo in modo esponenziale. Lo Stato della Giudea vuole che Israele diventi una teocrazia che si estenda su tutta la Palestina storica. Per raggiungere questo obiettivo è determinato a ridurre il numero dei palestinesi al minimo indispensabile e sta contemplando la costruzione di un Terzo Tempio al posto di al-Aqsa. I suoi membri credono che ciò consentirà loro di rinnovare l’era d’oro dei Regni Biblici. Per loro se gli ebrei laici rifiutano di unirsi a questo sforzo essi sono eretici quanto i palestinesi.

I due campi avevano cominciato a scontrarsi violentemente prima del 7 ottobre. Nelle prime settimane dopo l’assalto sembravano accantonare le loro divergenze di fronte a un nemico comune. Ma questa era un’illusione. Gli scontri di strada si sono riaccesi ed è difficile vedere cosa potrebbe portare alla riconciliazione. Il risultato più probabile si sta già svolgendo davanti ai nostri occhi. Più di mezzo milione di israeliani, appartenenti alla fazione “Stato di Israele”, hanno lasciato il Paese da ottobre, segno che il Paese viene inghiottito dallo “Stato di Giudea”. Si tratta di un progetto politico che il mondo arabo, e forse anche il mondo in generale, non tollererà a lungo termine.

2.

Il secondo indicatore è la crisi economica di Israele. La classe politica non sembra avere alcun piano per riequilibrare le finanze pubbliche in mezzo a conflitti armati perpetui, oltre a diventare sempre più dipendente dagli aiuti finanziari americani. Nell’ultimo trimestre dello scorso anno, l’economia è crollata di quasi il 20%; da allora la ripresa è stata fragile. È improbabile che l’impegno di Washington di 14 miliardi di dollari possa invertire questa situazione. Al contrario la congiuntura economica non potrà che peggiorare se Israele porterà avanti la sua intenzione di entrare in guerra con Hezbollah e allo stesso tempo intensificherà l’attività militare in Cisgiordania, in un momento in cui alcuni paesi – tra cui Turchia e Colombia – hanno iniziato ad applicare misure economiche sanzionatorie.

La crisi è ulteriormente aggravata dall’incompetenza del ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, che incanala costantemente denaro verso gli insediamenti ebraici in Cisgiordania, ma sembra per il resto incapace di gestire il suo dipartimento. Il conflitto tra lo “Stato di Israele” e lo “Stato di Giudea”, insieme agli eventi del 7 ottobre, sta portando alcune élite economiche e finanziarie a spostare i propri capitali fuori dallo Stato. Coloro che stanno pensando di delocalizzare i propri investimenti costituiscono una parte significativa del 20% degli israeliani che pagano l’80% delle tasse.

3.

Il terzo indicatore è il crescente isolamento internazionale di Israele che sta gradualmente diventando uno stato paria. Questo processo è iniziato prima del 7 ottobre, ma si è intensificato dall’inizio del genocidio. Ciò si riflette nelle posizioni senza precedenti adottate dalla Corte internazionale di giustizia e dalla Corte penale internazionale. In precedenza, il movimento globale di solidarietà con la Palestina era riuscito a galvanizzare le persone a partecipare alle iniziative di boicottaggio, ma non è riuscito a promuovere la prospettiva di sanzioni internazionali. Nella maggior parte dei paesi [occidentali, n.d.t.] il sostegno a Israele è rimasto incrollabile tra l’establishment politico ed economico.

In questo contesto le recenti decisioni della CIG e della CPI – secondo cui: è plausibile che Israele stia commettendo un genocidio; esso deve fermare la sua offensiva a Rafah; i suoi leader potrebbero essere arrestati per crimini di guerra – devono essere viste come un tentativo di tenere conto delle opinioni della società civile mondiale, invece di riflettere semplicemente l’opinione delle élite. I tribunali non hanno attenuato i brutali attacchi contro la popolazione di Gaza e della Cisgiordania. Ma hanno contribuito al crescente coro di critiche rivolte allo Stato israeliano, che provengono sempre più sia dall’alto che dal basso.

4.

Il quarto indicatore, interconnesso, è il cambiamento epocale tra i giovani ebrei di tutto il mondo. In seguito agli eventi degli ultimi nove mesi molti ora sembrano disposti ad abbandonare il loro legame con Israele e con il sionismo e a partecipare attivamente al movimento di solidarietà palestinese. Le comunità ebraiche, in particolare negli Stati Uniti, un tempo fornivano a Israele un’efficace immunità contro le critiche. La perdita, o almeno la perdita parziale, di questo sostegno ha importanti implicazioni per la posizione globale del Paese. L’AIPAC può ancora fare affidamento sui sionisti cristiani per assistere e puntellare i suoi membri, ma non sarà la stessa formidabile organizzazione senza un significativo elettorato ebraico. Il potere della lobby si sta erodendo.

5.

Il quinto indicatore è la debolezza dell’esercito israeliano. Non c’è dubbio che l’IDF rimanga una forza potente con armi all’avanguardia a sua disposizione. Eppure i suoi limiti sono stati messi in luce il 7 ottobre. Molti israeliani ritengono che l’esercito sia stato estremamente fortunato poiché la situazione avrebbe potuto essere molto peggiore se Hezbollah si fosse unito all’ attacco in modo coordinato. Da allora, Israele ha dimostrato di fare disperatamente affidamento su una coalizione regionale, guidata dagli Stati Uniti, per difendersi dall’Iran, il cui attacco di avvertimento in aprile ha visto il dispiegamento di circa 170 droni oltre a missili balistici e guidati. Oggi più che mai il progetto sionista dipende dalla rapida consegna di enormi quantità di rifornimenti da parte degli americani, senza i quali non potrebbe nemmeno combattere un piccolo esercito di guerriglieri nel sud.

C’è ora tra la popolazione ebraica del paese una percezione diffusa dell’impreparazione e dell’incapacità di Israele di difendersi. Ciò ha portato a forti pressioni per rimuovere l’esenzione militare per gli ebrei ultra-ortodossi – in vigore dal 1948 – e iniziare ad arruolarne a migliaia. Ciò difficilmente farà molta differenza sul campo di battaglia, ma riflette la portata del pessimismo nei confronti dell’esercito – che a sua volta ha approfondito le divisioni politiche all’interno di Israele.

6.

L’ultimo indicatore è la rinnovata energia delle giovani generazioni di palestinesi. Queste sono molto più unite, organicamente connesse e chiare riguardo alle loro prospettive rispetto all’élite politica palestinese. Dato che la popolazione di Gaza e della Cisgiordania è tra le più giovani al mondo questa nuova fascia di età avrà un’enorme influenza nel corso della lotta di liberazione. Le discussioni che hanno luogo tra i giovani gruppi palestinesi mostrano che sono preoccupati di creare un’organizzazione genuinamente democratica – o un’OLP rinnovata, o una nuova del tutto – che persegua una visione di emancipazione che è antitetica alla campagna dell’Autorità Palestinese per il riconoscimento come Stato. Sembrano preferire una soluzione a uno Stato rispetto a uno screditato modello a due Stati.

Saranno in grado di organizzare una risposta efficace al declino del sionismo? Questa è una domanda a cui è difficile rispondere. Al crollo di un progetto statale non sempre segue un’alternativa più brillante. Altrove in Medio Oriente – in Siria, Yemen e Libia – abbiamo visto quanto sanguinosi e prolungati possano essere i risultati. In questo caso si tratterebbe di decolonizzazione e il secolo scorso ha dimostrato che le realtà postcoloniali non sempre migliorano la condizione coloniale. Solo l’azione dei palestinesi può portarci nella giusta direzione. Credo che, prima o poi, una fusione esplosiva di questi indicatori porterà alla distruzione del progetto sionista in Palestina. Quando ciò accadrà, dobbiamo sperare che un robusto movimento di liberazione sia lì per riempire il vuoto.

Per più di 56 anni quello che è stato definito il “processo di pace” – un processo che non ha portato da nessuna parte – è stato in realtà una serie di iniziative americano-israeliane alle quali si chiedeva ai palestinesi di rispondere. Oggi la “pace” deve essere sostituita con la decolonizzazione e i palestinesi devono essere in grado di articolare la loro visione per la regione, mentre gli israeliani devono rispondere. Ciò segnerebbe la prima volta, almeno da molti decenni, in cui il movimento palestinese prenderebbe l’iniziativa di presentare le sue proposte per una Palestina postcoloniale e non sionista (o come verrà chiamata la nuova entità). Nel fare ciò, probabilmente guarderà all’Europa (forse ai cantoni svizzeri e al modello belga) o, più appropriatamente, alle vecchie strutture del Mediterraneo orientale, dove i gruppi religiosi secolarizzati si trasformarono gradualmente in gruppi etnoculturali che vivevano fianco a fianco nello stesso territorio.

Che le persone accolgano l’idea o la temano, il collasso di Israele è diventato prevedibile. Questa possibilità dovrebbe orientare il dibattito a lungo termine sul futuro della regione. Sarà inserito all’ordine del giorno man mano che le persone si renderanno conto che il tentativo secolare, guidato dalla Gran Bretagna e poi dagli Stati Uniti, di imporre uno Stato ebraico a un paese arabo sta lentamente giungendo al termine. Ha avuto abbastanza successo da creare una società di milioni di coloni, molti dei quali ora sono di seconda e terza generazione. Ma la loro presenza dipende ancora, come al loro arrivo, dalla capacità di imporre con la violenza la propria volontà a milioni di indigeni, che non hanno mai rinunciato alla lotta per l’autodeterminazione e la libertà nella loro patria. Nei decenni a venire i coloni dovranno abbandonare questo approccio e mostrare la loro volontà di vivere come cittadini con pari diritti in una Palestina liberata e decolonizzata.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Aggiornamento sulla Cisgiordania – Due giovani uccisi, diversi arrestati, città saccheggiate dalle forze israeliane

Redazione di Palestine Chronicle

2 giugno 2024 Palestine Chronicle

Secondo l’agenzia di stampa ufficiale palestinese WAFA il numero dei palestinesi uccisi dalle forze israeliane in Cisgiordania dal 7 ottobre è salito a 521, tra cui 131 minori.

Due giovani palestinesi sono stati uccisi dalle forze di occupazione israeliane nella città di Gerico, nella Cisgiordania occupata.

Secondo l’agenzia di stampa ufficiale palestinese WAFA sabato notte le forze israeliane hanno fatto irruzione nel campo profughi di Aqabat Jaber e hanno aperto il fuoco su due giovani vicino al cimitero occidentale.

Uno dei giovani, Ahmed Hamidat, 15 anni, è stato ucciso e Mohammed Al-Baytar, 17 anni, è rimasto ferito ma è morto domenica mattina presto a causa delle ferite. Al-Baytar è stato arrestato dopo che è stato impedito alle squadre sanitarie di raggiungerlo.

Al-Baytar è stato trasportato in condizioni critiche dalle forze israeliane in un ospedale della Gerusalemme occupata, dove è morto.

Con l’uccisione di Al-Baytar, il numero dei palestinesi uccisi dalle forze israeliane in Cisgiordania dal 7 ottobre è salito a 521, tra cui 131 minori, ha riferito WAFA.

Raid nelle città

Le forze di occupazione israeliane hanno preso dassalto diverse città nel territorio occupato, tra cui la città di Jaba, a sud di Jenin e Beit Ummar, a nord di Hebron (Al Khalil).

A Jabale forze israeliane hanno arrestato due palestinesi, Baraa Malaysha e Adnan Khaliliya.

Coloni ebrei illegali hanno attaccato le case palestinesi nel villaggio di Madaman, nella Cisgiordania occupata. Dopo l’attacco le forze israeliane hanno preso d’assalto il villaggio. I filmati condivisi dal Quds News Network (QNN) mostrano veicoli militari che sfrecciano per le strade della città.

Diversi arrestati

Secondo WAFA le forze israeliane hanno arrestato durante la notte e fino a domenica mattina 15 palestinesi nel corso delle operazioni in diverse aree della Cisgiordania occupata.

La Commissione per gli Affari dei Detenuti e degli Ex Detenuti e la Associazione dei Prigionieri Palestinesi (PPS) hanno affermato in una dichiarazione congiunta che le operazioni di arresto hanno avuto luogo nei governatorati di Jenin, Hebron, Betlemme e Nablus.

Dal 7 ottobre 2023 il numero totale di palestinesi arrestati nella Cisgiordania occupata è salito a oltre 8.985, riferisce WAFA.

