Le forze di sicurezza israeliane hanno ucciso una donna palestinese a un checkpoint in Cisgiordania

 Shatha Hammad a  Ramallah, Cisgiordania occupata

 18 settembre 2019 – Middle East Eye

Testimoni hanno riferito a Middle East Eye che la donna è stata uccisa dopo aver sbagliato corsia pedonale al checkpoint di Qalandia.

La polizia israeliana e testimoni palestinesi riferiscono che mercoledì mattina le forze di sicurezza israeliano hanno sparato e ucciso una donna palestinese al checkpoint di Qalandia, nella Cisgiordania occupata.

Un video che circola sui social, ritenuto autentico da Middle East Eye, mostra degli uomini che, con le uniformi del personale di sicurezza privato e armati di fucili, affrontano una donna a parecchi metri di distanza da loro. Si sente uno sparo e subito dopo lei crolla a terra, lasciando cadere un oggetto che una delle guardie sembra colpire con un calcio e mandare fuori dalla portata della donna.

Testimoni hanno riportato a Middle East Eye che la donna è stata colpita quattro volte, dopo aver sbagliato corsia pedonale a Qalandia, il più importante checkpoint israeliano che separa Gerusalemme est dalla Cisgiordania centrale.

Mohammed Hammad Jaradat, un abitante di Gerusalemme, ha riferito a MEE che apparentemente la donna era entrata a piedi nel settore sbagliato del posto di blocco e stava cercando di raggiungere la zona degli autobus.

Le forze di sicurezza israeliane hanno quindi cominciato a urlare e inseguirla e, a questo punto, secondo Jaradat, lei ha tirato fuori un piccolo coltello.

 “Avrebbero potuto tenerla sotto controllo” ha detto Jadarat. “Erano cinque soldati e lei era a circa sette metri di distanza. L’hanno uccisa deliberatamente, hanno voluto non solo uccidere lei, ma anche spaventare noi palestinesi che attraversiamo il posto di blocco ogni giorno tra Ramallah e Gerusalemme.”.

Il ministero della Sanità dell’Autorità Palestinese ha confermato che la donna, non ancora identificata, è morta in un ospedale israeliano a Gerusalemme est a causa delle ferite. La Mezzaluna Rossa palestinese ha detto in un comunicato che le forze israeliane hanno impedito ai suoi medici di raggiungere la donna e prestarle i primi soccorsi.

Un portavoce della polizia israeliana ha dichiarato che “una terrorista ha cercato di compiere un attacco con un coltello” al posto di blocco di Qalandia, ed è stata pubblicata una foto di un coltello sull’asfalto.

Alaa Rimawi, il direttore del Center for Jerusalem Studies [Centro per gli Studi su Gerusalemme, programma di studi dell’università palestinese Al Quds, ndtr.], ha riferito a MEE che uno studio effettuato dal centro ha stimato che il 56% dei palestinesi uccisi dalle forze israeliane nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme dal 2015 è stato ucciso ai checkpoint, aggiungendo che Qalandia è un punto critico per tali sparatorie mortali.

Dopo la sparatoria, le forze israeliane hanno attaccato i civili palestinesi presenti nell’area con gas lacrimogeni e hanno bloccato l’accesso dei lavoratori al checkpoint, che poi è stato chiuso in entrambe le direzioni.

Secondo fonti ufficiali palestinesi la Cisgiordania era già stata blindata martedì per le elezioni generali in Israele, impedendo a circa 150.000 palestinesi con un permesso di lavoro israeliano di attraversare i checkpoint.

Rimawi ha denunciato procedure scorrette, come la mancanza di avvertimento da parte dei soldati prima di sparare, l’uso di cartucce vere e l’inosservanza delle regole dell’esercito che prevedono che si spari agli arti inferiori di un presunto aggressore onde evitare perdite di vite umane.

Ha anche aggiunto che la sua organizzazione ha documentato dal 2015 almeno 36 casi in cui dei palestinesi sono stati uccisi nonostante “mancasse la prova che fossero in possesso di un oggetto che costituisse una minaccia per le vite dei soldati”.

Documentare le uccisioni

Secondo Helmi al-Araj, il direttore del Centre for Defense of Liberties and Civil Rights [Centro per la Difesa delle Libertà e dei Diritti Civili, Ong palestinese per la difesa dei diritti umani e politici dei palestinesi, ndtr]  foto e video di uccisioni da parte delle forze israeliane costituiscono un’utile prova per rendere nota una prassi corrente nei territori palestinesi occupati indipendentemente dal fatto che si tenga conto se i palestinesi costituiscano una minaccia reale o meno.

 “Tutta la documentazione è molto importante da usare contro i soldati israeliani e i coloni e per procedere contro di loro per crimini di guerra e continuo incitamento a uccidere i palestinesi” riferisce Araj al MEE, citando l’uccisione del palestinese Abd al-Fattah al-Sharif a Hebron nel 2016.

Il video dell’uccisione di Sharif, una vera e propria esecuzione, ha suscitato la condanna internazionale e ha portato a un processo ampiamente pubblicizzato in cui Elor Azarya è stato uno dei pochi soldati israeliani a essere condannato al carcere, seppure per un breve periodo, per aver ucciso un palestinese.

Secondo l’United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari; OCHA), quest’anno, fino al 2 settembre, le forze israeliane hanno ucciso in Cisgiordania 20 palestinesi.

Si stima che, fra il 2015 and 2016, un’ondata di violenza abbia causato la morte di 236 palestinesi e circa 34 israeliani, con un numero significativo di palestinesi uccisi dalle forze israeliane nella Gerusalemme est annessa  e nella Cisgiordania occupata.

(traduzione di Mirella Alessio)




Adolescente israeliana uccisa da un’esplosione nei pressi di una colonia in Cisgiordania

MEE e agenzie

23 agosto 2019 – Middle East Eye

L’esercito dice che una ragazza diciassettenne e stata uccisa, suo padre e suo fratello feriti gravemente in un attacco con una mina nei pressi di una nota meta escursionistica.

Secondo l’esercito israeliano, venerdì un’adolescente israeliana è stata uccisa mentre suo padre e suo fratello sono rimasti gravemente feriti a causa di un’esplosione nella Cisgiordania occupata.

Un portavoce dell’esercito ha affermato che la famiglia è stata colpita da un ordigno artigianale (IED) mentre visitava una sorgente d’acqua nei pressi di Dolev, una colonia israeliana illegale a nord-ovest della città palestinese di Ramallah.

In precedenza si era detto che dopo l’esplosione la ragazza diciassettenne era in condizioni critiche e che veniva curata sul posto da un’equipe medica.

In un comunicato l’esercito ha affermato: “Tre civili che si trovavano presso una vicina sorgente sono stati feriti dall’esplosione di una mina.”

Uno dei civili viene curato sul posto mentre gli altri due sono stati portati da un elicottero (dell’esercito) in un ospedale per ulteriori cure mediche.”

L’esercito ha anche detto che forze di sicurezza stavano cercando nella zona palestinesi ritenuti responsabili.

L’equipe di soccorso ha detto che il padre e il fratello dell’adolescente, di 46 e 21 anni, sono stati gravemente feriti. Dolev si trova in una regione collinosa circondata da uliveti e orti, ed è un luogo molto frequentato da turisti ed escursionisti.

Lo scorso anno nella zona ci sono stati scontri tra palestinesi ed israeliani a causa dell’espansione delle colonie, con gli abitanti palestinesi che denunciano i tentativi dei coloni di occupare la loro terra, comprese le sorgenti. In seguito all’attacco le forze di sicurezza israeliane hanno rapidamente isolato la zona attorno alla sorgente di Ein Bobin, vicino al villaggio palestinese di Deir Ibzi.

Ci sono timori di un aumento della violenza in vista delle elezioni israeliane, previste per il 17 settembre.

La tensione è alta in Cisgiordania, dove recentemente c’è stata una serie di attacchi nei pressi delle colonie israeliane.

Lo scorso venerdì due israeliani sono stati feriti presso la colonia di Elazar, in quello che la polizia afferma essere stato un attacco con un’auto. Il conducente, un uomo palestinese, è stato ucciso sul posto dalle forze di sicurezza israeliane. All’inizio di questo mese un soldato israeliano è stato accoltellato a morte presso la colonia di Migdal Oz, cosa che ha portato all’arresto di due palestinesi.

Più di 600.000 ebrei vivono in circa 140 colonie costruite in Cisgiordania da quando Israele ha occupato il territorio nella guerra mediorientale del 1967. In base alle leggi internazionali le colonie israeliane in Cisgiordania, dove vivono circa 2.5 milioni di palestinesi, sono illegali.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Dalle ondate di caldo all’ “apartheid ecologico”: cambiamento climatico in Israele-Palestina

Matan Kaminer, Basma Fahoum ed Edo Konrad

8 agosto 2019 – +972

Mentre il nascente movimento per la giustizia climatica in Israele cerca di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica, i palestinesi sotto occupazione rimangono estremamente vulnerabili ai pericolosi effetti del cambiamento climatico. Tuttavia, a causa dello squilibrio di potere esistente, lavorare insieme per combatterlo sembra quasi impossibile.

Secondo i ricercatori del clima europei, il luglio 2019 è stato il mese più caldo mai registrato. Dopo solo un anno da quando la Commissione Intergovernativa sul Cambiamento Climatico dell’ONU ha reso pubblico il suo storico rapporto che mette in guardia su un’imminente catastrofe climatica, le temperature sono vertiginosamente aumentate in luoghi come Alaska e Svezia, sono state ridotte in cenere foreste in Siberia, si sono sciolti ghiacciai in Groenlandia e intere città sono rimaste senz’acqua in India.

Di fronte a un aumento delle temperature, affrontare la crisi climatica e i suoi effetti sugli esseri umani è diventato un problema cruciale per governi, politici e movimenti per la giustizia sociale in tutto il mondo. Si prevede che Israele-Palestina, situati in una delle regioni più calde del globo, vedranno un aumento delle temperature a un ritmo ancora più veloce.

