Diffondere il virus dell’occupazione: lo sputo come arma nelle mani di Israele coloniale

Ramzy Baroud

14 aprile 2020 – Middle East Monitor

Sputare addosso a qualcuno è un insulto universale. In Israele, tuttavia, sputare sui palestinesi ha una storia completamente diversa.

Ora che sappiamo che il coronavirus mortale può essere trasmesso attraverso goccioline di saliva, i soldati israeliani e i coloni ebrei illegali sono duramente impegnati a sputare addosso al maggior numero di palestinesi, alle loro macchine, maniglie di porte ecc.

Se la cosa ti sembra troppo surreale e ripugnante, allora potrebbe essere che sei meno informato di quanto pensi della particolare natura del colonialismo israeliano.

In tutta onestà, gli israeliani sputano addosso ai palestinesi da molto prima che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ci tenesse lezioni sulla natura elusiva della malattia COVID-19 e sulla necessità cruciale di esercitare il “distanziamento sociale”.

In effetti, se cerchi su Google la frase “sputi israeliani”, verrai inondato dai molti interessanti risultati della ricerca, come “Giudice di Gerusalemme agli ebrei: non sputate sui cristiani”, “I cristiani di Gerusalemme vogliono che gli ebrei smettano di sputare su di loro”, e il più recente,” I coloni israeliani che sputano sulle auto palestinesi sollevano preoccupazioni per il tentativo di diffondere il coronavirus”.

È interessante notare che nel corso degli anni la maggior parte di questa copertura giornalistica è stata fatta dai media israeliani, mentre riceve scarsa attenzione da parte dei media occidentali.

Si potrebbe facilmente classificare tali atti degradanti come un ulteriore esempio del falso senso di superiorità degli israeliani sui palestinesi. Ma il deliberato tentativo di infettare con coronavirus i palestinesi sotto occupazione è ben più che un oltraggio, anche per un regime di insediamento coloniale.

Due particolari elementi di questa storia richiedono un approfondimento.

In primo luogo, l’atto di sputare sui palestinesi e le loro proprietà, sia da parte dei soldati dell’occupazione che dei coloni, è stato ampiamente segnalato in molte parti della Palestina occupata.

Ciò significa che, nel giro di pochi giorni, la cultura dell’esercito e dei coloni israeliani ha rapidamente adattato il razzismo preesistente sino ad usare un virus mortale come strumento finale per soggiogare e nuocere ai palestinesi, sia fisicamente che simbolicamente.

In secondo luogo, [è notevole] il grado di ignoranza e buffoneria che accompagna questi atti razzisti e umilianti.

Il paradigma di potere che ha governato il rapporto tra Israele colonialista e palestinesi colonizzati ha seguito finora un corso tipico, secondo cui le cattive azioni di Israele rimangono per lo più impunite.

Quegli israeliani razzisti che stanno deliberatamente cercando di infettare i palestinesi con il COVID-19 pensano e si comportano non solo da criminali, ma anche incredibilmente da sciocchi.

Quando i soldati israeliani arrestano o picchiano gli attivisti palestinesi, hanno la stessa probabilità di contrarre il coronavirus quanto di trasmetterlo.

Ma, naturalmente, Israele sta facendo molto di più per complicare, se non bloccare del tutto gli sforzi palestinesi per contenere la diffusione del coronavirus.

Il 23 marzo un lavoratore palestinese, Malek Jayousi, è stato espulso dalle autorità israeliane al checkpoint militare di Beit Sira, vicino a Ramallah, perché sospettato di avere il coronavirus.

Un filmato del povero lavoratore rannicchiato vicino al checkpoint, dopo essere stato “scaricato come spazzatura”, è diventato virale sui social media.

Per scioccante che fosse quell’immagine, si è ripetuta in altre parti della Cisgiordania.

Ovviamente i lavoratori palestinesi non erano stati testati per il virus, ma avevano semplicemente manifestato sintomi para-influenzali, abbastanza da far sì che Israele se ne liberasse come se la loro vita non avesse importanza.

Due settimane dopo, il governatore palestinese della città occupata di Qalqiliya, Rafi ‘Rawajbeh, ha detto ai giornalisti che l’esercito israeliano avrebbe aperto diversi tunnel per le acque reflue a nord della città palestinese, pensando di impiegare di nuovo operai palestinesi in Cisgiordania senza previo coordinamento con l’Autorità Nazionale Palestinese.

Senza fare i test a quelle centinaia di lavoratori irregolari, l’Autorità Nazionale Palestinese, che già opera con una capacità limitata nell’affrontare la malattia, si troverà nell’impossibilità di contenere la diffusione del virus.

Le denunce palestinesi del deliberato tentativo di Israele di favorire la diffusione del coronavirus in Palestina sono state ulteriormente confermate da Euro-med Monitor [Ong per la difesa dei diritti umani, ndtr.] di Ginevra, che il 31 marzo ha invitato la comunità internazionale a indagare sul “comportamento sospetto” dei soldati israeliani e dei coloni ebrei.

Durante i raid dell’esercito israeliano contro case palestinesi, i soldati “sputano contro macchine parcheggiate, bancomat e serrature di negozi, il che fa sospettare si tratti di tentativi deliberati di diffondere il virus e causare panico nella società palestinese”, ha dichiarato Euro-Med.

L’articolo 56 della Quarta Convenzione di Ginevra non dice nulla sull’obbligo per i membri della potenza occupante di smettere di sputare sulle comunità occupate e soggiogate; molto probabilmente perché è previsto che un comportamento così sordido sia evidentemente inaccettabile e non richieda uno specifico riferimento testuale.

Tuttavia l’articolo 56, come ha recentemente sottolineato Michael Lynk, relatore speciale delle Nazioni Unite per la situazione dei diritti umani nel territorio palestinese, impone a Israele, potenza occupante, di “garantire che siano utilizzati tutti i mezzi preventivi necessari e disponibili per ‘combattere la diffusione di malattie contagiose ed epidemie.’”

Tuttavia Israele sta drammaticamente venendo meno al suo obbligo giuridico.

Persino il sindaco israeliano di Gerusalemme, Moshe Leon, ha sottolineato la disuguaglianza nella risposta ufficiale israeliana alla diffusione del coronavirus.

Nella sua lettera del 7 aprile al direttore generale del Ministero della Sanità israeliano Moshe Bar Siman Tov, Leon ha messo in guardia contro “la grave carenza di attrezzature mediche negli ospedali (palestinesi) a Gerusalemme est (occupata), in particolare di attrezzature e dispositivi di protezione per condurre i test del coronavirus.

Al di là delle gravi carenze negli ospedali di Gerusalemme est e in Cisgiordania, la situazione nella Striscia di Gaza assediata è semplicemente disastrosa; il Ministero della Sanità di Gaza ha dichiarato il 9 aprile di aver esaurito tutti i kit per il test del coronavirus, che peraltro non erano mai stati più di poche centinaia.

Ciò significa che i numerosi abitanti di Gaza già in quarantena non saranno rilasciati in un prossimo futuro e che i nuovi casi non verranno individuati e tanto meno guariti.

Nelle ultime settimane abbiamo spesso segnalato questo terrificante scenario prossimo venturo, specialmente perché Israele usa il coronavirus come occasione per isolare ulteriormente i palestinesi e barattare potenziali aiuti umanitari con concessioni politiche.

Senza un intervento immediato e sostenibile da parte della comunità internazionale, la Palestina occupata, e specialmente Gaza impoverita e assediata, potrebbero diventare un focolaio di COVID-19 per gli anni a venire.

Israele non cederà mai senza un intervento internazionale. Se non sarà chiamata a risponderne, neppure un virus mortale cambierà mai le abitudini di una vile occupazione militare.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Hamas rifiuta le condizioni israeliane per gli aiuti a Gaza contro il coronavirus

Adnan Abu Amer

10 aprile 2020 Middle East Monitor

Nei giorni scorsi, Hamas e Israele hanno avuto un evidente scontro sulla fornitura di assistenza medica alla Striscia di Gaza per contrastare il coronavirus, poiché come condizione dell’assistenza medica Israele ha posto il ritorno dei suoi soldati catturati nella guerra del 2014. I media israeliani hanno chiesto a Hamas di liberare i soldati in cambio degli aiuti per combattere il coronavirus.

Da parte sua, Hamas ha annunciato tramite il suo leader a Gaza, Yahya Al-Sinwar, che otterrà quanto serve alle necessità umanitarie con la forza, minacciando che “sei milioni di israeliani potrebbero smettere di respirare” se Israele non sarà disposto a rifornire la Striscia di Gaza dei respiratori necessari ai pazienti con coronavirus.

Al-Sinwar ha lasciato anche intendere che Hamas potrebbe fare una concessione in merito all’accordo di scambio se sarà permesso l’ingresso di forniture per migliorare le condizioni di vita e l’assistenza medica a Gaza nonché il rilascio dei prigionieri palestinesi anziani, malati, minori e donne. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha risposto incaricando Yaron Bloom, coordinatore israeliano dei prigionieri di guerra e prigionieri israeliani MIA [missing in action, dispersi durante una azione, ndtr], di avviare i colloqui necessari per riprendere il negoziato di scambio di prigionieri con Hamas.

Questo tira e molla significa che sarà possibile un incremento di violenza tra Hamas e Israele, perché le fazioni palestinesi cercheranno di fare pressione su Israele affinché conceda l’ingresso di forniture mediche e assistenza sanitaria a Gaza per combattere il coronavirus. Alcuni giorni fa sono stati lanciati dei missili da Gaza contro Israele e questo solleva degli interrogativi, se entrambe le parti si indirizzeranno ad un’escalation militare o se raggiungeranno un accordo di scambio. Assisteremo a uno scontro militare non voluto durante questa disastrosa situazione sanitaria a Gaza e in Israele, o alla fine avranno luogo negoziati per raggiungere un nuovo accordo di scambio di prigionieri tra le parti?

Alcuni giorni fa l’esercito israeliano ha annunciato di aver bombardato le postazioni di Hamas nella Striscia di Gaza, in risposta a un missile sparato contro gli insediamenti intorno a Gaza. Migliaia di israeliani si sono precipitati nei rifugi, anche se era la prima aggressione dall’inizio dell’emergenza coronavirus a febbraio, con palestinesi e israeliani chiusi nelle loro case per fermarne la diffusione.

Nessuna delle fazioni palestinesi ha rivendicato il lancio di missili, ma il bombardamento israeliano delle postazioni di Hamas è per via del controllo di Hamas su Gaza. Le fazioni palestinesi hanno affermato che Israele stesse approfittando della preoccupazione del mondo nella lotta al coronavirus per intensificare il blocco su Gaza.

L’atmosfera nella Striscia di Gaza segnala che la crisi sanitaria, dopo l’individuazione di numerosi casi di coronavirus, potrebbe spingere Hamas a fare pressione su Israele perché allenti il blocco su Gaza. Alcuni gruppi israeliani hanno profilato un cupo scenario simile al Giorno del Giudizio, con Gaza che esplode in faccia a Israele un diffuso contagio di coronavirus.

Hamas ha ripetutamente affermato che sotto il blocco israeliano Gaza vive in condizioni catastrofiche e che solo Israele è responsabile del suo prolungamento. Hamas è in contatto con dei mediatori per costringere Israele a revocare il blocco su Gaza, alla luce della pandemia di coronavirus che aggrava la situazione – segnalando che il lungo blocco di Gaza non favorisce il mantenimento della calma nei sistemi di vigilanza. Hamas non ha esplicitamente ammesso la sua responsabilità nel lancio di missili contro Israele, ma non ha negato, ammantando la questione di mistero e ambiguità.

La Commissione di Monitoraggio del governo guidato da Hamas nella Striscia di Gaza ha dichiarato che le autorità governative di Gaza hanno bisogno di supporto dall’interno e dall’esterno per affrontare il virus. Ha annunciato la distribuzione di un milione di dollari in fondi di emergenza urgenti a 10.000 famiglie a basso reddito colpite dai provvedimenti, e l’assunzione di 300 nuovi membri del personale per il Ministero della Sanità di Gaza. Il leader di Hamas Ismail Haniyeh ha discusso con alcuni partiti palestinesi, regionali e internazionali, gli effetti della diffusione del coronavirus in Palestina.

La posizione palestinese ammette che Hamas e Israele non hanno interesse a un’escalation militare sotto il coronavirus, e il lancio del missile da Gaza potrebbe far parte del caos nella sicurezza creato dai militanti armati che Hamas sta cercando di controllare. Inoltre, Israele teme la diffusione del virus a Gaza per paura che la comunità internazionale lo ritenga responsabile di Gaza; potrebbe quindi concedere alcune agevolazioni, come consentire l’ingresso di attrezzature sanitarie e forniture mediche di prevenzione, nonché mobilitarsi per un sostegno finanziario alla paralisi economica di Gaza a seguito allo scoppio della pandemia.

Le principali richieste di Gaza per affrontare il coronavirus sono forniture mediche: respiratori, kit per testare il virus, provviste alimentari e aiuti per gli abitanti di Gaza che soffrono i provvedimenti presi per combattere la pandemia.

Vale la pena notare che Gaza è in grado di gestire solo 100-150 casi di coronavirus, perché il suo sistema sanitario è fragile e non può prendere in carico grandi numeri. Ha uno scarso numero di ventilatori e letti per terapia intensiva, nonché una carenza di farmaci del 39%.