Casa demolita

Domenica le forze di occupazione hanno demolito anche la casa di Ghassan al-Atrash nel villaggio di Al-Walaja, a sud-ovest di Gerusalemme.

Secondo WAFA Khader Al-Araj, capo del consiglio del villaggio di Al-Walaja, ha detto che un grande contingente di soldati israeliani, accompagnati da un bulldozer militare, ha fatto irruzione nel quartiere Ain Juwaiza del villaggio. Hanno proceduto alla demolizione della casa di Al-Atrash, un abitante del luogo, che misurava circa 120 metri quadrati.

Al-Araj afferma che le autorità di occupazione israeliane impiegano spesso tali misure per tormentare gli abitanti e spingerli a lasciare il villaggio, adducendo futili pretesti per le demolizioni.

Le autorità israeliane rifiutano di consentire praticamente qualsiasi costruzione palestinese nellArea C, che costituisce il 60% della Cisgiordania occupata e rientra sotto il pieno controllo militare israeliano, riferisce WAFA. Ciò ha costretto i residenti a costruire senza ottenere permessi, raramente concessi, per fornire riparo alle loro famiglie.

Terreni agricoli dati alle fiamme

Wafa fa sapere che nel frattempo coloni ebrei illegali hanno appiccato il fuoco a terreni agricoli nel villaggio di Duma, a sud di Nablus.

Suleiman Dawabsheh, capo del Consiglio del villaggio di Duma, ha detto che i coloni hanno appiccato incendi nel terreno agricolo a ovest del villaggio, coltivato ad ulivi e grano.

Dawabsheh afferma che i coloni hanno impedito agli abitanti del villaggio di accedere ai terreni in fiamme.

In un precedente incidente, circa due mesi fa, i coloni avevano incendiato la stessa zona. In quell’occasione le forze di occupazione israeliane non hanno permesso alle squadre di protezione civile di avvicinarsi e spegnere lincendio, riporta WAFA.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Gli israeliani celebrano il massacro di Rafah come il falò di una festa ebraica

Nadav Rapaport 

27 maggio 2024,Middle East Eye

I falò di Lag BaOmer festeggiano la luce spirituale. Quest’anno gli israeliani hanno usato questa occasione per deridere 45 uomini, donne e bambini palestinesi uccisi nell’attacco ad un campo di Gaza

Tel Aviv. Dopo l’attacco aereo israeliano che si è abbattuto domenica notte su un campo a Rafah, nel sud di Gaza, dilaniando i corpi di dozzine di uomini, donne e bambini palestinesi e scatenando un feroce incendio, le riprese video della situazione nel campo hanno suscitato orrore e condanna in tutto il mondo.

In Israele, invece, personaggi di spicco e pubblici funzionari hanno considerato il massacro e l’incendio il modo perfetto per celebrare una festa religiosa.

Domenica era Lag BaOmer, una festa ebraica in cui le persone in tutto Israele accendono falò come rappresentazione della luce spirituale portata da Shimon bar Yochai, un venerato rabbino del II secolo.

Di solito la celebrazione più importante della giornata si svolge sul Monte Meron, presso la tomba di Shimon bar Yochai, dove viene acceso un grande falò e decine di migliaia di fedeli si riuniscono per uno dei più grandi eventi di massa del mondo ebraico.

Ma questo fine settimana le preoccupazioni per la sicurezza hanno limitato la partecipazione a sole 30 persone, spingendo Yinon Magal, giornalista senior dell’emittente israeliana Channel 14, a pubblicare immagini del massacro di Gaza con la didascalia: “L’illuminazione dell’anno a Rafah”. Successivamente ha rimosso il post su X.

Un altro giornalista, Naveh Dromi di i24, ha ripubblicato il video dell’incendio con la didascalia “Buona Festa”. Anche questo post è stato successivamente rimosso.

Pure Yoav Eliasi, rapper e attivista di estrema destra conosciuto anche con il nome d’arte “The Shadow”, ha pubblicato su Telegram video dell’incendio di Rafah che presentavano l’incidente come un falò di Lag BaOmer.

Domenica sera e lunedì mattina i social media israeliani erano in fermento, condividendo battute e meme sbeffeggianti il massacro di Rafah.

Una delle immagini più scioccanti da Rafah riportate domenica sera era quella di un uomo che sorreggeva il corpo di un bambino senza testa. Un membro di un popolare gruppo Telegram israeliano di destra ha condiviso la foto dell’uomo che tiene in braccio il bambino morto deridendolo come pubblicità per vendere del pollo. “Pollo fresco 1 shekel al chilo”, diceva.

In molti hanno fatto paragoni con i falò di Lag BaOmer. “I nazisti si sono scottati”, ha scritto un israeliano su X. “Lag BaOmer – la versione di Rafah” ha scritto un altro condividendo il filmato dell’incidente in seguito ripubblicato da Dromi.

Almeno 45 palestinesi sono stati uccisi dall’attacco israeliano nell’area di Rafah che Israele aveva designato come “sicura” e in cui aveva detto agli sfollati di stabilirsi. Venerdì la Corte internazionale di giustizia aveva ordinato a Israele di fermare la sua offensiva su Rafah.

L’esercito israeliano ha affermato che l’attacco è stato “preciso” e ha preso di mira due alti funzionari di Hamas. L’alto funzionario di Hamas Sami Abu Zuhri ha affermato di ritenere gli Stati Uniti responsabili della fornitura di armi e assistenza finanziaria a Israele.

Numerose condanne sono arrivate dalle capitali europee e arabe. Il presidente francese Emmanuel Macron si è detto “indignato” per l’attacco. “Queste operazioni devono finire. Non ci sono aree sicure a Rafah per i civili palestinesi”, ha detto, aggiungendo che è necessario un cessate il fuoco immediato.

Da ottobre più di 36.000 palestinesi sono stati uccisi dalla guerra israeliana a Gaza, la stragrande maggioranza donne e bambini.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Le proteste nei campus: potrebbe essere il momento in cui Israele perde l’Occidente

David Hearst

29 aprile 2024 – Middle East Eye

Il movimento di protesta contro la guerra a Gaza ha rivitalizzato la causa nazionale palestinese e una nuova generazione di ebrei americani si sta opponendo all’identificazione con il sionismo.

Dal punto di vista militare l’offensiva del Tet, un attacco di sorpresa lanciato dai vietcong e dall’esercito nordvietnamita in Vietnam nel gennaio 1968, fu un fallimento.

Intendeva provocare un’insurrezione generale nel Vietnam del Sud che non scoppiò mai. Dopo la sorpresa iniziale l’esercito sudvietnamita e le forze USA si riorganizzarono e inflissero gravissime perdite alle migliori truppe vietcong.

Ma ebbe conseguenze molto importanti sulla guerra in Vietnam.

Il generale Tran Do, il comandante nordvietnamita della battaglia di Hue [una delle principali città del Paese e dove più duri furono i combattimenti, ndt.], ricordò: “Ad essere onesti, non raggiungemmo il nostro principale obiettivo, che era scatenare una rivolta in tutto il Sud. Eppure infliggemmo gravissime perdite agli americani e ai loro fantocci e questo fu un grande risultato per noi. Quanto ad avere un impatto sugli Stati Uniti, non era nelle nostre intenzioni, ma si dimostrò un risultato fortunato.”

L’offensiva del Tet si dimostrò un punto di svolta nell’appoggio dell’America alla guerra.

Il Pentagono venne sottoposto a critiche senza precedenti per le sue ottimistiche affermazioni sull’andamento della guerra e mentre i vietcong persero 30.000 soldati, l’anno seguente gli Usa subirono 11.780 caduti, dimostrando così le capacità di resistenza militare del Nord.

Si aprì un’ampia frattura nella credibilità tra l’allora presidente Lyndon B. Johnson (KBJ) e l’opinione pubblica. Lo stesso LBJ perse fiducia nei comandi militari e li sostituì.

Nel 1968 la Columbia University divenne uno degli epicentri delle proteste contro la guerra, spinte dai legami dell’università con l’industria bellica. Gli studenti occuparono cinque edifici e tennero in ostaggio per 36 ore Henry Coleman, il preside. C’è l’immagine iconica di uno studente che fuma un sigaro nel suo ufficio.

Venne fatta entrare la polizia. Ci furono centinaia di studenti arrestati, feriti, uno sciopero e poi le dimissioni del rettore della Columbia, Grayson Kirk. Le proteste contro la guerra raggiunsero l’apice fuori dalla Convenzione Nazionale Democratica di Chicago e in seguito vennero viste come una delle ragioni dell’elezione di Richard Nixon.

Nel contempo il movimento contro la guerra si era esteso come un incendio a tutto il mondo.

Ci fu un’enorme manifestazione a Berlino ovest. Il Vietnam fu una delle scintille che provocarono settimane di scontri di piazza nella rivolta di operai e studenti del maggio ’68 a Parigi e in tutta la Francia. Ancor oggi si possono vedere fori di proiettile nel Marais, [quartiere] di Parigi.

Il movimento di protesta del maggio ’68 ebbe politicamente vita breve. L’insurrezione di Parigi finì in dieci settimane, benché a un certo punto l’Eliseo arrivò talmente vicino a perdere il controllo della situazione che il presidente in carica, De Gaulle, scappò dal Paese.

Il presidente francese si rifugiò nel caldo abbraccio della Nato. Dove altro avrebbe potuto andare? Scappò nel quartier generale dell’esercito francese in Germania insieme agli alleati della Nato.

Il giorno dopo mezzo milione di lavoratori sfilarono a Parigi scandendo “De Gaulle addio”. De Gaulle riuscì a vincere le successive elezioni, ma lo shock della notizia fu profondo. Tutto questo in Francia cambiò un’intera generazione.

Il 1968 oggi

Sono molti i paralleli tra il movimento di protesta del ’68 contro la guerra del Vietnam e le attuali proteste globali contro la guerra a Gaza.

Come nell’offensiva del Tet, l’evasione di massa dalla prigione di Gaza organizzata dalle Brigate al-Qassam il 7 ottobre è andata fuori controllo in poche ore. Ciò è stato dovuto in parte all’inaspettatamente rapido collasso della brigata Gaza dell’esercito israeliano nel sud di Israele.

Un attacco contro obiettivi militari, in cui sono stati uccisi centinaia di soldati israeliani, si è trasformato in una serie di massacri contro civili, sia abitanti di kibbutz che spettatori di un festival musicale in cui si sono imbattuti Hamas e altri gruppi scatenati oltre il confine. Secondo le fonti ufficiali di uno Stato del Golfo, l’attacco del 7 ottobre è stato la madre di ogni errore di calcolo.

Ma la risposta israeliana, la distruzione sistematica di Gaza durata sette mesi, una campagna genocida contro ogni cittadino e famiglia nella Striscia indipendentemente dall’affiliazione, la distruzione delle loro case, ospedali, scuole, università, ha determinato un punto di svolta nell’opinione pubblica mondiale.

Ancora una volta l’appoggio a questa guerra è fornito da un presidente democratico USA in un anno elettorale. Ancora una volta la Columbia è stata al centro della rivolta, con un accampamento di protesta contro l’attacco israeliano che ha provocato un’ondata di azioni simili nei campus dei college in tutti gli USA.

Columbia, Yale e Harvard sono tutte nel mirino di questa rivolta studentesca a causa dei legami delle università con Israele.

Alla Columbia gli studenti chiedono che l’università ponga fine agli investimenti nei giganti della tecnologia Amazon e Google che hanno un contratto di 1.2 miliardi di dollari per una super cloud di dati con il governo di Tel Aviv.

A Yale gli studenti stanno chiedendo che l’università disinvesta da “ogni impresa di produzione bellica che contribuisce all’aggressione israeliana contro la Palestina”. Yale ha scambi di studenti con sette università israeliane. Harvard ha programmi con tre di queste università, mentre la Columbia ha rapporti con quattro di esse.

Come nel 1968 molte di queste proteste sono state represse con la forza. Il preside della Columbia Nemat Minouche Shafik ha ordinato alla polizia di New York di disperdere l’accampamento di 50 tende sul South Lawn [il prato che si trova nella parte sud del campus, ndt.], il che ha portato all’arresto di 100 studenti della Columbia e del Barnard College, compresa la figlia della parlamentare statunitense Ilhan Omar.

