Ezra Nawi, 1952-2021

David Shulman

14 gennaio 2021Touching Photographs

Ezra Nawi. Ebreo di Baghdadi, nato in Israele, parlava correttamente l’arabo. Un uomo come tanti, ma diverso da tutti gli altri

Una di quelle giornate. I coloni hanno bloccato il sentiero che gli alunni prendono per andare a scuola; arrivano soldati e poliziotti, indifferenti. Ci apriamo la strada. La situazione di stallo va avanti per ore; non siamo disposti a desistere. Alla fine qualcuno dice: “È una situazione ormai senza speranza e sta peggiorando.” Ezra dice: “No. È come l’acqua che gocciola su una roccia. Dire la verità è così. Ci vuole tempo, ma alla fine la roccia cede.

Febbraio 2007. Un’altra giornata di demolizioni di case a Umm al-Khair [villaggio palestinese situato nel Governatorato di Hebron nella Cisgiordania meridionale, ndtr.] Ezra si distende a terra davanti ai bulldozer. Lo arrestano e lo ammanettano, e lui dice ai soldati: “Da ciò proverrà solo odio. Una volta anch’io ero un soldato, ma non ho mai distrutto la casa di nessuno. Non lasciate nulla alle vostre spalle se non odio.” Quanto ferocemente detestava l’odio.

Ezra, sempre imprevedibile. Di solito gli veniva in mente un’idea folle alla fine di una lunga giornata sulle colline, proprio mentre stavamo per tornare a casa. Poi, prima che ce ne rendessimo conto, ce ne andavamo con lui attraverso i vicoli della città di Hebron con una jeep di soldati alle nostre spalle. Guidava come James Bond, e devo ammettere che in un certo senso era divertente, a patto di scordare la parte che non lo era. La maggior parte di noi ha ricordi come questo. Una volta è successo sulle colline; una jeep dell’esercito ci si è avvicinata, il che non significa niente di buono, ed Ezra è partito con la sua macchina traballante sopra le rocce e le spine su sentieri appena visibili destinati a capre particolarmente abili. Dopo una ventina di minuti di inseguimento, siamo riusciti a infilarci nella boscaglia, realizzando così ciò che più mi auguravo.

Nel corso dei diciotto anni in cui l’ho conosciuto di solito era in stato di arresto, o sul punto di essere arrestato, o appena rilasciato dal carcere. Inconsapevolmente incarnava il principio gandhiano, o meglio la sua negazione: il modo migliore per sostenere un sistema ingiusto, diceva Gandhi, è obbedire alle sue leggi.

2

Giornate di lavoro, ripulire una grotta a Jinbah, la casa seppellita di una famiglia. Negli anni ’90, e di nuovo nel 2000, l‘esercito ha ricoperto la maggior parte delle grotte in una serie di azioni devastanti. Stiamo procedendo lentamente verso il basso, secchio dopo secchio. Ezra ci osserva divertito. Perde la pazienza. “Lascia che ti mostri come si usa una pala”, dice. Lui sa. Pochi minuti dopo viene alla luce il primo gradino di pietra, l’ingresso della grotta. La rivelazione di un mondo perduto. Quante case sepolte quest’uomo ha liberato dalla terra?

O liberare la strada per Bi’r al-‘Id, pietra dopo pietra. Ci vogliono un’ora o due per rendere percorribile un metro quadrato, forse un po’ di più. Un lavoro pesante, non meno inutile di quello che Sisifo è costretto a compiere ogni giorno. I soldati verranno sicuramente a disfarlo e dovremo ricominciare tutto da capo. È una forma molto particolare di felicità.

Ed Ezra si presenta immancabilmente con falafel freschi nella pita [crocchette a base di ceci col pane arabo, ndtr.] ancora caldi per tutti, [provenienti] dalla sua bancarella preferita nella città di Yatta, nell’Area A [sotto controllo e amministrazione palestinese, ndtr.]. È anche un bravo cuoco. Specialità di Baghdadi, la sera quando ci incontriamo nel suo appartamento per fare i nostri progetti.

Margaret Olin [studiosa e docente di studi delle religioni alla Yale University, New Haven, ndtr.]: “Per favore, aspetta un minuto nel furgone mentre prendo uno spuntino per noi.” Un’ora più tardi, dopo che Ezra ha chiacchierato con tutti quanti attorno alla bancarella, riappare con i falafel. E no, non ero arrabbiata. Conoscere Esdra è stato un onore e una benedizione. E un divertimento. (Margaret Olin) Yatta, 2015.

Ezra viene a sapere che i coloni hanno rapito un pastore e lo trattengono in una delle colonie vicine alla Linea Verde [la linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio arabo-israeliani del 1949 fra Israele e alcuni fra i Paesi arabi confinanti alla fine della guerra arabo-israeliana del 1948-1949, ndtr.], molto a sud. Egli accompagna me e un altro David sino ad un determinato punto nel mezzo del deserto e dice: “Andate da quella parte. Troverete un altro palestinese su un asino. Seguitelo. Trovate il pastore. ” Poi se ne va, con molte altre cose urgenti da fare.

È mezzogiorno, fa caldo come al solito d’estate in un deserto. Ci dirigiamo verso le colline, saliamo, scendiamo, saliamo. E poi, proprio come previsto, vediamo un uomo su un asino bianco. “Vi stavo aspettando”, dice. “Seguitemi.” Non so se sapete quanto velocemente può correre un asino. In pochi minuti siamo di nuovo soli con il sole, la sabbia e le pietre. Un paio d’ore dopo riemergiamo, senza il pastore rapito, sulla strada principale nord-sud. Nessun segno nemmeno di Ezra.

3

Ezra, Nissim, Maria, Eileen, io. Andiamo a Beit ‘Ummar [città palestinese situata undici chilometri a nord-ovest di Hebron, ndtr.] per portare una copia del mio libro, Freedom and Despair [Libertà e Disperazione], alla famiglia di Isa Sleby, a cui il libro è dedicato. Isa era un amico di Ezra come quasi tutti gli altri a Beit ‘Ummar, ma ancora di più, perché Isa era senza paura, un uomo di pace e di azione. Isa è morto nel 2012.

Ci troviamo con suo figlio ‘Ala, sua madre e un nuovo nipote che Isa non ha mai conosciuto. Non ci sono foto di Ezra quel giorno, non pensavamo che saremmo stati lì, lui aveva a che fare con i soliti casi giudiziari e le condanne con la condizionale che lo minacciavano. Ma ecco che lo vedo con il bambino in braccio. Come un padre o un nonno orgoglioso, come sarebbe stato Isa. La tenerezza che era sempre in lui veniva fuori quando stava vicino ad un bambino. E se un bambino aveva delle ferite o ematomi o dei tagli leggeri, mi chiamava per pulire e fasciare la ferita, e il bambino incrociava le braccia e rifiutava di lasciarsi toccare. Poi Ezra lo convinceva dolcemente, molto lentamente ad aprire le braccia.

Stiamo guidando veloci lungo l’autostrada principale, la strada 60, deserto disabitato su entrambi i lati. È mattina presto. In lontananza, una palla rotola sulla strada. Ezra ferma la macchina; il bambino recupera la palla. Tutto qua. Ma lo so: quella tenerezza era al centro della [sua] durezza, come quando i coloni attaccavano e lui ci gridava: “Non abbiate paura e non scappate”.

Solo con gli ufficiali dell’esercito, o talvolta con la polizia, era diverso. Li disprezzava davvero ed era lieto di farglielo sapere. Per Ezra, ogni ufficiale era inconsapevolmente o (più probabilmente) consapevolmente complice dei crimini.

Uno di loro lo ha citato in giudizio perché Ezra lo ha definito un criminale di guerra. Un altro gli ha fatto causa perché quando l’ufficiale gli ha detto che stava per andare in pensione, Ezra ha citato il proverbio arabo: “Un cane va e un altro cane arriva”. Questo è stato chiamato, tra di noi, il caso del cane. Ce ne sono molti altri. A volte cercavo di convincerlo a mordersi la lingua e smetterla di maledirli, perché ciò quasi sempre comportava altri guai. Di solito fallivo.