Anche se la recente escalation a Gaza potrebbe non essere collegata a una specifica organizzazione palestinese, potrebbe essere un messaggio che segnala che Israele ha la responsabilità di affrontare esaustivamente la situazione sanitaria a Gaza, dove ci sarebbe una grande catastrofe se il coronavirus si diffondesse tra la gente. Chiunque abbia lanciato i missili, sembra aver chiesto a Israele di revocare il blocco su Gaza. Israele è interessato a soddisfare il bisogno di salute e di vita di Gaza, perché se la pandemia si diffonde tra i palestinesi, li spingerà a lanciare e far scoppiare decine, se non centinaia, di missili. Potrebbero anche affollarsi al confine Israele-Gaza per salvarsi dalla pandemia.

Con il mantenimento delle prescrizioni per affrontare il coronavirus a Gaza, le autorità governative di Gaza affiliate ad Hamas stanno, tra le altre misure, sottoponendo i viaggiatori che ritornano a Gaza attraverso il valico di Rafah con l’Egitto e il valico di Beit Hanoun con Israele ad una quarantena obbligatoria di 21 giorni. Hanno anche chiuso tutte le moschee, università, scuole, mercati, sale per matrimoni e ristoranti fino a nuovo avviso. Stanno anche studiando la possibilità di imporre un coprifuoco completo, oltre a chiedere ai palestinesi di rimanere sempre in casa.

Tutte queste misure hanno contribuito alla crescente sofferenza di gruppi vulnerabili come autisti, impiegati di sale per matrimoni, ristoranti e bar. Forse la sovvenzione mensile del Qatar di 100 dollari distribuita a 100.000 famiglie bisognose a Gaza riduce relativamente l’effetto dell’assedio israeliano e allevia il deterioramento della situazione economica di Gaza; la sovvenzione del Qatar faceva parte degli accordi umanitari concordati tra Hamas e Israele nell’ottobre 2018.

In questi giorni, il Qatar ha annunciato che avrebbe fornito 150 milioni di dollari in sostegno finanziario alla Striscia di Gaza per un periodo di sei mesi, per alleviare le sofferenze dei palestinesi e per aiutare a combattere il coronavirus, senza chiarire la natura della distribuzione della sovvenzione né i beneficiari.

Nel frattempo, il Ministero dello Sviluppo Sociale di Gaza ha fornito tutti i pasti a coloro che sono stati messi in quarantena nei centri sanitari, per un totale di 6.000 pasti al giorno. Il Ministero fornisce anche le risorse necessarie ai soggetti in quarantena, come frigoriferi, elettrodomestici e utensili per la casa. Il Ministero ha anche registrato il numero di famiglie colpite dallo stato di emergenza imposto dal coronavirus; queste famiglie saranno raggiunte e aiutate.

Tutto ciò conferma peraltro che le condizioni sanitarie ed economiche a Gaza sono disastrose, le necessità fondamentali dei palestinesi non sono coperte e ciò che le agenzie internazionali e l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) forniscono è solo una piccola parte del necessario. Le agenzie governative di Gaza forniscono cibo e bevande a 1.600 palestinesi in centri di quarantena; queste agenzie soffrono da tempo di un grave deficit economico, che richiede un’urgente iniezione di finanze.

Il lancio di un missile da Gaza verso Israele potrebbe essere il messaggio palestinese a Israele che le condizioni a Gaza non sono accettabili e che qualsiasi tentativo israeliano di esimersi dal provvedere alle richieste umanitarie e sanitarie di Gaza potrebbe significare che nel prossimo futuro i missili aumenteranno. Tuttavia, è improbabile che si arrivi ad uno scontro a pieno titolo tra Hamas e Israele, piuttosto ad un processo di progressiva intensità, per diversi giorni, se il virus si diffondesse tragicamente a Gaza.

Middle East Monitor ha appreso da fonti palestinesi che Hamas ha inviato un messaggio a Israele attraverso dei mediatori regionali e internazionali: “Hamas considera Israele direttamente responsabile del deterioramento delle condizioni di vita e salute a Gaza e non rimarrà inerte di fronte alla diffusione del coronavirus, perché Hamas crede che Israele sia tenuto a agire per impedire il collasso del sistema sanitario, con aiuti diretti o attraverso l’ANP o le agenzie internazionali “.

Hamas non ha rivendicato il lancio di missili contro Israele e potrebbe non essere nel suo interesse impegnarsi in un esteso confronto militare. Tuttavia, l’attuale peggioramento delle condizioni nella Striscia di Gaza, l’aumento dei casi di coronavirus, la mancanza di attrezzature mediche sufficienti per esaminare i pazienti e la mancanza di supporto finanziario necessario per aiutare coloro che non possono lavorare in quanto costretti a rimanere a casa, possono intensificare l’effetto a catena. Hamas potrebbe decidere un incremento di violenza contro Israele per costringerlo a fornire le scorte insufficienti a Gaza. Hamas pensa che Israele corrisponderà alle sue richieste, per essere libero di affrontare la diffusione su larga scala del coronavirus tra gli israeliani.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dallinglese di Luciana Galliano)




Nel pieno dell’epidemia da coronavirus i soldati israeliani gettano immondizia e sputano sui veicoli palestinesi in Cisgiordania

6 aprile 2020 – Palestine Chronicle

Secondo l’agenzia di stampa palestinese WAFA, mentre i palestinesi cercano di combattere la diffusione della letale pandemia da coronavirus, oggi nella città della Cisgiordania meridionale di Beit Ummar soldati israeliani hanno scaricato rifiuti contaminati ed hanno sputato sulle portiere di veicoli e sulle porte delle case.

L’attivista locale Muhammad Awad ha detto alla WAFA che un folto gruppo di soldati israeliani ha fatto irruzione in una zona di Beit Ummar – situata vicino al blocco di colonie illegali di Gush Etzion – ed ha gettato in mezzo alle case del villaggio vetri contaminati con una sostanza sconosciuta, nonché rifiuti, siringhe e guanti usati.

I soldati israeliani hanno anche sputato sulle macchine e sulle porte delle case ed insultato gli abitanti con termini razzisti, ha detto Awad, sollevando il sospetto che i soldati vogliano intenzionalmente diffondere il coronavirus tra i civili palestinesi di quella zona.

Dopo che i soldati se ne sono andati dalla città, i volontari locali del Comitato di Emergenza di Beit Ummar hanno sterilizzato le due zone e distrutto e bruciato tutto ciò che i soldati avevano gettato.

Il 31 marzo l’Euro-Med Monitor [organizzazione indipendente per la protezione dei diritti umani, ndtr.] con sede a Ginevra ha chiesto alla comunità internazionale di proteggere i palestinesi e costringere i soldati israeliani a porre fine alle incursioni nelle città e cittadine, che mettono a rischio le misure preventive messe in atto dall’Autorità Nazionale Palestinese per controllare l’epidemia da coronavirus.

Ha chiesto inoltre di indagare sul comportamento sospetto di molti soldati e coloni israeliani, che sembra essere un tentativo di diffondere il contagio, e di far sì che quanti ne sono stati responsabili rispondano dei loro atti.

Secondo il Ministero della Sanità palestinese stamattina sono stati confermati 15 nuovi casi di coronavirus in Cisgiordania, che hanno portato il totale in Palestina a 252.

(Palestine Chronicle, WAFA, reti sociali)




Deir Yassin, 9 aprile 1948/2020 Il diritto alla memoria.

Dirar Tafeche,

8 aprile 2020.

A Gerusalemme ci sono due colline affacciate l’una di fronte all’altra che raccontano due diverse storie. La prima è famosa in tutto il mondo, viene visitata anche da alcuni capi di Stato e sulla quale è situato lo Yad Vashem, simbolo della condanna dei crimini contro l’umanità. Sulla seconda, oggi, è ubicata la cittadina israeliana Kfar Sha’ul, dove un giorno c’era il villaggio di Deir Yassin.

Le due colline sono separate nello spazio da una vallata, ma anche nel tempo, in quanto ognuna racconta dei fatti generati da contesti differenti. Cosicché non esistono paragoni, anche se Edward Said, saggista palestinese, afferma che ce n’è uno: ebrei e palestinesi, nella loro tragedia, sono stati lasciati da soli. La sofferenza degli ebrei è ricordata e celebrata. Invece non una targa, una lapide o un monumento che ricordi il massacro di Deir Yassin: mancanza imposta dalla legge dello Stato di Israele. E’ un sentenza che nega ed elimina deliberatamente un evento di commemorazione. Il messaggio “mai più” atrocità e barbarie per lo Stato di Israele, vale per gli uni e non per gli “altri”. Ripeto, è la legge dello Stato di Israele che vieta ogni celebrazione della Nakba (catastrofe) perchè Palestina e palestinesi finiscano nell’oblio della storia.  Il nome del villaggio deriva dall’esistenza di un Deir (che tradotto dall’arabo, significa monastero) e da una tomba di un dotto musulmano di nome Yassin. Le case (nel 1944 erano 144) erano state edificate con  pietre massicce e separate da vie strette e curve. Alcune di queste case si possono vedere ancora oggi. La popolazione (nel 1948 c’erano 708 abitanti) era in buona parte benestante, lavorava la terra nella vallata, ricca di due sorgenti che permettevano di coltivare olivi, grano e mandorle. Alcuni abitanti, data la posizione strategica della vicinanza alla strada di collegamento tra Giaffa Gerusalemme, erano commercianti. Altri, soprattutto ai tempi del mandato britannico, erano famosi tagliapietre nelle ricche quattro cave che fornivano pietre solide e buon guadagno.

Gli scolari, all’inizio, studiavano nella scuole della vicina Lifta, ma nel 1943 Deir Yassin si arricchì di due scuole, una femminile e l’altra maschile, e di una moschea. Nel 1906, ad ovest nacque la colonia Kfar Sha’ul e più tardi, a sud est, Yefe Nof e Beit HaKerem. Attualmente la collina è letteralmente circondata da molte altre cittadine israeliane. I rapporti tra palestinesi ed ebrei, prima della dichiarazione di Balfour nel 1917 che promise agli ebrei un focolare nazionale in Palestina, erano di buon vicinato, con scambi commerciali. Man mano, quando divenne chiara l’intenzione sionista di costruire uno Stato ebraico, l’atmosfera pacifica si incrinò, fino a rompersi durante la rivolta palestinese del 1933 contro gli inglesi che assicurarono la migrazione ebraica in Palestina, per essere poi ripresa dopo che la Gran Bretagna sedò la rivolta nel 1939.

Il massacro

Il villaggio è stato teatro di un massacro, nonostante il trattato di non belligeranza stipulato tra i notabili del villaggio di Deir Yassin e i capi dell’ Haganah [la principale milizia sionista]. L’attacco cominciò all’alba del 9 aprile 1948. Fu opera delle due bande ebraiche del IZL (Irgun Zvai Leumi) capeggiate dal futuro Primo Ministro e Premio per la Pace Menachem Begin, e dalla banda Stern di Yizhak Shamir, anch’egli futuro Primo Ministro. Le due squadre entrarono nel villaggio alle 4.00 del mattino, con lancio di bombe da un aeroplano, seguite dall’invasione di uomini e carri armati. 120 uomini armati con mitragliatrici avanzarono nel villaggio lanciando bombe a mano nelle finestre e minando la base di ogni edificio. Gli abitanti, barricati nelle case, riuscirono a fermare l’attacco per breve tempo ma la resistenza finì presto per le scarse munizioni e per l’arrivo, in aiuto agli assalitori, dell’unità del Palmach, compagnia d’élite dell’ Haganah, futuro esercito di Israele. “Il comandante [ dell’ Haganah] Ya’akov Vaag portò i suoi uomini a Deir Yassin e cominciò a bombardare il villaggio con i mortai. Eliminata la resistenza, Meir Pa’il, l’ufficiale di collegamento dell’ Haganà che accompagnava la “missione”, ordinò a Ya’akov Vaag di ritirare i suoi uomini e di  lasciare il seguito nelle mani degli uomini dell’Irgun e della Stern”… “Gli abitanti vengono rastrellati casa per casa e uccisi. Decine di cadaveri vengono gettati nel pozzo nella piazza del villaggio”.(1)

Quel 9 aprile, 120 assalitori eseguirono il massacro uccidendo 254  abitanti inermi, secondo la Croce Rossa a Gerusalemme, giunta il giorno dopo sul luogo. Molti furono i cadaveri per terra e sotto le macerie delle case. I pochi sopravvissuti si rifugiarono a Gerusalemme, Jerico e Hebron. Alle cinque di sera, alcuni prigionieri ammanettati e scalzi, furono caricati su camionette e portati a Gerusalemme come vittoria, gridando slogan trionfalistici per le vie della città. Lo storico israeliano Benny Morris, nel libro Vittime [Rizzoli 2002,  pgg. 265-266] scrive: “I maschi adulti vennero portati in città su alcuni camion, fatti sfilare per le strade, [di Gerusalemme] riportati al punto di partenza e fucilati con mitragliatrici e fucili mitragliatori. Prima di caricarli sui camion, gli uomini dell’ IZL e della Lehi [acronimo di Lohamei Herut Israel, un gruppo paramilitare terroristico sionista, ndr] perquisirono donne, uomini e bambini e presero loro denaro e gioielli. Il trattamento riservato a costoro fu particolarmente barbaro, con calci, pressioni con le canne dei fucili, sputi e insulti (alcuni abitanti di Givat Shaul parteciparono alle sevizie)”. “Il servizio informazione dell’IDF (Israel Defense Forces) definì Deir Yassin ,” un fattore decisivo di accelerazione della fuga in massa”. ll massacro di Deir Yassin non è tra i più grandi commessi a danno dei civili palestinesi, ma servì a creare panico e paura in tutta la Palestina, costringendo gli abitanti a lasciare le loro case nel 1948.