Gli studenti sono stati anche sospesi dalle lezioni ed è stato detto loro che non potranno terminare il semestre accademico. A Yale 50 manifestanti sono stati arrestati con l’accusa di “violazione aggravata di proprietà privata”. In Ohio i dimostranti sono stati picchiati e colpiti con i taser. Circa 900 manifestanti sono stati arrestati in tutto il Paese dal primo scontro alla Columbia, il 18 aprile.

Niente di tutto ciò è nuovo.

Nel 1970 la Guardia Nazionale dell’Ohio aprì il fuoco contro i manifestanti uccidendone quattro e ferendo nove studenti in quello che è noto come il massacro della [università] Kent State. Allora come adesso la brutalità della polizia contro gli studenti ha solo provocato la diffusione delle proteste.

Ore dopo che l’amministrazione aveva chiuso un accampamento a Princeton, centinaia di studenti hanno occupato un cortile interno portando libri, computer portatili e lavagne per organizzare una “università popolare per Gaza”. Alcuni docenti si sono uniti e hanno guidato dibattiti e discussioni.

La polizia è stata chiamata in 15 università in tutti gli USA e ci sono proteste in altre 22 università e college.

Le proteste negli USA si sono estese a università britanniche, anche se hanno ricevuto minore attenzione mediatica.

Al Trinity College, Cambridge, il ritratto di Lord Balfour, il ministro degli Esteri britannico responsabile della dichiarazione che riconosceva il diritto degli ebrei a una patria in Palestina, è stato imbrattato e sfregiato prima di essere tolto dall’università.

Londra ha appena assistito alla sua tredicesima manifestazione nazionale dall’inizio della guerra. Per la loro persistenza e le dimensioni le proteste contro la guerra a Gaza sono comparabili solo con la manifestazione di oltre un milione di persone contro la decisione di Tony Blair di invadere l’Iraq, che nel 2003 è stata la più grande di questo genere.

Il movimento di protesta sta avendo un profondo effetto sulla stessa Gaza perché per una volta il popolo palestinese che affronta questo massacro non si sente solo.

Il giornalista e creatore di contenuti Bisan Owda ha detto: “Continuate così, perché voi siete la nostra unica speranza. E vi promettiamo che terremo duro e vi diremo sempre la verità. E per favore non lasciate che la loro violenza vi spaventi. Non hanno nessun’altra opzione se non farvi tacere e terrorizzarvi perché state demolendo decenni di lavaggio del cervello.”

Il bersaglio è il sionismo

Owda ha ragione. Se i bersagli del movimento di protesta del 1968 erano il Pentagono o il paternalismo repressivo dello Stato gollista, oggi sono il sionismo e chi arma Israele negli USA, in GB e in Germania.

Questa è la lobby filo-israeliana che etichetta e calunnia i politici come antisemiti per il loro appoggio alla Palestina. Sono loro che fanno sì che università codarde e in preda al panico caccino docenti dal loro lavoro. Si vedono come democratiche ma mettono mano alla strumentazione fascista. Danneggiano lo stato di diritto, la libertà di parola e il diritto a protestare.

Alla testa della rivolta contro il sionismo c’è una nuova generazione di ebrei che partecipano in numero sempre crescente a queste proteste.

Uno studente della Columbia e due del Barnard hanno spiegato perché: “Abbiamo scelto di essere arrestati nel movimento per la liberazione dei palestinesi perché siamo ispirati dai nostri antenati ebrei che lottarono per la libertà 4.000 anni fa. Quando la polizia è entrata nel nostro accampamento abbiamo formato una catena e cantato canzoni dell’epoca dei diritti civili che molti nei nostri predecessori più recenti hanno cantato negli anni ’60. Veniamo da un passato di attivismo progressista ebraico che ha superato linee di razza, classe e religione per trasformare le nostre comunità.

L’arresto e la brutalizzazione di oltre 100 studenti filopalestinesi della Columbia è l’azione peggiore di violenza nel nostro campus da decenni. Nel momento in cui la Columbia ha chiesto alla polizia di arrestare centinaia di studenti che protestavano, la nostra università ha normalizzato una cultura in cui le differenze politiche sono accolte con violenza e ostilità… Mentre scriviamo questo, studenti israeliani che ci passano vicino ci chiamano ‘animali’ in ebraico perché pensano che nessuno di noi li capirà, ripetendo le affermazioni del ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant secondo cui i palestinesi di Gaza sono ‘animali umani’.”

La guerra a Gaza sta provocando un dibattito senza precedenti tra gli ebrei, con importanti intellettuali come la giornalista canadese Naomi Klein che afferma che il sionismo è un “falso idolo che ha preso l’idea della terra promessa e l’ha trasformata in un atto di compravendita a favore di uno Stato etnico militarista.”

Klein ha scritto: “Fin dall’inizio ha prodotto un orrendo genere di ‘libertà’ che vedeva i bambini palestinesi non come esseri umani ma come minacce demografiche, così come nel Libro dell’Esodo il faraone temeva la crescente popolazione israelita e quindi ordinò la morte dei loro figli.

Il sionismo ci ha portati all’ attuale catastrofe ed è tempo di dire chiaramente: ci ha sempre portati qui. È un falso idolo che ha guidato troppi del nostro popolo lungo un sentiero profondamente immorale che ora li fa giustificare il fatto di gettare via comandamenti fondamentali: non uccidere, non rubare, non desiderare i beni altrui.”

La Palestina è ovunque

Questi avvenimenti avranno delle conseguenze.

Nel futuro immediato il movimento contro la guerra a Gaza ha rivitalizzato la causa nazionale palestinese come non mai. Nei campi profughi in Libano sbiadite scritte sui muri che commemorano le battaglie di Fatah e dell’OLP sono state sostituite da nuovi e rilucenti simboli che celebrano l’attacco del 7 ottobre. Il triangolo invertito che rappresenta Hamas che attraversa in paracadute la barriera di Gaza è ovunque.

Ogni manifestazione in tutto il mondo è guidata dalla diaspora palestinese che ha reagito in modo opposto a quello che era stato immaginato da Israele e dai suoi sostenitori. Il primo ministro Benjamin Netanyahu aveva pensato che se avesse ucciso gli anziani i loro figli e figlie avrebbero dimenticato la lotta.

Invece Netanyahu ha ricreato e rafforzato ovunque il legame dei palestinesi con la loro terra perduta. Se chiedi ai palestinesi del campo profughi giordano di Hitten dove sia la loro casa la risposta assolutamente maggioritaria è a Gaza o in Cisgiordania.

Questa ondata di solidarietà ha distrutto allo stesso modo anni di progetti per eliminare ogni legame tra la causa palestinese e il mondo arabo. Gli avvenimenti hanno contribuito. Le primavere arabe, la loro repressione e le guerre civili che ne sono seguite hanno soppiantato la Palestina come principale fonte di notizie per almeno un decennio.

Il tentativo israeliano di bypassare la causa nazionale palestinese tendendo direttamente la mano agli Stati del Golfo più ricchi stava per aver successo quando Hamas ha messo in atto il suo attacco.

Sette mesi dopo la Palestina è ovunque. Ogni sondaggio lo dimostra. Invece lo stesso Israele è sul banco degli imputati della giustizia internazionale, sotto indagine sia alla Corte Penale Internazionale, che sta per emettere mandati di arresto per Netanyahu e altri, e alla Corte Internazionale di Giustizia per genocidio.

Queste sono le conseguenze immediate, ma ce ne sono due a lungo termine che potrebbero essere ancora più importanti.

Il primo è che per la prima volta nella storia di questo conflitto Gaza, sia il suo popolo che i suoi combattenti, hanno evidenziato una determinazione a resistere e a lottare che l’OLP e Yasser Arafat non hanno mai dimostrato. Per la prima volta nella loro storia i palestinesi hanno una dirigenza che non rinuncerà alle sue principali richieste e che ispira rispetto.

La seconda conseguenza è che negli USA, l’unico Paese che può porre fine a questo conflitto ritirando il supporto militare, politico ed economico a Israele, sta crescendo una nuova generazione. È ancora oggi l’unica Nazione che Israele ascolta e che prende sul serio.

Tra loro gli ebrei sono orripilati da quello che si sta facendo nel loro nome. Orripilati da come la loro religione è stata trasformata in un’apologia della pulizia etnica. Orripilati da come la loro orgogliosa e sofferta eredità sia stata ridotta a una licenza di uccidere. Orripilati dal potere esercitato da Israele sul Congresso USA, sul parlamento britannico e su ogni importante partito in Europa.

Gli ebrei stanno sfidando l’affermazione secondo cui il sionismo è titolare della loro storia. Per questo sono in vario modo accusati di essere traditori, “kapo” (gli ebrei incaricati dalle SS naziste di controllare il lavoro forzato), odiatori di se stessi o semplicemente “animali”. Ma per me sono la principale fonte di speranza in questo paesaggio desolato. La guerra del Vietnam durò altri sette anni dopo l’offensiva del Tet. Neanche l’occupazione israeliana di Gaza avrà facilmente fine.

Ma potremmo aver raggiunto il punto di svolta nell’appoggio a Israele negli USA, in Gran Bretagna e in Europa, e ciò ha un significato storico.

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

David Hearst è co-fondatore e caporedattore di Middle East Eye. È commentatore, esperto della regione e analista sull’Arabia Saudita. È stato l’editorialista per l’estero del Guardian e corrispondente in Russia, Europa e a Belfast. È arrivato al Guardian da The Scotsman [quotidiano britannico edito a Edimburgo, ndt.], dove era corrispondente per l’istruzione.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Sette operatori umanitari a Gaza, compresi cittadini del Regno Unito, degli Stati Uniti e dell’Australia, uccisi in un attacco israeliano, afferma l’organizzazione benefica

Bethan McKernan, a Gerusalemme, e Ben Doherty

2 aprile 2024 – The Guardian

L’esercito israeliano indaga in seguito al fatto che in un convoglio colpito nel centro di Gaza si trovavano degli operatori di World Central Kitchen 

Sette persone che lavoravano per World Central Kitchen [ONG americana, ndt.], un’organizzazione benefica che promuove sforzi per alleviare l’incombente carestia a Gaza, sono rimaste uccise in un attacco aereo israeliano, dice l’organizzazione, gettando nel caos gli sforzi di soccorso umanitario nel territorio palestinese, in quanto l’organizzazione ha detto che avrebbe sospeso le operazioni.

Secondo una dichiarazione rilasciata giovedì mattina gli operatori facevano parte di un gruppo che viaggiava su tre veicoli corazzati che riportavano il logo dell’organizzazione umanitaria. World Central Kitchen (WCK) ha detto che gli uccisi erano originari di Regno Unito, Australia, Polonia e Palestina e uno aveva doppia cittadinanza USA e canadese.

Secondo un giornalista dell’Associated Press che si trovava nella struttura, i corpi degli operatori umanitari sono stati portati in un ospedale della città di Rafah nel sud di Gaza, sul confine egiziano. Le registrazioni dell’ospedale hanno riportato che tre cittadini del Regno Unito erano morti.

L’organizzazione ha affermato: “Nonostante i movimenti fossero stati concordati con l’esercito israeliano il convoglio è stato colpito alla partenza dal deposito di Deir al-Balah, dove la squadra aveva scaricato più di 100 tonnellate di aiuti umanitari in cibo portati a Gaza via mare.”

Erin Gore, presidente di WCK, ha detto: “Questo non è solo un attacco contro WCK, è un attacco alle organizzazioni umanitarie che avviene nella più tremenda delle situazioni in cui il cibo viene usato come arma di guerra. Questo è imperdonabile.”

L’organizzazione interromperà le operazioni nella regione e dice che prenderà una decisione sul futuro della sua attività, sollevando timori che il recente corridoio marittimo da Cipro per la consegna di aiuti disperatamente necessari a Gaza possa fallire a fronte dei ripetuti ostacoli da parte israeliana.

Giovedì pomeriggio Cipro ha detto che le navi recentemente giunte a Gaza stanno tornando indietro con 240 tonnellate di aiuti non consegnati.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha deplorato le uccisioni, che ha detto essere state provocate da un attacco aereo israeliano. Ha decritto l’incidente come tragico e non intenzionale.

Succede in tempi di guerra. Stiamo indagando accuratamente sui fatti, siamo in contatto con i governi (delle vittime straniere) e faremo di tutto per garantire che non avvenga di nuovo”, ha detto in una videodichiarazione.

L’esercito israeliano ha espresso “sincero dispiacere” per le morti mentre non ha ammesso del tutto di accettarne la responsabilità, aggiungendo che è in corso un’indagine.