4

Umm al-Khair, una mattina di primavera, siamo in giro con i pastori, sulla loro terra. Ma i coloni di Carmiel non li vogliono lì, quindi chiamano l’esercito. L’ufficiale ci dice che ci troviamo su “terre demaniali” e dobbiamo andarcene. Gli dico: “Davvero? E se sto percorrendo la via Emeq Refaim a Gerusalemme, che è anche presumibilmente territorio di Stato, devo andarmene se un colono dice che non mi vuole lì? “L’ufficiale resta freddo. Ezra mi prende da parte e dice: “Parla a quei soldati, spiega loro cosa stanno facendo. Conosci le parole, sei un professore, dai loro una lezione.” Capisco che sta temporeggiando e comunque va avanti e si ferma nelle vicinanze, sulle colline. È un altro modo di usare la parola magica “No”, una parola che potrebbe aver inventato Ezra. La parola che usi per sfidare soldati, polizia, sgherri della sicurezza e personaggi simili.

Così inizio con un’introduzione di cinque minuti sulla legge ottomana riguardo alla proprietà terriera, seguita da un’arringa, non eccessivamente dura, sul crimine che i soldati stanno per commettere. Li guardo dritto in faccia, cercando i loro occhi. Sembrano annoiati, tutti tranne uno. Forse qualcosa lo ha toccato. Forse ha improvvisamente visto i palestinesi come esseri umani. O forse si è incuriosito per questi marziani piombati una mattina di Shabbat [sabato in ebraico, nella religione ebraica la festa del riposo, ndtr.] per stare insieme ai pastori. Nel frattempo, grazie a Ezra e al mio ostruzionismo, le capre hanno avuto qualche minuto in più per pascolare.

Quanto segue è di Jyotirmaya Sharma, docente di pensiero politico all’Università di Hyderabad [nell’India meridionale, ndtr.] ed esperto del Mahatma Gandhi. Una giornata di lavoro a Samu’a [città palestinese 12 chilometri a sud di Hebron, ndtr.] che si è conclusa con una violenta carica delle forze speciali Yassam [unità militari israeliane adibite alla sicurezza, specie in caso di manifestazioni o rivolte, ndtr.]: tutti noi stavamo cercando di superare il posto di blocco che le forze di sicurezza israeliane avevano piazzato su quel tratto polveroso a sud di Hebron. Raccoglievo fango e pietre con le mani. Dovevano essere passati solo 10 minuti quando Ezra è venuto da me e mi ha detto: “Hai fatto abbastanza. Hai mostrato la tua solidarietà a noi e alla nostra causa. Ora devi solo stare a guardare. I soldati sono già qui. Potrebbero esserci degli arresti. Sei nostro ospite. Non vogliamo che tu trascorra la notte in una prigione di Gerusalemme o, peggio ancora, in una prigione di Hebron sud.

Bi’r al-‘Id, dopo una giornata passata a pulire i pozzi che l’esercito e i coloni hanno chiuso con pietre e terra. Ezra emerge dalle profondità di un pozzo dove ha lavorato pieno di fango addosso. Pochi giorni fa è stato rilasciato dopo un mese di prigione per aver tentato di impedire ai soldati di demolire quella casa a Umm al-Khair.

Gli chiedo come è andata in prigione. “Akhla … fantastico”, dice; “fortemente raccomandabile.” Questa è la vena gandhiana in lui. Sembra sereno.

“Vedo che ti senti ottimista”, dico.

“Sì. Guardati intorno. Due anni fa non conoscevamo nemmeno il nome di questo posto. Queste persone erano state cacciate dalla loro terra, le case e le terrazze erano state distrutte, i pozzi chiusi. Ora li abbiamo riportati indietro e siamo stati al loro fianco, e li abbiamo aiutati a resistere ai coloni e ai soldati e a non avere paura. Sono qui per restare. Sono a casa. Puoi addestrare le persone in modo che diventino capaci di resistere. Anche poche persone così fanno un’enorme differenza. Alla fine vinceremo. Quindi, ovviamente, sono ottimista. Devi essere anche ottimista, altrimenti perché dovresti stare qui? ” [da Freedom and Despair (2019) di David Shulman]

5

Gennaio 2016. Spie della destra vengono infiltrate a Ta’ayush dagli estremisti di Ad Kan [gruppo sionista israeliano noto per l’attività di infiltrazione specie di organizzazioni israeliane di sinistra, ndtr.] Un’operazione sotto copertura organizza una trappola per Ezra, e lui ci cade dentro. Viene arrestato, interrogato per diverse settimane, rilasciato. Sembra che la polizia non riesca a trovare nulla di sufficiente per un’accusa. Alla fine escogitano una ridicola accusa di essere entrato in contatto con le forze di sicurezza palestinesi – ironia della sorte, un crimine sancito dagli accordi di pace di Oslo, l’anatema della destra israeliana. I nostri avvocati dicono che non c’è alcuna possibilità che questa accusa possa restare in piedi in tribunale.

Ma poco dopo il suo rilascio, e probabilmente a causa dei gravi maltrattamenti [subiti], Ezra viene colpito da un ictus. Si riprende, riacquista gran parte della sua motilità, ma chi di noi lo conosce può accorgersi che è cambiato.

Ciònonostante viene con noi a Hebron sud e percorre, a passo più lento, il terreno accidentato della Valle del Giordano; ci sono molti momenti in cui riappare la vecchia scintilla.

11 maggio 2019, Wadi Swaid: Stiamo protestando davanti a un nuovo “avamposto illegale”, uno delle decine. I coloni hanno fatto il loro pranzo di shabbat. I soldati sono arrivati al momento giusto. Vogliono che ce ne andiamo ma non hanno un ordine firmato. Il pomeriggio si trascina. Nel bel mezzo della situazione di stallo, Ezra si presenta con i suoi bastoni da passeggio. Apre una sedia e si siede a pochi metri dalla tenda dei coloni. Si rivolge a loro come sempre con durezza:

“Shabbat shalom [Che sia un sabato di pace, in ebraico, ndtr.], siamo venuti per unirvi a voi per il terzo pasto dello Shabbat, lo seuda shlishit. Ma non noto alcun segno di ospitalità. Quando il nostro padre Abramo aveva ospiti, uccideva una pecora e la cucinava per loro. Questo è ciò che dice la Bibbia. Non sto chiedendo una pecora, ma almeno qualcosina sarebbe gentile.” Sospira. “Le generazioni stanno peggiorando.”

Nell’estate del 2020 Ezra ha un altro ictus e i medici scoprono un tumore al cervello. In autunno segue una serie ulteriore di lievi ictus. Le sue giornate sul campo con i suoi amici sono finite. Alla fine i suoi nemici l’hanno avuta vinta su quest’uomo che ha abbattuto il meschino presupposto su cui poggia l’Occupazione.

Ezra Nawi è morto il 9 gennaio [2021], all’età di 69 anni. Era preparato. Mi ha chiamato due volte per salutarmi. Come al solito ha anche scherzato un po’: “Probabilmente ci rivedremo. Tu sei indiano no, credi nella reincarnazione.” Ho cercato di dirgli che lo amavo e che io, e tutti gli altri, gli eravamo infinitamente grati per quello che ci aveva dato e insegnato. L’ultima volta che l’ho visto, qualche giorno fa, è riuscito ad alzarsi e a camminare, lentamente, da solo. Ci siamo seduti alla luce del sole invernale sulla veranda con le foglie verdi e lui ha detto: “Ho fatto qualcosa di buono nella mia vita”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Ha cercato di prendersi il generatore. Gli hanno sparato al collo

Yuval Abraham 

3 gennaio 2021 – +972

Harun Abu Aram, la cui casa è stata demolita lo scorso mese, è stato colpito da distanza ravvicinata da un soldato mentre stava cercando di riprendere il suo generatore. Tutto perché Israele possa impossessarsi della sua terra.

Venerdì pomeriggio un soldato israeliano ha sparato al collo da distanza ravvicinata a un ventiseienne palestinese di nome Harun Abu Aram, che si trova ora in condizioni critiche in un ospedale di Hebron, nella Cisgiordania occupata. Secondo il ministero della Sanità palestinese, se dovesse riprendersi, Abu Aram probabilmente rimarrà paralizzato.

Lo sparo è avvenuto nei pressi del villaggio palestinese di al-Rakiz, sulle colline meridionali di Hebron. Appena un mese fa l’esercito è arrivato con scavatori per demolire quattro case della comunità. Una era quella di Abu Aram.