Le testimonianze

La sistematica distruzione di più di 400 villaggi e la cacciata di 700/800mila palestinesi dalle loro case faceva parte del Piano Dalet, decretato dall’ Haganah, con la prima operazione che prese il nome di Operazione Nachshon ed era diretta precisamente ad occupare i villaggi rurali nell’area delle montagne di Gerusalemme. Al riguardo, ci sono molte testimonianze nei libri degli storici arabi, israeliani e di altri Paesi, alcuni dei quali sono pubblicati in Internet e sul sito “palestineremembered.com”. Credo però che la più efficace, netta e idonea al caso, sia la dichiarazione degli stessi esecutori, documentata in un lungo ed interessante articolo di Ofer Aderet nel quotidiano Haaretz, che consiglio di leggere per la loro consapevolezza della finalità e per la crudeltà dell’esecuzione. (2) Per essere breve, solo due stralci da quell’articolo al quale rimando per l’eventuale lettura: “Un giovane legato ad un albero e dato alle fiamme. Una donna ed un vecchio vengono fucilati alla schiena. Ragazze messe al muro e colpite con una pistola”; “Abbiamo confiscato un sacco di soldi, gioielli d’argento e d’oro sono caduti nelle nostre mani”. Invece dell’articolo di Aderet preferisco la citazione di un ragazzino documentata da Ilan Pappe, storico israeliano, nel libro “La  Pulizia Etnica della Palestina” [ Fazi Ed., 2008, pag.117]: “Fahim Zaydan, che a quei tempi aveva dodici anni, così ricorda l’esecuzione della sua famiglia, avvenuta davanti a suoi occhi: ‘Ci portarono fuori uno dopo l’altro; spararono a un uomo anziano e quando una delle sue figlie si mise a piangere spararono anche a lei. Poi chiamarono mio fratello Muhammed e gli spararono davanti a noi, e quando mia madre gridò chinandosi su di lui, con in braccio la mia sorellina Hunda che stava ancora allattando, spararono anche a lei.’ Spararono allo stesso Fahim, che fu fortunato a sopravvivere, nonostante le ferite”.

L’Operazione Nachshon, dopo Deir Yassin, continuò nei villaggi vicini: Qalunia, Sais, Beit Surik e Biddo. Tuttavia, dopo alcuni giorni “cinquantatre bambini orfani furono trovati dalla signorina Hind Husseini lungo le mura della Città Vecchia, e portati a casa sua, che sarebbe diventata l’orfanotrofio di Dar El-Tifl El-Arabi(“casa del bambino arabo”)(3).  Questo orfanotrofio esiste ancora oggi.

Deir Yassin oggi

L’Operazione Nachshon è stata progettata dall’ Haganà, futuro esercito di Israele e mirava al controllo totale dei villaggi del distretto di Gerusalemme per la loro posizione strategica di vicinanza alla strada Giaffa-Gerusalemme. Dopo il massacro, le bande ebraiche occuparono il villaggio, ormai evacuato e liberato da palestinesi. Qua e là, restano in piedi alcuni case oggi usate da israeliani ebrei come abitazioni e magazzini commerciali. Alla periferia, nei campi, qualche albero d’olivo sommerso dall’erba, come anche il cimitero dove le lapidi, attestano alcuni defunti in data remota.

Conclusione

“Il popolo che non ha memoria, non ha storia”.

Deir Yassin è stato un evento molto doloroso e in gran parte è stato sepolto da Israele e non dai palestinesi. Oggi questi ultimi, a dispetto di ogni avversità, stanno cercando di far rinascere la loro storia e di promuovere il lato umano, politico e culturale di un popolo, vittima del razzismo sionista portato avanti da un Stato che si dichiara democratico. Attraverso associazioni, iniziative con presentazioni di documenti, dibattiti, filmati, mostre e quant’altro, si vuole rianimare la memoria per accrescere la consapevolezza dell’ingiustizia subita dai palestinesi per mano delle bande ebraiche. Tutte le iniziative sono intimamente connesse a due principi: il Diritto al Ritorno e il Diritto alla Memoria. In entrambi i casi, Israele è sempre stata un impedimento e un oppressore.

(1)- Dal libro “Palestina” pag. 60. edizione Zambon, 2010.

(2)- Haaretz del 17.7.2017, titolo: Testimonies From the Censored Deir Yassin Massacre: ‘They Piled Bodies and Burned Them’ di Ofer Aderet.

(3)- Dal libro (pubblicato in arabo in palestineremembered.com) “La Nakba e il Paradiso Perduto” di Aref el Aref, storico palestinese e sindaco di Beer Sheba nel ‘48.




Adolescente palestinese ucciso durante un tentativo del suo villaggio di difendere una montagna dai coloni israeliani

Yumna Patel 

11 marzo 2020 – Mondoweiss

Per i palestinesi della zona nord della Cisgiordania occupata mettere a rischio la vita per difendere la propria terra fa semplicemente parte dell’esistenza.

Innumerevoli palestinesi hanno pagato il prezzo più alto per aver tentato di respingere i coloni e i soldati dalle loro città, cittadine e villaggi. Mercoledì un altro palestinese si è aggiunto a questa lista.

Mercoledì il quindicenne Mohammed Abdel Karim Hamayel, ore dopo essere stato colpito dalle forze israeliane insieme a decine di altri giovani della sua cittadina di Beita, a sud di Nablus, è deceduto in seguito alle ferite.

Hamayel è stato colpito quando decine di soldati israeliani armati hanno invaso Jabal al-Arma, o la montagna di Al-Arma, nei dintorni di Beita, ed hanno iniziato a scontrarsi violentemente contro una folla di palestinesi che stavano facendo un sit-in sulla montagna.

A quanto pare i militari avrebbero usato proiettili veri, pallottole ricoperte di gomma e lacrimogeni per reprimere i manifestanti, che per settimane hanno inscenato dei sit in su al-Arma nel tentativo collettivo di scacciare i coloni che hanno cercato di prendere il controllo della montagna.

Informazioni ufficiali del ministero della Salute indicano che durante l’attacco oltre 100 palestinesi sono rimasti feriti, tra cui due in modo grave da proiettili veri.

Altre decine, compreso il ministro dell’ANP Walid Assaf, che si occupa della resistenza popolare contro il muro e le colonie in Cisgiordania, sono stati asfissiati e curati per aver inalato gas lacrimogeno.

Settimane di scontri

L’uccisione di Hamayel e la violenta repressione dei manifestanti di mercoledì mattina sono state il culmine di settimane di proteste sulla montagna e di scontri tra persone del luogo, soldati e coloni israeliani.

Circa due settimane fa coloni del notoriamente violento insediamento di Itamar hanno pubblicato un appello sulle reti sociali per occupare la montagna, che pensano sia un antico luogo religioso ebraico, e prenderne il controllo.

Dopo essere venuti a conoscenza dei progetti dei coloni, decine di uomini e giovani di Beita sono andati sulla montagna ed hanno eretto tende di protesta per rimarcare la loro presenza come deterrente contro i coloni.

Benché il gruppo di coloni non abbia ricevuto il permesso dell’esercito israeliano di andare sulla montagna, un piccolo numero di giovani coloni ha deciso di comunque proseguire.

C’erano circa 10 coloni e un reparto di soldati che sono venuti a proteggerli e a scortarli su per la montagna,” ha detto a Mondoweiss Minwer Abu al-Abed, un attivista del posto di 56 anni.

Secondo al-Abed, i soldati hanno inutilmente cercato di scortare i coloni sulla montagna, sparando lungo il percorso proiettili veri, pallottole ricoperte di gomma e lacrimogeni.

I coloni hanno tentato una conquista violenta della nostra terra, ma ovviamente loro (i soldati) erano là solo per sparare ai palestinesi,” dice al-Abed.

Video degli scontri, diventati virali sulle reti sociali palestinesi, mostrano gruppi di giovani palestinesi lanciare pietre contro i coloni e i soldati finché questi ultimi sono stati obbligati a lasciare la zona.

Nonostante quel giorno si siano registrati più di 90 feriti, il villaggio l’ha festeggiata come una vittoria. “Abbiamo fatto sapere che ci siamo e abbiamo difeso la nostra terra contro i coloni,” afferma al-Abed, aggiungendo orgogliosamente che “neppure una colonia è stata costruita sulla terra di Beita, cosa che attribuisce alla fermezza degli abitanti.

Tuttavia i coloni hanno fatto altri due tentativi di impossessarsi della montagna, ogni volta con maggior potenza di fuoco e l’appoggio dell’esercito israeliano.

Il 2 marzo un altro fallito tentativo ha portato al ferimento di decine di palestinesi, di cui due feriti da proiettili veri.

Il terzo tentativo, mortale, è avvenuto mercoledì [11 marzo] mattina, poche ore dopo che Israele ha compiuto una massiccia retata nel villaggio, e, benché i coloni non siano riusciti ad impossessarsi della montagna, è finito con la morte di un ragazzino.

Non lasceremo mai questa terra”

Scontri tra coloni e palestinesi, come l’ultimo tentativo di impossessarsi della terra di questi ultimi, non sono rari in Cisgiordania, soprattutto a Nablus.

Colonie come Yitzhar, Itamar e Brakha sono diventati nomi familiari nei vicini villaggi palestinesi, che affrontano continui attacchi dei coloni contro la loro terra, le loro attività agricole, il loro bestiame, le loro case e le persone.

Quindi, quando i coloni hanno messo gli occhi su al-Arma, gli abitanti di Beita non sono rimasti sorpresi. “La lotta per difendere al-Arma non è nuova,” dice al-Abed a Mondoweiss, aggiungendo che i coloni hanno tentato per decenni di occupare la cima della collina, addirittura fin dagli anni ’80. “Pensano che ci sia un sito ebraico sulla montagna e che ciò dia loro diritti su di essa,” sostiene. “Ma lì ci sono rovine cananee, che dimostrano il nostro legame con questa terra.”

Secondo al-Abed nel corso degli anni centinaia di abitanti di Beita sono stati arrestati, molti per le proteste a Jabal al-Arma. Altri due, dice, sono stati resi martiri mentre cercavano di difendere la cima della montagna.

Questa montagna non ha solo un significato storico per noi, ma è importante per la vita quotidiana della gente di Beita,” afferma al-Abed, aggiungendo che gli abitanti della cittadina non solo ne coltivano la cima, ma la usano anche per attività ricreative, picnic e grigliate in famiglia. “In quanto palestinesi non lasceremo mai questa montagna. La gente di Beita non cederà mai,” sostiene.

Sono da condannare Trump e Netanyahu

Mentre le cime che circondano Nablus sono costellate da decine di colonie e avamposti israeliani, buona parte della terra rubata ai palestinesi utilizzata per costruirli si trova nell’Area C – più del 60% della Cisgiordania sotto totale controllo israeliano – rendendo più facile ai coloni occuparla. Tuttavia, in base agli accordi di Oslo, Jabal al-Arma è designata come Area B, il che pone sotto l’autorità dell’ANP questioni come edilizia e accesso alle terre da coltivare.

Per anni gli abitanti del villaggio hanno creduto che il fatto che la montagna si trovi nell’Area B l’avrebbe difesa dall’occupazione da parte dei coloni.

Ma quando il ministro della Difesa israeliano Naftali Bennett ha attizzato i tentativi di estendere il controllo israeliano sull’Area B, la sensazione di sicurezza provata dagli abitanti è svanita.

Questi recenti tentativi dei coloni di impossessarsi di Jabal al-Arma sono chiaramente legati alle politiche del governo di destra israeliano,” dice al-Abed.

E a peggiorare le cose, nota al-Abed, la pubblicazione del piano di pace USA in gennaio ha solo ulteriormente imbaldanzito il movimento dei coloni in Cisgiordania.

Chi pensi abbia dato ai coloni e a Netanyahu il permesso di andare avanti con l’annessione e con tutti i loro piani?” chiede. “Lo ha fatto Trump. Quando ha reso pubblico il piano di pace ha detto ad Israele ‘prendi quello che vuoi’. Ed ora i palestinesi ne stanno pagando il prezzo.”

Yumna Patel è corrispondente dalla Palestina per Mondoweiss.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




I coloni di Hebron partecipano al corteo di Purim mentre i palestinesi sono blindati per il coronavirus

Oren Ziv

10 marzo 2020 +972 Magazine

Ignorando la paura per il virus, i soldati e i poliziotti israeliani hanno accompagnato 250 coloni nel centro di Hebron pur impedendo agli spettatori palestinesi di avvicinarsi.

Con lo spettro della diffusione del coronavirus in Israele-Palestina, oltre 250 coloni israeliani hanno preso parte martedì all’annuale sfilata per la celebrazione della festa ebraica del Purim [“sorti” in ebraico. La festa commemora una vicenda biblica che sarebbe accaduta circa 2500 anni fa, ndtr.] nel centro di Hebron occupata.

I coloni, che hanno marciato dal quartiere di Tel Rumeida sino alla Tomba dei Patriarchi [luogo di devozione anche per i musulmani che lo chiamano Santuario di Abramo, ndtr.], sono stati accompagnati da centinaia di soldati e ufficiali di polizia israeliani che hanno impedito agli spettatori palestinesi di avvicinarsi.