Una dichiarazione dell’esercito afferma: “Le IDF (esercito) compiono molti sforzi per rendere possibile la consegna sicura di aiuti umanitari e hanno lavorato a stretto contatto con WCK nei suoi sforzi vitali per fornire cibo e aiuto umanitario alla popolazione di Gaza.”

I tentativi delle agenzie umanitarie di fornire assistenza dove c’è più necessità a Gaza sono stati gravemente ostacolati da un insieme di impedimenti logistici, da un collasso dell’ordine pubblico e dalla farraginosa burocrazia imposta da Israele. Il numero di camion di aiuti entrati nel territorio via terra negli ultimi cinque mesi è stato molto al di sotto dei 500 al giorno che entravano prima della guerra.

A febbraio più di 100 persone sono state uccise quando le forze israeliane hanno aperto il fuoco in un punto di distribuzione degli aiuti a Gaza City. L’esercito israeliano ha detto che per la maggior parte sono morti nella calca, ma funzionari palestinesi e testimoni lo hanno smentito dicendo che la maggioranza di quelli portati in ospedale presentava ferite da proiettili.

L’ONU ha detto che nel territorio costiero almeno 576.000 persone– un quarto della popolazione – sono sulla soglia della carestia ed è aumentata la pressione su Israele perché accresca il flusso di aiuti.

Le navi con gli aiuti arrivate lunedì trasportavano 400 tonnellate di cibo e prodotti – sufficienti per un mese di pasti – in una spedizione finanziata dagli Emirati Arabi Uniti e organizzata da WCK, ma gli operatori avevano scaricato solo 100 tonnellate prima che l’attacco costringesse l’organizzazione ad ordinare che le imbarcazioni tornassero a Cipro.

Il mese scorso un’altra nave di WCK ha consegnato 200 tonnellate di aiuti in un’esperienza pilota resa possibile da volontari di WCK e da altri a Gaza che hanno costruito un molo con le macerie di edifici distrutti dai bombardamenti israeliani negli scorsi cinque mesi. L’esercito israeliano è stato coinvolto nel coordinamento di entrambe le consegne.

Washington, il principale alleato di Israele, ha caldeggiato la via marittima come nuovo modo per fornire aiuti disperatamente necessari al nord di Gaza, che è ampiamente separato dal resto del territorio dalle forze israeliane.

Israele ha impedito all’UNRWA, la principale agenzia dell’ONU a Gaza, di effettuare consegne nel nord dopo aver sostenuto che molti dei suoi dipendenti erano coinvolti nell’attacco di Hamas che ha scatenato la guerra, ora nel suo sesto mese. Altre organizzazioni umanitarie dicono che spedire convogli di camion al nord è troppo pericoloso a causa delle mancate garanzie da parte dell’esercito di un passaggio sicuro.

In base ai dati israeliani il 7 ottobre circa 1.200 israeliani sono stati uccisi e altri 250 presi in ostaggio, mentre più di 32.000 palestinesi sono stati uccisi nella successiva offensiva israeliana, secondo il locale Ministero della Salute nel territorio governato da Hamas.

José Andrés, il fondatore di WCK, ha dichiarato a X che l’organizzazione umanitaria “ha perso parecchie nostre sorelle e fratelli in un attacco aereo delle IDF a Gaza.”

Ha scritto: “Ho il cuore spezzato e sono addolorato per le loro famiglie ed amici e per l’intera nostra famiglia di WCK. Queste sono persone…sono angeli…Ho lavorato al loro fianco in Ucraina, a Gaza, in Turchia, in Marocco, alle Bahamas, in Indonesia. Hanno un volto…hanno un nome.”

Ha detto che il governo israeliano avrebbe dovuto “fermare queste uccisioni indiscriminate.”

Il Primo Ministro australiano, Anthony Albanese, ha identificato la persona uccisa di nazionalità australiana come Zomi Frankcom e ha definito il suo lavoro “straordinariamente importante.”

Albanese ha detto che il suo governo avrebbe convocato l’ambasciatore israeliano riguardo ad un incidente che ha detto essere “al di là di ogni ragionevole circostanza”, aggiungendo: “l’Australia si attende una piena assunzione di responsabilità per la morte di operatori umanitari, che è assolutamente inaccettabile.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Riprese di un drone sollevano dubbi sulla giustificazione israeliana per un attacco mortale contro giornalisti a Gaza

 

 Louisa Loveluck, Imogen PiperSarah CahlanHajar Harb e Hazem Balousha 

19 marzo 2024 – The Washington Post

Gerusalemme – Il 7 gennaio fuori da Khan Younis, nel sud di Gaza, l’esercito israeliano ha condotto un attacco mirato con un missile contro un’auto su cui viaggiavano quattro giornalisti palestinesi.

Due membri di una troupe di Al Jazeera, Hamza Dahdouh, 27 anni, e l’operatore di droni Mustafa Thuraya, 30 anni, sono stati uccisi insieme al loro autista. Due giornalisti freelance sono rimasti gravemente feriti.

Stavano tornando dal luogo di un precedente attacco israeliano contro un edificio, dove avevano utilizzato un drone per riprendere le conseguenze. Il drone, un modello base che si può trovare su Best Buy [principale rivenditore di elettronica degli USA, ndt.], sarebbe fondamentale per la giustificazione israeliana dell’attacco.

Il giorno dopo in una dichiarazione le Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndt.] hanno affermato di aver “identificato e colpito un terrorista che manovrava un velivolo che rappresentava un pericolo per i soldati delle IDF.” Due giorni dopo l’esercito ha annunciato di aver scoperto prove che entrambi gli uomini facevano parte di gruppi di miliziani, Thuraya di Hamas e Dahdouh del Jihad Islamico Palestinese, il suo rivale meno numeroso a Gaza, e che l’attacco era stato una risposta a una minaccia “imminente”.

Il Washington Post ha ottenuto e analizzato le riprese dal drone di Thuraya, che erano conservate in una scheda di memoria ritrovata sul posto e inviata a un’agenzia di produzione palestinese in Turchia. Nessun soldato israeliano, velivolo o altra attrezzatura militare è visibile nelle riprese di quel giorno, che il Post ha pubblicato integralmente, sollevando domande critiche sul perché i giornalisti siano stati presi di mira. Colleghi reporter hanno affermato di non essere stati a conoscenza di movimenti di truppe nella zona.

Interviste con 14 testimoni oculari dell’attacco e colleghi dei giornalisti uccisi offrono il racconto finora più dettagliato dell’incidente mortale. Il Post non ha trovato indicazioni che quel giorno i due uomini stessero agendo nella veste di qualcos’altro che giornalisti. Entrambi erano passati attraverso posti di controllo israeliani lungo il percorso verso sud all’inizio della guerra; Dahdouh recentemente aveva ottenuto il permesso di lasciare Gaza, un privilegio raro che è improbabile venga concesso a un miliziano noto come tale.

In risposta a molteplici richieste e domande dettagliate del Post l’esercito israeliano ha risposto: “Non abbiamo nient’altro da aggiungere.”

Il Post non potrebbe identificare altri esempi durante la guerra in cui giornalisti siano stati presi di mira dall’IDF per aver fatto volare droni, che sono stati usati in modo massiccio per riprendere le dimensioni della devastazione a Gaza.

Giornalisti locali hanno detto al Post che non ci sono indicazioni ufficiali sui droni da parte dell’esercito israeliano. Un altro ha detto di aver deciso di non usare il suo drone durante il conflitto, temendo che potesse essere preso a pretesto per un attacco israeliano.

In un comunicato Al Jazeera ha condannato l’“assassinio di Mustafa e Hamza” e si è impegnata a “prendere tutte le misure legali per perseguire i responsabili di questi crimini.”

Secondo il Comitato per la Protezione dei Giornalisti novanta reporter e altri operatori dei media sono stati uccisi in soli cinque mesi, il periodo più letale per la professione da quando l’associazione ha iniziato a raccogliere dati nel 1992.

“Dovrebbe spettare all’esercito israeliano indagare su quanto avvenuto” il 7 gennaio, ha detto a febbraio al Post Irene Khan, la relatrice speciale dell’ONU sulla promozione e la protezione del diritto alla libertà di opinione ed espressione.

“Non è sufficiente dire che ‘li abbiamo sospettati e quindi li abbiamo uccisi’,” ha affermato. “É molto facile dire questo in una situazione di guerra.”

I giornalisti

Dal 7 ottobre Israele ha impedito ai media stranieri di entrare nella Striscia di Gaza, tranne che a occasionali [reporter] inseriti nell’esercito il cui accesso è strettamente controllato. Per capire il conflitto il mondo si è basato su centinaia di giornalisti palestinesi.

Il più famoso è stato Wael Dahdouh, padre di Hamza e caporedattore di Al Jazeera a Gaza, la cui tenacia di fronte a una tragedia personale è stata di esempio in tutto il mondo arabo.

Il 28 ottobre Wael ha interrotto la diretta quando ha scoperto che sua moglie, il figlio Mahmoud e la figlia Sham, fratelli di Hamza, e un nipote erano stati uccisi nella loro casa da un attacco aereo israeliano. Il suo collega più vicino, il cameraman di Al Jazeera Samer Abu Daqqa, è morto il 15 dicembre per le ferite riportate dopo un attacco israeliano con i droni, in cui anche Wael è rimasto ferito.

Hamza ha raggiunto la redazione di Al Jazeera a Gaza durante il conflitto, lavorando come assistente cameraman e produttore sul campo, dice suo padre.

Thuraya era un freelance molto noto, forniva foto e immagini con il drone ad Al Jazeera così come all’Agence-France Presse, alla Reuters e a Getty Images. Secondo Shadi al-Tabatibi, 30 anni, collega giornalista nell’enclave, in precedenza aveva lavorato per circa cinque anni come fotografo per il ministero delle Fondazioni Religiose, parte del governo di Gaza guidato da Hamas. Non è chiaro quando sia terminato il suo contratto.

Secondo molti amici e colleghi intervistati dal Post, sia Dahdouh che Thuraya avevano lasciato Gaza City, il fulcro originario dell’operazione militare israeliana, alla fine di ottobre lungo una strada per l’evacuazione di civili indicata dall’esercito israeliano.

Gli uomini hanno vissuto in tende per più di due mesi con altri giornalisti nella città di Rafah, una zona vicina al confine con l’Egitto, dove hanno cercato rifugio circa 1.4 milioni di palestinesi sfollati. I giornalisti raccontano che stendevano i loro materassi su assi di legno per isolare i propri letti dal freddo e viaggiavano sul luogo dei bombardamenti aerei e altri attacchi in gruppo, convinti che fosse più sicuro essere in tanti.

Il 6 gennaio, alla vigilia della loro morte, Dahdouh e Thuraya avevano condiviso il pasto con dei colleghi. “È stata una cena semplice, ma piena di calore,” afferma Adli Abu Taha, 33 anni, un cameraman di Al-Kufiya TV. Thuraya ha parlato per telefono con la moglie e tre figlie, ricorda Tabatibi, promettendo che sarebbe andato presto a trovarle.

La missione

Secondo , Amer Abu Amr, un fotografo del canale televisivo Palestine Today anche lui presente sul posto quel giorno, il 7 gennaio i giornalisti si sono svegliati con la notizia di un attacco aereo contro la casa della famiglia Abu al-Naja, a sud di Khan Younis. In seguito l’esercito israeliano ha descritto la casa come un ufficio del Jihad Islamico Palestinese.

Un post sulle reti sociali suggerisce che almeno quattro persone sono state uccise nell’attacco e che alcuni dei morti e feriti erano già stati portati in ospedale.

Ma con altri corpi che si pensava fossero sotto le macerie, da Rafah si sono diretti sul posto almeno 11 giornalisti, tra cui Dahdouh, Thuraya e i reporter freelance Muhammad al-Qahwaji e Hazem Rajab. Secondo i metadati dei video che ha filmato quel giorno, Thuraya ha fatto volare un drone alle 10,39.

Il Post ha ottenuto le riprese dalla sede di Media Town production a Istanbul, che aveva sub-contrattato il lavoro di Thuraya per Al Jazeera e altri clienti. I video mostrano reporter vestiti di blu che osservano una massa di cavi contorti e cemento. Dei bambini stanno a guardare mentre degli uomini tirano fuori dei corpi. Lavoratori della difesa civile stendono lenzuoli sui morti e li portano via.