Contrariamente a quanto sostiene l’esercito israeliano, gli abitanti di al-Rakiz non sono delinquenti. Hanno costruito le loro case sulla loro terra nel rispetto della legge. L’esercito le ha distrutte perché l’Amministrazione Civile, l’ente del governo militare israeliano che gestisce la vita quotidiana di 2,8 milioni di palestinesi in Cisgiordania, si è rifiutato di concedere permessi edilizi alla comunità. Di fatto l’Amministrazione Civile ha respinto il 98,7% delle richieste per permessi edilizi [presentate] da palestinesi che vivono nei 164 villaggi dell’Area C, una zona che rappresenta i due terzi della Cisgiordania e si trova sotto il totale controllo militare e amministrativo di Israele.

Lo scopo di questo accanimento burocratico è rendere miserabile la vita dei palestinesi al punto che se ne vadano. Perché? Perché, se se ne vanno, sarà più facile per Israele in futuro annettere la terra senza dover concedere a nessuno la cittadinanza israeliana. Un semplice calcolo demografico.

L’Amministrazione Civile rifiuta il concetto che questa terra appartenga a proprietari privati palestinesi e quindi impedisce loro di ottenere licenze edilizie e piani regolatori. L’amministrazione sa che la distruzione di case e infrastrutture renderà miserabile la vita della popolazione locale, e, con il tempo, la obbligherà ad abbandonare la propria terra.

Abu Aram è arrivato venerdì mattina per aiutare a ricostruire una delle case che erano state demolite. Dopo qualche ora di lavoro sotto il sole, è arrivato un veicolo dell’Amministrazione civile con a bordo cinque soldati israeliani, che hanno detto ad Abu Aram e ai suoi amici che non potevano costruire lì. Poi si sono diretti al suo generatore, che aveva utilizzato per la costruzione, e gliel’hanno confiscato. Queste confische sono un ulteriore sistema per obbligare i palestinesi dell’Area C ad andarsene dalla loro terra, e l’esercito regolarmente si porta via cisterne per l’acqua, utensili da muratore, trattori e baracche di lamiera.

Quando un soldato ha iniziato a trascinare via il generatore, Abu Aram ha fatto resistenza. Ha iniziato a gridare, mentre i suoi amici più vicini cercavano di calmarlo. Ma lui si è messo a gridare. Un mese fa la sua casa era stata demolita, un mese fa la sua sorellina e sua madre erano state sottoposte a un trauma inconcepibile. Io ero lì. Ora erano venuti a prendersi il suo generatore. E quindi si è messo a gridare e a fare resistenza.

Abu Aram ha cercato di riprendersi il generatore con la forza, maledicendo i soldati. Per un momento ci è persino riuscito. Ma poi è stata la volta dei soldati di reagire.

Hanno iniziato a spintonarlo, e poi improvvisamente è risuonato uno sparo. I soldati non hanno lanciato una granata assordante o un lacrimogeno. No, hanno sparato al collo con proiettili veri da vicino su un uomo disarmato, la cui casa era stata demolita un mese prima, le cui sorella e madre erano state obbligate a dormire all’addiaccio. Per un generatore.

Il video dello sparo è rapidamente diventato virale sulle reti sociali. Nel video si può sentire lo sparo. Poi si vede Abu Aram sanguinante. Poi si sente gridare sua madre.

In seguito al ferimento, l’unità portavoce delle IDF [l’esercito israeliano, ndtr.] ha emanato il seguente comunicato: “Durante una normale missione da parte delle forze delle IDF e della polizia di frontiera per la confisca e l’evacuazione di una struttura illegale nel villaggio di a-Tuwani si sono avuti disordini da parte di circa 150 palestinesi che hanno incluso un massiccio lancio di pietre. I soldati delle IDF hanno risposto usando misure antisommossa ed hanno sparato in aria. Durante i disordini è avvenuto un incidente cruento in cui parecchi palestinesi hanno usato violenza contro le forze (dell’esercito).”

Questo comunicato è una palese menzogna. Lo si può vedere nel video. Lì c’è solo una famiglia, circa 10 persone in totale. I testimoni affermano che non c’erano pietre e neppure 150 persone nelle vicinanze.

Nei prossimi giorni l’esercito israeliano potrebbe annunciare che “hanno avviato un’indagine sull’incidente.” Lo fa quasi sempre, ma praticamente mai ne viene fuori qualcosa. In casi molto rari potrebbero persino annunciare che un soldato ha aperto il fuoco “in violazione del regolamento”. Forse, dato che il ferimento di Abu Amar è stato ripreso in un video, utilizzeranno di nuovo questa scusa.

Ma non è questo il punto. La politica complessiva è quella che genera il comportamento di quel soldato ad al-Rakiz, una politica motivata dalla demografia che impedisce a migliaia di palestinesi nell’Area C di costruire sulla propria terra, che impedisce ai palestinesi di vivere, che cerca di farli sparire. Non è facile scriverlo, ma è la verità. In genere quando arrivano i soldati si finisce con il furto di beni o con la distruzione di una casa. Questa volta è finita con un proiettile nel collo.

Yuval Abraham è uno studente di fotografia e linguistica.

(traduzione di Amedeo Rossi)




“Forza letale intenzionale”: gli esperti delle Nazioni Unite accusano Israele di aver ucciso un ragazzo palestinese.

Redazione MEE

17 dicembre 2020 – Middle East Eye

L’uccisione del quindicenne Ali Abu Alia è una “grave violazione del diritto internazionale”, afferma l’Ufficio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani

Gli esperti delle Nazioni Unite hanno condannato l’esercito israeliano per aver ucciso all’inizio di questo mese un ragazzo palestinese durante una protesta nella Cisgiordania occupata, definendo l’uccisione del quindicenne Ali Abu Aliya una “grave violazione del diritto internazionale”.

In una dichiarazione rilasciata giovedì dall’Ufficio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, gli esperti hanno invitato il governo israeliano a condurre “un’indagine civile indipendente, imparziale, immediata e trasparente” sulla morte del ragazzo.

“L’uccisione di Ali Ayman Abu Aliyaa da parte delle Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.] in circostanze in cui non vi era nessuna minaccia di morte o di lesioni gravi per le forze di sicurezza israeliane – è una grave violazione del diritto internazionale”, hanno dichiarato. “La forza letale intenzionale è giustificata solo quando il personale di sicurezza deve affrontare una minaccia immediata che può essere letale o provocare un grave danno fisico”.

I soldati israeliani hanno colpito all’addome il palestinese Abu Aliyaa il 4 dicembre, nel corso di una protesta vicino al suo villaggio di al-Mughayir, in Cisgiordania. In seguito è deceduto in seguito alle ferite.

L’esercito israeliano ha affermato di aver aperto un’indagine sull’incidente, ma ha negato che contro i manifestanti, che ha definito “rivoltosi”, siano state usate munizioni vere.

La dichiarazione delle Nazioni Unite di giovedì ha evidenziato che la manifestazione si svolgeva a al-Mughayir contro [la presenza di] un “avamposto di un insediamento coloniale illegale”. Pur riconoscendo che i ragazzi stavano lanciando dei sassi, ha sottolineato che non rappresentavano un pericolo immediato per le forze israeliane e ha messo in discussione la dichiarazione secondo cui non sarebbero state utilizzate munizioni vere.

“Abu Aliya è stato colpito all’addome con un proiettile di un fucile di precisione Ruger 0,22, sparato da un soldato israeliano da una distanza stimata di 100-150 metri. È deceduto più tardi in ospedale quello stesso giorno”, si legge nel comunicato.

“Gli esperti sui diritti umani non sono a conoscenza di alcuna affermazione secondo cui le forze di sicurezza israeliane si trovassero in alcun modo in pericolo di morte o di lesioni gravi”.

Gli esperti delle Nazioni Unite – Agnes Callamard, relatrice speciale sulle esecuzioni extragiudiziali, e Michael Lynk, relatore speciale sui diritti umani nei Territori palestinesi – hanno anche evidenziato la questione più ampia dei maltrattamenti a danno dei bambini palestinesi.

Atrocità contro i minori

Abu Aliyaa è il sesto minorenne palestinese ucciso nel 2020 in Cisgiordania dalle forze israeliane mentre, secondo l’ufficio per i diritti delle Nazioni Unite, nel corso dell’ultimo anno sono stati feriti più di 1.000 minori palestinesi.