Sondaggi effettuali tra gli israeliani mostrano una notevole indifferenza nei confronti dell’imminente crisi, il che significa che il governo israeliano deve affrontare una scarsa pressione popolare riguardo al problema. Non sono state fatte ricerche simili nei territori palestinesi occupati, ma la continua occupazione della Cisgiordania e l’assedio di Gaza accentuano il rischio di una catastrofe climatica per i palestinesi e al contempo rendono in pratica impossibile per il loro governo fare qualcosa al riguardo.

Alla fine dello scorso anno un gruppo di ricercatori israeliani ha pubblicato la prima previsione su quello che il cambiamento climatico potrebbe significare per Israele-Palestina. I risultati sono stati terrificanti: rispetto al periodo di riferimento 1981-2010, si prevede che il lasso di tempo di 30 anni che inizierà nel 2041 vedrà temperature medie in aumento di 2,5° e una riduzione delle precipitazioni fino al 40% nelle zone non aride del Paese.

Secondo uno dei ricercatori, la professoressa Hadas Saaroni dell’università di Tel Aviv, il caldo e l’umidità che israeliani e palestinesi che vivono lungo la costa avvertono durante i mesi estivi non farà che crescere in modo più estremo. Sostiene che in estate abbiamo già quasi 24 ore di stress termico, ma che tende a ridursi nelle ore serali e notturne. “Ciò peggiorerà: lo stress termico sarà più pesante di giorno e non si ridurrà di notte.” E, come praticamente tutto ciò che si riferisce al cambiamento climatico, il caldo non sarà distribuito in modo equilibrato. Una recente ricerca del comune di Tel Aviv-Jaffa prevede che le temperature nelle zone povere del sud della città saliranno di sette gradi Celsius più che nei ricchi quartieri settentrionali.

Mentre Saaroni è sorprendentemente ottimista riguardo agli effetti del cambiamento climatico sul livello del mare (“il mare salirà di circa un metro, ma solo alla fine del secolo. Con la tecnologia abbiamo il tempo di adeguarci”), lei e altri scienziati del clima israeliani sono sempre più preoccupati della strisciante desertificazione del Paese. Temperature in aumento e minor piovosità significano che il deserto, che già copre buona parte del Paese, si estenderà lentamente verso nord, sostiene il professore di ecologia Marcelo Sternberg, anche lui dell’università di Tel Aviv.

Tuttavia senza ulteriori studi è difficile dire fino a dove arriverà la desertificazione. “Alcune ricerche, compresa la mia, mostrano che il nostro territorio è resistente ai cambiamenti della piovosità all’interno della gamma naturale di variazioni,” dice Sternberg. “Ma cambiamento climatico significa temperature al di fuori di quella gamma – e non sappiamo cosa ciò significhi.” Quello che pare certo è che gli incendi, che negli ultimi anni hanno colpito sempre più frequentemente il Paese, continueranno a devastarlo durante le estati.

Lottare contro l’“apartheid climatico”

Lo Stato di Palestina ha firmato la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico. Ma, a causa del governo militare israeliano in Cisgiordania e del blocco della Striscia di Gaza, i palestinesi non hanno praticamente alcun controllo sulle proprie risorse naturali, e non sono in grado di mettere pienamente in atto i trattati o di adottare progetti nazionali, e non possono fare piani concreti per adattarsi alla crisi climatica.

In Cisgiordania la fornitura di acqua è più vulnerabile agli effetti del cambiamento climatico. Secondo un rapporto del 2013 dell’associazione palestinese per i diritti umani “Al-Haq”, il consumo pro capite di acqua per uso domestico degli israeliani è da quattro a cinque volte maggiore di quello della popolazione palestinese dei territori occupati. In Cisgiordania i coloni israeliani consumano circa sei volte la quantità di acqua usata dalla popolazione palestinese che vive nello stesso territorio.

Alcune comunità palestinesi, soprattutto quelle che vivono in zone della Cisgiordania sotto totale controllo militare israeliano, non sono collegate con alcuna infrastruttura idrica e devono percorrere chilometri per procurarsi l’acqua, che spesso è cara e di dubbia qualità. Nel contempo l’esercito israeliano rende quasi impossibile avere l’autorizzazione per nuovi serbatoi d’acqua, e quelli costruiti senza permesso sono regolarmente distrutti dalle autorità. Secondo Al-Haq, il settore idrico nei territori occupati e in Israele è caratterizzato da uno sfruttamento eccessivo notevolmente asimmetrico delle risorse idriche condivise, da un esaurimento dello stoccaggio a lungo termine, da un deterioramento della qualità dell’acqua e da crescenti livelli di domanda provocati da alti tassi di incremento della popolazione. Nel contempo la zona sta assistendo a una diminuzione della fornitura di acqua pro capite – un peso che è sproporzionatamente a carico della popolazione palestinese.

Il dottor Abdulrahman Tamimi, direttore generale del Gruppo Idrologico Palestinese, afferma che, mentre Israele ha le competenze tecnologiche per adattare il proprio settore agricolo ai cambiamenti del clima, in Cisgiordania entro un decennio l’agricoltura diverrà impraticabile. La situazione a Gaza è aggravata dall’assedio israeliano, che tra le altre cose ha portato all’eccessivo sfruttamento delle risorse idriche del sottosuolo che sta sempre più esaurendo l’Acquifero costiero, il che ha reso non potabile il 90% della fornitura d’acqua.

“Non c’è speranza per Gaza da nessun punto di vista finché la situazione politica là rimane senza soluzione,” sostiene Tamimi. Afferma di credere che entro i prossimi cinque o sei anni l’agricoltura di Gaza, le infrastrutture idriche e l’economia non funzioneranno più. Soluzioni come la desalinizzazione, che consentirebbe di avere sia acqua potabile che un’irrigazione regolare, sono lussi che la gente di Gaza semplicemente non si può permettere, spiega Tamimi: “Chi potrebbe pagare 1,5 dollari al metro cubo?”

“L’acqua è già una risorsa così rara nella regione,” dice Zena Agha, l’esperta di politica USA del gruppo di analisi palestinese Al-Shabaka, che si concentra sull’intersezione tra il clima e l’occupazione israeliana, “che il cambiamento climatico agisce semplicemente come un peggioramento della minaccia.” Agha afferma che sulla carta un accordo di pace tra israeliani e palestinesi dovrebbe poter risolvere la crisi idrica in Cisgiordania. Invece gli accordi di Oslo, una serie di intese provvisorie che due decenni fa avrebbero dovuto portare a un accordo per uno status finale, l’hanno solo peggiorata. In seguito a ciò, l’80% delle risorse idriche nei territori occupati è sotto controllo israeliano. Nel contempo i soldati israeliani distruggono regolarmente sistemi di raccolta dell’acqua tradizionali a livello locale utilizzati dai palestinesi nelle zone della Cisgiordania lasciati da Oslo sotto totale controllo militare israeliano.

“Si comincia a vedere una politica ufficiale di sottrazione dell’acqua e delle risorse, sostenuta e delineata da una serie di leggi, politiche, licenze, permessi e udienze in tribunale utilizzati per rubare l’acqua dei palestinesi,” dice Agha. “D’altra parte, c’è anche una sorta di approccio concreto, che coinvolge l’esercito israeliano che si presenta, dichiara un’area militare chiusa e ruba direttamente le risorse. Questa è la politica attiva dello Stato israeliano.” Agha dice che le politiche israeliane in Cisgiordania equivalgono a un “apartheid climatico”.

“Quanto sta avvenendo in Palestina è un chiaro esempio di un gruppo etnico-religioso che possiede risorse migliori e preferenziali rispetto a un altro gruppo, esclusivamente sulla base della religione e della cittadinanza. L’occupazione crea una situazione in cui è impossibile per i palestinesi sviluppare realmente le capacità di adattamento per resistere alla minaccia davvero incombente del cambiamento climatico,” dice Agha.

Agha sostiene che, mentre l’Autorità per la Qualità dell’Ambiente dell’Autorità Nazionale Palestinese ha elaborato un piano di adeguamento sostenuto dal Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite, simili piani sono “quasi ridicoli”.

“Supponiamo che l’ANP [Autorità Nazionale Palestinese, ndtr.] abbia la possibilità di pianificare con 40 anni di anticipo: per ora non ha neppure il potere di prevedere cosa succederà domani. L’ANP si trova in un paradosso: pianificare per il futuro su una terra su cui non ha controllo. Da ogni punto di vista è priva di potere.”

Eppure Agha crede che l’ANP abbia un ruolo da giocare nel mettere in atto strategie a lungo termine per cercare di adattarsi all’attuale situazione, compreso il contrasto diretto con Israele riguardo alle politiche sull’acqua, promuovendo un’agricoltura sostenibile ed ecologica, ripristinando le cooperative agricole, che hanno rappresentato gli interessi e le preoccupazioni dei contadini e negli anni ’80 erano apprezzate nei territori occupati.

Alcune Ong e attivisti palestinesi stanno cercando di approfittare del vuoto lasciato. Per esempio la Società per la Natura in Palestina sta tentando di condurre la prima ricerca complessiva su flora e uccelli della Palestina, per comprendere meglio i cambiamenti della biodiversità in conseguenza del cambiamento climatico. L’Istituto Palestinese per la Biodiversità e la Sostenibilità e il Museo Palestinese di Storia Naturale presso l’università di Betlemme stanno dirigendo un progetto per la conservazione della biodiversità unica del Paese e per fare studi sulle complesse questioni della distruzione dell’habitat e del declino dell’ambiente provocati dal cambiamento climatico e dalle politiche del conflitto.

In Cisgiordania attivisti palestinesi hanno creato iniziative ambientali come archivi dei semi tradizionali che preservano il patrimonio agricolo e la biodiversità palestinesi, l’ agro-ecologia e l’agricoltura sostenuta dalla comunità, per promuovere la sovranità alimentare, riducendo al minimo gli effetti delle coltivazioni sull’ambiente.