I coloni si sono fatti vanto del fatto che la loro fosse l’unica festa del Purim autorizzata, dal momento che nelle città di tutto il paese erano stati cancellati i festeggiamenti a causa dei timori per il virus; tuttavia la partecipazione è stata più scarsa rispetto agli anni precedenti.

Nel frattempo, a soli 22 chilometri a nord, l’esercito israeliano ha posto il blocco a Betlemme dopo che sette casi di COVID-19 erano stati riscontrati in città, impedendo ai residenti di entrare o uscire dalla città.

La sfilata di martedì è iniziata presso la “Elor Junction”, dove nel marzo 2016 il soldato israeliano Elor Azaria uccise un assalitore palestinese già ferito mentre questi giaceva inerte sul terreno. Imad Abu Shamsiya, un palestinese di Hebron, si trovava a pochi metri di distanza e riprese l’incidente. La sua documentazione ha portato a un’indagine e a un successivo processo nei confronti di Azaria.

Poco prima delle 11, un gruppo di giovani coloni apparentemente ubriachi ha bussato alla porta di una famiglia palestinese che vive vicino alla famiglia di Abu Shamsiya. Quando un soldato israeliano ha cercato di allontanarli, uno dei coloni ha risposto dicendo: “Godiamoci un po’ il ‘Purim”. Quando il colono ha visto Abu Shamsiya nella casa adiacente, ha detto al suo amico che avevano sbagliato indirizzo.

“Spero solo che l’evento si concluda pacificamente”, ha detto Abu Shamsiya a bassa voce.

Dal 1967, il centro di Hebron è diventato il sito di numerosi insediamenti coloniali ebraici che Israele ha sviluppato all’interno della comunità locale palestinese. Per anni, i palestinesi che vivono nella zona sono stati sottoposti sia a restrizioni estreme imposte dai militari che a violenze di routine da parte di coloni estremisti. Di conseguenza, un numero enorme di residenti si è trasferito e centinaia di aziende sono state chiuse, lasciando la zona in [una condizione di] rovina economica.

Attualmente, circa 34.000 palestinesi e 700 coloni vivono nel centro della città. I palestinesi che risiedono lì sono soggetti a restrizioni negli spostamenti, inclusa la chiusura delle strade principali, mentre i coloni sono liberi di viaggiare dove desiderano. Inoltre, l’esercito israeliano ha emesso l’ordine di chiudere centinaia di negozi e attività commerciali della zona.

“Sebbene abbiamo avuto turisti di ogni provenienza, a Hebron il coronavirus non è arrivato”, ha detto Baruch Marzel, un importante attivista di estrema destra e residente della città, il quale indossava, durante la sfilata, un cappello con la scritta: “Make Hebron Great Again”. “Hebron è per gli ebrei una città forte e santa, dove i nostri antenati ci proteggono, mentre a Betlemme – ha aggiunto Marzel – che è sacra alla cristianità, il virus sta andando alla grande. 

I partecipanti al corteo, molti dei quali adolescenti con in mano bottiglie di vino, passavano davanti a negozi palestinesi, chiusi 25 anni fa in seguito al massacro della Grotta dei Patriarchi, dove, nel febbraio 1994, il colono Baruch Goldstein uccise 29 fedeli palestinesi. In risposta alle uccisioni, l’esercito israeliano iniziò a limitare il movimento dei residenti palestinesi di Hebron e ad applicare una politica di rigorosa segregazione tra loro e i coloni.

Vent’anni dopo le restrizioni sono diventate ancora più severe. La Shuhada Street di Hebron, dove ha avuto in gran parte luogo la marcia di martedì, riguarda la più nota di queste restrizioni. Un tempo affollato centro commerciale, molte porte di negozi sono state ora saldate per ordine militare, conferendo alla zona l’aspetto di una città fantasma. Oggi [sulla facciata di] molti dei negozi chiusi è stata verniciata la stella di David.

Nel corso del Purim le restrizioni in vigore nei confronti dei palestinesi diventano ancora più estreme. Ai palestinesi che vivono lungo il percorso della marcia non è nemmeno permesso di aprire le porte delle loro case, mentre alcuni osservano la marcia attraverso le protezioni di metallo installate sui loro balconi per ripararli dalle pietre lanciate dai coloni.

È anche possibile vedere i soldati israeliani ballare con i coloni e i pochi posti di controllo improvvisati, attraverso i quali i palestinesi possono entrare in Shuhada Street con un permesso speciale, vengono chiusi. La musica ad alto volume, i balli e i costumi colorati spiccano ancora di più sullo sfondo della città fantasma, le porte dei negozi coperte di graffiti ebraici.

Oren Ziv è un fotoreporter, membro fondatore del collettivo di fotografia Activestills e scrittore dello staff di Local Call. Dal 2003 ha documentato una serie di questioni sociali e politiche in Israele e nei territori palestinesi occupati, con particolare attenzione alle comunità di attivisti e alle loro lotte. I suoi reportage si sono concentrati sulle proteste popolari contro il muro e le colonie, sugli alloggi a prezzi accessibili e su altre questioni socio-economiche, le battaglie contro il razzismo e contro la discriminazione e la lotta per la libertà degli animali.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Nel 2019 la censura delle IDF ha cancellato duemila notizie

Haggai Matar

March 9, 2020 – +972

Secondo dati ufficiali, la censura militare israeliana ha vietato del tutto la pubblicazione di oltre 200 articoli e ne ha parzialmente censurati altri 2.000.

Il 2019 è stato un anno di relativa calma per la censura delle IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.]. Secondo i dati ufficiali forniti lo scorso mese a +972 Magazine, Local Call [edizione di +972 in ebraico, ndtr.] e al Movimento per la Libertà di Informazione in seguito a una richiesta in base alla legge sulla libertà di informazione, il censore ha vietato del tutto la pubblicazione di 202 articoli sui mezzi di comunicazione e ne ha in parte censurati altri 1.973.

Rispetto ai dati che avevamo raccolto dal 2011, lo scorso anno ha visto il minor numero di censure dirette di mezzi di informazione dell’ultimo decennio.

In Israele a tutti i mezzi di comunicazione viene richiesto di sottoporre articoli relativi alla sicurezza ed alla politica estera alla censura delle IDF per un controllo prima della pubblicazione. Il censore ricava la sua autorità dalle “regole d’emergenza” emanate dopo la fondazione di Israele e che sono rimaste in vigore fino ad oggi.

Queste norme consentono al censore di cancellare totalmente o parzialmente un articolo, impedendo al contempo ai mezzi di comunicazione di indicare in qualche modo se un articolo è stato modificato. Tuttavia, mentre i criteri giuridici che definiscono la competenza della censura delle IDF sono sia stringenti che piuttosto ampi, la decisione di quali articoli sottomettere al controllo dipende dalla discrezionalità dei direttori dei mezzi di comunicazione.

La riduzione dell’intervento della censura militare nel 2019 è ancora più evidente se confrontata al 2018, l’anno di punta degli interventi censori. Quell’anno ha visto 363 notizie di cui è stata vietata la pubblicazione (circa una al giorno), mentre altre 2.712 sono state parzialmente censurate.

La contrazione dell’ampiezza della censura è stata anche accompagnata da un calo del numero di materiale presentato al censore dai mezzi di comunicazione. Nel 2019 le pubblicazioni hanno sottoposto 8.127 notizie al controllo della censura – circa il 25% in meno dell’anno precedente – che di per sé è stato un numero relativamente basso.

Eppure, persino in un anno “fiacco”, ciò significa che ci sono oltre 200 articoli che i giornalisti hanno considerato degni di nota ma che non hanno potuto rendere pubblici e più di 2.000 articoli che hanno subito un certo tipo di interferenza esterna.

Si tratta ancora di un grande numero, considerando che nessun altro Paese al mondo che si definisca una democrazia impone un simile obbligo ai giornalisti di ricevere l’approvazione ufficiale del governo prima della pubblicazione. Dal 2011 2.863 articoli sono stati eliminati dalla censura e 21.683 sono stati censurati.

Ovviamente la censura militare non condivide informazioni sulla natura delle notizie che nasconde all’opinione pubblica né stila un rapporto mensile di queste attività. Ciò rende ancora più difficile capire perché quest’anno ci sia un simile calo degli interventi censori.

Nel nostro rapporto sul 2018 abbiamo ipotizzato che il picco della censura potesse essere in rapporto con gli attacchi aerei israeliani in Siria e in Libano. Nel 2019 tuttavia i politici israeliani, soprattutto nel periodo delle elezioni di aprile e di settembre, si sono vantati di aver intrapreso tali azioni militari. Questo aspetto pubblico potrebbe fornire una sorta di spiegazione.

I dati che abbiamo visto un anno dopo l’altro indicano un fenomeno complesso e problematico,” afferma Or Sadan, un giurista del Movimento per la Libertà di Informazione, che guida anche il “Centro per la Libertà d’informazione” alla Scuola di gestione in Israele. “Il censore militare impedisce letteralmente al pubblico di avere a disposizione molte informazioni che i mezzi di comunicazione avevano ritenuto valesse la pena raccontare. La stampa libera è uno strumento con cui il pubblico viene a conoscenza degli sviluppi nel Paese, anche su argomenti legati alla sicurezza.”

A dispetto degli aspetti sensibili per la sicurezza,” continua Sadan, “gli organi competenti devono ridurre al minimo possibile i casi in cui l’informazione è oscurata dalla censura e solo in casi estremi, quando c’è un reale timore per la sicurezza nazionale. Continueremo a monitorare questi dati per capirne gli sviluppi nel corso degli anni.”

Un altro aspetto del lavoro del censore sono i suoi interventi negli archivi nazionali israeliani. Da quando gli archivi sono stati messi totalmente in rete e non hanno più una biblioteca fisica aperta al pubblico, il censore militare ha controllato tutto il materiale declassificato, che l’ha a volte portato a nascondere documenti che erano già stati resi pubblici.

Quando nel 2016 è iniziata la digitalizzazione degli archivi, le autorità archivistiche hanno sottoposto al controllo del censore circa 7.800 documenti. A differenza degli articoli, il censore si è rifiutato di informarci su quanto materiale d’archivio sia stato censurato, rispondendo solo che “la grande maggioranza dei documenti è stata approvata per la pubblicazione senza modifiche.”

La crescente mancanza di trasparenza della censura militare è di per sé una causa di preoccupazione. Il censore è totalmente esente dalla legge israeliana sulla libertà d’informazione, e, benché negli ultimi anni si sia offerto volontariamente di rispondere alle domande di +972, le sue risposte nel corso dell’anno si stanno riducendo.

Nelle prime reazioni alle nostre richieste, nel 2016, il censore ha reso pubblico il numero dei documenti di archivio che sono stati censurati e il numero di casi in cui il censore ha chiesto che i mezzi di comunicazione eliminassero informazioni pubblicate senza la precedente approvazione (una media di 250 casi all’anno). Nonostante ripetuti tentativi, negli ultimi anni questi dati non ci sono stati forniti.

Nell’ultima risposta del censore, datata febbraio 2020, non abbiamo neppure ricevuto informazioni sul numero di libri censurati dal censore, un numero che in precedenza era arrivato a varie decine all’anno.

La direttrice della censura militare, generalessa di brigata Ariella Ben-Avraham, nelle prossime settimane darà le dimissioni dal suo incarico, prima del previsto. Secondo varie notizie dei media, andrà a far parte del gruppo israeliano “NSO”, un’impresa informatica che produce materiale spionistico ed è stata associata ai tentativi di molte dittature di spiare giornalisti e difensori dei diritti umani.

Durante il suo primo anno come dirigente della censura, Ben-Avraham ha esteso la sua giurisdizione dai principali mezzi d’informazione alle reti sociali e agli organi d’informazione indipendenti, compreso +972Magazine, chiedendo che sottoponessero alla censura articoli per l’approvazione. Ben-Avraham ha anche deciso di smettere di rispondere alle nostre domande sul numero di volte in cui il censore ha attivamente eliminato articoli che erano già stati pubblicati.

Haggai Matar è un pluripremiato giornalista israeliano e un attivista politico, oltre ad essere direttore esecutivo di “+972 – Promozione del giornalismo dei cittadini”, l’associazione no-profit che pubblica +972 Magazine.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




“Quarantadue ginocchia in un giorno”: cecchini israeliani parlano apertamente del fatto di aver sparato contro i manifestanti a Gaza

Nota della redazione di Chronicle de Palestine

Non è senza esitazione che abbiamo deciso di tradurre e pubblicare questo documento. Per parafrasare Annah Arendt, “la banalità del male” dimostrata da questi racconti è terribilmente scioccante e prova una volta di più a che punto i palestinesi siano disumanizzati dai loro oppressori israeliani. Ma il paradosso è che siano quei “tiratori scelti” israeliani ad essere  quasi sempre privi di sentimenti umani, e la realtà che si impone è che il loro comportamento è apprezzato, è la “norma”, e che non c’è alcun contrappeso da parte della società israeliana, anch’essa profondamente corrotta da un’ideologia colonialista, razzista e segregazionista.

Neppure il lavoro giornalistico realizzato in questo documento va al fondo delle cose ed evita allo stesso modo di fare il possibile per evocare la moltitudine di uccisioni deliberate tra i manifestanti di Gaza. È la ragione per la quale abbiamo inserito una serie di foto [ nella traduzione ne abbiamo inserite solo alcune, ndtr.] che ricordano in modo molto diretto che le truppe d’occupazione hanno come missione uccidere, mutilare, terrorizzare, e che qualsiasi compiacimento a questo riguardo equivarrebbe ad esserne complici.