Le atrocità israeliane contro i minori sollevano “profonde preoccupazioni” in merito agli obblighi di Israele in materia di diritti umani, nella sua veste di potenza occupante nei territori palestinesi, hanno sostenuto Callamard e Lynk. Essi hanno anche sottolineato che le indagini israeliane sull’uso letale della forza contro i palestinesi “raramente si traducono in un’adeguata ricerca di colpevoli”.

“Questo basso livello di responsabilizzazione legale per l’uccisione di così tanti minori da parte delle forze di sicurezza israeliane è indegno di un Paese che dichiara di vivere secondo lo stato di diritto”, hanno affermato gli esperti.

L’uccisione di Abu Aliyaa ha causato indignazione tra i difensori dei diritti dei palestinesi, secondo i quali l’incidente rappresenta lo specchio degli abusi che i palestinesi subiscono per mano delle forze israeliane.

Anche l’Unicef, l’Unione Europea e alcuni parlamentari statunitensi hanno espresso preoccupazione per l’omicidio.

All’inizio di questo mese, la deputata statunitense Betty McCollum ha denunciato l’uccisione del ragazzo palestinese, definendola un’espressione del fenomeno dell’occupazione della Cisgiordania.

“L’uccisione di ieri in Cisgiordania di un minorenne palestinese di 15 anni da parte di un soldato israeliano che ha sparato al ragazzo all’addome è un orrendo omicidio sponsorizzato dallo Stato”, ha dichiarato McCollum a MEE in un comunicato del giorno successivo all’uccisione di Abu Aliya.

“Questo reato insensato deve essere condannato in quanto risultato diretto dell’occupazione militare permanente della Palestina da parte di Israele”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’esercito israeliano giustifica l’uccisione del ragazzo palestinese. I testimoni respingono la sua versione

Oren Ziv

14 dicembre 2020 – +972 magazine

L’esercito israeliano ha giustificato l’uccisione Ali Abu Aliya, 15 anni, sostenendo che la dimostrazione costituisse un pericolo per gli automobilisti nella zona. Ma i testimoni dicono che, quando è stato colpito, il ragazzo si trovava molto lontano dalla strada in questione.

Venerdì 4 dicembre i soldati israeliani hanno sparato e ucciso il 15enne Ali Abu Aliya nel villaggio di al-Mughayyer, vicino a Ramallah, in Cisgiordania. Abu Aliya, che avrebbe dovuto festeggiare il suo compleanno quella sera, è stato colpito da un proiettile vero mentre osservava una manifestazione in corso nel villaggio.

Dopo l’omicidio il portavoce dell’unità delle IDF [l’esercito israeliano, ndtr.] ha sottolineato che i palestinesi “hanno cercato di lanciare grosse pietre e bruciare pneumatici … mettendo a rischio l’incolumità delle auto in transito sulla strada di Allon (la vicina strada principale che attraversa la Cisgiordania da nord a sud)”. Comunque i militari hanno anche affermato di aver aperto un’indagine sull’omicidio.

Tuttavia tre giovani palestinesi che venerdì si trovavano vicino ad Abu Aliya e hanno fatto delle dichiarazioni a +972 testimoniano che Abu Aliya, quando i soldati israeliani hanno aperto il fuoco contro di lui, non si trovava nei pressi della strada di Allon. Inoltre dal punto in cui è stato colpito Abu Aliya sarebbe stato impossibile lanciare pietre verso la strada di Allon o mettere in pericolo in qualunque altro modo chi la percorreva.

Due video pubblicati sui media palestinesi e israeliani in seguito all’incidente mostrano i palestinesi che lanciano grosse pietre, come dichiarato dall’esercito. Ma l’esercito non ha potuto confermare a +972 dove sia stato esattamente filmato il video pubblicato dalla Israeli Public Broadcasting Corporation [l’emittente radiofonica e televisiva pubblica dello Stato di Israele, ndtr.] e secondo l’organizzazione contraria all’occupazione B’Tselem, che ha condotto un’indagine indipendente non ancora pubblicata sulla sparatoria, il video dei palestinesi che lanciano i sassi non sarebbe stato affatto filmato ad al-Mughayyer. I manifestanti che hanno esaminato le riprese hanno dichiarato che sarebbe stato girato a Malik. La distanza tra il villaggio di Malik e al-Mughayyer, dove Abu Aliya è stato ucciso, è di oltre cinque chilometri.

Un mese di proteste

Nel corso dell’ultimo mese, manifestanti palestinesi e israeliani hanno protestato a Samiya, tra Malik e al-Mughayyer, contro un avamposto coloniale non autorizzato insediatosi a est della strada di Allon.

Il 20 novembre, durante una manifestazione, l’esercito israeliano ha bloccato l’uscita da Malik in direzione della strada di Allon, al fine di impedire ai manifestanti di avvicinarsi lungo la strada all’avamposto, distante circa 4 km dalla manifestazione in corso. A causa della decisione dell’esercito di bloccare l’uscita la manifestazione si è trasferita nell’area di una stazione di pompaggio nel villaggio di Ein Samia, a circa 100 metri dalla strada.

Nel frattempo l’esercito ha anche bloccato le vie di accesso tra al-Mughayyer e la strada di Allon per impedire agli abitanti del villaggio di unirsi alla protesta e ai manifestanti di altri villaggi di raggiungere l’avamposto.

Secondo le testimonianze di tre adolescenti che venerdì scorso hanno assistito agli eventi, intorno alle 9 del mattino un contingente militare è entrato a piedi ad al-Mughayyer  mentre i soldati bloccavano l’uscita dal villaggio. Gli scontri sono iniziati su due colline alla periferia del villaggio in seguito all’arrivo dell’esercito. I soldati hanno lanciato granate assordanti e hanno sparato lacrimogeni e proiettili di metallo rivestiti di gomma contro decine di ragazzi che lanciavano pietre.

“Otto soldati si trovavano sulla collina, poi si sono uniti a loro altri tre o quattro e sono avanzati verso il villaggio”, ha riferito Bassem, il fratello di Abu Aliya, una settimana dopo la morte di Ali. “Non erano agenti della polizia di frontiera. Anche la polizia di frontiera era stata inviata alla manifestazione, e tre di loro avevano fucili da cecchino” (molto probabilmente fucili che sparano proiettili calibro 22, lo stesso che ha ucciso Abu Aliya).

Più tardi quella mattina, tra le 10 e le 11, i soldati hanno raggiunto un sentiero sterrato che porta ad un quartiere della periferia del villaggio, a circa 200 metri di distanza. Dal sentiero non si vede la strada di Allon, e da quel punto non è certo possibile lanciare sassi sulla strada. “Un soldato era appostato a terra con il fucile da cecchino”, continua Bassem, “e in piedi accanto a lui c’era un ufficiale che gli dava istruzioni su dove sparare”.

Bassem e altri due testimoni presenti sulla scena raccontano che i soldati si sono radunati sul sentiero, mentre un piccolo gruppo di ragazzi era nascosto su entrambi i lati del sentiero dietro gli ulivi e un cumulo di terra. “Alcuni di loro scattavano foto e avevano un drone che scattava delle foto dall’alto”, ha detto Ahmad, 17 anni, un amico di Abu Aliya. Secondo le loro testimonianze, alcuni soldati hanno sparato dei lacrimogeni, mentre altri si sono nascosti nella speranza di fermare i lanciatori di pietre.

‘Era il suo compleanno’

Ci sono ancora bossoli sul terreno da dove il cecchino israeliano ha sparato ad Abu Aliya. Sulla base delle misurazioni effettuate dagli abitanti, circa 150 metri dividevano la postazione del cecchino e il luogo in cui Abu Aliya è stato colpito. Anche secondo B’Tselem la distanza tra il soldato e Abu Aliya era di circa 150 metri.

“Ali era in piedi accanto a me, molto lontano dai soldati, e improvvisamente ci siamo accorti che era ferito”, ricorda Ahmad. “Si teneva lo stomaco. Non stava sanguinando, quindi abbiamo pensato che fosse un proiettile di gomma o una ferita leggera. Abbiamo fermato un’auto che lo ha trasportato alla clinica di Turmusayya “.