Una politica senza sbocco

Nel luglio 2018 il governo israeliano ha adottato il “Programma Nazionale per l’Adeguamento al Cambiamento Climatico”, che include 30 punti di azione che affrontano vari aspetti del cambiamento climatico, come acqua, energia e salute pubblica. Il piano si occupa anche di problemi specifici delle preoccupazioni politiche ed economiche di Israele, compresi gli adeguamenti per l’industria ambientale, la possibilità di utilizzare energia nucleare e come il cambiamento climatico colpisca il Medio Oriente nel suo complesso, compresi rifugiati, nuove rotte commerciali, scarsità di cibo e di acqua.

Si presta particolare attenzione alle questioni della capacità di intervento dell’esercito. Il piano include raccomandazioni per affrontare le necessità materiali e strategiche delle IDF, che vanno dalle uniformi dei soldati e dalla dislocazione delle basi allo studio dell’“effetto del cambiamento climatico sui Paesi musulmani”, alla stipula di accordi di mutuo aiuto. Il piano tuttavia non specifica la fonte di finanziamento di ogni punto e non fornisce i costi totali previsti.

La produzione di energia di Israele rimane pressoché interamente basata su combustibili fossili. In molti Paesi in tutto il mondo le discussioni sul clima sono concentrate sul liberarsi dalla produzione di energia basata sui combustibili fossili – in seguito a forti pressioni dell’opinione pubblica, governi come quello della Germania e della California hanno annunciato un passaggio pianificato al 100% di energia rinnovabile entro il 2050 -, ma in Israele il problema rimane una questione politica senza sbocco. All’inizio del 2018 il ministro dell’Energia israeliano ha proposto un piano per passare dai “combustibili inquinanti” come carbone e petrolio al gas naturale. Il progetto intende raggiungere un obiettivo di appena il 17% della produzione da energia rinnovabile entro il 2030, con un obiettivo intermedio del 10% entro il 2020.

Tuttavia la richiesta di una produzione interna del 100% da energia rinnovabile ha oppositori persino all’interno il movimento ecologista israeliano. Mentre “Green Course”, un gruppo ambientalista di base, ha accolto la richiesta, la “Società per la Protezione della Natura in Israele”, l’organizzazione ambientalista israeliana più affermata, ha preso la posizione secondo cui solare ed eolico rappresentano una minaccia per la rara e pregiata biodiversità del Paese – il primo distrugge l’habitat della fauna terrestre e il secondo uccide gli uccelli.

“Stimiamo che i pannelli solari sui tetti e altre superfici alterate o deteriorate possano fornire almeno un terzo del fabbisogno di energia di Israele,” afferma Dror Boymel, capo del dipartimento di pianificazione presso l’SPNI. “Il resto dovrebbe venire da altre fonti – sia da gas naturale che da altri Paesi della regione che non hanno problemi di spazio e hanno una natura meno vulnerabile.”

É difficile parlare di render questo un posto migliore”

Uno studio pubblicato quest’anno dal centro di ricerche “PEW” prima del “Giorno della Terra” ha rilevato che solo il 38% degli israeliani considera il cambiamento climatico una grave minaccia. Su 26 Paesi in cui è stata fatta la ricerca Israele è arrivato per ultimo. Lo studio non include i palestinesi dei territori occupati.

Di conseguenza il movimento ambientalista israeliano sta cambiando marcia. Mentre in passato i gruppi ecologisti hanno teso a concentrarsi su problemi “lievi” come il riciclaggio, oggi la crisi climatica è in cima alla loro agenda, e molti che sono convinti che solo un’azione radicale sarà in grado di fermare la catastrofe.

“Gli ambientalisti non sono più considerati ‘simpatici’ come una volta,” dice Ya’ara Peretz, responsabile delle politiche di “Green Course”. Peretz è stata anche una delle principali organizzatrici della Marcia per il Clima di quest’anno, la più grande di sempre in Israele, che ha visto molte migliaia di persone protestare nel centro di Tel Aviv, con la richiesta che il governo di Israele prenda immediatamente misure. “Il rapporto dell’IPCC ha cambiato tutto e ha spinto la gente fuori dal proprio guscio,” dice. “Ci siamo resi conto del fatto che ciò è grave e quello che vediamo accadere nel mondo sta aiutando. Le persone vogliono essere coinvolte – ora è il momento di essere creativi.”

Secondo Peretz uno dei maggiori cambiamenti è l’impegno di giovani cittadini israeliani – sia ebrei che palestinesi – che ora stanno guidando il movimento con l’aiuto degli attivisti di “Green Course”. Prendendo esempio da Greta Thunberg, l’attivista svedese adolescente che è diventata l’icona della lotta contro il cambiamento climatico, studenti delle superiori hanno fatto vari scioperi e hanno marciato fino alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.], chiedendo che i parlamentari inizino a prendere sul serio il problema. “Questi ragazzi sono molto più svegli di noi,” dice Peretz.

“Ho sempre pensato che i problemi fossero dovuti al fatto che qualcun altro stava prendendo le decisioni,” dice Lama Ghanayim durante un evento nel Left Bank Club di Tel Aviv a metà luglio. Ghanayim, della città araba di Sakhnin, nel nord di Israele, è una dei dirigenti degli scioperi studenteschi. “Organizzare questi scioperi è stata un’opportunità per ottenere finalmente qualcosa. Non voglio stare fuori e lasciare che qualcun altro prenda i comandi quando si tratta di una questione così grave,” dice Ghanayim.

Gruppi ambientalisti esperti come “Green Course” e SPNI non sono più le uniche voci che affrontano il problema del clima in Israele. Recentemente il movimento per l’azione diretta “Extinction Rebellion” ha aperto una sezione in Israele. Il movimento israeliano di sinistra “Standing Together”, che finora si era concentrato prevalentemente sulla lotta contro il razzismo, l’occupazione e l’appoggio ai diritti dei lavoratori, recentemente ha adottato il cambiamento climatico come questione centrale del suo programma.

“Tra gli attivisti c’è la sensazione che, quando passano dalle proteste per il clima a quelle per la pace, vedano facce completamente diverse,” dice Ilay Abramovitch, un attivista di Standing Together. “Non si tratta delle stesse persone. Ma se guardi in giro per il mondo vedrai che molti partiti di sinistra hanno il clima in cima al loro programma.”

Abramovitch dice che la visione della sua organizzazione si basa sull’idea che ogni lotta contro il cambiamento climatico debba essere intrapresa insieme ai sindacati e ai gruppi palestinesi. “Crediamo che, quando viene danneggiato l’ambiente, lo sono anche le persone, e quelli che sono più a rischio sono i segmenti più poveri della società e i Paesi più poveri. La nostra lotta deve essere regionale, e ovviamente deve essere di ebrei e arabi insieme.”

Ma anche se il lavoro comune di arabi ed ebrei sui problemi del clima risulta naturale per attivisti come Ghanayem e Abramovich, che sono cittadini di Israele, gli attivisti e gli accademici palestinesi della Cisgiordania si trovano di fronte a una decisione molto più complicata. Mentre si rendono conto che la pianificazione regionale è inevitabile, sono preoccupati che qualunque discussione di collaborazione con gli israeliani sulle questioni climatiche che non affronti l’occupazione serva a normalizzare una situazione politica in cui le comunità palestinesi sono le più vulnerabili al cambiamento climatico.

Ma persino nella sinistra israeliana unire le forze nel movimento ambientalista non sempre sembra una scelta naturale. “Alcune persone chiedono: ‘Cosa c’entra la sinistra con il movimento ambientalista? Perché non ci lasciate continuare a lottare contro l’occupazione?’” Dice Abramovitch. “La gente non capisce pienamente l’opportunità che abbiamo di creare una lotta più ampia occupandoci della crisi climatica.”

Peretz dice che, nonostante il suo ottimismo, è ancora difficile trovare israeliani, persino quelli coinvolti in altre lotte per la giustizia sociale, che vedano il cambiamento climatico come una minaccia immediata. “La lotta ambientalista è vista come una battaglia di privilegiati, soprattutto quando così tanti credono che niente sia più importante della nostra sicurezza nazionale,” dice. “È difficile parlare con la gente di fare di questo un posto migliore. La mentalità è che dovremmo semplicemente essere grati di avere uno Stato nostro – che sia uno Stato buono o giusto è secondario.”

Matan Kaminer è un antropologo e un membro del consiglio di amministrazione dell’Accademia per l’Uguaglianza [organizzazione israeliana per i diritti di tutti i cittadini, ndtr.].

Basma Fahoum è una dottoranda in storia alla Standford University.

Edo Konrad è vice direttore di +972 Magazine.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Issawiya, la cittadina palestinese che resiste alle punizioni collettive di Israele

Hanadi Qawasmi – ISSAWIYA, Gerusalemme est occupata

Lunedì 12 agosto 2019 – Middle East Eye

L’ultima campagna israeliana contro questo quartiere della conurbazione di Gerusalemme est, una delle più lunghe e violente della sua storia recente

Nel quartiere palestinese di Issawiya le auto della polizia israeliana non sono tollerate.

Nel comune ogni traccia della presenza poliziesca degenera rapidamente in scontri, con giovani palestinesi che lanciano pietre e molotov contro i veicoli, mentre le forze israeliane fanno uso di proiettili veri, di pallottole d’acciaio ricoperte di gomma e di lacrimogeni.

Questo quartiere, che conta più di 15.000 abitanti, è ben noto ai palestinesi come un faro della resistenza civile all’occupazione israeliana.

Issawiya è una delle zone più ribelli di Gerusalemme,” dichiara a Middle East Eye Fadi Elayan, un abitante trentatreenne della cittadina.

La polizia obbedisce alla logica in base alla quale se Issawiya viene sottomessa e il suo rifiuto dell’occupazione è ridotto al silenzio, il resto di Gerusalemme sarà domato.”

La portata della determinazione della polizia israeliana nel demonizzare questa zona periferica è stata svelata lo scorso martedì, quando si è saputo che, durante una serie televisiva di reality show sulla polizia, alcuni agenti hanno messo un fucile M-16 nella casa di un abitante di Issawiya e in seguito hanno sostenuto di averlo scoperto lì.