Bisogna tuttavia riconoscere che l’autore mette il dito su un sintomo che illustra la gravità del male: i soldati israeliani di una volta potevano ogni tanto avere ed esprimere delle remore di fronte al lavoro sporco che gli veniva richiesto, mentre oggi si lamentano di non aver potuto uccidere o mutilare quanto avrebbero voluto…Un segno dei tempi.

Hilo Glazer

6 marzo 2020 – Chronique de Palestine [traduzione di un articolo di Haaretz Magazine]

Oltre 200 palestinesi sono stati uccisi e circa 8.000 sono rimasti feriti durante quasi due anni di proteste settimanali sul confine tra Gaza e Israele. I cecchini dell’esercito israeliano raccontano le loro storie

So esattamente quante ginocchia ho colpito, dice Eden, che ha finito sei mesi fa il servizio militare nelle Forze di Difesa israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.] come cecchino nella brigata di fanteria “Golani”. Per la maggior parte del tempo è stato schierato lungo il confine della Striscia di Gaza. Il suo compito: respingere manifestanti palestinesi che si avvicinavano alla barriera [tra Gaza e Israele, ndtr.].

Ho tenuto i bossoli di tutti i colpi che ho sparato,” dice. “Ce li ho nella mia stanza. Così non devo fare un calcolo approssimativo, lo so: 52 colpi precisi.”

Ma ci sono anche colpi “non precisi”, vero?

Ci sono stati episodi in cui il proiettile non si è fermato ed ha colpito anche il ginocchio di qualcuno che stava dietro (quello a cui ho mirato). Sono errori che capitano.”

Cinquantadue sono molti?

Non ci ho per niente pensato. Non sono centinaia di eliminazioni come nel film “American Sniper” [“Cecchino americano”, film USA di Clint Eastwood ambientato in Iraq, ndtr.]: stiamo parlando di ginocchia. Non la prendo alla leggera, ho sparato ad esseri umani, eppure…”

Come sei messo in graduatoria rispetto ad altri che hanno fatto il servizio militare nel tuo battaglione?

Dal punto di vista dei tiri, sono quello che ne ha di più. Nel mio battaglione direbbero: ‘Guarda, arriva il killer.’ Quando tornavo dal campo mi chiedevano: ‘Beh, quanti oggi?’ Devi capire che prima che arrivassimo noi le ginocchia erano la cosa più difficile da accumulare. C’è una storiella su un cecchino che in totale aveva [sparato a] 11 ginocchia, e la gente pensava che nessuno potesse superarlo. E allora io sono arrivato a sette-otto ginocchia in un giorno. In poche ore ho quasi demolito il suo record.”

Vedere per credere

Le dimostrazioni di massa sul confine tra Israele e la Striscia sono iniziate nel marzo del 2018 in occasione del Giorno della Terra [in cui i palestinesi ricordano una manifestazione di palestinesi cittadini israeliani contro l’esproprio delle loro terre nel 1976 che venne repressa nel sangue dalle forze israeliane, ndtr.], e sono continuate ogni settimana fino allo scorso gennaio. Secondo l’ufficio dell’ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari questi continui scontri per protestare contro l’assedio israeliano a Gaza sono costati la vita a 215 dimostranti, mentre 7.996 sono stati feriti da proiettili veri. Nonostante il grande numero di vittime, le tristi manifestazioni e la repressione lungo il confine sono continuate senza sosta per circa due anni, finché si è deciso di ridurne la frequenza a una volta al mese. Eppure anche nell’immediato il violento rituale del venerdì pomeriggio ha provocato scarso interesse nell’opinione pubblica israeliana. Allo stesso modo le condanne internazionali – dalle denunce per l’uso di una forza sproporzionata alle accuse che Israele stava perpetrando un massacro – sono svanite come neve al sole.

Fare luce su questo recentissimo pezzo di storia implica parlare con i cecchini. Dopo tutto sono stati la forza prevalente e più significativa nella repressione delle manifestazioni nei pressi della barriera. I loro obiettivi sono andati dai giovani palestinesi che cercavano di infiltrarsi in Israele o che lanciavano bottiglie molotov contro i soldati a manifestanti disarmati considerati i principali istigatori [delle proteste]. Ad entrambe le categorie si è risposto allo stesso modo: proiettili veri sparati alle gambe.

Delle decine di cecchini che abbiamo avvicinato, sei (tutti congedati dalle IDF) hanno accettato di essere intervistati e di descrivere quale sembrasse loro la situazione attraverso il mirino dei fucili.

Cinque sono di due brigate di fanteria – due a testa della Golani e della Givati, uno della Kfir – più uno dell’unità antiterrorismo Duvdevan. I loro nomi sono stati modificati. Non parlano per “rompere il silenzio” [riferimento al gruppo di militari ed ex-militari israeliani “Breaking the silence” che denuncia i crimini dell’esercito nei territori palestinesi occupati, ndtr.] o per fare ammenda delle proprie azioni, ma solo per raccontare quello che è successo dal loro punto di vista. Nel caso di Eden, persino il fatto che abbia anche ucciso un manifestante per errore non lo sconvolge: “Penso che ero dalla parte giusta e che ho fatto la cosa giusta,” insiste, “perché se non fosse stato per noi i terroristi avrebbero cercato di attraversare la barriera. Per te è ovvio che sei là per un motivo.”

Eden afferma di aver battuto il “record di ginocchia” nella manifestazione avvenuta il giorno in cui è stata inaugurata la nuova ambasciata USA a Gerusalemme, il 14 maggio 2018. Lo ha fatto in compagnia: in genere i cecchini lavorano in coppia, insieme a un localizzatore, che è anch’egli per formazione un cecchino, il cui compito è di fornire ai suoi colleghi dati precisi (distanza dal bersaglio, direzione del vento, etc.).

Eden: “Quel giorno il nostro collega ha raggiunto il maggior numero di colpi, 42 in totale. Il mio localizzatore non avrebbe dovuto sparare, ma gli ho concesso una pausa, perché stavamo arrivando alla fine del nostro turno e non aveva ancora colpito neanche un ginocchio. Alla fine te ne vuoi andare con la sensazione che hai fatto qualcosa, che non sei un cecchino solo durante l’addestramento. Così, dopo che ho sparato qualche colpo, gli ho suggerito di darci il cambio. Direi che ha colpito circa 28 ginocchia.”

Eden ricorda chiaramente il suo primo ginocchio. Il suo bersaglio era un manifestante sulle spire di filo spinato a circa 20 metri di distanza. “In quel periodo (all’inizio delle proteste) eri autorizzato a sparare a uno dei principali incitatori delle proteste solo se stava in piedi immobile, “afferma. “Ciò significa che, anche se stava andando in giro tranquillamente, era proibito sparargli, quindi non avremmo mancato il bersaglio e sprecato munizioni. Comunque, questo incitatore è sul filo spinato, io ho l’arma rivolta verso la barriera e non c’è ancora l’autorizzazione ad aprire il fuoco. Ad un certo momento lui sta di fronte a me, mi guarda, mi provoca, mi dà un’occhiata come dire ‘vediamo se ci provi’. Allora arriva l’autorizzazione. In piedi sopra di me c’è il comandante del battaglione, alla mia sinistra c’è il suo vice, a destra il comandante della compagnia – dei soldati tutti attorno a me, insieme alle loro mogli il mondo intero sta osservando il mio primo tiro. Molto stressante. Ricordo la vista del ginocchio nel mirino, scoppiato.

Razan Al-Najjar di 21 anni uccisa il 1 giugno 2018 da un cecchino mentre prestava soccorso ad un ferito
(Oumma)

Roy”, che ha fatto il servizio militare come cecchino nella brigata Givati fino al suo congedo un anno e mezzo fa, dice che il colpo che ricorda più vividamente è quello che ha attirato la maggior attenzione degli spettatori. “C’era pressione perché il comandante di battaglione era sul posto e tutti si occupavano di noi. C’era un palestinese che sembrava avere circa 20 anni, che non smetteva di andare in giro. Maglietta rosa, pantaloni grigi. Quello che fanno è correre continuamente e poi arrivare sul filo spinato. Era veramente bravo a farlo. In quella situazione puoi ucciderlo o colpire qualcuno dietro di lui. Ricordo chiaramente di aver temuto di mancare la sua gamba e poi di essermi sentito sollevato per aver centrato il bersaglio.”

Sollievo è anche quello che [ha provato] Itay, un ex-haredi [ebreo ultraortodosso, ndtr.] che era un cecchino del battaglione Netzah Yehuda (composto da ultraortodossi, l’equivalente della brigata Nahal): “Ho visto un giovane che stava per dar fuoco a una bottiglia molotov. In un caso simile non fai calcoli. Ho parlato alla radio, ho descritto il bersaglio e ho avuto l’autorizzazione. La pressione è assurda. Tutto quello che hai imparato e per cui sei stato addestrato è riassunto in un momento. Ti concentri, ti ricordi di prendere il respiro e poi, boom. Ho sparato al ginocchio ed è caduto. Mi sono accertato che tutto fosse a posto, di aver sparato nel posto giusto.”

Questa specie di verifica è parte delle regole d’ingaggio?

Itay: “L’ordine è di continuare a guardare dopo lo sparo per vedere se l’obiettivo è stato raggiunto. Fai rapporto su un colpo dopo un ulteriore controllo. Guardare dopo è la parte più facile, o, più correttamente, è la parte che ti dà sollievo. Perché in questo caso specifico il terrorista era a meno di 100 metri dai miei compagni e avrebbe potuto finire male.”

E dopo che hai guardato una seconda volta e vedi la ferita, anche quello è facile?

Non devi vedere una grande perdita di sangue, perché nella zona del ginocchio e delle ossa non ci sono molti capillari. Se vedi sangue non è un buon segno, perché probabilmente hai sparato troppo in alto. La scena normale dovrebbe essere che tu colpisci, rompi un osso – nel migliore dei casi rompi la rotula –, nel giro di un minuto arriva un’ambulanza per portarlo via e dopo una settimana ha una pensione di invalidità.”

Ma Shlomi, un cecchino della Duvdevan, dice che neppure colpire la rotula è raccomandabile: “L’obiettivo è provocare all’agitatore il minimo danno, in modo che smetta di fare quello che sta facendo. Così, quanto meno io, cerco di colpire in un punto più grasso, nella regione muscolare.

Puoi essere più preciso?

Shomi: “Sì, perché il Ruger (un tipo di fucile utilizzato per lo più durante le manifestazioni) è pensato per un uso a 100, 150 metri. Da quella distanza vedi la gamba persino a occhio nudo e con il mirino che aumenta la visuale di 10 volte puoi davvero vedere i tendini.”

Giovani con i megafoni

Chi viene considerato come un principale istigatore durante queste manifestazioni? I criteri sono piuttosto vaghi.

Un principale agitatore è un principale agitatore,” taglia corto Amir. Comandante di una squadra di cecchini della Golani che è entrato in azione durante la prima ondata di disordini lungo la barriera, spiega che “non è così complicato capire chi stia organizzando e incitando (gli altri manifestanti). Lo identifichi per esempio dal fatto che sta di schiena rispetto a te e guarda verso la folla. In molti casi ha anche un megafono.”

L’impressione di Itay è che “i principali agitatori siano per esempio persone che vanno in giro nelle retrovie, organizzando le cose. Non sono necessariamente un bersaglio, ma, per far loro sapere che vediamo quello che stanno facendo, potrei sparare in aria attorno a loro. Sai, quello che incita gli altri non rappresenta un pericolo immediato per me, almeno non direttamente, ma fa in modo che le cose accadano. Per cui colpirlo è un problema, ma lo è anche non colpirlo. Questa è la ragione per cui nel momento in cui si stanca di attivare gli altri e inizia a partecipare al caos è il primo che colpiamo, perché è il più importante rispetto al gruppo attorno a lui. È fondamentale per bloccare la fase acuta.”

Aggiunge: “Non colpisci quelli che incitano la folla per quello che stanno facendo. Non deriva da uno stato emotivo del tipo ‘È quello che sta provocando la rivolta, quindi abbattiamolo.’ Questa non è una guerra, sono disordini del venerdì pomeriggio. L’obiettivo non è di abbatterne il più possibile, ma di far cessare questa cosa al più presto.”

Secondo le regole d’ingaggio delle IDF un minorenne non è classificato come un agitatore importante. Secondo Eden, “ci sono età limite, e quindi tu non le colpisci.”

È veramente possibile definire la differenza tra un uomo smilzo e un adolescente ben piantato nel bel mezzo di una manifestazione? “Cerchi di capirlo in base al linguaggio del corpo,” afferma Amir. “Il modo in cui tiene una pietra, se sembra che sia stato trascinato nella situazione o che la stia dirigendo. Quelle manifestazioni assomigliano un po’ a un movimento giovanile, dal loro punto di vista. Anche se tu non conosci il loro ‘grado’ preciso, puoi dire in base al carisma chi sia il leader del gruppo.”

Roy sostiene che “nel 99,9% dei casi, l’identificazione è esatta. Ci sono un sacco di immagini del bersaglio e di mirini concentrati su di lui. Un drone sopra, vedette, il cecchino, i suoi comandanti. Non sono solo una, due o tre persone che lo stanno guardando, per cui non ci sono dubbi.”