Parlava ancora”, ha riferito suo fratello Bassem sui momenti successivi alla sparatoria. “Dopo di che ha perso conoscenza.”

Secondo Bassem i soldati hanno continuato a sparare lacrimogeni per un’altra mezz’ora prima di andarsene. Riferisce che molti dei ragazzi sono rimasti nascosti per un po’ di tempo dopo la sparatoria, per paura di essere feriti.

Othman, 17 anni, anche lui sulla scena dell’omicidio, ha detto che i ragazzi avevano sentito gli spari ma non avevano capito cosa fosse successo. “I ragazzi erano vicini ai soldati, ma si sono nascosti ai lati del sentiero perché hanno visto un cecchino. Hanno sbirciato, lanciato pietre e sono tornati indietro “.

Othman non esclude la possibilità che il cecchino abbia cercato di colpire un altro giovane che era più vicino ai soldati rispetto a Abu Aliya e i suoi amici, ma questi all’ultimo momento si sarebbe mosso. Gli altri due testimoni affermano che nessuno si sarebbe trovato tra loro e il cecchino. “Avendo visto che c’era un cecchino i ragazzi che erano vicini ai soldati avevano paura di stare sul sentiero”, ha detto Ahmad. Tutti e tre sottolineano che Abu Aliya non ha partecipato affatto agli scontri.

“Era il suo compleanno”, ha aggiunto Ahmed mentre si trovava dove il suo amico è stato colpito. “Non voleva stare lì a lungo, ha detto che voleva tornare dalla sua famiglia”. Ali è il secondo dei figli che la famiglia ha perso: Wissam, il fratello di Ali e Bassem, è morto di cancro 10 anni fa all’età di nove anni, anche lui il giorno del suo compleanno.

“Sparano per colpire qualcuno e per creare nei giovani la paura di uscire per manifestare”, ha concluso Bassem. “Ma non funziona.”

Oren Ziv è fotoreporter, membro fondatore del collettivo fotografico Activestills [collettivo di fotografi che usano le immagini fotografiche come strumento di lotta per i diritti sociali e contro tutte le forme di oppressione, ndtr.] e cronista di Local Call [organo di informazione online in lingua ebraica in co-edizione con Just Vision e +972 Magazine, ndtr.]. Dal 2003, ha documentato una serie di tematiche sociali e politiche in Israele e nei territori palestinesi occupati con un’enfasi sulle comunità di attivisti e le loro lotte. Il suo lavoro di reporter si è concentrato sulle proteste popolari contro il muro e le colonie, a favore degli alloggi a prezzi accessibili e altre questioni socio-economiche, sulle lotte contro il razzismo e la discriminazione e sulla battaglia per la libertà degli animali.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




“Eravamo armati, le abbiamo distrutto la cucina e ce ne siamo andati”

Nadav Weiman 

10 dicembre 2020 – +972mag

Agli israeliani piace pensare che le incursioni militari nelle case avvengano solo per motivi di sicurezza. Gli ex soldati – e le famiglie palestinesi – sanno che non è vero.

Quando parli con gli israeliani dell’occupazione, loro pensano ai posti di blocco. All’estero la gente pensa al muro di separazione. Ma come ex soldato israeliano che compiva regolarmente irruzioni nelle case, penso a un bambino palestinese che sono andato ad arrestare nel cuore della notte. A suo padre, che aggredì il più grosso dei soldati della nostra squadra. E a come avrei fatto esattamente lo stesso se fossi stato al suo posto.

Successe nella città di Nablus nel 2007. Ci era stato detto che dovevamo arrestare uno che era connesso su Internet con il partito politico libanese e organizzazione militare Hezbollah. All’epoca parlavamo di “arresti di masterizzatori CD” – un nome spregiativo in codice per il fondo del barile quando si trattava di palestinesi ricercati. Abbiamo fatto irruzione nel cuore della notte, l’intero plotone di ricognizione, per arrestare un adolescente di 16 o 17 anni – la cui stanza, guarda caso, era piena di masterizzatori di CD.

Gli abbiamo legato le mani dietro la schiena con delle fascette e lo abbiamo portato alla base con noi, ma suo padre aveva già perso le staffe. Ha individuato il soldato più grande nella nostra squadra e gli si è scagliato contro. Mentre arrestavamo questo ragazzo con i suoi CD di giochi elettronici piratati sparsi per la stanza, uno dei soldati picchiava suo padre, con la madre al fianco che urlava.

Non ricordo di aver mai immaginato, prima di arruolarmi nell’esercito, come potesse essere in pratica la mia attività. Sapevo che avrei dovuto entrare nelle case palestinesi. Sapevo che avrei dovuto fare arresti. Non pensavo a come sarebbe stato arrestarne uno così giovane, o vedere un padre impotente infuriarsi alla vista del figlio ammanettato. Queste non sono cose a cui pensi e non c’è nessuno che te ne parli. Ci sono cose che devi scoprire da solo e, una volta che è successo non c’è pericolo che te le dimentichi.

In Israele non si parla delle irruzioni nelle case palestinesi dei territori occupati. È un’operazione di routine che quasi tutti i soldati israeliani conoscono, ma non troverai esperti che ne parlano nei notiziari e di certo non ne troverai notizia sui giornali. I media coprono le incursioni al più con allarmanti notizie dell’ultima ora del tipo: “Cinque ricercati palestinesi arrestati stasera”. E agli israeliani piace pensare a queste cose esattamente così: raid chirurgici localizzati allo scopo di effettuare arresti legittimi. Ma il quadro non è questo.

In effetti, i soldati invadono continuamente le case palestinesi. Lo fanno per occupare nuove posizioni strategiche, per eseguire perquisizioni a caso e spesso semplicemente per “far sentire la loro presenza”. In alcune unità dell’esercito far sentire la propria presenza è definito “creare la sensazione di essere braccati”. Ciò significa instillare la paura nell’intera popolazione palestinese, una missione che per definizione non fa distinzione tra sospetti e civili innocenti, o tra “persone coinvolte” e “persone non coinvolte”, come ci si esprime nel gergo dell’esercito israeliano.

A volte i soldati fanno irruzione nelle case in piena notte semplicemente per addestramento. Ho fatto irruzione in case a Jenin o Nablus semplicemente per ottenere una posizione d’osservazione migliore. Secondo la testimonianza resa da un ex soldato a Breaking the Silence [organizzazione non governativa israeliana fondata nel 2004 da militari contrari all’occupazione, ndtr.], si potevano invadere le case per sperimentare un nuovo dispositivo per sfondare le porte. Un altro testimone ha raccontato che erano entrati in una casa palestinese per farsi filmare mentre mangiavano sufganiyot (ciambelle di Hanukkah) e avere una buona notizia da trasmettere quella notte alla televisione israeliana.

Ci sono un mucchio di israeliani che conoscono l’interno della casa di un palestinese e non dovrebbero. Hanno visto decine di stanze per bambini, cucine che appartengono a estranei, armadi di altre persone. Se oggi, che sono padre di due figli, penso ai bambini che ho svegliato nel cuore della notte o ai loro genitori terrorizzati, qualcosa mi si spezza dentro.

Non si parla mai di questa routine e ancor meno di cosa c’è dietro. Mormoriamo solo che le irruzioni in casa sono una “necessità operativa” e andiamo avanti. Ma la maggior parte di queste intrusioni sono una necessità solo se si accetta l’assunto che la “presenza dimostrativa” giustifichi tutto, anche invadere la casa di qualcuno su cui non c’è il minimo indizio. Questo è ciò che anima la “necessità operativa”, e non sono certo che la società israeliana l’accetterebbe se sapesse cosa si sta facendo in campo militare a suo nome.

La scorsa settimana, Breaking the Silence ha pubblicato A Life Exposed [Una vita in pericolo], il tanto atteso rapporto dell’organizzazione sulle irruzioni in casa, scritto in collaborazione con i gruppi per i diritti umani Yesh Din [ong femminile israeliana per i diritti umani, ndtr.] e Physicians for Human Rights-Israel [Medici per i Diritti Umani-Israele, ndtr.]. Il rapporto si basa su centinaia di testimonianze fornite da ex soldati che hanno preso parte a missioni di irruzioni in casa e dai palestinesi che le hanno subite. I resoconti palestinesi sono amari da leggere. Avendo preso parte ad irruzioni in casa, pensavo di sapere come vedono questa routine dall’altra parte. Mi sbagliavo. Ho visto con i miei occhi i palestinesi piangere nelle loro case, ma non ho mai pensato a coloro che trattenevano le lacrime finché ce ne fossimo andati. Non ho mai pensato a chi si è abituato a questa routine, a chi la considera parte della vita.