Durante gli ultimi due mesi Issawiya è stata bersaglio di una violenta e dirompente repressione israeliana lanciata poco dopo l’Aid al-Fitr [festa musulmana per la fine del Ramadan, ndtr.] con il pretesto di garantirvi la sicurezza.

Da allora la cittadina è bersaglio di una politica di punizione collettiva: più di 250 arresti politici, centinaia di vessazioni perpetrate dalle forze israeliane ai danni di veicoli e negozi, decine di abitanti feriti dagli spari israeliani e il funerale per un giovane palestinese.

Il 27 giugno, durante un’incursione notturna, la polizia israeliana ha ucciso Mohammad Samir Obaid, provocando viva indignazione tra gli abitanti della cittadina. Due testimoni oculari hanno dichiarato a MEE che nel momento in cui è stato ucciso questo palestinese di 20 anni non rappresentava alcuna minaccia.

Il giorno prima le immagini di un soldato ricoperto di pittura rossa lanciata dai giovani della cittadina erano state ampiamente condivise dai palestinesi sulle reti sociali.

Repressione concertata

Tale repressione non è un fatto raro per la cittadina: di fatto non passa un anno senza azioni simili da parte delle forze israeliane.

Ma secondo gli abitanti l’ultima campagna è una delle più lunghe e violente della storia recente del quartiere – dura consecutivamente da più di 50 giorni ed è stata messa in atto da diversi organi militari e civili israeliani.

Le incursioni delle forze israeliane sembrano una sfilata organizzata: quattro grossi SUV arrivano nel quartiere, insieme a guardie di frontiera e a volte a un reparto a piedi, gli agenti lanciano delle bombe assordanti nelle strade per disperdere i giovani e seminare la paura, poi procedono a un’operazione di controllo e perquisizione umiliante e aggressiva.

La polizia di frontiera, le forze speciali, la polizia stradale, così come le autorità municipali e fiscali israeliane si danno da fare durante tutta la giornata, concentrandosi sui giovani nelle strade e sugli abitanti che ritornano a casa dopo il lavoro.

Come il resto di Gerusalemme est, Issawiya è passata sotto occupazione israeliana nel 1967 ed oggi è circondata da ogni parte dalle colonie israeliane e dalle loro infrastrutture, che in base al diritto internazionale sono tutte illegali.

L’autostrada 1, che si trova al limite est del quartiere, è stata costruita per collegare le colonie della Cisgiordania occupata a Gerusalemme e Tel Aviv.

A sud Issawiya è a cavallo del campus dell’Università Ebraica. A nord e a ovest si trovano le colonie della Collina Francese e di Tsameret HaBira. 

La cittadina è sottoposta a restrizioni, come blocchi stradali e perquisizioni arbitrarie, che sconvolgono la vita quotidiana.

Punire la cittadina e i suoi abitanti”

Quando procedono a degli arresti, le autorità israeliane non esitano a ricorrere alla forza, aggredendo i giovani, sfondando le porte delle case prima di perquisirle e procedendo a perquisizioni violente.

Fonti locali hanno dichiarato a Middle East Eye che negli ultimi due mesi, soprattutto durante retate notturne, sono stati arrestati dalla polizia non meno di 250 giovani maschi.

La maggioranza di loro è stata arrestata per brevi periodi e poi rilasciata, spesso su cauzione, e posta agli arresti domiciliari per periodi variabili, a volte fino a una settimana.

Secondo l’avvocato Mohammad Mahmoud, che li rappresenta davanti ai tribunali israeliani, almeno cinque di essi sono ancora detenuti.

L’avvocato Mahmoud ha dichiarato a MEE che questi giovani devono rispondere di diverse accuse, come partecipazione a manifestazioni e a scontri con le forze israeliane, compreso il lancio di pietre e di molotov, in particolare dopo l’annuncio della morte di Obaid.

Sempre secondo il loro avvocato, le cauzioni di quelli che sono stati liberati superano i 60.000 shekel (più di 15.000 €).

Mohammad Abu al-Hummos, un attivista politico di Issawiya, ritiene che le misure israeliane siano assolutamente arbitrarie e costituiscano una forma di punizione collettiva. Rappresentano il “desiderio della polizia dell’occupazione israeliana di procedere a una qualunque perquisizione o detenzione, poco importa il motivo, semplicemente per punire la cittadina e le sue famiglie,” ha dichiarato a MEE.

Un padre convocato dalla polizia per un bambino

Il 30 luglio la storia di Mohammad Elayyan, 4 anni, è diventata virale sulle reti sociali quando lui e suo padre sono stati convocati dalla polizia israeliana per un interrogatorio.

Il nonno del bambino, Nayef Elayan, ha dichiarato in un’intervista che Mohammad giocava per la strada con altri bambini quando un veicolo della polizia israeliana ha fatto irruzione nella zona.

Più tardi, durante la giornata, le forze israeliane si sono recate al domicilio di Mohammad alla ricerca del bambino, sostenendo che aveva lanciato delle pietre contro di loro. Quando si sono resi conto che aveva 4 anni e che in base alla legge non poteva essere arrestato, hanno consegnato a suo padre, Rabiaa, un mandato di comparizione per l’indomani mattina, chiedendogli di portare con sé Mohammad.

Per appoggiare il padre e il figlio un gruppo di abitanti di Issawiya li ha accompagnati al commissariato di polizia di via Salah al-Din, la principale arteria commerciale di Gerusalemme est.

A causa della crescente pressione popolare, le autorità israeliane non hanno incontrato il bambino, ma hanno interrogato il padre.

Quest’ultimo ha dichiarato che dei poliziotti l’avevano minacciato che non avrebbe mai più visto suo figlio se quest’ultimo avesse lanciato loro delle pietre.

I bambini non costituiscono una minaccia,” ha dichiarato Fadi Elayyan, uno dei parenti di Mohammed.

Quello che avviene è un tentativo di terrorizzare le famiglie di Issawiya – dai giovani agli anziani.” 

Perquisita la casa di una persona malata

Un giorno dopo il caso di Mohammad, la polizia israeliana ha convocato un altro abitante palestinese di Issawiya per azioni di cui era accusato suo figlio di 6 anni.

Secondo l’agenzia di stampa ufficiale dell’Autorità Nazionale Palestinese, WAFA, Firas Obaid ha ricevuto un mandato di comparizione nel commissariato della polizia israeliana per essere interrogato riguardo a suo figlio Qais, accusato di aver tentato di lanciare pietre contro la polizia israeliana che stava di pattuglia nella cittadina.

In un altro episodio molto pubblicizzato tre settimane fa, le forze israeliane hanno cercato di arrestare Iyad Attiyah, un giovane uomo di 24 anni colpito dalla sindrome di Williams, un disturbo genetico raro che può causare problemi fisici e cognitivi. Sua madre, Laila Attiyah, ha dichiarato a MEE che la polizia aveva effettuato un’irruzione a casa loro dopo mezzanotte alla ricerca di suo figlio.

Iyad è stato convocato dai servizi di intelligence, un’ingiunzione che è stata annullata solo quando i servizi sociali sono intervenuti e hanno presentato documenti che provano la sua malattia.

Motivi ridicoli” 

Nel quadro della recente repressione, la polizia stradale israeliana è stata messa di guardia ad ognuno degli ingressi di Issawiya.

Gli agenti fermano arbitrariamente i veicoli per effettuare dei lunghi controlli della vettura, della patente, dell’assicurazione e della carta d’identità, prima di infliggere multe dai 250 ai 1000 shekel (da 65 a 255 euro), rendendo così più pesante il peso economico a scapito degli abitanti.

Secondo Mohammad Abu al-Hummos, durante improvvisi controlli sono state revocate decine di libretti di circolazione a causa di presunte infrazioni al codice della strada per i “motivi più ridicoli”.

In una situazione normale nei quartieri non palestinesi ragioni del genere non comporterebbero dei reati o l’annullamento di un libretto di circolazione,” sostiene. “Ci sono dei veicoli che hanno semplicemente superato di un mese il periodo di immatricolazione, cosa che non è illegale, ma ciononostante i loro proprietari ricevono delle multe.”

Giovedì scorso la polizia ha fermato un autobus che trasportava bambini dagli 8 ai 12 anni in viaggio per una gita ricreativa.

L’autista è stato accusato di aver commesso un’infrazione, il suo libretto di circolazione è stato revocato e cinque giovani che accompagnavano i bambini come guide sono stati arrestati.

Neppure i negozi sono stati risparmiati. Le squadre israeliane del Comune e della finanza hanno effettuato parecchie perquisizioni nei negozi, soprattutto sulla strada principale, ed hanno controllato le autorizzazioni, le attrezzature ed i pagamenti delle imposte.

Come reazione, i commercianti hanno cercato di evitare di ricevere troppe multe del fisco chiudendo i propri negozi e aprendoli solo dopo la partenza della polizia.

Di conseguenza l’attività commerciale della cittadina è stata notevolmente rallentata.

Messaggio di resistenza

Interrogate sulle ragioni della repressione israeliana, le famiglie di Issawiya hanno sottolineato la posizione contro l’occupazione adottata da molto tempo dal quartiere.

La cittadina è una delle più note a Gerusalemme per le sue reazioni alle aggressioni delle forze israeliane, e le azioni dei suoi cittadini non si limitano a respingere le misure prese da Israele in nome della sicurezza.

Le famiglie di Issawiya rifiutano anche la presenza delle istituzioni “civili” israeliane, come un centro comunitario finanziato dal governo nella cittadina.

I giovani di Issawiya, per inviare a Israele un messaggio di resistenza, hanno più volte incendiato il centro comunitario, in particolare l’ultima volta dopo l’assassinio di Obaid.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Piani di guerra contro Gaza mostrano la brutta strada che ha preso l’esercito israeliano

Shir Hever

6 agosto 2019 – Middle East Eye

Il nuovo capo dell’esercito pare intenzionato ad assecondare l’opinione pubblica di destra

Sono stati in parte rivelati piani di guerra per una possibile futura invasione di Gaza, mentre l’esercito israeliano delinea la strategia per una di campagna ad alta intensità per danneggiare le infrastrutture civili e indebolire Hamas, pur lasciandogli la possibilità di governare.