Le immagini includono 38 clip e durano poco più di 11 minuti. Ogni tanto si vede Thuraya che guarda il comando del suo drone e che lascia lo schermo ad altri colleghi. Zooma due volte, brevemente, mostrando il panorama a nordovest e sudovest dell’edificio danneggiato, circa un kilometro e mezzo in ogni direzione. Nelle immagini non si vedono soldati israeliani, velivoli o altri apparati militari.

Su richiesta del Post due analisti hanno visionato immagini satellitari disponibili dell’area prese il 7 gennaio da Planet Labs ed Airbus [società che forniscono immagini satellitari del pianeta, ndt.], che coprono un raggio di circa 2 kilometri da dove è stato lanciato il drone. Nessuno degli esperti ha visto prove di presenza militare o attività di miliziani. William Goodhind, un ricercatore open-source [pratica di condivisione aperta dei dati, ndt.] di Contested Ground, un progetto di ricerca che traccia i movimenti militari in immagini satellitari, afferma di non aver trovato alcun segno di “veicoli blindati, camion militari, fortificazioni, barricate e/o punti di lancio di razzi e mortai.” Ha identificato un posto di polizia a circa 800 metri a nord ovest dal lancio del drone, ma afferma che non è chiaro se fosse ancora in funzione.

Preligens, una ditta di intelligenza artificiale geospaziale, ha inserito le immagini satellitari del 7 gennaio fornite dal Post nel suo rilevatore AI di veicoli e non ne ha trovato nessuno blindato in un perimetro di circa 16 km2.

Il drone di Thuraya era un Mavic 2 disponibile in commercio, costruito dalla ditta cinese DJI, più o meno delle dimensioni di una tipica scatola da scarpe ma più sottile. I metadati mostrano che Thuraya ha smesso di riprendere alle 10.55.

Secondo Amr, che afferma che lui e il suo collega Ahmed al-Bursh sono stati feriti da schegge, un secondo attacco ha colpito il luogo alle 11.01. Bursh era piegato in due dal dolore quando è salito su un’ambulanza della Mezzaluna Rossa, come si osserva in un video filmato da Amr, che lo ha raggiunto nell’ambulanza ed ha ripreso la maggior parte del loro viaggio.

“L’ho fatto per paura,” dice. “Temevo che saremmo stati presi di mira.”

Anche Thuraya, Dahdouh, Qahwaji, Rajab e il loro autista, il ventiseienne Qusay Salem, che non erano stati feriti nel secondo attacco, se ne sono andati dal luogo. Qualche minuto dopo un video dell’IDF mostra un drone militare che intercetta il loro veicolo, che viaggia appena dietro l’ambulanza. Il suono dell’esplosione è colto nella ripresa di Amr dal finestrino posteriore dell’ambulanza approssimativamente alle 11.10.

Altri video di testimoni mostrano le orribili conseguenze: Thuraya e Salem sono dilaniati dall’attacco. Qahwaji è a terra e perde molto sangue, mentre i medici si affannano per mettere insieme una barella per lui. Il volto del freelance è ustionato e la sua mandibola è squarciata. Rajab ha gravi ustioni e ha perso l’uso di un occhio.

All’obitorio un Wael distrutto dal dolore stringe la mano di suo figlio e gli mormora dolcemente. Abbraccia la moglie di Hamza, Wafaa, mentre lei appoggia il volto sul petto del marito. La moglie di Thuraya, Soraya, nasconde la testa nel cuscino e piange.

Quella notte in una conferenza stampa a Doha, la capitale del Qatar, il segretario di Stato Antony Blinken ha descritto l’uccisione come una “perdita impensabile”. Come genitore non avrebbe potuto “immaginare l’orrore” che Wael stava provando “non una, ma ora due volte.” Il Dipartimento di Stato ha rifiutato di fornire ulteriori commenti.

Una storia mutevole

La notte dell’attacco è iniziata una lotta di narrazioni. L’esercito israeliano ha affermato in un comunicato che il suo velivolo aveva “identificato e colpito un terrorista che stava manovrando un velivolo che rappresentava una minaccia per i soldati dell’IDF.”

Il giorno successivo il portavoce dell’esercito israeliano Daniel Hagari è sembrato fare marcia indietro: “Ogni giornalista che muore, dispiace,” ha detto alla NBC, affermando che il drone li aveva fatti sembrare “terroristi”.

In un nuovo comunicato il 10 gennaio l’esercito israeliano ha affermato che il drone rappresentava una “minaccia imminente” per i soldati che si trovavano nei pressi, benché l’attacco sia avvenuto circa 15 minuti dopo che Thuraya aveva smesso di filmare. Il Post ha condiviso con l’esercito israeliano le immagini di Thuraya e chiesto se poteva identificare un qualunque momento in cui il drone avesse rappresentato una minaccia per le sue truppe. “Non abbiamo nient’altro da aggiungere”, hanno affermato le IDF.

Il comunicato del 10 gennaio sostiene anche che l’intelligence militare israeliana ha confermato che Dahdouh e Thuraya erano membri rispettivamente del PIJ e di Hamas.

La giustificazione dell’esercito israeliano per l’attacco risponde “a un modello di risposte che abbiamo rilevato anche prima di questa guerra,” afferma Sherif Mansour, coordinatore del programma Medio Oriente e Nord Africa del Comitato per la Protezione dei Giornalisti. “Evitare di prendersi le responsabilità, lanciare accuse di terrorismo contro i giornalisti” e affermare che “erano in una posizione che minacciava le posizioni israeliane sul terreno.”

Giornalisti locali affermano che Israele non ha emanato nessun divieto o restrizione ufficiale sui droni, che descrivono come strumenti molto utili per trasmettere l’entità delle distruzioni provocate dalla guerra. Ma anche prima del 7 gennaio un giornalista esperto era giunto alla conclusione che le riprese non valevano il rischio.

Suliman Hijji, un video-operatore che lavora nella zona di Rafah, ha deciso all’inizio della guerra che avrebbe lasciato a terra il suo drone.

“L’uso di velivoli attira l’attenzione e può rendere le persone obiettivi vulnerabili,” afferma.

Un giornalista freelance di Gaza che ha lavorato per media internazionali, parlando in forma anonima per ragioni di sicurezza, sostiene di aver ricevuto un “avvertimento generico” da un ufficiale israeliano: “L’ufficiale mi ha detto di non espormi al pericolo e non far volare droni.”

Da quando Thuraya e Dahdouh sono stati uccisi “nessuno osa far volare un drone,” afferma Anat Saragusti, direttore per la libertà di stampa dell’Unione dei Giornalisti di Israele.

L’esercito israeliano non si è pronunciato sulla sua politica riguardo ai droni dei giornalisti a Gaza.

Il comunicato del 10 gennaio fa riferimento anche a un documento datato giugno 2022 con il logo e il nome delle Brigate Al-Quds, ala militare del PIJ. Il nome di Dahdouh compare di fianco alla cifra di 224 dollari. Nella dichiarazione l’esercito israeliano cita un secondo documento che definirebbe Thuraya come un vice comandante di squadrone del battaglione al-Qadisiyyah della brigata di Gaza City di Hamas, ma non ha reso pubblico il documento e non ha risposto alle numerose richieste di esaminarlo.

L’esercito israeliano ha anche rifiutato di rispondere ad altre domande relative ai documenti, tra cui quando fossero stati trovati e se la loro scoperta fosse legata all’attacco pianificato del 7 gennaio.

Michael Milshtein, ex-capo del dipartimento per gli affari palestinesi dell’intelligence militare delle IDF, afferma di non sapere se il documento con il nome di Dahdouh sia autentico, ma che esso segue “il formato standard di un documento del PIJ.”

“Penso davvero che se il portavoce dell’esercito lo ha reso pubblico sia autentico,” aggiunge. Altri esperti sono dubbiosi.

Potrebbe essere autentico, ma niente di quanto finora ha fornito l’esercito israeliano lo conferma,” sostiene Erik Skare, storico e ricercatore post-dottorato dell’università di Oslo che ha scritto un libro sulla storia del PIJ. Afferma che l’uso del linguaggio, soprattutto i nomi di zone geografiche, è inusuale, così come la mescolanza di testo in inglese e arabo in un documento presumibilmente pensato per uso interno.

Al Jazeera ha respinto le accuse contro i suoi reporter, definendole “un tentativo di giustificare l’uccisione e il fatto di prendere di mira giornalisti.”

Amici e familiari dei reporter uccisi evidenziano che nelle settimane precedenti alla loro morte erano stati sottoposti a controlli di sicurezza da parte dell’esercito israeliano. Entrambi avevano attraversato checkpoint da Gaza City per raggiungere il sud. Dicono che Dahdouh aveva ottenuto il permesso di andarsene da Gaza.

Secondo suo padre e un ufficiale intervistato sul suo caso, che ha parlato in condizione di anonimato trattandosi di un argomento sensibile, sei settimane dopo la morte di sua madre e di due fratelli e poco prima della sua morte, Dahdouh era stato autorizzato a lasciare l’enclave bloccata.

Un permesso di sicurezza probabilmente avrebbe richiesto l’approvazione del COGAT, un ente del ministero della Difesa israeliano che autorizza chi può entrare e uscire da Gaza. Il Post ha fornito al COGAT il nome e il numero della carta d’identità di Dahdouh per ricevere conferma se aveva l’autorizzazione ad andarsene, ma non ha ottenuto risposta.

Khan, la relatrice speciale dell’ONU, sostiene che è urgentemente necessaria un’indagine sulle uccisioni. “Se sono stati in grado di fornire così tante informazioni sicuramente ne hanno molte di più,” dice. “Hanno la responsabilità di controllare e di vedere se sono stati fatti degli errori.”

Wael Dahdouh ha lasciato Gaza il 17 gennaio per essere curato delle ferite ma ha giurato di tornare a informare. Altri giornalisti da allora sono scappati dall’enclave o hanno smesso di fare il loro lavoro, nel timore di poter essere i prossimi [a venire uccisi].

Piper e Harb hanno informato da Londra, Cahlan da Washington e Balousha da Amman, Giordania.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Guerra a Gaza: la sinistra israeliana ha rapidamente perso ogni compassione per i palestinesi

Orly Noy

16 marzo 2024 MiddleEastEye

La simpatia dei progressisti israeliani per i palestinesi era basata sulla mentalità coloniale secondo cui i sottomessi sono inferiori e dovrebbero essere loro grati per il sostegno.

L’attacco di Hamas del 7 ottobre e la guerra che Israele ha lanciato da allora hanno introdotto una nuova categoria concettuale di persone nel vocabolario ebraico-israeliano: i “disillusi” – cioè le persone che si sono ora “ripresi dalla sbornia”.

Queste persone continuano a dire che, fino al 7 ottobre, erano umanisti propugnatori di pace e che per loro l’attacco di Hamas ha cambiato tutto: di conseguenza hanno cambiato pelle e ora sostengono con passione il genocidio che Israele sta perpetrando a Gaza.

Per più di cinque mesi hanno continuato a fustigarsi a vicenda per il peccato di una loro precedente innocenza di sinistra. Dopo un’adeguata assoluzione rituale, rientrano in seno alla tribù e vengono lavati dal perdono in nome del popolo e della nazione.

Da tempo noiosamente lungo, il numero di questi disillusi continua ad aumentare. Molti dei nuovi aggiunti provengono dall’industria dell’intrattenimento e si identificano con il campo progressista. A tutti spettano i 15 minuti di celebrità per ribadire argomenti stereotipati: credevo nella pace, volevo la convivenza, ma il 7 ottobre ho scoperto che dall’altra parte non ci sono esseri umani, solo animali umani che vanno combattuti ad oltranza.

La purificazione rituale è completata da espressioni di amore e apprezzamento per “le Forze di Difesa Israeliane, l’esercito più morale del mondo”, oltre a ringraziamenti e congratulazioni ai nostri eroici soldati, e a una pseudo indignazione per la difficile situazione degli ostaggi.

Come ha detto il veterano attore Hanny Nahmias, “[Noi] eravamo i più favorevoli alla coesistenza” – ma ora ci vuole una guerra “fino alla fine”.

Obiettivi legittimi

Se consideriamo con attenzione i nuovi disillusi, il problema non sembra essere in primo luogo la loro nuova, diversa posizione – che ora spesso abbraccia lo sterminio totale dei palestinesi a Gaza.