Prima di forzare la casa del masterizzatore di CD a Nablus siamo entrati per sbaglio in un’altra casa. C’erano due unità israeliane attive nella zona e noi abbiamo cercato di forzare la porta sbagliata. Abbiamo fracassato la porta di una donna nel cuore della notte finché non si è aperta. Siamo entrati, armati, pronti ad arrestare qualcuno, e abbiamo perquisito la casa.

Una delle porte era chiusa a chiave. Ho lanciato dall’alto una granata stordente nella stanza chiusa. Subito dopo si è sentito un vetro in frantumi; si è scoperto che la stanza chiusa era la cucina. Solo più tardi abbiamo scoperto di aver sbagliato casa. Abbiamo svegliato una donna nel cuore della notte, armati; le abbiamo distrutto la porta e la cucina e ce ne siamo andati. Non ci abbiamo nemmeno pensato. È ora che iniziamo a pensarci, tutti noi.

Nadav Weiman è un ex combattente del Nahal Reconnaissance Platoon [la Brigata Granito dell’esercito israeliano] e vicedirettore e responsabile del gruppo di pressione di Breaking the Silence.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Le forze israeliane colpiscono a morte un bambino palestinese durante le proteste del suo villaggio

Redazione di MEE

4 Dicembre 2020 – Middle East Eye

Ali Abu Aalya soccombe alle ferite dopo essere stato colpito al ventre dalle forze israeliane vicino a Ramallah, nella Cisgiordania occupata

Il ministero della Sanità locale ha detto che venerdì sera vicino alla città occupata di Ramallah, in Cisgiordania, forze israeliane hanno colpito a morte un minore palestinese.

Il ministero ha affermato che il ragazzino è stato identificato come Ali Abu Aalya, di età compresa tra i 13 e i 15 anni. È stato ucciso durante gli scontri scoppiati tra gli abitanti palestinesi e i soldati israeliani nel villaggio di al-Mughayir, a nord-est di Ramallah.

La Croce Rossa Palestinese [sic] ha detto al giornale israeliano Haaretz che le forze israeliane hanno sparato ad Abu Aalya al ventre. È stato poi portato di corsa in un ospedale locale, dove è decceduto a causa delle ferite.

Gli scontri sono scoppiati nel villaggio venerdì, dopo che le forze israeliane hanno risposto a una protesta degli abitanti locali contro un nuovo avamposto coloniale nella zona. Haaretz ha riferito che la manifestazione ha avuto luogo “lontano dall’avamposto”.

Venerdì l’Unicef, l’agenzia dell’Onu che si occupa del benessere dei bambini, ha denunciato l’uccisione di Abu Aalya. “L’Unicef esorta le autorità israeliane a rispettare, proteggere e garantire i diritti di tutti i minori e ad astenersi dall’usare la violenza contro i minorenni, in conformità con il diritto internazionale”, ha affermato Ted Chaiban, direttore regionale dell’agenzia per il Medio Oriente e il Nord Africa in un comunicato.

Le comunità palestinesi spesso usano il venerdì dopo le preghiere di mezzogiorno come momento per protestare, tra i vari problemi, contro le politiche israeliane di confisca delle terre, i blocchi stradali e l’espansione delle colonie.

Le associazioni per i diritti umani, tra cui Human Rights Watch e Amnesty International, hanno condannato la risposta di Israele a tali proteste, che spesso comportano la perdita di vite umane, accusando l’esercito di attuare una politica di “sparare per uccidere” che incoraggia le “esecuzioni extragiudiziali”.

A causa della pandemia da Covid-19, quest’anno le proteste sono state meno frequenti nella Cisgiordania occupata. Tuttavia secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari dall’inizio del 2020 negli scontri sono stati uccisi, per lo più da colpi d’arma da fuoco israeliani, almeno 28 palestinesi, tra cui sette minorenni.

Nel frattempo, con l’incoraggiamento dell’amministrazione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, il governo israeliano ha intensificato l’espansione delle colonie. Benché i piani di annessione totale della Cisgiordania occupata siano stati sospesi dopo il raggiungimento degli accordi di normalizzazione con il Bahrein e gli Emirati Arabi Uniti, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha sottolineato che la sospensione è temporanea.

(traduzione dall’inglese di Carlo Tagliacozzo)




Secondo le associazioni israeliane per i diritti umani le retate in casa di palestinesi sono disumanizzanti, cercano di piegare il loro spirito.

2 dicembre 2020 – Middle East Monitor

Un rapporto pubblicato la settimana scorsa dalle associazioni israeliane per i diritti umani condanna le intrusioni illegali nelle abitazioni dei palestinesi da parte dell’esercito israeliano, suggerendo che questa pratica viola il diritto internazionale.

Questo studio, che si basa su due anni di ricerche da parte di Yesh Din [organizzazione di donne israeliane per la difesa dei diritti umani dei palestinesi, ndtr.], Physicians for Human Rights Israel [Medici per i Diritti Umani – Israele, associazione di medici israeliani, ndtr.] (PHRI) e Breaking the Silence [organizzazione di ex-soldati israeliani contrari all’occupazione, ndtr.], mette in luce una vasta documentazione e molte testimonianze di soldati e famiglie sfrattate.

Le notti passano senza poter chiudere occhio e non posso stare qui in casa. Per molto tempo non ho potuto dormire in casa, andavo dai miei genitori. Loro (i soldati) sono venuti ed hanno buttato giù la nostra porta. Fino ad oggi non sono ancora riuscita a metabolizzarlo,” dice una donna di Beit Ummar nel rapporto.

Attacchi, aggressioni e atti di vandalismo sono frequenti nelle città e nei villaggi palestinesi della Cisgiordania occupata da Israele, tanto da parte di coloni illegali che di soldati.

Secondo il rapporto intitolato “Una vita in bilico: irruzioni militari in case palestinesi in Cisgiordania”, ogni anno centinaia di adolescenti palestinesi vengono arrestati dall’esercito israeliano durante retate notturne, violando le stesse direttive militari riguardo all’emissione di mandati di comparizione per un interrogatorio prima dell’arresto.

Quello che mi viene da pensare,” ha detto la dottoressa Jumana Milhem, una psicologa che lavora con Medici per i Diritti Umani – Israele, “è che il processo implica la disumanizzazione di tutta la società. La questione è piegare l’animo umano.

Ci sono vari fattori di rischio per il TEPT (disturbo da stress post-traumatico) che notiamo in alte percentuali nella società palestinese in generale. Non stiamo parlando di un solo trauma, ma di uno degli aspetti del trauma continuo dell’occupazione. La sensazione di stare chiuso in carcere nel tuo stesso Paese. Questa sensazione di essere continuamente a rischio.”

Luay Abu ‘Aram, palestinese di Yatta, ha detto a Yesh Din: “È stato veramente terrificante il fatto che siano entrati in casa in piena notte con armi, i volti coperti, cani e tutti che si aggiravano in cortile. Nella tua testa passano tanti pensieri. Ha avuto un impatto terribile sulle ragazze, e perché? Perché fanno una perquisizione del genere di tutta la famiglia e dei vicini? Se ci sono informazioni dovrebbero cercare quelle.”

Per qualcuno, come Fadel Tamimi, imam di 59 anni di una moschea a Nebi Salih in Cisgiordania, le retate sono diventate frequentissime negli ultimi 20 anni. Dice di aver perso il conto del numero di volte in cui i soldati sono entrati in casa sua, il che fa pensare che possano essere più di 20, l’ultima nel 2019, appena prima della pandemia da coronavirus.

Il rapporto evidenzia come i civili palestinesi debbano essere protetti contro le frequenti e mortali offensive ed incursioni militari israeliane.

Vengono sottolineati anche gli effetti di queste incursioni sui soldati dell’occupazione, due dei quali hanno descritto la propria esperienza di irruzioni in case palestinesi come un punto di svolta per loro, soprattutto nel modo in cui vedevano se stessi come i “buoni” o “buoni” soldati e persone.