Gadi Eizenkot, capo dell’esercito israeliano prima di Aviv Kochavi, , è stato responsabile dell’ uccisione di circa 200 manifestanti palestinesi durante la Grande Marcia del Ritorno di Gaza, ma è comunque stato criticato in quanto troppo di sinistra. Ha chiesto che il soldato Elor Azaria venisse punito per aver giustiziato un palestinese ferito a Hebron, ha segnalato al governo che una crisi umanitaria danneggerebbe gli interessi di Israele e ha insistito che le truppe israeliane facciano ricorso al minimo indispensabile di forza per evitare che i palestinesi raggiungano la barriera di Gaza.

È chiaro che invece Kochavi asseconderà l’opinione pubblica israeliana di destra piuttosto che alimentare la leggenda secondo cui l’esercito israeliano è “il più morale al mondo”.

I nuovi progetti per Gaza sono l’ultima di una serie di iniziative che dimostrano come Kochavi condurrà l’esercito israeliano su un sentiero che porterà verso un aumento della violenza.

Falciare il prato”

La prima di queste mosse è stato il suo discorso di insediamento, in cui Kochavi ha affermato che avrebbe potenziato un esercito “letale”. La seconda è stata in giugno, quando si è saputo che Kochavi si aspetta centinaia di vittime nemiche al giorno e “un’eliminazione fisica aggressiva … ogni un’unità militare dovrà dimostrare la distruzione di più del 50% delle forze nemiche: vale per il Libano come per Gaza.”

Poi, a luglio, Kochavi ha nominato il noto brigadiere generale Ofer Winter al comando della 98ttesima “divisione di fuoco” dell’esercito, già comandata dallo stesso Kochavi.

Per anni Eizenkot ha ignorato Winter per la sua eccessiva aggressività contro i civili. Costui ha descritto l’invasione di Gaza nel 2014 come una guerra di religione contro gli “empi” palestinesi. Winter è stato anche responsabile dell’attacco contro Rafah noto come “venerdì nero” [le truppe israeliane attaccarono i civili palestinesi durante una tregua, causando decine di morti, ndtr.].

Non è un caso che la furia di Kochavi sembri concentrata su Gaza. Ai generali israeliani piace l’espressione “falciare il prato” in riferimento ai periodici attacchi contro Gaza, come se fosse un terreno incolto da tenere sotto controllo (al costo di migliaia di vittime) affinché non diventi una minaccia per la sicurezza di Israele.

Ma trasformare Gaza in un campo di sterminio serve anche agli interessi delle industrie belliche israeliane, che vi possono testare le proprie armi, e consente alle truppe israeliane di placare la sete di sangue e recuperare fiducia in se stesse.

Sollevare il morale

Nel 2006, dopo la fallita invasione del Libano, il morale tra le truppe israeliane era basso. In previsione delle elezioni del febbraio 2009 il governo israeliano volle ottenere una facile vittoria con il minimo di vittime da parte israeliana. Nel dicembre 2008 Israele lanciò un attacco di tre settimane contro Gaza, uccidendo più di 1.400 palestinesi.

In questi giorni il morale dell’esercito è di nuovo basso, in quanto la resistenza non violenta dei palestinesi ha obbligato le truppe israeliane ha mostrare moderazione. Negli ultimi anni i livelli di reclutamento sono scesi sotto il 50%, il che suggerisce che, anche se il servizio militare è obbligatorio, sia facile ottenere l’esonero. Le reclute si aspettano un servizio militare “gratificante”, la possibilità di “sentirsi uomini” e di usare armi letali. I mezzi di comunicazione di destra descrivono i soldati che evitano di sparare ai civili come soggetti a un’“umiliazione”.

Molti soldati hanno espresso solidarietà con Azaria, che ha infranto le regole ed ha ucciso un uomo indifeso, e disprezzo per Eizenkot, che si è rifiutato di fargliela passare liscia. Sulle reti sociali alcuni hanno manifestato la propria frustrazione nei confronti di ordini che impediscono loro di usare armi letali contro manifestanti palestinesi.

L’esercito e il ricercatore per i diritti umani Avihai Stollar hanno fatto luce sulle orrende ferite, che hanno provocato disabilità e morte, patite dai palestinesi lungo la barriera di Gaza. Stollar ha spiegato che i cecchini sono equipaggiati con due tipi di fucili, e se scelgono di utilizzare da vicino un fucile a lunga gittata possono volontariamente provocare danni e sofferenze eccessivi a manifestanti disarmati.

Reclamare a gran voce di agire

Ogni comandante militare impara che vittoria e sconfitta sono termini relativi, da misurare rispetto agli obiettivi strategici stabiliti all’inizio del conflitto. È quindi degno di nota che il piano di battaglia di Koshavi manchi di obiettivi strategici. Non c’è nessuna volontà di ristabilire il controllo diretto su Gaza, o di spodestare Hamas. È un piano per una incursione rapida, che semini morte e distruzione, per poi ritirarsi velocemente.

Credo che due obiettivi non dichiarati siano testare nuove armi e ricostituire la disciplina militare.

Per le compagnie di armamenti ogni attacco contro Gaza è un’opportunità per esibire le proprie tecnologie eperciò Kochavi ha detto alla stampa che nella sua nuova battaglia contro Gaza è incluso l’acquisto di nuove armi.

Ancor più importante, dare alle reclute l’opportunità di impegnarsi in una sanguinosa operazione militare – anche unilaterale – è fondamentale per mantenere la disciplina di un esercito israeliano indisciplinato che chiede di agire.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Shir Hever

Shir Hever è un membro del direttivo di “Jewish Voice for a Just Peace in the Middle East” [Voci Ebraiche per una Giusta Pace in Medio Oriente, organizzazione di ebrei contrari all’occupazione attiva in Germania, ndtr.].

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’esercito israeliano ha riconosciuto che non era necessario uccidere in tempo reale i manifestanti a Gaza

Edo Konrad

24 luglio 2019 – + 972

L’esercito israeliano ammette di aver segretamente cambiato la propria politica dopo che si è reso conto che sparare alle gambe a manifestanti disarmati era letale. Le associazioni per i diritti affermano che la rivelazione è un’ammissione che Israele ha ucciso i manifestanti senza alcuna giustificazione.

L’esercito israeliano avrebbe cambiato le regole sull’aprire il fuoco per i propri cecchini schierati lungo la barriera tra Israele e Gaza, dopo che è risultato chiaro che hanno ucciso senza che vi fosse necessità manifestanti palestinesi disarmati, cosa che le associazioni per i diritti umani ed altre denunciano da molto tempo.

Nel corso della Grande Marcia del Ritorno a Gaza i cecchini e i tiratori scelti israeliani hanno ucciso 206 manifestanti palestinesi e ferito migliaia di altri – compresi minori, medici e giornalisti. Le proteste settimanali tuttora in corso, che sono iniziate nel marzo 2018, chiedono la fine dell’assedio israeliano a Gaza e il diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi.

La giornalista israeliana Carmela Menashe, reporter militare per la radio pubblica israeliana, all’inizio di questa settimana ha twittato che le IDF [esercito israeliano, ndtr] hanno apportato la modifica quando hanno capito che “sparare alla parte bassa del corpo sopra il ginocchio in molti casi ha provocato la morte, pur non essendo questo l’obbiettivo.” Secondo Menashe i soldati hanno ricevuto istruzioni di “sparare sotto il ginocchio e, in seguito, alle caviglie.”

Un alto ufficiale della scuola antiterrorismo dell’esercito ha detto al sito di notizie israeliano Ynet che l’obbiettivo dei cecchini “non era uccidere ma ferire, perciò una delle lezioni (apprese) è stata a che cosa dovessero sparare …Inizialmente gli abbiamo detto di sparare alle gambe, abbiamo capito che ciò poteva uccidere, per cui gli abbiamo detto di sparare sotto il ginocchio. In seguito abbiamo emesso un ordine più preciso di sparare alle caviglie.”

Una dichiarazione pubblicata mercoledì dall’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem accusa gli ufficiali israeliani di aver ammesso apertamente di essere a conoscenza che i loro soldati uccidevano persone che, “anche agli occhi dello Stato, non c’era ragione che venissero ammazzate.”

“Nessuno si è preoccupato di cambiare gli ordini e l’esercito ha continuato ad agire per tentativi ed errori, come se non si trattasse di persone reali che potevano essere uccise o ferite…Persone le cui vite, e le vite dei loro familiari, sono state distrutte per sempre”, ha dichiarato B’Tselem.

L’esercito israeliano ha a lungo sostenuto che le proteste presso la barriera dovrebbero essere considerate nel contesto di un conflitto armato a lungo termine con Hamas, quindi le regole per aprire il fuoco sono soggette alle norme di un conflitto armato, che consentono un più ampio margine di azione per l’uso della forza letale.

Le associazioni per i diritti umani e molte altre hanno respinto questa logica, sostenendo che trattare proteste civili come conflitti armati è illegale. Al culmine delle manifestazioni, mentre aumentava il numero delle vittime, la procuratrice della Corte Penale Internazionale ha pubblicato un avvertimento secondo cui “la violenza contro civili – in una situazione come quella attuale a Gaza” potrebbe costituire un crimine di guerra. Chiunque ordini, incoraggi o attui tale violenza, ha detto, “è passibile di incriminazione dinnanzi alla Corte.”

Nonostante le critiche internazionali e le richieste di un’indagine indipendente sull’uccisione di manifestanti disarmati a Gaza, le autorità israeliane hanno ripetuto gli ordini di aprire il fuoco sui manifestanti disarmati.