Ad esempio, il popolare cantante Idan Raichel, che è generalmente associato a valori progressisti e spesso collabora con musicisti della comunità etiope, è indignato per il fatto che gli abitanti di Gaza – sfollati, brutalizzati, assetati e affamati – non entrino nei tunnel e combattano Hamas, anche a costo di migliaia di vittime, per ottenere il ritorno di tutti gli ostaggi.

Raichel conclude che, visto che non lo fanno, dovrebbero essere considerati complici dei crimini di Hamas e quindi obiettivi legittimi degli attacchi di Israele.

In effetti, il problema con queste persone recentemente disilluse sembra piuttosto risiedere nell’interpretazione della loro posizione “di sinistra” precedente la disillusione.

In un’intervista al programma del comico Shalom Assayag Stronger Together, l’attrice e presentatrice televisiva Tzufit Grant ha dichiarato che “il mio credo di sinistra non esiste più: pensavo che fossimo ugualmente umani, e invece no”.

Il 7 ottobre, secondo le sue parole, gli aggressori hanno ucciso “la parte umanitaria del mio cervello, l’irrefrenabile compassione, [l’idea che] ‘siamo tutti esseri umani’”.

Grant non crede più che siamo tutti umani. E dunque?

Descrive gli oltre due milioni di palestinesi a Gaza con un vocabolario ripugnante per una per cui, fino a poco tempo fa, l’amore per l’umanità era la luce guida.

Puro narcisismo

Grant non è sola. Forse il sentimento più forte a cui fanno più volte riferimento molti dei nuovi disillusi è l’amarezza: i palestinesi li hanno “persi”.

Loro, gli esponenti della sinistra che affermano di essere stati in passato assolutamente convinti della coesistenza considerando ogni persona un essere umano… e la loro “ricompensa” è stato un attacco criminale il 7 ottobre.

Sì, l’attacco di Hamas alle comunità adiacenti a Gaza è stato terrificante. Ma attenzione all’idea che la semplice buona volontà del padrone dovesse essere sufficiente a soddisfare i palestinesi, che avrebbero dovuto essere grati per la gentilezza del padrone e continuare a sopportare la loro oppressione in silenzio. (Ah, quella nostalgia dei “bei vecchi tempi” quando i palestinesi di Gaza, grazie alla gentilezza di Israele, potevano entrare in Israele per lavorare come operai a giornata ed esserne grati!)

Questo atteggiamento è, nella migliore delle ipotesi, puro narcisismo, non una posizione politica basata su un’analisi della realtà e delle sue distorte relazioni di potere.

Alcuni osservatori dicono ripetutamente che molti dei residenti nelle comunità adiacenti a Gaza che sono state attaccate il 7 ottobre erano persone in cerca di pace, alcuni addirittura attivisti che si offrivano regolarmente volontari per portare i bambini di Gaza dal valico di Erez agli ospedali israeliani – un riferimento inteso a raffigurare i palestinesi come ingrati e a giustificare il cambiamento delle loro posizioni politiche.

Questo atteggiamento è viziato dalla stessa depoliticizzazione narcisistica che vede tutto attraverso la lente delle buone intenzioni di (alcuni) israeliani.

Indubbiamente, offrirsi volontari per trasportare i palestinesi malati da Gaza è un atto nobile e i volontari sono persone le cui azioni erano spinte dalla moralità e dalla coscienza. Ma una posizione politica considera il contesto più ampio in cui questo volontariato ha luogo: vale a dire l’assedio a lungo termine della Striscia di Gaza da parte di Israele e la distruzione della maggior parte delle sue infrastrutture civili.

Tale posizione si interrogherebbe su come si sia realizzata questa situazione in cui i civili palestinesi a Gaza devono fare affidamento sulla generosità di buoni israeliani e non possono ricevere cure mediche adeguate nella stessa Gaza. Si chiederebbe perché non ci siano ospedali adeguati a Gaza, e chi impedisca ai palestinesi di costruirli, e con quale diritto.

Abbracciare il tribalismo

Questa posizione metterebbe in luce il significato di una negazione così ampia della libertà di movimento per milioni di persone da necessitare del permesso del signore supremo non solo per entrare in Israele ma anche per viaggiare nei territori palestinesi in Cisgiordania. Sottolineerebbe anche la natura del regime che per decenni ha controllato ogni respiro di milioni di soggetti privati dei diritti civili, e capirebbe che un tale regime inevitabilmente avrebbe provocato una rivolta. E, contrariamente a tutti i tentativi di controllare il modo in cui queste realtà vengono presentate al consumo pubblico, comprenderle accuratamente non equivarrebbe a sostenere la violenza né a giustificarla, ma al contrario: un’analisi imparziale di questa realtà sanguinosa ci permetterebbe di uscirne.

Un concetto a cui al massimo può aspirare il suddito è il riconoscimento del suo essere umano da parte del padrone, riconoscimento che può essere negato con la stessa facilità con cui è stato concesso se il suddito “delude”: è il segno distintivo della situazione coloniale.

In questa situazione, il padrone si ritiene così superiore al soggetto che quest’ultimo dovrebbe essere grato per ogni momento in cui la presa del padrone sulla sua gola si allenta, mentre ogni resistenza alla minaccia sempre presente di uno strangolamento equivale a ingratitudine.

Questi sono gli stessi “uomini di sinistra del passato” che, oltre alla delusione nei confronti dei palestinesi, hanno anche improvvisamente scoperto le gioie di abbracciare il tribalismo come evidentemente ha fatto Tzufit Grant.

Dal 7 ottobre, racconta, avrebbe voluto camminare tutto il giorno per le strade e baciare gli israeliani: “Sono diventata molto israeliana, molto ebrea”.

Purtroppo, disastrosamente, nell’Israele di oggi, tutto ciò sembrerebbe implicare la separazione non solo dalla “porzione umanitaria” del cervello, ma dal cervello stesso.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




I medici di Gaza hanno riferito alla BBC che le truppe israeliane li hanno picchiati e umiliati dopo i raid in ospedale

Alice Cuddy

12 marzo 2024 BBC

Il personale medico palestinese a Gaza ha detto alla BBC che sono stati bendati, trattenuti, costretti a spogliarsi e ripetutamente picchiati dalle truppe israeliane dopo l’attacco al loro ospedale il mese scorso.

Ahmed Abu Sabha, un medico dell’ospedale Nasser, ha raccontato di essere stato detenuto per una settimana in cui, ha detto, è stato aggredito da cani con la museruola e gli è stata rotta una mano da un soldato israeliano.

Il suo racconto combacia perfettamente con quello di altri due medici che hanno voluto restare anonimi per paura di ritorsioni.

Hanno raccontato alla BBC di essere stati umiliati, picchiati, inzuppati con acqua fredda e costretti a inginocchiarsi in posizioni scomode per ore. Hanno detto di essere stati detenuti per giorni prima di essere rilasciati.

La BBC ha dato i dettagli delle loro accuse alle Forze di Difesa Israeliane (IDF). Non hanno risposto direttamente alle domande su quei resoconti, né hanno negato specifiche accuse di maltrattamenti. Ma hanno negato che il personale medico sia stato maltrattato durante l’operazione.

Hanno affermato che “qualsiasi abuso sulle persone fermate è contrario agli ordini dell’IDF ed è quindi severamente proibito”.

Il 15 febbraio l‘IDF ha fatto irruzione nell’ospedale di Khan Younis, nel sud di Gaza, uno dei pochi nella Striscia ancora funzionante, affermando che secondo l’intelligence l’ospedale ospitava agenti di Hamas.

Hanno detto anche che vi erano stati trattenuti ostaggi israeliani presi da Hamas il 7 ottobre – e alcuni degli ostaggi hanno pubblicamente confermato di essere stati trattenuti a Nasser. Hamas ha negato che i suoi combattenti operino all’interno di strutture mediche.

Un filmato girato di nascosto in ospedale il 16 febbraio, il giorno in cui i medici sono stati arrestati, è stato condiviso con la BBC.

Mostra una fila di uomini in mutande davanti all’edificio del pronto soccorso dell’ospedale, inginocchiati con le mani dietro la testa. Davanti ad alcuni di loro giacciono camici medici.

“Chiunque abbia provato a muovere la testa o a fare qualsiasi movimento è stato picchiato“, ha detto alla BBC il primario dell’ospedale dottor Atef Al-Hout. “Li hanno lasciati per circa due ore in quella posizione vergognosa.”

L’IDF ha dichiarato alla BBC: “Di norma, durante il processo di arresto, è spesso necessario che i sospetti terroristi consegnino i loro vestiti in modo che possano essere perquisiti e per assicurarsi che non nascondano giubbotti esplosivi o altre armi.

“I vestiti non vengono restituiti immediatamente ai detenuti, per il sospetto che possano nascondere mezzi utilizzabili per scopi ostili (come coltelli). I vestiti vengono restituiti ai detenuti quando è possibile farlo.”

Il personale medico ha detto che sono stati poi portati in un edificio ospedaliero e picchiati, e poi trasportati mezzi nudi in una struttura di detenzione.

Il dottor Abu Sabha, medico 26enne appena qualificato e volontario a Nasser, ha descritto alcuni momenti del suo trattamento durante la detenzione, torture come far stare i detenuti in piedi per ore senza pausa. Ha detto che altre punizioni inflitte ai detenuti erano di metterli a pancia in giù per lunghi periodi e di procrastinare i pasti.

Un esperto di diritti umani ha affermato che il filmato e la testimonianza del personale medico intervistato dalla BBC sono “estremamente preoccupanti”. Ha detto che alcuni dei resoconti forniti alla BBC “rientrano molto chiaramente nella categoria di trattamento crudele e disumano”.

Lawrence Hill-Cawthorne, co-direttore del Centro per il Diritto Internazionale dell’Università di Bristol, ha dichiarato: “Questo va contro ciò che è stata per molto tempo un’idea fondamentale del diritto da applicare nei conflitti armati, ovvero che gli ospedali e il personale medico vanno protetti.”

“Il fatto che curino cittadini dello schieramento nemico non deve in alcun modo minare la loro tutela“, ha affermato.

La BBC ha indagato sulla vicenda dell’ospedale per diverse settimane, parlando con medici, infermieri, farmacisti e sfollati accampati nel cortile. Abbiamo effettuato un controllo incrociato dei dettagli dei racconti.

Ci sono stati forniti i nomi di 49 membri del personale medico di Nasser che si ritiene siano stati detenuti. Di questi, 26 sono stati nominati da più fonti: i medici sul campo, il Ministero della Sanità gestito da Hamas, alcune associazioni internazionali e le famiglie delle persone scomparse.

I tre medici che affermano di essere stati arrestati e successivamente rilasciati non hanno ancora reso pubblico il loro resoconto. Fra loro abbiamo intervistato due volte il dottor Abu Sabha. La sua storia è apparsa coerente e abbiamo verificato i punti chiave del suo resoconto in maniera indipendente.

Le famiglie di altri cinque medici dell’ospedale hanno detto alla BBC che i loro cari sono scomparsi. Inoltre, il Comitato internazionale della Croce Rossa ha confermato alla BBC di aver ricevuto decine di telefonate da persone che affermano che i loro familiari, compresi alcuni medici che erano a Nasser, sono scomparsi.

I medici rimasti a Nasser affermano che l’operazione dell’IDF presso l’ospedale ha reso impossibile prendersi cura dei pazienti. Secondo il primario dottor Hout quando l’IDF ha preso il controllo vi venivano curati quasi 200 pazienti, molti dei quali “costretti a letto”, di cui sei nell’unità di terapia intensiva.

Il personale autorizzato a rimanere ha detto di aver ricevuto l’ordine di spostare pazienti gravemente malati tra gli edifici, di aver dovuto interrompere il proprio lavoro per essere interrogati e di aver ricevuto in carico pazienti che non erano preparati a gestire, il tutto lavorando in condizioni soffocanti e antigeniche.

Numerosi medici hanno affermato che 13 pazienti sono morti nei giorni successivi all’occupazione da parte di Israele.

Hanno detto che molti fra questi pazienti sono morti a causa delle condizioni dell’ospedale, inclusa la mancanza di elettricità, acqua e altri beni essenziali necessari per far funzionare Nasser. Non è possibile verificarlo in modo indipendente. Un medico ha condiviso foto di corpi in sacchi sui letti che, come abbiamo verificato, sono state scattate in un reparto dell’ospedale.

L’IDF ha detto alla BBC di aver “fornito all’ospedale centinaia di razioni di cibo e un generatore alternativo che ha permesso di continuare a funzionare e curare i pazienti ricoverati“.