Ci è stata mostrata un’immagine aerea con ogni casa numerata. Ci è stato detto di scegliere quattro abitazioni a caso per entrarvi e “rovistare”, che vuol dire mettere tutto a soqquadro per un qualunque sospetto. Mi è sembrato strano che mi dessero questa possibilità di scelta,” ha spiegato Ariel Bernstein, 29 anni, che ha fatto il militare in un’unità d’élite della fanteria, la Sayeret Nahal.

L’esercito israeliano nega queste accuse, secondo cui le perquisizioni di case verrebbero realizzate a caso, e afferma che sono una questione relativa alla sicurezza.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




Militari israeliani uccidono ufficiale dell’Autorità Nazionale Palestinese e sparano a un insegnante

Tamara Nassar

9 novembre 2020 – The Electronic Intifada

Domenica scorsa le forze di occupazione israeliane hanno sparato ad un palestinese all’ingresso del campo profughi di al-Fawwar, vicino alla città di Hebron in Cisgiordania.

L’esercito israeliano ha affermato che quando hanno aperto il fuoco Ali Suleiman Amro, 40 anni, stava tentando di aggredirli con un coltello.

Come in molti casi precedenti di uccisione di un presunto aggressore palestinese, nel corso dell’accaduto nessun soldato israeliano è rimasto ferito.

L’esercito ha dichiarato che Amro è stato ricoverato in ospedale, ma i media israeliani hanno riferito che le sue condizioni erano ignote.

Dei testimoni palestinesi hanno filmato la sparatoria dal loro veicolo.

È possibile scorgere Amro mentre viene circondato da almeno tre soldati quando si sentono due colpi di arma da fuoco.

I media palestinesi hanno riferito che Amro era un insegnante di una scuola superiore nella città di Dura, vicino a Hebron, nella Cisgiordania occupata.

Questo è il secondo episodio nel corso di questo mese in cui i soldati israeliani sparano a dei palestinesi asserendo di essere stati attaccati.

Il precedente è stato fatale.

Ucciso un capitano dell’Autorità Nazionale Palestinese

Mercoledì scorso dei militari israeliani hanno sparato e ucciso un uomo palestinese vicino al posto di blocco militare di Huwwara, principale punto di transito in entrata e in uscita della città di Nablus, in Cisgiordania.

L’uomo è stato identificato come Bilal Adnan Rawajba, 29 anni. Era un consulente legale con il grado di capitano delle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese.

L’esercito israeliano ha affermato che Rawajba aveva aperto il fuoco contro i militari israeliani “mentre usciva dalla città“.

L’esercito ha affermato che i soldati lo hanno “neutralizzato”.

La famiglia di Rawajba avrebbe sostenuto che egli si stava recando per lavoro nella città di Tubas, nel nord della Cisgiordania.

Dei palestinesi in un veicolo vicino hanno filmato la sparatoria. Il video diffuso sui social media mostra un soldato israeliano che spara più volte contro l’auto di Rawajba a distanza ravvicinata.

I filmati di sorveglianza diffusi dai media locali mostrano un’auto bianca che si avvicina ad una postazione militare dove si trovano due soldati. I soldati inizialmente correndo si allontanano  dal veicolo.

Da una barriera di cemento sembra levarsi della polvere, probabilmente originata da un colpo di arma da fuoco. In nessuno dei due video è visibile Rawajba o qualsiasi arma potesse avere con sé.

I media locali hanno anche diffuso un’immagine grafica che mostra Rawajba ucciso all’interno della sua auto.

Nessun soldato israeliano è rimasto ferito durante il fatto.

“Coordinamento della sicurezza”

Mercoledì l’Organizzazione per la liberazione della Palestina in un tweet ha ritenuto Israele “pienamente responsabile” di quella che ha definito “l’esecuzione extragiudiziale” di Rawajba.

L’OLP ha anche accusato Israele di “aver impedito agli equipaggi delle ambulanze di raggiungerlo, lasciandolo morire dissanguato”.

“Chiediamo alla Corte Penale Internazionale di accelerare le sue indagini”, ha aggiunto.

A maggio l’Autorità Nazionale Palestinese ha sospeso il suo coordinamento “civile” e relativo alla “sicurezza” con Israele per protestare contro i piani israeliani di annettere vaste aree della Cisgiordania occupata.

Ciò si è ripercosso sui pazienti palestinesi che richiedono cure mediche fuori Gaza, i quali si affidano al coordinamento dell’ANP con l’esercito israeliano per ottenere i permessi.

L’ Autorità Nazionale Palestinese ha anche rifiutato di accettare le entrate fiscali che Israele raccoglie dai palestinesi per conto della stessa ANP. Ciò per protestare contro la sottrazione da parte di Israele del denaro pari agli importi che l’ANP versa alle famiglie dei prigionieri palestinesi.

Questo ha danneggiato i funzionari dell’ANP come Rawajba, che a causa della controversia ricevono solo metà dei loro stipendi.

Il quotidiano di Tel Aviv Haaretz [quotidiano israeliano di orientamento progressista, ndtr.] ha affermato che la sospensione del coordinamento ha “danneggiato l’apparato di sicurezza palestinese più di quanto abbia fatto leva su Israele”.

La resistenza palestinese e le fazioni politiche Hamas e Jihad islamica hanno entrambe condannato l’uccisione di Rawajba.

Il partito politico di sinistra Fronte popolare per la liberazione della Palestina ha definito l’uccisione di Rawajba all’interno della sua auto “un altro crimine di guerra sionista da aggiungere all’elenco dei crimini contro il nostro popolo”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Adolescente palestinese muore dopo essere stato “percosso dai soldati israeliani”

25 ottobre 2020 – Al Jazeera

Il direttore del centro medico dice che Snobar è morto per le ferite al collo subite mentre veniva picchiato dalle forze israeliane.

Secondo diverse fonti di informazione palestinesi un adolescente palestinese è morto a causa delle ferite riportate dopo essere stato percosso dai soldati israeliani vicino alla città di Turmus-Ayya, a nord-est di Ramallah.

Il ministero della Sanità palestinese ha affermato che Amer Abedalrahim Snobar sarebbe arrivato in ospedale dopo essere stato “colpito duramente al collo”.

Ahmed al-Bitawi, direttore del Palestine Medical Complex [complesso sanitario situato a Ramallah comprendente 5 ospedali con varie specializzazioni cliniche, ndtr.], ha confermato domenica mattina ai notiziari palestinesi che Snobar sarebbe morto a causa delle ferite riportate in seguito ad unaggressione da parte di soldati israeliani.

“Sul collo di Snobar c’erano segni visibili di percosse”, ha detto Bitawi.

Il centro medico ha riferito che le ferite sul collo di Snobar sarebbero compatibili con percosse inferte dai soldati israeliani con il calcio dei fucili.

In una dichiarazione, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) ha accusato le truppe israeliane di “un mostruoso atto di brutalità contro un giovane indifeso il cui unico crimine era essere palestinese”.

L’importante esponente dell’OLP Hanan Ashrawi ha sostenuto nella sua dichiarazione che Snobar è stato “brutalmente percosso” dalle truppe israeliane.

Snobar proveniva dal villaggio di Yatma, a sud della città occupata di Nablus, in Cisgiordania.

I membri di un’equipe di una ONG sanitaria hanno detto alle fonti di informazione palestinesi locali di aver tentato di eseguire la rianimazione cardiaca su Snobar prima di trasferirlo al centro medico.

L’esercito israeliano ha sostenuto che i soldati avrebbero risposto in seguito ad un episodio avvenuto a nord di Ramallah, dopo che sarebbero state lanciate delle pietre contro un veicolo dell’esercito.

Nel comunicato dell’esercito si legge che delle truppe di stanza “nella zona sono state inviate sul posto e hanno setacciato la zona alla ricerca di aggressori”.

“I primi dati emersi indicano che all’arrivo dei soldati … i due sospettati hanno cercato di scappare a piedi”, sostiene. “Durante la fuga, uno dei sospetti apparentemente ha perso conoscenza, è crollato a terra e ha battuto la testa. Il sospetto non è stato colpito dalle truppe delle IDF [esercito israeliano, ndtr.]”.