Shlomi è un po’meno sicuro: “A volte è veramente difficile dire la differenza (tra minori e adulti). Guardi i tratti del volto, il peso, la massa corporea. Anche il vestito è un indicatore certo. I più giovani sono in genere vestiti con una maglietta. Ma senti, anche un sedicenne ti può causare un danno. Se rappresenta una minaccia il parametro dell’età non è necessariamente rilevante.”

Itay è d’accordo: “L’obiettivo è non colpire minorenni, ma una bottiglia molotov è una bottiglia molotov e non sa se la persona che la tiene in mano è un uomo di 20, un adolescente di 14 o un bambino di 8.”

Amir ricorda di aver affrontato un dilemma simile: “Per esempio, c’era un ragazzino il cui comportamento giustificava il fatto di sparargli, ma abbiamo valutato che avesse 12 anni e deliberatamente non lo abbiamo fatto – non solo per come sarebbe apparso sui media, ma per delle nostre considerazioni personali. Abbiamo deciso che lo avremmo veramente spaventato ed abbiamo colpito la persona vicino a lui. Per noi non era una cosa urgente. Sarebbe stato lì anche la settimana successiva.”

Niente “prima sparare e poi piangere”

Sono passati 53 anni dalla pubblicazione di “Il Settimo giorno”, una raccolta di testimonianze di soldati provenienti da kibbutz che esprimevano il proprio disagio emotivo dopo aver assistito ai combattimenti durante la guerra dei Sei Giorni [guerra preventiva di Israele contro i Paesi arabi nel 1967, ndtr.]. È un testo fondamentale per il modo in cui descrive Israele come una società che “prima spara e poi piange”. Più di mezzo secolo dopo il lamento dei soldati tornati dal campo di battaglia si può ancora sentire, ma, almeno secondo le voci qui citate, le loro basi ideologiche ed etiche sono state rovesciate. L’introspezione sul prezzo di sangue è stato sostituito dalle critiche per la debolezza dell’esercito e dalla sensazione che stia legando le mani ai suoi combattenti.

Ho visto sobillatori che attraversavano la barriera e non ho potuto fare niente, “dice Roy. “L’hanno saltata e ci hanno provocati, e poi sono tornati indietro. Ovviamente non hai l’autorizzazione a sparargli. Perché? Perché una volta che sono in territorio israeliano non sono considerati ostili se non hanno con sé un coltello o un fucile. Le limitazioni nei nostri confronti sono vergognose. Devi capire: anche se c’è un ventenne davanti a me che incita altri e dà fuoco a un copertone, prima devo informare il comandante di compagnia, che informa il comandante di battaglione, che parla con il comandante di brigata, che comunica con il comandante di divisione. Ci sono stati alcuni casi ridicoli. Durante quel lasso di tempo il bersaglio si è già spostato o si è nascosto.”

Amir descrive la catena di comando in questo modo: “Per ogni cecchino c’era un comandante a livello inferiore (un sottufficiale) come me, e anche un comandante superiore – un comandante o un vice comandante di compagnia. L’ufficiale superiore chiede l’autorizzazione a sparare al comandante della brigata di settore. Lo chiama alla radio e chiede: ‘Posso aggiungere un altro ginocchio per questo pomeriggio?’”

L’impressione che ne ha ricavato Daniel, un soldato solitario [“lone soldier”, sono ebrei stranieri che vanno in Israele da volontari per fare il servizio militare, ndtr.] immigrato dagli Stati Uniti e arruolato nella brigata Givati, è che le procedure fossero più flessibili di così: “Come ogni cosa nelle IDF, non era del tutto chiaro, almeno non quando ci sono stato io. Ma in generale per sparare devi chiedere l’autorizzazione al tuo ufficiale superiore e lui chiede l’autorizzazione al comandante di compagnia o di battaglione. Se funzionasse come si suppone, ci vorrebbero meno di 10 secondi. I comandanti non erano particolarmente restrittivi nelle autorizzazioni a sparare. Si fidavano di te quando dicevi di aver identificato un obiettivo giustificato.”

Secondo Eden con il passar del tempo il filo della catena di comando si è allentato: “Se tu guardi indietro alle prime manifestazioni, quattro o cinque anni fa, prima dell’ondata degli ultimi due anni, scoprirai che era molto difficile avere un’autorizzazione. Allora dicevano che ogni ginocchio era una questione veramente importante. Nel periodo in cui le proteste si sono fatte molto più accese è diventato più facile avere il permesso. Nel mio periodo veniva dal livello del comandante di battaglione o di compagnia, a seconda della situazione.”

La richiesta di avere l’autorizzazione per ogni sparo di cecchino da parte del comandante di brigata ha avuto un peso sul numero di vittime palestinesi? I dati indicano che il numero degli uccisi è sceso drasticamente solo dopo il passaggio al Ruger, circa un anno dopo che sono scoppiati i disordini settimanali. Il Ruger è considerato meno letale di altri fucili. Eden, un veterano della zona di Gaza, dice di aver usato un fucile M24 e un Barak (HTR-2000): “Con il Barak, se tu spari a qualcuno al ginocchio, non lo rendi disabile, gli stacchi la gamba. Potrebbe morire dissanguato.”

Lo scorso luglio, dopo 16 mesi di scontri presso la barriera con Gaza, le IDF hanno cambiato le regole d’ingaggio per i cecchini nel tentativo di ridurre il numero di vittime. Un importante ufficiale ha spiegato le modifiche in un articolo della corrispondente militare della Kan Broadcasting Corporation [rete informativa pubblica israeliana, ndtr.] Carmela Menashe: “All’inizio abbiamo detto loro di sparare alle gambe. Abbiamo visto che in quel modo puoi rimanere ucciso, per cui abbiamo detto di sparare sotto il ginocchio. In seguito abbiamo diramato un ordine più preciso e abbiamo dato istruzioni di sparare alle caviglie.”

Eden lo conferma: “C’è stata una fase in cui l’ordine è stato proprio di mirare alle caviglie,” nota. “Non mi è piaciuto quel cambiamento. Devi avere fiducia nei tuoi cecchini. Mi è sembrato che stessero cercando di renderci la vita più difficile senza ragione.”

In che senso?

Eden: “Perché è chiaro che la superficie del corpo tra il ginocchio e la pianta del piede è molto più larga che tra la caviglia e il piede. È la differenza tra colpire 40 cm e colpirne 10.”

Roy, che ha finito il servizio militare prima che venissero aggiornate le regole d’ingaggio, afferma che in genere mirava in ogni caso più in basso: “Durante il tempo in cui sono stato in servizio era consentito sparare ovunque dal ginocchio in giù, ma io miravo alle caviglie, per non colpire più in alto, dio non voglia, o si sarebbe scatenato l’inferno. Preferivo così. Non avevo pietà per i sobillatori, ma sapevo che non sarei stato appoggiato dall’esercito. Non voglio essere un secondo Elor Azaria (il cosiddetto sparatore di Hebron, che è stato detenuto dopo essere stato condannato per aver ucciso un aggressore palestinese non più in grado di nuocere). Ho pensato meno al bersaglio e più a me stesso e alla mia famiglia, in modo che non dovesse subire la stessa sorte della famiglia di Elor.”

Saif al-Din Abou Zayd di 15 anni ucciso da una pallottola alla testa
(MaanImages)

Amir aggiunge: “Se tu per sbaglio compisci un’arteria principale della coscia invece della caviglia, allora o avevi intenzione di sbagliare o non avresti dovuto essere un cecchino. Ci sono cecchini, non molti, che ‘scelgono’ di sbagliare (e mirano più in su). Però il numero non è alto. (Per fare un confronto) ci sono giorni in cui conti 40 ginocchia nell’intero settore. Queste sono le proporzioni.”

Secondo Amir, la discussione su dove sparare – coscia, ginocchio o caviglia – è fuori tema: “Fammi raccontare una storia. Un giorno c’era molto lavoro da fare, un vero caos. Uno dei miei soldati voleva abbattere uno dei principali agitatori che rispondeva a tutti i criteri. Ha chiesto l’autorizzazione, ma il comandante di compagnia l’ha rifiutata, perché il tizio era troppo vicino a un’ambulanza.”

Una minima deviazione, anche se avesse solo colpito un fanale, e ci sarebbero stati articoli di giornale secondo cui le IDF avevano sparato a un’ambulanza. Il mio soldato ha sentito il rifiuto dell’autorizzazione, ma ha comunque sparato. Ha colpito la caviglia, come era previsto, un colpo preciso, chirurgico. Per cui da un lato ha disubbidito a un ordine, ma dall’altro ha portato a termine la sua missione.” (In seguito il soldato è stato punito e assegnato a un lavoro di pulizia).

E tu hai capito il suo ragionamento?

Amir: “Ovviamente. Per un soldato come quello, quel colpo è il suo obiettivo, la sua autodefinizione. Sono ragazzi di 18 anni, per lo più di un contesto socioeconomico molto povero. Il fatto che tu li metta in un corso per cecchini non significa che li trasformi in persone sensibili e mature. Al contrario li hai trasformati in macchine, hai fatto sì che pensino in modo limitato, hai ridotto le loro possibilità di scelta, hai sminuito la loro umanità e personalità. Nel momento in cui trasformi uno in un cecchino, questa è la sua essenza. Quindi ora vuoi anche portargliela via? Può sembrare radicale, perché sono un comandante, ma c’è un posto dentro di me che dice: ‘Ehi, mi hai disubbidito, è vero, ma ne sei uscito da uomo, hai dimostrato che il tuo ruolo (di cecchino) funziona.’”

Amir, che alle superiori si è diplomato in teatro e si definisce un “boyscout del nord”, descrive un altro caso di violazione delle norme avvenuto nella sua compagnia. “Anche quando non ci sono manifestazioni e tutto sembra calmo, ti fanno andare di corsa alla barriera con la pattuglia quando vi si avvicinano i pastori. Devi capire che non si tratta di pastori innocenti, lavorano per Hamas e per la Jihad Islamica per farti impazzire. Superano la linea perché tu risponda. Prendi un veicolo e vai a minacciarlo? Prima che tu arrivi lì se n’è già andato. Spari in aria? Non gliene può importare di meno. E a causa di questa insensatezza non dormi e tutta la compagnia diventa il burattino del pastore,” dice Amir.

Un giorno uno dei sottufficiali mi ha detto: ‘Ne ho abbastanza, non possiamo continuare così, abbattiamo una delle pecore, vale qualche centinaio [di euro, ndtr.].’ Pensa cosa porta un soldato, un musicista di una buona scuola superiore, l’ultimo ragazzo che diresti essere assetato di sangue, a dire via radio alla vedetta: ‘Vedi una pecora, a nord? Stai per vederla cadere.’ Dopodiché il pastore non è tornato. Qual è la conclusione? La deterrenza ha funzionato.”

Amir dice che questi due episodi devono essere compresi alla luce della natura dell’attività del suo battaglione sul confine con Gaza: “Anche prima che iniziassero le manifestazioni, eravamo in agguato da due mesi interi,” racconta. “Abbiamo osservato una squadra che cercava di improvvisare una bomba e di attaccarla alla barriera. C’era qualcosa che non andava in tutto ciò, l’ordigno non era esploso e ci siamo resi conto che stavano venendo a prenderla. Ma è andato avanti per un bel po’. Ogni giorno si avvicinavano e neppure quando il capo del gruppo era proprio sopra la bomba abbiamo avuto l’autorizzazione a sparare. Perché? Solo a causa della sensibilità dei media. Finché non avesse realmente preso l’ordigno era impossibile dimostrare al di là di ogni dubbio che avesse a che fare qualcosa, quindi vai poi a capire che tipo di narrazione Hamas avrebbe ricavato da ciò. Pensa quanto sia frustrante per i soldati. Siamo stati là nella pioggia per due mesi e non abbiamo fatto niente.”

E la frustrazione giustifica l’insubordinazione in base ad altre circostanze?

Amir: “No, ma quel caso illustra il paradosso delle regole d’ingaggio. Un terrorista che merita di morire sta davanti a me ma, poiché dobbiamo giustificarci con Haaretz o con la BBC, se la cava senza un graffio. Si crea una vigliaccheria che scende verso il basso. Così invece tu vai e fai fuori le ginocchia durante le manifestazioni. Non solo questo non è efficace, ma questa gente non merita neppure di perdere le proprie ginocchia. Mi identifico realmente con quello che una volta ha detto (l’ex-capo di stato maggiore delle IDF) Ehud Barak, che se fosse un palestinese sarebbe diventato un terrorista. Ciò mi ha colpito solo quando sono stato nei territori. Vedi bambinetti piangere quando prendi a pugni il loro padre, e ti dici: ‘Non mi posso aspettare nient’altro da loro.’”

Rapporto con lo sport

Ci sono cecchini che hanno avuto difficoltà a riprendere la loro vita dopo essere stati congedati?

Tuly Flint, un ufficiale dei servizi per la salute mentale della riserva e operatore sociale clinico specializzato in traumi, ha curato cecchini che hanno partecipato alla repressione di manifestazioni a Gaza durante gli ultimi due anni. I cecchini, dice, manifestano singolari caratteristiche quando si tratta di stress post-traumatico.