I “sistemi essenziali” dell’ospedale avrebbero continuato a funzionare durante le operazioni dell’IDF grazie a un sistema continuo di alimentazione elettrica, hanno affermato.

Il 18 febbraio, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato che l’ospedale era a corto di cibo e forniture mediche di base e aveva cessato di funzionare. I restanti pazienti sono stati inviati in altri ospedali intorno a Gaza e il personale medico che vi lavorava se n’è andato poco dopo.

Un dottore: “Pensavo che mi avrebbero giustiziato”

I detenuti rilasciati e altri medici hanno detto alla BBC che l’edificio della maternità, chiamato Mubarak, è diventato il luogo in cui l’IDF interrogava e picchiava il personale. Il dottor Abu Sabha ha detto che inizialmente era stato scelto perché stesse con i pazienti dopo il raid, ma in seguito è stato portato a Mubarak che secondo lui era diventato “praticamente un luogo di tortura”.

Tutti e tre i detenuti con cui ha parlato la BBC hanno affermato di essere stati stipati con molti altri su veicoli militari e picchiati mentre venivano trasportati. I soldati li hanno picchiati con bastoni, tubi, calci di fucili e pugni, hanno detto.

“Eravamo nudi. Indossavamo solo dei boxer. Ci hanno ammassati uno sopra l’altro. E ci hanno portato fuori da Gaza”, ha detto uno dei medici che ha voluto rimanere anonimo. “Per tutto il percorso siamo stati picchiati, insultati e umiliati. E ci hanno versato addosso acqua fredda”.

Il dottor Abu Sabha ha detto che durante il viaggio i soldati hanno fatto scendere i detenuti dal veicolo. “Ci hanno portato su un pezzo di terreno coperto di ghiaia, ci hanno costretto a inginocchiarci e bendato gli occhi… C’era una fossa nel terreno e pensavamo che ci avrebbero giustiziati e seppelliti qui. Abbiamo iniziato tutti a pregare. “

Ha detto che è stato poi portato in un edificio dove lui e gli altri detenuti sarebbero stati detenuti.

Gli altri due detenuti rilasciati hanno detto che ad un certo punto sono stati sottoposti a controlli medici ma non medicati. Uno ha detto che invece di ricevere cure per una ferita, un soldato dell’IDF lo ha colpito nel punto in cui era ferito.

“Mi hanno messo sopra una sedia ed era come per un’impiccagione“, ha detto. “Ho sentito il rumore delle corde, quindi ho pensato che sarei stato giustiziato.

“Dopo di che hanno rotto una bottiglia e [col vetro] mi hanno fatto dei tagli sulla gamba e hanno lasciato che sanguinasse. Poi hanno iniziato a portare dentro un medico dopo l’altro e hanno iniziato a metterli uno accanto all’altro. Sentivo i loro nomi e le loro voci.”

L’IDF ha detto alla BBC che “non effettua e non ha effettuato finte esecuzioni di detenuti e respinge tali affermazioni”.

Tutti e tre i detenuti con cui ha parlato la BBC hanno affermato di essere stati stipati in massa su veicoli militari e picchiati mentre venivano trasportati. I soldati li hanno picchiati con bastoni, manichette, calci di fucili e pugni, hanno detto.

Il dottor Abu Sabha ha detto alla BBC che i detenuti venivano regolarmente puniti per quelle che erano ritenute infrazioni. “A un certo punto, la benda mi si è abbassata un po’ ma avevo le mani ammanettate sulla schiena e non potevo aggiustarla.

“Mi hanno portato fuori per la punizione… mi hanno lasciato in piedi con le mani alzate sopra la testa e il viso rivolto in basso per tre ore. Poi, lui [un soldato] mi ha chiesto di avvicinarmi. L‘ho fatto, lui ha preso a colpirmi la mano finché non me l’ha rotta.”

Più tardi quello stesso giorno è stato portato in bagno, picchiato e gli hanno aizzato contro cani con la museruola, ha raccontato.

Il giorno dopo, un medico israeliano gli ha fatto un gesso e poi i soldati gli hanno disegnato sopra una stella di David, ha continuato. Quel gesso è stato poi cambiato da un medico di Gaza e Ahmed l’aveva ancora durante la sua intervista con la BBC.

La BBC ha confermato che dopo la sua detenzione il dottor Abu Sabha si è sottoposto a una radiografia e ha dovuto curarsi una mano rotta in un ospedale da campo a Gaza, e che è arrivato lì con un gesso con disegnata una stella di David.

L’IDF non ha risposto alle domande della BBC sull’ingessatura del dottor Abu Sahba.

A nessuno dei tre medici sono state fatte accuse specifiche, ma due hanno affermato che gli interrogatori si sono concentrati sulla presenza di ostaggi o combattenti di Hamas all’interno dell’ospedale.

Hanno detto che è stato loro chiesto anche dove si trovassero il 7 ottobre, quando uomini armati di Hamas hanno fatto irruzione da Gaza in Israele uccidendo circa 1.200 persone, prendendone in ostaggio altre 253. Si ritiene che più di 130 ostaggi siano ancora detenuti da Hamas. Funzionari israeliani hanno detto che almeno 30 di loro sono morti.

Il Ministero della Sanità a Gaza, gestito da Hamas, afferma che più di 31.000 persone sono state uccise dagli attacchi aerei di ritorsione di Israele e dalloffensiva di terra in corso.

Uno dei detenuti rilasciati ha detto che due giorni dopo essere stato interrogato, gli ufficiali dell’IDF gli hanno detto che non c’erano prove e che sarebbe stato rilasciato.

“Gli ho chiesto: ‘Chi mi risarcirà di tutte le percosse e le umiliazioni che ho subito, che mi avete fatto, mentre sapevo che non ero colpevole di nulla?’ Ha cominciato a borbottare: Non ho niente contro di te. Nessuna accusa“.

Il dottor Abu Sabha ha detto alla BBC di non essere mai stato interrogato durante i suoi otto giorni di detenzione.

I tre medici con cui abbiamo parlato dicono di essere stati riportati a Gaza bendati dopo il rilascio.

La BBC ha confermato il resoconto del dottor Abu Sabha secondo cui sarebbe rientrato a Gaza dal valico di Kerem Shalom, controllato da Israele, vicino al punto più meridionale della Striscia dove si incontrano Gaza, Israele ed Egitto.

I resoconti dei medici sono in contrasto con un diverso resoconto fornito alla BBC da un alto funzionario dell’IDF, che afferma non fosse stato effettuato alcun arresto del personale medico a Nasser, “a meno che non sapessimo che fosse possibile ottenere questa o quella informazione di intelligence” da loro.

“Avevamo ragionevoli motivi per ritenere che avessero delle informazioni, quindi li abbiamo presi per interrogarli e porgli delle domande, ma non oltre”, ha detto il funzionario.

“Non c’erano manette, non li abbiamo portati via per interrogatori, né in arresto anticipato, ma allo scopo di interrogarli e cercare di ottenere informazioni sugli ostaggi o sui comandanti di Hamas che erano in ospedale… un interrogatorio molto semplice e questo è quanto.”

Alcuni ostaggi prelevati da Israele il 7 ottobre hanno raccontato di essere stati portati nel complesso ospedaliero di Nasser in ambulanza. Una donna presa in ostaggio e rilasciata ha detto che suo marito, che è ancora a Gaza, era coperto da un lenzuolo per sembrare un cadavere.

Hanno descritto di essere stati tenuti in stanze piccole e costretti a chiamare se avevano bisogno di andare in bagno. Uno ha descritto il periodo trascorso in prigionia come “guerra psicologica”.

L’IDF afferma di aver scoperto che Hamas ha utilizzato l’ospedale Nasser

Il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) afferma che dal 7 ottobre Israele ha sospeso le visite ai detenuti, il che significa che non ha più potuto visitare alcun detenuto.

Ha detto alla BBC che sono “profondamente preoccupati” per le notizie di arresti e continue detenzioni di medici.

“Ovunque e chiunque essi siano, i detenuti devono essere trattati umanamente e con dignità in ogni momento, in conformità con il diritto internazionale umanitario”, affermano.

“Il CICR ha continuamente richiesto, ed è pronto a riprendere immediatamente, le visite ai detenuti al fine di monitorare il trattamento e le condizioni di detenzione.”

Un rapporto interno delle Nazioni Unite visto dalla BBC descrive diffusi abusi nei confronti dei palestinesi che sono stati catturati e interrogati nei centri israeliani di detenzione improvvisati dall’inizio della guerra, e sono simili ai resoconti forniti dai medici. L’IDF ha precedentemente negato accuse specifiche contenute nel rapporto delle Nazioni Unite, compreso il rifiuto dell’accesso all’acqua, alle cure mediche e alla biancheria da letto.

A Nasser “l’ospedale riusciva a malapena a funzionare”

Nel frattempo nell’ospedale Nasser è stato permesso ad alcuni medici di restare e prendersi cura dei restanti pazienti. Alcuni pazienti erano stati arrestati durante il raid, secondo il primario dottor Hout.

In un video fornitoci da un testimone oculare di Nasser, i soldati dell’IDF trasportano due letti d’ospedale e le mani degli occupanti sono alzate sopra la testa e legate. Abbiamo verificato che fosse autentico.

In un filmato separato pubblicato dall’IDF, si possono vedere persone sdraiate sui letti nell’area dell’ospedale con le mani legate e le braccia sollevate in una posizione simile. Non sappiamo chi siano queste persone o cosa sia successo loro dopo questo filmato.

L’IDF ha affermato: “Sottolineiamo che le mani dei pazienti che non erano sospettati di coinvolgimento nel terrorismo non erano legate”.

I medici rimasti temevano di essere uccisi se avessero sfidato l’ordine di non lasciare l’edificio, ha detto alla BBC il dottor Hatim Rabaa, che lavorava anche lui al Nasser, in una telefonata il 22 febbraio mentre in sottofondo risuonavano le esplosioni. Tuttavia, sono scesi nel cortile per prendere acqua, temendo che i pazienti altrimenti sarebbero morti, ha detto.

“La gente moriva di sete. Sulle spalle portavo 12 litri d’acqua per darla da bere. Cos’altro potevo fare?”

Diversi medici hanno affermato che l’IDF non avrebbe concesso loro il permesso di seppellire o addirittura spostare i corpi dei pazienti morti in seguito all’operazione. I corpi sono rimasti all’interno insieme al personale e ai pazienti e cominciavano a decomporsi, hanno detto i medici.

“L’odore riempiva tutto il reparto“, ha detto il dottor Rabaa. “I pazienti gridavano ‘per favore portateli via da qui’. Io gli dicevo ‘non posso deciderlo io‘.”

Il dottor Rabaa faceva parte di un piccolo gruppo di medici scelti per rimanere con i pazienti. Ha detto che anche lui era stato spogliato fino alla biancheria intima e fatto inginocchiare davanti al pronto soccorso, ma poi è stato portato via nell’edificio dove erano tenuti i pazienti.

Ha detto che non sa cosa sia successo ai suoi colleghi che ha lasciato nel cortile.

La BBC ha posto all’esercito israeliano domande dettagliate sulle accuse.

Nella sua risposta, l’IDF ha detto alla BBC che “sono stati arrestati circa 200 terroristi e sospetti di attività terroristica, compresi alcuni che si sono spacciati per squadre mediche”. Hanno detto che “sono state trovate molte armi, nonché medicinali chiusi destinati agli ostaggi israeliani”.

Hanno affermato di aver operato in “modo preciso e mirato, creando danni minimi all’attività in corso dell’ospedale e senza danneggiare i pazienti o il personale medico”.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Il New York Times ha un orribile pregiudizio anti-palestinese

BEN BURGIS

29 febbraio 2024 – Jacobin

Il fatto che il New York Times abbia affidato la sua inchiesta sulle denunce di aggressioni sessuali del 7 ottobre ad Anat Schwartz, una giornalista non professionista con convinzioni antipalestinesi e rapporti con l’esercito israeliano, è un esempio estremo della indefettibile tendenziosità del giornale a favore di Israele.

Il New York Times forse è il quotidiano più prestigioso del mondo anglofono. I suoi articoli hanno ottenuto 132 premi Pulitzer, a cominciare da quello che il giornale ricevette nel 1918 per i suoi servizi sulla Prima Guerra Mondiale. Ne ha aggiunti altri tre solo l’anno scorso.