In una dichiarazione, il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (FPLP), di sinistra, ha affermato che l’omicidio di Snobar sarà una “maledizione che continuerà a perseguitare i traditori arabi” – in riferimento ai recenti accordi di normalizzazione da parte di Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Sudan .

Il comunicato afferma che “la risposta a questo crimine efferato è la revoca del riconoscimento dell’entità sionista e di tutti gli accordi che ne sono derivati, e la formazione di una leadership nazionale unificata in grado di guidare la resistenza popolare contro l’occupazione sionista”.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)




La tecnologia israeliana scopre un tunnel d’attacco a Gaza e mette Hamas a dura prova

Ben Caspit

23 ottobre 2020 – AL-MONITOR

L’esercito israeliano sa che la scoperta di un grosso tunnel terroristico di Hamas non significa che l’organizzazione abbandonerà i suoi tentativi di attaccare Israele.

*Nota redazionale: nell’articolo di Ben Caspit sono riportate alcune affermazioni che non condividiamo anche se il contenuto è interessante e degno di essere pubblicato.

Questa settimana è iniziata con una intensa attività militare israeliana lungo tutta la barriera di confine con la Striscia di Gaza, caratterizzata da un ammassamento di truppe, dispiegamento di carri armati Merkava Mark 4 e allestimento di punti di raduno e di stazionamento provvisori. Le IDF [forze armate israeliane, ndtr.] hanno anche chiuso le strade al traffico civile e hanno ordinato ai lavoratori agricoli di stare lontano dai campi lungo il confine. Chiaramente qualcosa era in corso sotto terra, anche se una calma carica di tensione aleggiava sopra. Il 20 ottobre, il segreto è stato svelato con l’annuncio da parte delle IDF che avevano identificato un tunnel di attacco di Hamas scavato da Gaza che si estendeva per alcune decine di metri in Israele. “Un tunnel terroristico molto, molto importante”, come è stato definito il giorno dopo dal tenente generale delle IDF Aviv Kochavi.

Il tunnel non è solo importante e di natura strategica, è anche il primo risultato conosciuto della massiccia barriera sotterranea che Israele ha scavato lungo il confine di Gaza fino a una profondità di diverse decine di metri. La “barriera”, come viene definita, è un’innovazione israeliana unica e altamente complessa progettata per porre fine all’arma dei tunnel strategici sviluppata e utilizzata da Hamas negli ultimi anni, dopo essersi resa conto che non sarebbe stata in grado di prevalere contro le IDF sulla terra, nell’aria o sul mare. Con la recente realizzazione quasi completa della barriera, Hamas è stata privata anche di questo teatro militare sotterraneo.

Il nuovo tunnel è stato scoperto dalla sofisticata tecnologia dei sensori montati sulla barriera in profondità nel sottosuolo. Il muro – del costo di centinaia di milioni di dollari – è dotato di strumenti tecnologici capaci di rilevare movimenti, perforazioni e qualsiasi tipo di lavoro svolto sotto terra. Il tunnel sembra essere stato rilevato il 18 ottobre. Il giorno successivo, è stata introdotta una potente attrezzatura di perforazione ed è stato trovato il tunnel che attraversava il confine e si avvicinava molto alla barriera costruita sul lato israeliano. “Il tunnel più importante che abbiamo visto fino ad oggi, sia in termini di profondità che di infrastrutture”, ha detto sotto anonimato ad Al-Monitor una fonte militare israeliana di alto livello.

Le IDF hanno rifiutato di rivelare ulteriori dettagli, ma si ritiene che Hamas abbia investito pesantemente in un tunnel più profondo e più ampio di quelli scavati in precedenza, dotandolo di elettricità, linee telefoniche e altri strumenti che lo hanno trasformato in un’arma strategica con un potenziale particolarmente letale, adatto all’invio di terroristi in Israele per organizzare attacchi e rapimenti. Hamas ha impiegato per lo scavo del tunnel dozzine di operai che hanno lavorato in gran segreto con turni di 24 ore su 24, 7 giorni su 7. “Il danno ad Hamas derivante dalla scoperta di questo tunnel è notevole”, ha detto in anonimato ad Al-Monitor un’importante fonte della sicurezza israeliana. “Denaro, energia, lavoro e tempo che avrebbero potuto essere investiti nella cura degli abitanti impoveriti di Gaza”.

Israele e Hamas stanno ora giocando al gatto con il topo. Hamas non ha rinunciato del tutto all’idea del tunnel, ma ha iniziato a predisporre delle alternative, come alianti che esplodono, velivoli Buckeye a motore per parapendio e altri mezzi per attraversare la recinzione che Israele ha costruito sulla terra lungo il confine.

Contemporaneamente Hamas continua a esaminare i punti deboli e i limiti della barriera. “Cercheranno di scavare in profondità dove pensano che la barriera non arrivi”, ha riferito ad Al-Monitor un alto ufficiale delle IDF in incognito. Tuttavia questo tipo di risposta non appare ovvia. In effetti scavare così in profondità sarebbe probabilmente estremamente difficile – per non dire un’impresa impossibile, data la posizione della falda acquifera costiera, il bacino idrico più importante di Israele situato nella regione a una profondità relativamente bassa.

Tuttavia, entrambe le parti si rendono conto che la barriera, proprio come il sistema antimissile Iron Dome, fornisce a Israele una difesa efficace ma non infallibile. Proprio come gli intercettori Iron Dome non possono garantire che tutti i missili lanciati da Gaza contro Israele siano deviati, così la barriera non è un ostacolo totalmente impenetrabile. I palestinesi continueranno a cercare modi per aggirarlo, soprattutto perché non hanno altra scelta.

Dopo che le IDF hanno individuato il tunnel e iniziato a esaminarlo, sia Hamas che Israele hanno precisato che il fatto non avrebbe compromesso i tentativi in corso di organizzare un cessate il fuoco a lungo termine tra le parti e mantenere la calma preservata negli ultimi mesi lungo il confine. Queste dichiarazioni si sono volatilizzate davanti a due razzi lanciati da Gaza verso la città di Ashkelon nella tarda giornata del 22 ottobre. Uno è stato intercettato dall’Iron Dome, l’altro è caduto su una zona disabitata. Qualche ora dopo l’aviazione israeliana ha bombardato obiettivi di Hamas a Gaza, in quello che è diventato un ciclo quasi di routine di lanci occasionali di razzi e rappresaglie. Tuttavia entrambe le parti sanno che se anche un solo razzo attraversasse lo scudo dell’intercettore e provocasse vittime israeliane, tutti gli accordi salterebbero.

Nel frattempo, anche se indirettamente negozia con Israele un cessate il fuoco, Hamas continua ad armarsi. Israele continua a seguire con grande preoccupazione i tentativi dell’organizzazione di migliorare la propria capacità militare nonostante sia isolata e sotto assedio sia da parte di Israele che dell’Egitto. “È proprio questo fatto che incoraggia gli ingegneri di Hamas a continuare a provare”, ha detto ad Al-Monitor un’altra importante fonte di sicurezza israeliana anonima. “A differenza di Hezbollah, che ottiene tutto pronto dall’Iran, Hamas non ha queste possibilità e deve prendere la via difficile”. Israele sta monitorando da vicino i nuovi test missilistici di Hamas lungo la costa di Gaza e i continui tentativi del gruppo islamista di ottenere capacità navali e sviluppare esplosivi evoluti in grado di violare la barriera di confine.

Allo stesso tempo, le IDF continuano a sostenere pienamente gli sforzi per migliorare l’economia di Gaza e sviluppare progetti di infrastrutture civili. Sostengono inoltre un incremento del numero di abitanti di Gaza autorizzati a lavorare in Israele nel tentativo di affrontare la dilagante disoccupazione dell’enclave, anche se devono affrontare un difficile dilemma sul consentire al Qatar di continuare a fornire ad Hamas massicce forniture di denaro per garantirne la sopravvivenza. “Sappiamo che parte del cemento che va a Gaza [per l’edilizia civile] viene utilizzato per costruire tunnel”, ha detto la seconda fonte della sicurezza israeliana. “Ancora non abbiamo su questo un controllo adeguato. Sappiamo che il tunnel scoperto questa settimana non è l’ultimo, ma speriamo che il miglioramento economico nella Striscia di Gaza migliori la stabilità. Le persone che lavorano per vivere, non scavano tunnel”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)