Lo scorso maggio l’Alta Corte di Giustizia israeliana ha respinto due ricorsi delle associazioni israeliane per i diritti umani che chiedevano la fine delle uccisioni di civili disarmati presso la barriera. L’esercito israeliano in quel caso ha sostenuto che i proiettili veri potevano essere usati in risposta a “violenti disordini che costituiscono un pericolo reale e imminente per le forze dell’esercito o per i civili israeliani”, e che le regole d’ingaggio consentono “di sparare con precisione alle gambe di un importante fomentatore o istigatore [di disordini], per evitare il pericolo di una rivolta violenta.”

Lo Stato Maggiore ha anche aggiunto che “vi è un sistematico processo di elaborazione di istruzioni operative e loro implementazione”, che l’esercito ha affinato le procedure riguardo ad aprire il fuoco per “ridurre ulteriormente il più possibile le morti”, e che i casi in cui sono stati uccisi dei palestinesi sono stati riferiti allo Stato Maggiore per ulteriori indagini.

Edo Konrad è scrittore, blogger e traduttore e vive a Tel Aviv. In precedenza ha lavorato come redattore al quotidiano Haaretz ed è attualmente vice caporedattore della rivista +972 Magazine.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




“Sadica dimostrazione di violenza”: 12 palestinesi e 4 britannici ricoverati in ospedale dopo essere stati picchiati dalle forze israeliane a Sur Bahir

Yumna Patel

23 luglio 2019 – Mondweiss

Lunedì almeno 16 persone, 12 palestinesi e 4 persone di nazionalità britannica, sono state ricoverate in ospedale per ferite riportate durante una violenta, massiccia operazione di demolizione da parte di Israele nella cittadina di Sur Baher, nella Gerusalemme est occupata.

Nelle ore prima dell’alba di lunedì centinaia di soldati israeliani hanno preso d’assalto la zona di Wadi al Hummus di Sur Baher ed hanno iniziato a portare via a forza dalle loro case famiglie palestinesi per preparare la demolizione di 11 edifici nella zona.

In quel momento gente del posto ha detto a Mondoweiss che soldati israeliani armati hanno fatto irruzione nelle case ed erano “estremamente aggressivi” mentre cacciavano gli abitanti e gli attivisti internazionali che si erano barricati all’interno per manifestare solidarietà.

L’“International Solidarity Movement” [Movimento di Solidarietà Internazionale, che si oppone all’occupazione israeliana, ndtr.] (ISM) informa che 12 palestinesi, la cui identità rimane sconosciuta, sono stati ricoverati in ospedale dopo che le forze israeliane li hanno sbattuti giù dalle scale. Altri due sarebbero stati colpiti da breve distanza con proiettili ricoperti di gomma.

L’ISM aggiunge che quattro persone del gruppo di attivisti britannici sono state portate all’ospedale Makassed di Gerusalemme est dopo essere state “pestate, trascinate per i capelli, soffocate con una sciarpa e colpite con spray urticante dalla polizia di frontiera israeliana.”

Sono stati identificati come Bethany Rielly, 25 anni, Beatrice-Lily Richardson, 27, Chris Lorigan, 30, e Gabriella Jones, 20.

Il gruppo stava partecipando al sit-in di 30 persone insieme ad attivisti francesi e americani in casa dell’abitante di Wadi al-Hummus Ismail Obeidi, nella speranza che la loro presenza potesse contribuire a ritardare la demolizione della casa di Obeidi.

Secondo l’ISM, verso le 5 del mattino decine di soldati israeliani hanno sfondato la porta della casa di Obeidi e gli hanno subito spruzzato in faccia spray urticante mentre si trovava sulla soglia con le mani alzate.

Hanno usato una forza eccessiva, apparentemente divertititi, mentre sparavano gas lacrimogeni nello stretto spazio e brutalizzavano palestinesi e attivisti internazionali,” afferma l’ISM.

Rielly, Richardson, Lorigan e Jones si erano chiusi in un “piccolo gabinetto senza ventilazione” quando un soldato avrebbe aperto la porta e lanciato dentro un lacrimogeno. “Quando i soldati ci hanno trovato nel bagno, hanno lanciato molti candelotti lacrimogeni e hanno chiuso la porta. Quando abbiamo iniziato a soffocare nella stanza più piccola della casa, i soldati hanno fatto irruzione e ci hanno trascinati violentemente tirandoci da ogni parte, senza preoccuparsi della nostra incolumità o della correttezza,” avrebbe detto Lorigan secondo l’ISM.

Lorigan ha detto all’ISM che i soldati israeliani lo hanno trascinato per i piedi, lo hanno sollevato e colpito allo stomaco, mentre un soldato lo ha picchiato in testa quattro volte “con tutta la forza” prima di mettergli i piedi in testa e tirargli i capelli.

Poi mi ha preso alla gola ed altri hanno iniziato a darmi pugni sul torace. È stata una sadica dimostrazione di violenza da parte della polizia di frontiera,” ha detto Lorigan.

L’ISM aggiunge che, mentre Richardson veniva trascinata fuori dalla casa, le sue mani sono state rotte in modo talmente grave che ha subito una frattura delle nocche della mano sinistra, e la sua mano destra ha patito un grave danno ai tessuti e “rimarrà permanentemente deformata se non si sottoporrà a un intervento di chirurgia plastica.”

Durante l’attacco i soldati israeliani hanno spruzzato spray urticante in faccia a Jones, hanno strappato la sua maglietta, mettendo in mostra il suo reggiseno, e l’hanno afferrata così violentemente la lasciarle lividi sul braccio. Rielly, che era stata trascinata fuori per la sciarpa attorno al collo e poi per i capelli, ha detto all’ISM che quando ha iniziato a gridare un soldato le ha schiacciato il collo sotto un ginocchio.

Ha aggiunto che, mentre veniva trascinata via, ha sentito soldati ridere di lei. “Non potevo credere alla vera e propria aggressione che stavano compiendo contro di noi. Ero in tale stato di shock per tutto il tempo che non ho potuto aprire gli occhi,” ha detto Rielly all’ISM.

Eravamo civili disarmati che usavano mezzi nonviolenti per cercare di rallentare la distruzione da parte loro della casa di Ismail e della sua famiglia, che avevano costruito lavorando molto duramente. Per farlo sono arrivati centinaia di soldati. In quale altra parte del mondo la demolizione di una casa è un’operazione militare? Questa è la situazione della vita dei palestinesi che vivono sotto l’occupazione israeliana,” ha detto.

Secondo testimonianze di attivisti dell’ISM che erano in altre stanze della casa di Obeidi, i soldati israeliani hanno continuato le proprie azioni di aggressione persino dopo che i palestinesi della casa avevano alzato le mani e accettato di andarsene volontariamente.

Un attivista americano disarmato ha detto che i soldati afferravano le dita delle persone “come se volessero romperle.”

Poi siamo arrivati alle scale e ci hanno spinti giù dalle scale nella parte bassa della schiena e hanno colpito alcuni ragazzi palestinesi in modo talmente duro che sono rotolati giù dalle scale, e ciò è avvenuto quando non era in corso nessuna resistenza,” ha affermato l’attivista all’ISM.

L’ISM sottolinea che c’erano attivisti da Spagna, Gran Bretagna e Austria che si trovavano in un’altra casa di proprietà di Ghaleb Abu Hadwan e delle sue quattro figlie, un figlio e di un nonno. Edmond Sichrovsky, un attivista austriaco di origini ebraiche, che era nella casa, ha detto che le forze israeliane hanno fatto irruzione nella casa ed hanno trascinato fuori per primi i palestinesi, picchiando il nonno per terra davanti ai nipoti che piangevano e gridavano.”

Secondo Sichrovsky chiunque avesse un cellulare è stato poi portato via a forza prima che i soldati iniziassero ad aggredire lui e altri quattro attivisti.

Sono stato ripetutamente picchiato e preso a ginocchiate, con il risultato del naso sanguinante e di una serie di tagli, e mi hanno anche rotto gli occhiali con una ginocchiata in faccia. Una volta fuori, mi hanno sbattuto contro un’auto mentre gridavano insulti contro di me e contro donne attiviste, chiamandole puttane,” ha detto. Nel suo comunicato che documenta il racconto dei suoi attivisti, l’ISM afferma: “La demolizione di ieri a Wadi al-Hummus è stata una notizia nazionale ma, data l’assenza di mezzi di comunicazione nelle case delle famiglie, le dimensioni della violenza e del sadismo perpetrato dalle IOF [lsraeli Occupation Forces, Forze di Occupazione Israeliane, ndtr.] contro cittadini palestinesi e attivisti internazionali non sono state per lo più denunciate.”

Condividendo le storie personali dei suoi attivisti, l’ISM nota l’importanza di riconoscere il fatto che è “incomparabile” con il trattamento quotidiano dei palestinesi da parte dell’occupazione israeliana.

Diciassette persone, compresi il signor Odeidi, sua moglie e i loro sei figli, ora sono senza casa, così come la famiglia del signor Hadwan,” ha detto l’ISM.

Nei tentativi come la distruzione di questi tre edifici a Wadi al-Hummus, e altre centinaia di ordini di demolizione da parte del governo israeliano, sono più che mai evidenti le prove della continua pulizia etnica della Palestina.”

Yumna Patel è l’inviata in Palestina di Mondoweiss.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Inviato palestinese afferma che le demolizioni di case da parte di Israele sono un “crimine di guerra”

James Reinl

23 luglio 2019 – Al Jazeera

Israele accusato di “palese azione di pulizia etnica ed espulsione forzata” dopo la distruzione di case palestinesi.

Nazioni Unite – Martedì l’inviato palestinese Riyad Mansour ha detto che le ultime demolizioni di case palestinesi nei pressi di una barriera di separazione nei dintorni di Gerusalemme sono state “scioccanti e strazianti” e dovrebbero essere indagate in quanto crimine di guerra.

Rivolgendosi al Consiglio di Sicurezza dell’ONU a New York Mansour ha mostrato foto di bulldozer, della polizia e di soldati israeliani che il giorno prima hanno attaccato la comunità di Sur Baher mentre famiglie palestinesi guardavano come le loro case venivano demolite.