In un’epoca in cui è diventato sempre più comune per i lettori vantarsi non di leggere o vedere reportage oggettivi ma piuttosto di consultare fonti “delle due parti”, il Times può essere percepito come la reliquia di un tempo passato, quando vigeva ancora l’ideale della neutralità. Il giornale è stato storicamente soprannominato “La Vecchia Signora”, sia per la sua tradizione di stamparlo solo in bianco e nero – non ha iniziato a includere immagini a colori fino agli anni ’90 – e per una certa etica di prudenza e accuratezza giornalistiche.

Tuttavia, come ha evidenziato Mona Chalabi, una delle giornaliste che ha aggiunto un Pulitzer al giornale lo scorso anno, una delle aree in cui questa reputazione è più difficile da conciliare con la realtà è l’informazione del Times su Israele/Palestina. Poco prima di presentarsi alla cerimonia del Pulitzer a novembre Chalabi ha postato sulla sua pagina Instagram un grafico che fa un bilancio devastante.

Persino mentre il numero di morti palestinesi rende minimo quello degli israeliani – le stime attuali del numero di civili israeliani uccisi il 7 ottobre è di centinaia, mentre decine di migliaia di civili palestinesi sono stati uccisi durante i molti mesi di brutale rappresaglia israeliana – il Times ha destinato molta più attenzione ai morti israeliani. Di fatto, come mostra la tabella, la disconnessione dalla realtà è effettivamente aumentata nello stesso momento in cui i morti palestinesi stavano aumentando in modo esponenziale.

Più di recente la polemica sulla giornalista freeelance del Times Anat Schwartz ha rivelato l’orribile profondità della tendenziosità. Nonostante non abbia esperienza giornalistica, ha fatto parte del piccolo gruppo di reporter designati a coprire una delle vicende più delicate e importanti di cui il Times si è occupato da quando è iniziata la guerra di Israele contro Gaza: le accuse secondo cui Hamas avrebbe sistematicamente utilizzato aggressioni sessuali come arma di guerra durante l’attacco del 7 ottobre. Da allora dettagli fondamentali di questa vicenda si sono dimostrati discutibili, e Schwartz ha evidenziato di essere quanto più lontana si possa immaginare da una giornalista neutrale.

Prima di diventare regista – e, improvvisamente lo scorso anno, giornalista freelance del New York Times — Schwartz ha fatto parte del reparto di intelligence dell’aviazione militare israeliana. E le sue opinioni sul conflitto israelo-palestinese, che sono di dominio pubblico, tendono a un razzismo genocida.

Anat Schwartz e il New York Times

La firma di Schwartz è comparsa, insieme a quelle di suo nipote Adam Sella e dell’esperto giornalista Jeffrey Gettleman, in un articolo intitolato “Urla senza parole: come Hamas ha utilizzato sistematicamente la violenza sessuale il 7 ottobre”. L’articolo è stato scelto per una lode speciale dal direttore esecutivo del Times, Joe Kahn, che in una mail alla redazione ha affermato: “Il gruppo” di Gettleman, Schwartz e Sella ha trattato una vicenda “molto politicizzata e delicata” in “modo sensibile e dettagliato”.

Da allora l’articolo è stato messo sotto accusa per evidenti imprecisioni. In particolare, circa un terzo dell’articolo è stato dedicato fondamentalmente a un solo incidente: il presunto stupro di Gal Adbush, uccisa il 7 ottobre, diventata nota come “la donna vestita di nero” per la sua apparizione in un video che la mostra a terra morta con il corpo in parte denudato. Il video non mostra un’aggressione sessuale, anche se alcuni osservatori l’hanno interpretato come una prova che avrebbe potuto avvenire in precedenza.

Un successivo reportage della pubblicazione progressista ebraica Mondoweiss ha messo in dubbio praticamente ogni elemento di questo articolo:

“Al momento non c’è alcuna traccia del video su internet, nonostante le affermazioni del Times secondo cui “è diventato virale”. Oltretutto la stampa israeliana, benché abbia raccontato centinaia di vicende sulle vittime del 7 ottobre, non ha mai citato “la donna vestita di nero” neppure una volta prima dell’articolo del 28 dicembre. Non sembra che il video di fatto sia diventato il simbolo ampiamente diffuso che il Times sostiene sia. Ma comunque dopo un giorno dalla pubblicazione del reportage sono emersi fatti che smentiscono l’articolo del Times.

In particolare i genitori e i fratelli di Adbush hanno strenuamente smentito l’idea che ci sia una qualche prova del fatto che Gal sia stata stuprata ed hanno manifestato disgusto nei confronti del comportamento dei giornalisti del Times. Non hanno interpretato il video nello stesso modo e dicono che non avrebbero collaborato con l’articolo se avessero saputo che sarebbe stato centrato su queste accuse.

Per essere chiari, niente di quanto detto intende affermare che nessuna donna o ragazza israeliana sia stata violentata il 7 ottobre. Anche se Adbush non è stata una di loro, sarebbe sorprendente se il 7 ottobre fosse la prima volta nella storia dell’umanità che migliaia di soldati infuriati ed esaltati siano stati mandati in territorio nemico per una missione che include l’uccisione e il rapimento a caso di civili senza che nessuno di questi soldati abbia commesso alcuna aggressione sessuale.

Ma la specifica accusa fatta da Schwartz e dai suoi co-autori in “Urla senza parole” è che “le aggressioni contro le donne non sono state eventi isolati ma parte di un modello di comportamento più generale.” È un’accusa estremamente grave e la posta in gioco è molto alta. Un organo informativo con valori etici se ne sarebbe occupato con cautela e avrebbe controllato rigorosamente ogni dettaglio.

La posta in gioco è alta perché la narrazione dello Stato di Israele sugli avvenimenti del 7 ottobre, che ha incluso una pesante insistenza sulle aggressioni sessuali, è stata utilizzata per giustificare atrocità su grande scala. Nel momento in cui scrivo 1,9 milioni dei 2.3 milioni di abitanti di Gaza sono stati espulsi dalle loro case e la fame sta dilagando. Le Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndt.] (IDF) sono state così metodiche nel loro obiettivo di distruggere le infrastrutture civili del territorio che l’ultima università rimasta a Gaza è stata distrutta con una esplosione controllata. Decine di migliaia di civili, tra cui oltre dodicimila bambini, sono stati uccisi. E, con un colpo di scena deprimente ma prevedibile, ci sono prove credibili che le atrocità israeliane abbiano incluso violenze sessuali, il che non sarebbe una novità.

Proprio a causa della gravità dei crimini sessuali e della giustificazione che essi spesso conferiscono ai nemici di chi li ha commessi, è estremamente importante avere una chiara e concreta attendibilità delle prove. Quanto ci vorrà – quanto ci vorrebbe – perché un giornale come il New York Times dichiari che aggressioni sessuali da parte di membri delle IDF sono “non incidenti isolati ma parte di un modello di comportamento più generale?”

È possibile immaginare che il Times assegni un articolo che faccia una simile accusa a un gruppo di tre giornalisti, uno dei quali membro di Hamas senza esperienze giornalistiche che non abbia mai preso le distanze dal suo passato e un altro che sia nipote dell’ex membro di Hamas? Se ciò per qualche ragione avvenisse, potete immaginare che l’articolo poi venga gestito senza verificare accuse cruciali, persino mentre i genitori e fratelli della principale presunta vittima negassero chiaramente che lo stupro fosse avvenuto?

Se potete arrivare con la vostra immaginazione così lontano, aggiungete un dettaglio in più. Immaginate che l’ex membro di Hamas abbia recentemente approvato sulle reti sociali post che chiedono l’uccisione di massa di israeliani, e che lo abbia fatto molto prima che la sua firma apparisse per la prima volta sul Times.

In effetti il più recente cambiamento nella saga di Schwartz è che si è scoperto che lei, prima che il suo lavoro comparisse sul Times, aveva approvato un grottesco post che definiva i palestinesi “animali umani” e chiedeva che Gaza venisse “trasformata in un mattatoio”. Il post proponeva anche che Israele abbandonasse l’idea di “proporzionalità” a favore di una “risposta sproporzionata” e incoraggiava le IDF a “violare ogni regola” per garantire la vittoria.

Perché Chomsky digrigna i denti

Molto chiaramente Schwartz è uno dei sintomi di un problema molto più generale riguardo alla copertura di Israele/Palestina pubblicata dal New York Times. Un indizio di come abbia potuto avvenire viene da uno sguardo più attento sul direttore esecutivo succitato.

Come hanno scritto su Intercept Ryan Grim e Daniel Boguslaw, il padre di Kahn, Leo Kahn, è stato per molto tempo consigliere del Committee for Accuracy in Middle East Reporting and Analysis [Comitato per l’Accuratezza dell’Informazione e dell’Analisi sul Medio Oriente] (CAMERA), che intendeva imporre l’adesione a una linea filo-israeliana nell’informazione dei mezzi di comunicazione “denigrando giornalisti con il cui lavoro era in disaccordo e lanciando campagne di boicottaggio contro organizzazioni di comunicazione che ritiene non rispondano con sufficiente acquiescenza alle sue richieste.” E, secondo lo stesso profilo di Joe Kahn pubblicato dal Times quando è diventato direttore esecutivo del giornale nel 2022, padre e figlio “spesso ‘hanno analizzato insieme l’informazione giornalistica’”. Mentre il Times nega che CAMERA abbia una particolare influenza sulle sua informazione, Grim e Boguslaw notano che il livello di adesione del giornale alle continue richieste di CAMERA” è “in sorprendente contrasto con la sua tradizionale resistenza a correggere i propri articoli.”

Né, osservano, questo è l’unico rapporto familiare che suscita serie domande riguardo alla capacità del giornale di informare su Israele/Palestina in accordo con la sua aura di pesante integrità giornalistica. “Nel corso degli ultimi 20 anni i figli di tre giornalisti del Times si sono arruolati nelle IDF mentre i genitori coprivano questioni riguardanti il conflitto israelo-palestinese,” notano gli autori di Intercept.

Tuttavia sotto la superficie di questi strati di tendenziosità antipalestinese potrebbe esserci una questione più profonda e più semplice. Come hanno sostenuto Noam Chomsky e il defunto coautore Edward Herman in Manufacturing Consent [La fabbrica del consenso. La politica e i mass media, Il Saggiatore, 2014], uno dei pregiudizi caratteristici dei mezzi di comunicazione più importanti in generale – di cui il New York Times è stato emblematico molto prima dell’inizio di questi recenti drammatici conflitti di interesse – sono state la profonda deferenza e l’affinità ideologica rispetto alla sicurezza nazionale statunitense.

Questo era vero per come hanno informato sulla guerra del Vietnam quando i presidenti Lyndon B. Johnson e Richard Nixon bombardavano a tappeto quel Paese per reprimere una rivoluzione contadina. Lo era nella guerra contro l’Iraq, quando il Times pubblicò acriticamente le menzogne dell’amministrazione di George W. Bush sulle “armi di distruzione di massa”. Non dovremmo sorprenderci di scoprire che è vero riguardo a Gaza, dove il massacro di massa e l’espulsione di civili vengono portati avanti con fondi e armi americani.

Questa dinamica ha ispirato una classica storiella riguardo a una visita di Chomsky dal dentista. Come raccontato da Gore Vidal e Christopher Hitchens, il dentista disse a Chomsky: “I tuoi denti sono a posto, ma devi smettere di digrignarli.” Chomsky smentì di digrignare i denti, e il dentista gli garantì che lo faceva, come evidenziato dal fatto che il suo smalto era consumato. Era presente la moglie di Chomsky, che assicurò al dentista che Noam non digrignava i denti di notte mentre dormiva. In seguito la coppia capì. Noam digrignava i denti quando la signora Chomsky era fuori dalla stanza mentre lui beveva il suo caffè mattutino “e leggeva il New York Times.

Collaboratore

Ben Burgis è editorialista di Jacobin, docente di filosofia a contratto alla Rutgers University e conduttore del programma e podcast di YouTube Give Them An Argument [Date loro un argomento]. E’autore di vari libri, il più recente dei quali è Christopher Hitchens: What He Got Right, How He Went Wrong, and Why He Still Matters [Christopher Hitchens: quello che ha fatto bene, come si è sbagliato e perché è ancora importante. Hitchen è stato un intellettuale e giornalista britannico naturalizzato statunitense originariamente trotzkista e passato poi a posizioni di destra, ndt.].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)