Se fossi uno dei trenta soldati che sono nella zona e sparassi una raffica, non saprei necessariamente se ho ucciso qualcuno,” dice, mentre il cecchino sa quando colpisce il suo bersaglio. “Il secondo tratto distintivo deriva dal fatto che al cecchino viene richiesto di non girare lo sguardo. Attraverso il mirino vede la persona a cui sta sparando e l’impatto del colpo, e ciò può fissare l’immagine nella sua memoria.”

Flint descrive un cecchino di un’unità d’élite che ha mirato al ginocchio di un manifestante ma ha colpito troppo in alto, e il dimostrante è morto dissanguato. “Quel soldato, un cecchino molto impegnato nella sua missione, descrive l’immagine del manifestante che muore dissanguato. Non può dimenticare l’uomo che grida di non lasciarlo solo. Ricorda anche in modo vivido quando hanno portato via il corpo e le donne che piangevano su di lui. Da allora non pensa ad altro e non sogna altro. Dice: ‘Non sono stato mandato per difendere lo Stato, sono stato mandato per uccidere.’ Anche il pensiero della fidanzata della persona che ha ucciso continua a perseguitarlo. Il risultato è che ha rotto con la propria fidanzata con cui stava da due anni. ‘Non merito di averne una’, dice.”

Daniel ha un vivido ricordo dei suoi colleghi dopo un colpo perfetto. “Le persone sembrano malate o scioccate. Il significato di ciò, sul momento, non li colpisce sul vivo. Un secondo dopo, un minuto dopo che ho sparato a qualcuno, mi metto a mangiare matza [pane azzimo, ndtr.] con cioccolato? Cosa cavolo sta succedendo qui?”

Aggiunge: “Ci sono storie orribili, tremende di soldati che hanno preso di mira un manifestante e colpito qualcun altro. Conosco uno che ha preso di mira uno dei leader delle manifestazioni, che stava su una cassa e incitava la gente ad avanzare. Il soldato ha mirato alla sua gamba, ma all’ultimo momento l’uomo si è spostato e la pallottola lo ha mancato. Ha colpito invece una ragazzina, uccisa sul colpo. Quel soldato oggi è un rudere. È continuamente sorvegliato perché non si suicidi.”

Cecchini con il peso di esperienze come questa sono la minoranza. Da parte sua Amir dice che il tipo di sensazione che molti cecchini hanno è totalmente diversa, e richiama il mondo dello sport: “La zona dei disordini è come un’arena sportiva, una situazione in cui puoi vendere i biglietti,” dice. “Gruppo contro gruppo, con una linea nel mezzo e un pubblico di tifosi da entrambi i lati. Puoi assolutamente raccontare la storia di un incontro sportivo.”

In prima linea, continua, “ci sono i sobillatori: segnano la linea di partenza da cui le persone partono di corsa, da sole o in gruppo. Tutto è coordinato e pianificato in anticipo. Ci sono quei buchi nel terreno (per nascondersi) e ciò permette loro di giocare con noi. Possono correre 100 metri senza che io sia in grado di colpire i loro piedi. Sono anche abili a zizzagare. Due di loro saltano fuori, si nascondono, uno lancia una pietra in modo che l’altro possa andare avanti. Usano con te tattiche diversive. Sai, è una specie di gioco.”

Qual è lo scopo di questo gioco?

Amir: “Guadagnare punti. Se riescono a mettere la bandiera sulla barriera, vale un punto. Una bandiera piena di esplosivo è un punto. Lanciare indietro lacrimogeni è un punto. Persino anche solo toccare il muro, intendo la barriera, è un punto. C’è una battaglia in corso qui, ma non si sa quando verrà decisa, nessuno ha idea di come vincere la coppa, ma nel frattempo entrambe le parti continuano a giocare la partita.”

Un gioco per la cronaca. Le forze non sono esattamente equamente ripartite.

Vero. E non stiamo usando neppure un quarto della forza che potremmo esercitare.”

In altre parole, potremmo colpirli con un ko, ma preferiamo vincere ai punti?

Non stiamo neppure vincendo ai punti. Dopo un po’ di tempo là, in un rapporto ho detto: ‘Lasciatemi solo per una volta abbattere un ragazzino di 16, anche 14 anni, ma non con un proiettile alle gambe, lasciate che gli spari alla testa di fronte a tutta la sua famiglia e a tutto il suo villaggio. Lasciatemi spargere sangue. E allora forse per un mese non dovrò prendermi altre 20 ginocchia.’ Questo è un calcolo scioccante al limite dell’inimmaginabile, ma quando non usi le tue potenzialità non è chiaro che cosa stiamo cercando di fare là. Mi chiedi quale fosse il compito? Mi risulta difficile risponderti. Cosa ho considerato un successo dal mio punto di vista? Persino il numero di ginocchia che ho preso non è dipeso da me, ma dal numero di ‘anatre’ che hanno scelto di attraversare la linea.”

Ma uccidere un ragazzino a caso, pensi davvero che questa sia la soluzione?

Ovviamente non dovremmo far fuori ragazzini. Lo stavo dicendo per fare il punto della situazione: se tu ne uccidi uno ne devi risparmiare altri 20. Se tu mi riportassi a quegli appostamenti di due mesi e mi lasciassi agire, avrei fatto fuori quel figlio di puttana che stava sulla bomba, anche se ciò avrebbe significato che sarebbe tornato in seguito nei miei sogni. Anche oggi la situazione per cui ci sono da 5 a 10 persone che rimarranno invalide per il resto della loro vita, alle quali il mio nome è in qualche modo collegato, è una merda. E non solo nel senso che ciò mi pesa o meno sul cuore. Pensaci: là c’è un’intera generazione di minorenni che non sarà in grado di giocare a pallone.”

Solo ragazzi

Sembra che la presenza di minorenni alle manifestazioni desti le risposte più fortemente emotive tra i cecchini.

Un giorno c’era una bambina, penso che avesse probabilmente 7 anni, che portava una bandiera di Hamas ed è corsa verso di noi,” dice Shlomi di Duvdevan. “Mi sono accertato attraverso il mirino che non ci fosse niente di sospetto in lei, che la sua camicetta non avesse sporgenze, che non ci fossero segni di fili o bombe, e abbiamo gridato per fermarla. Fortunatamente si è spaventata ed è corsa via. Mi era chiaro che non le avrei sparato neppure se avesse attraversato il confine, ma mi ricordo di aver pensato: spero proprio che non continui ad avanzare.”

Abdullah al-Anqar colpito  da una pallottola esplosiva che gli ha causato l’amputazione dell’arto sinistro
(Hosam Salem/Al Jazeera)

Daniel: “Dal posto di guardia vedi un militante di Hamas, la sua faccia è di fronte a te e tu pensi tra te e te: spero davvero che faccia qualcosa in modo che gli possa sparare. Ma con i manifestanti il quadro diventa complicato, perché molti di loro sono solo adolescenti. Sono esili, piccoli, non ti senti minacciato da loro. Devi ricordare a te stesso che quello che stanno facendo è pericoloso.”

Come alcuni degli altri intervistati, Daniel sottolinea la rabbia dei soldati nei confronti dei genitori: “Una madre che porta il proprio figlio a una manifestazione come quella è una madre terribile,” dice. Amir afferma che può capire quei bambini: “Si guadagnano la vita in quel modo e non devo dirti io quanto sia difficile la situazione economica a Gaza. Ma i loro genitori non li capisco. Perché li trascini lì? Mandali a sgattaiolare (in Israele) di nascosto e a lavorare nell’edilizia, rovescia il governo di Hamas, qualunque altra cosa, solo non questo.”

Roy, che si identifica come di destra, è d’accordo che “non sono loro che dobbiamo combattere, ma Hamas, i terroristi, quelli che organizzano gli autobus per portare la gente e gli gettano qualche dollaro in modo che brucino pneumatici. Ho pietà di loro (i minori), sono veramente sfortunati. Mi ricordano dei bambini del quartiere che giocano con i mortaretti. Ero anch’io come quei ragazzini, per cui in questo senso mi identifico con loro.”

Ma, pur manifestando obiezioni contro il fuoco indiscriminato, Itay, del [battaglione di ultraortodossi, ndtr.] Netzah Yehudah pensa ancora che il numero di palestinesi feriti da proiettili veri sul confine durante oltre due anni in realtà dimostri che i soldati non hanno avuto il grilletto facile. “Ogni venerdì ci sono migliaia di manifestanti,” nota, “e se moltiplichi quel numero per 52 e poi lo raddoppi, hai centinaia di migliaia di persone. Rispetto a questi, 8.000 sono una piccola percentuale.”

Tuttavia aggiunge che “il potere che hai quando qualcuno entra nel tuo mirino, la consapevolezza che dipende da te se sarà in grado di camminare o meno, è terribile. Dal mio punto di vista, non è un potere che mi eccita. Non mi piace, ma è impossibile ignorarlo. È lì tutto il tempo. Dopo che sono stato congedato ho capito che è una cosa che non voglio provare mai più. Sono andato subito direttamente all’università e non a fare qualche lavoro nella sicurezza, cosa che avrei potuto ottenere per i miei trascorsi in combattimento.”

È il tuo destino”

Non tutti riescono a contenere la sensazione di esaltazione. Un video che ha circolato nel 2018 mostrava un palestinese che si avvicinava alla barriera e veniva colpito da un cecchino, mentre i soldati festeggiavano il colpo diretto con grida di “Bel colpo!” e “Che video favoloso!” Roy dice che la risposta dei soldati attesta una mancanza di professionalità e troppo entusiasmo, benché egli non abbia visto niente del genere nella sua squadra.

D’altra parte penso sia umano,” dice. “Quando hai un certo obiettivo, persino se stai sparando frecce a un bersaglio, ovviamente sei contento di aver fatto centro. L’errore dei soldati è stato nel loro comportamento. Che ridano un po’ di nascosto, ma non farci un video. È anche una questione di immagine.”

Anche Amir distingue tra la soddisfazione personale e le manifestazioni pubbliche che non stanno bene in un video: “I cecchini nella squadra che abbiamo sostituito erano una leggenda. Erano campioni delle IDF e avevano due o tre fighissime X (sui loro fucili) per essersi occupati della frontiera a Gaza. Abbiamo sentito la storia delle X e anche noi le volevamo. È la tua professione, il tuo destino, il significato del tuo esistere dal momento in cui ti alzi a quando vai a letto. Ovviamente vuoi mostrare le tue capacità.”

Devi festeggiare? Non c’è nessun altro modo?

Amir: “No. Prendi il tizio più scimmiesco che conosci, ed è quello che le IDF fanno, trasformano i ragazzi in babbuini, e cerca di farlo smettere di raccontare della sua prima volta. C’è il caos là, tutti sparano, ottengono grandi successi – ti aspetti che non aprano una bottiglia di champagne? Lui si è realizzato proprio in quel momento, è un attimo particolare. In realtà più lo fa e più diventa indifferente. Non sarà più particolarmente felice, o triste. Sarà normale.

I commenti dell’esercito

L’ufficio del portavoce delle IDF ha inviato questo comunicato ad Haaretz: “La risposta operativa ai violenti disordini e all’attività terroristica ostile che le IDF hanno dovuto affrontare dal marzo 2018, così come l’uso di proiettili veri, è adeguata in modo appropriato alla minaccia rappresentata da questi incidenti, in un tentativo di ridurre per quanto possibile il ferimento di quanti hanno provocato i disordini. Negli ultimi due anni la risposta operativa è stata influenzata dall’intensità degli eventi, dai cambiamenti nell’uso della violenza da parte di quanti hanno disturbato l’ordine pubblico, dal fumo che hanno diffuso e via di seguito.

Alla luce del cambiamento che è avvenuto nella natura dei disordini si è deciso di dotare le forze anche di proiettili Ruger, che provocano meno danni. Riguardo all’uso di fucili M24, facciamo notare che è un fucile usualmente in uso dei cecchini. In generale, nel quadro degli eventi in questione, non sono stati utilizzati fucili da cecchino Barak. Siamo stati informati di un uso eccezionale e specifico di questi ultimi, che è stato riportato e indagato. I risultati sono stati inviati all’unità dell’avvocatura di Stato militare per un ulteriore esame.

Le affermazioni attribuite a un ufficiale superiore riguardo alle regole d’ingaggio non riflettono la politica operativa delle IDF. L’ufficiale intendeva spiegare che, quando ci sono state informazioni di ferite non intenzionali da arma da fuoco che non erano al di sotto del ginocchio, in alcune circostanze il comandante di settore ha deciso di rendere più vincolanti le regole d’ingaggio e di dare istruzioni ai cecchini di mirare alle caviglie.

E nel caso in cui un combattente ha sparato a un capo-agitatore, benché non abbia ricevuto l’autorizzazione dal suo ufficiale superiore, lo sparo è avvenuto in accordo con le regole d’ingaggio con l’eccezione di questa trasgressione. Il caso è stato preso in considerazione a livello di comando e non è stato presentato all’unità dell’avvocatura di Stato militare perché se ne occupi. Allo stesso modo il caso in cui una pecora è stata indebitamente colpita, questo incidente è stato gestito a livello di comando e non è stato inviato all’unità dell’avvocatura di Stato militare perché se ne occupasse. Il vice-comandante di compagnia aveva cercato di infrangere la disciplina militare ed è stato condannato a sette giorni di detenzione.”