Nelle prime ore di lunedì un gran numero di soldati israeliani è entrato nelle case delle famiglie che vi risiedevano obbligandole a lasciare le proprie case prima di procedere a distruggerle utilizzando bulldozer militari e grandi quantità di dinamite,” ha detto Mansour.

Le scene sono state scioccanti e strazianti…questo è un palese atto di pulizia etnica e di espulsione forzata, rappresenta un crimine di guerra e deve essere totalmente condannato e perseguito in quanto tale.”

Secondo Mansour la demolizione di circa 10 edifici abitativi, la maggior parte dei quali ancora in costruzione, ha lasciato 17 persone senza casa, compresi 11 bambini. Anche altri 350 palestinesi attendono l’imminente arrivo di bulldozer davanti a casa, ha aggiunto. L’esercito israeliano considera le case, che si trovano vicino a un muro di separazione israeliano che attraversa la Cisgiordania occupata, un rischio “per la sicurezza”.

Legge e ordine”

A giugno la Corte Suprema israeliana ha emesso una sentenza a favore dell’esercito, ponendo fine a una battaglia legale durata sette anni, ed ha fissato lunedì come termine massimo per demolire le case.

Prima dell’incontro di martedì l’ambasciatore israeliano all’ONU Danny Danon fuori dall’aula del Consiglio ha detto ai giornalisti: “Noi crediamo nella legge e nell’ordine. Se costruisci senza permesso, la tua casa non rimarrà in piedi.”

Ciò è quanto avviene alle case degli ebrei e a quelle degli arabi…Non è piacevole. Abbiamo visto quelle foto, non è facile demolire case. Ma questa è la legge in Israele.” Israele attribuisce al muro di separazione – progettato per essere lungo 720 km quando sarà terminato – il merito di aver arginato gli attacchi suicidi dei palestinesi che hanno raggiunto un picco nei primi anni 2000.

I palestinesi accusano Israele di aver utilizzato la sicurezza come pretesto per cacciarli dalla zona come parte di tentativi di lungo termine per espandere le colonie. Ogni colonia sulla terra palestinese occupata è illegale in base alle leggi internazionali.

Rosemary DiCarlo, capo del Dipartimento per gli Affari Politici e la Pacificazione dell’ONU, ha affermato che le demolizioni violano le norme internazionali ed hanno colpito le condizioni di vita di circa 300 palestinesi del luogo.

La politica israeliana di distruzione delle proprietà palestinesi non è compatibile con i suoi obblighi in base alle leggi umanitarie internazionali e contribuisce al rischio di trasferimento forzato che minaccia molti palestinesi in Cisgiordania,” ha affermato DiCarlo.

Particolarmente eclatanti”

Parlando a nome dell’Unione Europea, l’inviata della Gran Bretagna all’ONU Karen Pierce ha detto che le demolizioni sono state “particolarmente eclatanti” in quanto sono avvenute in zone che, in base al trattato di pace del 1993 noto come accordi di Oslo, dovrebbero essere sottoposte alla giurisdizione palestinese.

Il villaggio sparso sul terrotorio di Sur Baher si trova a cavallo tra Gerusalemme est occupata e la Cisgiordania occupata. È stato preso e occupato da Israele nella guerra del 1967.

Le demolizioni sono parte dell’ultimo episodio della lunga disputa sul futuro di Gerusalemme, in cui risiedono più di 500.000 israeliani e 300.000 palestinesi.

L’inviato di pace degli Stati Uniti Jason Greenblatt ha affermato che i palestinesi otterranno poco ripetendo “un trito discorso” e facendo appello alle leggi internazionali o a risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU “pesantemente scritte”.

Il muro di Israele ha portato la sicurezza?

Al contrario, i dirigenti palestinesi dovrebbero rivedere il proprio rifiuto a impegnarsi nel tentativo di pace guidato dagli USA, che include un piano di sviluppo economico da 500 milioni di dollari per i palestinesi, la Giordania, l’Egitto e il Libano, ha detto Greenblatt.

I dirigenti palestinesi dovrebbero “mettere da parte rifiuti generalizzati di un piano che non hanno neppure visto, e mostrare la volontà di impegnarsi in buona fede, in un dialogo sensato con Israele,” ha detto al Consiglio.

Il presidente USA Donald Trump deciderà presto quando rendere pubblica la “parte politica del piano” a lungo attesa, ha aggiunto Grennblatt.

Il progetto per la pace che pensiamo di presentare non sarà ambiguo, a differenza di molte risoluzioni che sono state approvate in questa aula,” ha detto.

Fornirà dettagli sufficienti in modo che la gente possa vedere quali compromessi saranno necessari per raggiungere una soluzione realistica, durevole e complessiva di questo conflitto.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Turista americana maltrattata ed arrestata da agenti della polizia di frontiera israeliana mentre cerca di andare a un matrimonio a Ramallah

Laura Comstock

2 luglio 2019 – MondoWeiss

Il 1 luglio ho cercato di attraversare il confine tra Giordania e Israele per visitare luoghi storici e partecipare a un matrimonio a Ramallah. Ero stata invitata in Cisgiordania da una mia docente universitaria che si dà il caso sia palestinese. Ci eravamo separate al posto di controllo di frontiera sul lato giordano e il mio bagaglio era stato caricato sul suo autobus, mentre io ho dovuto rimanere indietro in Giordania ed aspettare l’autobus turistico.

Sono arrivata sul lato israeliano alle 15,30 ed ho aspettato di raggiungere il controllo passaporti. Quando ho spiegato le ragioni della mia visita in Israele al poliziotto di frontiera, sono stata immediatamente interrogata sulla storia della mia famiglia e mi è stato chiesto delle mie intenzioni in Israele. Non volevo far altro che visitare i principali luoghi di interesse, partecipare al matrimonio e tornare in Giordania entro due settimane.

Quando li ho informati che quella notte sarei stata con la mia docente universitaria a Ramallah il loro atteggiamento è completamente cambiato e sono diventati estremamente ostili.

Allora sono stata interrogata e tre agenti di frontiera mi hanno gridato contro con dietro di me una lunga fila di altri turisti americani. Sono stata immediatamente arrestata senza spiegazioni e il mio passaporto mi è stato tolto.

Dato che le mie valige erano già in Israele, avevo con me solo lo zaino e la pattuglia di frontiera ha fatto pesanti commenti su di me, affermando: “Come pensi di poter sopravvivere solo con una borsa?” Ho gentilmente spiegato agli agenti che le mie cose erano già passate dal posto di controllo di confine con la mia compagna di viaggio e che mi stavano aspettando.

Questa risposta non gli è bastata, e hanno fatto commenti ancora più pesanti riguardo alla quantità di denaro che avevo nel portafoglio. I soldi (50 dinari giordani) che avevo nel portafoglio sarebbero stati totalmente privi di importanza dato che in Israele avevo intenzione di utilizzare la mia carta di credito. Mi hanno obbligata a stare seduta da sola senza dirmi cosa stesse accadendo dopo che ho fornito loro indirizzi e informazioni sulla mia compagna di viaggio.

Dopo circa tre ore sono stata informata dal soldato di guardia che dovevo essere rispedita in Giordania senza le mie cose. Nelle mie borse avevo medicine importanti di cui non posso fare a meno, ma il controllo di frontiera e i soldati non se ne sono preoccupati e hanno fatto volgari apprezzamenti sulla mia necessità delle medicine, di occhiali da vista e lenti a contatto.

La ragione che mi hanno dato è stata: “È improbabile che qualcuno ti abbia invitata a un matrimonio qui e che tu non sia organizzata, per cui per la sicurezza di Israele sei rimandata in Giordania.”

Non so bene come partecipare a un matrimonio e fare turismo siano una ragione perché venga negato l’ingresso in un Paese.

La villania del personale israeliano al posto di controllo del ponte Re Hussein è stata ingiustificabile e una macchia nera sull’esercito e sul governo israeliani. Sono anche stata obbligata a farmi prendere le impronte digitali e mi hanno fatto sentire come una criminale e coperta d’insulti, finché sono stata messa a forza su un autobus di ritorno al lato giordano, dove sono stata trattata molto gentilmente dalla polizia e mi è stato garantito che sarei tornata ad Amman sana e salva.

Nessun essere umano dovrebbe sopportare scherno e intimidazioni solo perché viaggia. Ho contattato l’ambasciata USA per informarli di questo problema.

Sono disgustata e amareggiata per il fatto che un Paese preferisca disumanizzare le persone invece di lasciare che si spostino liberamente. Quello che è avvenuto oggi è stato solo un assaggio di quanto i palestinesi devono subire ogni giorno.

Laura Comstock è una studentessa esperta di storia e studi sul Medio Oriente all’università Bloomsburg. I suoi interessi di ricerca si concentrano sui rapporti delle minoranze in Medio oriente, principalmente in Egitto e nella Palestina occupata.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Un dipartimento del ministero della Difesa israeliano è incaricato di nascondere le prove della Nakba – da “Haaretz”

Jonathan Ofir

5 luglio 2019 MondoWeiss

Israele ha un dipartimento segreto del ministero della Difesa incaricato di far sparire documenti relativi alla Nakba. Oggi il quotidiano israeliano Haaretz ha pubblicato un‘estesa inchiesta di Hagar Shezaf intitolata “Seppellire la Nakba: come Israele ha sistematicamente nascosto le prove dell’espulsione degli arabi nel 1948”.

Il dipartimento è chiamato “Direzione della sicurezza dell’Istituzione della Difesa”, con l’acronimo in ebraico MALMAB. In ebraico risulta persino più ossessivo, perché le parole “Difesa” e “Sicurezza” sono le stesse (‘Bitahon’), quindi sarebbe “Direzione della Sicurezza per l’Istituzione della Sicurezza”. Quindi, da cosa l’istituzione della sicurezza si sta proteggendo?