(traduzione dall’inglese e dal francese di Amedeo Rossi)




Raid e spari israeliani tra Gaza e Siria: tre membri del Jihad islamico uccisi

Redazione Nena News

Tensione alta nella Striscia dove ieri mattina i militari di Tel Aviv hanno ucciso e poi sollevato con un bulldozer un giovane militante della fazione palestinese. “Piantava un esplosivo al confine” afferma l’esercito. Razzi del Jihad verso il sud d’Israele. Nella notte la risposta dei jet israeliani: diversi feriti nell’enclave palestinese, 2 le vittime nell’area di Damasco

24 febbraio 2020 Nena News

Giornata ad altissima tensione quella vissuta ieri a confine tra la Striscia di Gaza e, nella notte, in Siria (a sud di Damasco) dove l’aviazione israeliana ha fatto sapere di aver colpito “decine di obiettivi” della fazione palestinese del Jihad Islamico in risposta ai suoi razzi lanciati nel pomeriggio di ieri verso il territorio israeliano.

L’esercito ha riferito di aver colpito nell’area di al-Adleyeh (Damasco) la principale base siriana del Jihad dove si sviluppano razzi. In questa zona, afferma Tel Aviv, avvengono anche le esercitazioni militari dei membri dell’organizzazione palestinese provenienti sia dalla Striscia di Gaza che da Libano e Siria. In un comunicato il Jihad Islamico ha riconosciuto l’uccisione di due suoi combattenti, Salim Salim (24 anni) e Ziad Mansour (23), e ha promesso che si vendicherà.

Israele ha inoltre fatto sapere che ieri pomeriggio il Jihad ha lanciato dalla Striscia di Gaza verso la parte meridionale del suo territorio circa 30 razzi e colpi di mortaio, gran parte dei quali stata intercettata dal sistema difensivo Iron Dome. Il lancio dei razzi era stata una risposta a quanto avvenuto ieri mattina al confine tra Gaza e Israele dove l’esercito ha ammesso di aver ucciso un membro del Jihad mentre “era intento a piantare un esplosivo lungo il confine”. “L’esercito risponderà in modo aggressivo alle attività terroristiche del Jihad islamico che mettono in pericolo i cittadini d’Israele e danneggiano la sua sovranità” si legge in una nota ufficiale dell’esercito. Quanto accaduto ad est di Khan Yunis (a sud della Striscia, assediata da oltre 10 anni dallo stato ebraico) però non può essere ridotto a questo scarno comunicato. In un video che ha fatto ben presto il giro della rete, infatti, si vede chiaramente come un bulldozer dell’esercito trascini e poi sollevi il corpo della vittima, Mohammad Ali al-Naim (27 anni). Una scena orribile che era stata preceduta poco prima dagli spari dei soldati israeliani verso almeno due palestinesi (rimasti feriti) che provavano a recuperare il corpo ormai senza vita di an-Naim.

L’esercito si è difeso: “Abbiamo notato due terroristi avvicinarsi alla barriera di sicurezza e che piazzavano una bomba lì vicino e pertanto i soldati hanno aperto il fuoco verso di loro”. Il Jihad, di cui an-Naim era membro, ha fatto sapere che “il sangue dei martiri non sarà vano”. Duro è stato il commento anche di Hamas che governa la Striscia da oltre 10 anni. Il suo portavoce Fawzi Barhoum ha detto che “il maltrattamento” del cadavere è “un altro odioso crimine che si aggiunge ai tanti orrendi crimini compiuti [da Israele] al popolo palestinese”. Il recupero del corpo senza vita di an-Naim rientra nel piano del ministro della Difesa israeliano Bennet di usare i corpi senza vita dei combattenti palestinesi come pedine di scambio nei negoziati per il rilascio di due israeliani e per riavere indietro i resti di due soldati israeliani che sono tenuti da Hamas. Come segno di vendetta per l’uccisione di an-Naim e per il barbaro trattamento del suo cadavere, il Jihad ha rivendicato gli attacchi di ieri verso il sud d’Israele (il primo lancio di razzi è avvenuto ieri verso le 17:30 ora locale, il secondo verso le 20, qualche altro razzo è stato poi sparato dopo le 21).

Nel pomeriggio della serata di ieri la tensione è salita alle stelle quando l’aviazione di Tel Aviv ha risposto ai razzi del Jihad colpendo più punti della Striscia di Gaza. I militari hanno detto che uno dei target era un sito dove i membri del Jihad si stavano preparando a lanciare razzi verso il territorio israeliano (il ministero della Salute di Gaza parla di 4 feriti nel raid). Secondo Israele, tra gli altri obiettivi colpiti ci sarebbero anche basi militari e depositi di armi del Jihad situati a Beit Lahiya (presa di mira la base di Hittin), Rafah (qui si riportano altri due feriti) e Khan Yunis.

La tensione resta alta al confine tra Gaza e il confine meridionale d’Israele al punto che l’esercito ha ordinato oggi la chiusura delle scuole nelle comunità israeliane vicino alla Striscia e nelle città di Ashkelon, Sderot e Netivot. Vietati anche raduni pubblici. Alla popolazione è permesso andare a lavorare solo se si trovano in prossimità di un rifugio anti-missile.

Gli attacchi di ieri dalla Striscia non hanno provocato feriti (solo qualche leggerissimo danno) perché la maggior parte di loro è stata intercettata dall’Iron Dome o è caduta in aree non abitate. Sirene di emergenza sono suonate diverse volte nell’area vicina al confine o non troppo lontana dalla Striscia. Migliaia di israeliani che vivono nella zona interessata si sono recati nei rifugi.

Il premier israeliano Netanyahu, il ministro della difesa Bennet e diversi membri dei servizi di sicurezza si sono incontrati nel quartier generale dell’esercito a Tel Aviv ieri notte per fare il punto della situazione e per programmare eventualmente un attacco di più ampia portata.

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Aggiungiamo come redazione di Zeitun  da Ruptly  il video del bulldozer che con la benna trascina il corpo del palestinese ucciso.




Secondo il partito Laburista il mio operato come attivista antirazzista e antisionista fa di me un antisemita

Haim Bresheeth

14 febbraio 2020 – Mondoweiss

A Jennie Formby

Partito Laburista

Southside 105 Victoria Street

London SW1E 6QT

11/2/2020

Cara Jennie Formby,

le scrivo in seguito ai recenti avvenimenti – l’espulsione di Jo Bird e l’eccellente lettera di Natalie Strecker [scrittrice laburista che ha mandato in precedenza una lettera simile, ndtr.] -, in quanto le vorrei chiedere, per le ragioni che dettaglierò qui sotto, di deferirmi cortesemente alla commissione dei probiviri per “antisemitismo”.

Per supportare la mia richiesta vorrei raccontarle i miei trascorsi. Sono un accademico, scrittore e regista, e un ebreo ex-israeliano che è stato attivo per oltre cinquant’anni come socialista, antisionista e antirazzista. I miei genitori erano ebrei polacchi, sopravvissuti ad Auschwitz e ad altri campi. Finirono per essere obbligati a seguire le marce della morte verso l’interno del Terzo Reich dopo che il campo di Auschwitz venne svuotato dalle SS a metà gennaio del 1945. Mia madre venne liberata dall’esercito inglese a Bergen-Belsen, mio padre dalle forze statunitensi a Mauthausen. Sono nato in un campo per sfollati in Italia e sono arrivato in Israele da neonato, nel giugno 1948, in quanto allora nessun Paese europeo accettava sopravvissuti all’Olocausto.

Ho fatto il servizio militare nell’esercito israeliano (IDF) come giovane ufficiale di fanteria ed ho preso parte a due guerre, nel 1967 e nel 1973, dopo di che sono diventato un pacifista impegnato. Sono venuto a studiare in Gran Bretagna nel 1972, e poco dopo ho imparato molto più sul sionismo di quando ero in Israele, diventando quindi un acceso sostenitore dei diritti dei palestinesi e un attivista antisionista. Come iscritto al partito Laburista, negli anni ’70 sono stato un attivo sostenitore del movimento contro l’apartheid e in tutta la mia vita ho lottato contro le organizzazioni razziste. I miei film, libri e articoli riflettono le stesse opinioni politiche qui evidenziate, compresi, tra gli altri, un libro di successo sull’Olocausto (Introduction to the Holocaust [Introduzione all’Olocausto], con Stuart Hood, 1994, 2001 2014) un documentario della BBC (State of Danger [Condizione di pericolo], con Jenny Morgan, BBC2, marzo 1988) sulla Prima Intifada e un volume in uscita sull’esercito israeliano (An Army Like No Other [Un esercito senza pari], May 2020). Quando Jeremy Corbyn è stato eletto alla direzione del partito, dopo decenni sono tornato nel partito Laburista in quanto, dopo anni di blairismo, ho riacquistato speranza in un programma progressista per il partito.

È chiaro che, secondo le conclusioni del partito Laburista in base all’errata “definizione” di antisemitismo dell’IHRA, o piuttosto alla versione brandita come un’arma dalla propaganda sionista, intesa a colpire i sostenitori dei diritti umani e politici dei palestinesi, il mio passato mi rende un antisemita. Ma vorrei aggiungere qualche altra prova a carico, in modo da rendere, se possibile, il caso inoppugnabile.

Nel corso dei decenni in vari Paesi – in Israele, in Europa e negli USA – ho partecipato a centinaia di manifestazioni contro la brutalità israeliana ed ho agito contro le atrocità commesse dall’occupazione militare. Ho pubblicato articoli, fatto film e contribuito a molti libri, ho parlato ampiamente in molti Paesi contro la colonizzazione israeliana militarizzata della Palestina, la negazione di qualunque diritto alla maggior parte dei palestinesi, le gravissime violazioni dei diritti umani e politici dei cittadini palestinesi di Israele e l’impatto brutale delle IDF [Israeli Defence Forces, l’esercito israeliano, ndtr.] sulla società ebraica israeliana. In un recente articolo, scritto da una prospettiva antisionista e per i diritti umani, ho anche analizzato la falsa natura della campagna IHRA. Sono attivo in molti gruppi politici affiliati o vicini al partito Laburista, che appoggiano i diritti dei palestinesi – Jewish Voice for Labour [Voce ebraica per il partito Laburista] e Jewish Network for Palestine [Rete ebraica per la Palestina], di cui sono un membro fondatore.

Sono consapevole che, in base alle regole del partito Laburista, quanto detto finora costituisce quello che voi definite antisemitismo.

Personalmente mi è chiaro che tali accuse sono false ed esecrabili, ma nessuno ha interpellato gli iscritti sull’adozione della definizione dell’IHRA e dei suoi esempi. La definizione adottata rende Israele l’unico Stato al mondo che non si può criticare, a meno che non si voglia andare incontro ad accuse di antisemitismo. Criticare l’Impero britannico, ad esempio, non è antibritannico e in questo preciso momento è ancora permesso dalle norme del partito Laburista. Criticare il governo USA per i suoi attacchi contro l’Iraq nel 1991 e nel 2003 non è antiamericano, ed è ancora consentito dalle leggi USA. Criticare il colonialismo di apartheid israeliano non è antisraeliano, né antisemita, ovviamente. Ciò che è antisemita e razzista sono le attuali regole del partito, e finché non saranno modificate, ebrei e altri che appoggiano la Palestina non hanno ragioni per appoggiare un partito che li tratta in questo modo.

Le norme del partito Laburista sono quello che sono. Tuttavia non ho intenzione di interrompere le mie attività, di ridurle o di abbandonare i miei principi per soddisfare la logica distorta del partito Laburista. Insisto sul mio diritto, anzi, sul mio dovere come ex-israeliano, come ebreo, come cittadino, come socialista e, infine ma non meno importante, come essere umano di agire apertamente contro l’apartheid israeliano e di criticare questo e le ingiustizie finché sarò in grado di farlo. Credo anche che come membro di un partito che pensavo fosse diventato un’organizzazione politica progressista, questo debba essere mio diritto e dovere, ma ho compreso che le mie attività sono contro il dogma, le norme e gli attuali interessi del partito Laburista, per cui attraverso questa lettera mi autoaccuso apertamente e le chiedo di deferirmi alla commissione dei probiviri in modo che venga fatta giustizia e che io venga trattato come i miei molti amici che si sono trovati nella stessa difficile situazione – il professor Moshe Machover, Jackie Walker, Elleanne Green, Tony Greenstein, Glyn Secker e molti altri che si sono trovati di fronte al sistema inquisitorio stalinista messo in atto dal partito Laburista. Se voi volete separare gli “ebrei buoni” da quelli “cattivi”, la prego di includermi in quest’ultimo gruppo, perché niente della mia produzione accademica, storia di insegnante, bibliografia o attività politica può sostenere l’affermazione che non sono antisemita in base alle vostre norme. Chiedo che sia fatta giustizia.

Sono fiducioso che la mia richiesta verrà presa seriamente in considerazione e che le venga dato seguito, con lo stesso insieme di fretta, fanatismo e pregiudizi dimostrato nei confronti di altri membri già accusati di questa trasgressione. Non farlo equivarrà ad evidenziare che i criteri per giudicare l’esistenza dell’antisemitismo non sono applicati in modo uniforme.

Sono pronto a fornire tutte le prove richieste dagli inquirenti della commissione dei probiviri per dimostrare la mia colpevolezza. Vi prego di non esitare a chiedere collaborazione sui punti che rimangono poco chiari.

Con i miei ossequi.

Prof. Haim Bresheeth

Il professor Haim Bresheeth è docente e ricercatore associato della SOAS, School of Interdisciplinary Studies [Scuola di Studi Interdisciplinari] e direttore di Camera Obscura Films [casa cinematografica di produzione e distribuzione, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)