Apparentemente si tratta della ricerca di documenti relativi a informazioni sensibili che riguardano il programma nucleare segreto di Israele. Ma è chiaro che il dipartimento si è occupato di informazioni sulla pulizia etnica della Palestina nel 1948 (e anche di espulsioni successive) in quanto minaccia strategica. Quindi documenti che sono già stati approvati dal censore per essere declassificati, già pubblici e citati, sono stati di nuovo messi in cassaforte per ordine di questi funzionari.

Per parecchi decenni il dipartimento segreto ha fatto sparire documenti. Alla fine degli anni ’80 le prove documentali relative ad avvenimenti della Nakba da parte di storici quali Benny Morris, Ilan Pappe e Avi Shlaim, noti anche come “Nuovi Storici”, sono diventate un problema per lo Stato, in quanto mettevano in dubbio la versione della propaganda israeliana e confermavano in larga misura quella che era stata derisoriamente definita la “narrazione palestinese”. Yehiel Horev, l’ufficiale che ha fondato e guidato il dipartimento per due decenni, fino al 2007, non è stato per niente reticente riguardo alla sua subdola motivazione. Alla domanda riguardo a un documento problematico che Morris aveva già citato nel 1986, Horev ha detto:

Non ricordo il documento a cui lei si riferisce, ma se l’ha citato e quello stesso documento non è là (cioè dove Morris dice che sia), allora i fatti di cui parla non sono affidabili. Se dice: ‘Sì, ho il documento,’ non lo posso discutere. Ma se dice che è scritto là, potrebbe essere vero o falso. Se il documento fosse già stato reso pubblico e fosse rinchiuso in archivio, direi che è una follia. Ma se qualcuno l’ha citato, c’è una differenza tra il giorno e la notte riguardo alla validità della prova che ha citato.

In altre parole, l’obiettivo del lavoro è minare la credibilità di quanti hanno già citato quei documenti.

Il documento specifico a cui ci si riferisce nella domanda non è un documento qualunque. È un documento del 30 giugno 1948 chiamato “L’emigrazione degli arabi della Palestina”, redatto dal servizio di intelligence militare israeliana, che elenca le ragioni della fuga dei palestinesi. Vengono elencati undici motivi in ordine di importanza, di cui i primi tre sono:

1. Operazioni ostili ebraiche (Haganah/IDF [principale milizia sionista/esercito israeliano, ndtr.] dirette contro insediamenti arabi;

2. Gli effetti delle nostre (Haganah/IDF) operazioni ostili contro insediamenti (arabi) vicini…(…soprattutto la caduta di grandi centri nei dintorni);

3. Operazioni di dissidenti (ebrei: Irgun Tzvai Leumi e Lohamei Herut Yisrael [altre due milizie sioniste ultranazionaliste e dedite al terrorismo fin dagli anni ‘30, ndtr.]).

In seguito il documento riepiloga i fattori e conclude:

Per riassumere le sezioni precedenti, si potrebbe pertanto dire che l’impatto delle “azioni militari ebraiche (Haganah e dissidenti) sulla migrazione è stato decisivo, in quanto circa il 70% degli abitanti ha lasciato le proprie comunità ed è emigrato in conseguenza di queste azioni.

A conferma che queste sono state le principali e fondamentali ragioni della fuga dei palestinesi, il documento attesta che i palestinesi per lo più se ne andarono per il timore immediato e a causa delle ostilità dirette, e non, come sosteneva la versione della propaganda israeliana, perché “i leader arabi glielo avevano detto.” Tale documento si riferisce alla responsabilità in termini di espulsione attiva dei palestinesi, indicando la nozione di pulizia etnica – che Ilan Pappe ha esplicitato nel suo libro fondamentale del 2006 “La pulizia etnica della Palestina.”

Dopo aver scritto l’articolo nel 1986, Morris ha citato questo documento anche in libri successivi. Ho fatto riferimento a questo in precedenti articoli, citando queste parti cruciali.

Quel documento è molto esteso. Nel bel mezzo della Nakba descrive già nei minimi dettagli lo spopolamento di 219 villaggi e 4 città, di 239.000 palestinesi. La campagna di pulizia etnica era in pieno svolgimento, e in sei mesi avrebbe riguardato lo spopolamento di 500 villaggi e città e circa 750.000 palestinesi. Il documento contiene 29 pagine ed è meticoloso in modo agghiacciante. Elenca il numero di abitanti in ogni località “durante un periodo normale”, in modo molto preciso (per esempio: Salihiyya – 1.520”; “Mansura – 360”) e poi elenca la ragione dello spopolamento (ad esempio: “Ein Zaytoun – distruzione del villaggio da parte nostra”; Qabba’a – nostro attacco contro di loro”). In genere viene elencata la direzione della fuga (per esempio: Qabba’a – “Libano”).

Quindi, che ne è di questo documento? C’è stato un incidente, una crepa nel muro del negazionismo. Benché sia diventato riservato dopo essere già stato citato, e nonostante il gruppo di lavoro del Malmab avesse ordinato che rimanesse segreto, pochi anni dopo ricercatori di Akevot, un istituto di ricerca che si dedica a documentare questioni relative ai diritti umani nel conflitto israelo-palestinese, trovarono una copia del testo e lo mostrarono alla censura militare – che ne autorizzò senza condizioni la pubblicazione. A quanto pare i dipartimenti deputati a nascondere le prove non hanno comunicato in modo corretto tra di loro. Questo documento fondamentale ora si può trovare integralmente grazie ad Akevot.

Ma il sistema di occultamento retroattivo continua a funzionare. Haaretz racconta la recente vicenda della storica israeliana Tamar Novick, che ha scoperto un documento del 1948 presso l’archivio Yad Yaari [centro di documentazione e studio su alcuni movimenti sionisti, ndtr.] di Givat Haviva [centro di documentazione del movimento dei kibbutz, ndtr.]. Il documento afferma:

Safsaf (in origine un villaggio palestinese nei pressi di Safed) – 52 uomini sono stati presi, legati uno all’altro, hanno scavato una fossa e sono stati colpiti a morte. Dieci si stavano ancora contorcendo. Sono arrivate le donne, chiedendo pietà. Sono stati trovati i corpi di 6 anziani. C’erano 61 corpi. Tre casi di stupro, uno a est di Safed, una ragazzina di 14 anni, e quattro uomini colpiti e uccisi. A uno hanno tagliato le dita con un coltello per prendergli l’anello.

Continua descrivendo altri massacri, saccheggi e violenze. Il documento in sé non era firmato (benché fosse nella documentazione del funzionario del dipartimento arabo del partito di sinistra MAPAM Yosef Vashitz) ed era tagliato a metà, per cui Novick ha deciso di consultarsi con Morris – che aveva citato avvenimenti simili nei suoi scritti. Le descrizioni di Morris sono prese da un altro documento (un rapporto del membro del Comitato Centrale del MAPAM Aharon Cohen), che proveniva anch’esso dallo stesso archivio. Quindi Novick è tornata a Givat Haviva per confermare i due documenti, ed ha scoperto che quello citato da Morris non c’era più.

In un primo tempo ho pensato che forse Morris non era stato preciso nelle sue note, che forse aveva fatto un errore,” ricorda Novick. “Mi ci è voluto del tempo prima di prendere in considerazione la possibilità che il documento fosse semplicemente scomparso.” Quando ha chiesto ai responsabili dove fosse il documento, le è stato detto che era stato messo sottochiave allo Yad Yaari per ordine del ministero della Difesa.

La Malmab ha fatto sparire anche documenti successivi. Per esempio una testimonianza del geologo Avraham Parnes relativa a un’espulsione di beduini nel 1956:

Un mese fa abbiamo visitato Ramon (cratere). Nella zona di Mohila alcuni beduini sono venuti da noi con le loro greggi e le loro famiglie e ci hanno chiesto di mangiare con loro. Ho risposto che avevamo molto lavoro da fare e non avevamo tempo. Nella nostra visita di questa settimana abbiamo di nuovo visitato Mohila. Invece dei beduini e delle loro greggi c’era un silenzio di morte. Una serie di carcasse di cammelli era sparsa nella zona. Abbiamo saputo che tre giorni prima l’IDF aveva ‘tolto di mezzo’ i beduini e le loro greggi erano state sterminate – i cammelli a fucilate, le pecore con le granate. Uno dei beduini, che ha iniziato a protestare, era stato ucciso, gli altri erano scappati…Due settimane prima era stato loro ordinato per il momento di rimanere dov’erano, poi era stato ordinato di andarsene e per accelerare le cose più di 500 capi erano stati massacrati…L’espulsione era stata realizzata ‘in modo efficace’.

La lettera continua citando quello che aveva detto uno dei soldati a Parnes, secondo la sua testimonianza:

Non se ne sarebbero andati se non avessimo fatto fuori le loro greggi. Una ragazza di circa 16 anni si è avvicinata a noi. Aveva una collana di perline di serpenti d’ottone. Le abbiamo strappato la collana e ognuno di noi ha preso un pezzetto come souvenir.

Recenti interviste, come quelle rilasciate all’inizio degli anni 2000 dal centro Yitzhak Rabin, sono state quasi tutte fatte sparire dalla Malmab, come questa sezione con il generale (della riserva) Elad Peled, intervistato dallo storico Boaz Lev Tov:

Peled: “Guarda, lascia che ti racconti qualcosa ancora meno piacevole e più crudele riguardo alla grande incursione a Sasa (villaggio palestinese nell’Alta Galilea). L’obiettivo era in effetti di scoraggiarli, di dire loro: ‘Cari amici, il Palmach (le truppe d’assalto dell’Haganah) può raggiungere ogni posto, voi non siete al sicuro.’ Quello era il cuore dell’insediamento arabo. Ma cosa abbiamo fatto? Il mio plotone ha fatto saltare 20 case con tutto quello che c’era dentro.”

Lev Tov: “Mentre la gente vi stava dormendo?”

Peled: “Penso di sì. Quello che avvenne là: arrivammo, entrammo nel villaggio, piazzammo una bomba nei pressi di ogni casa e poi Homesh suonò una tromba, perché non avevamo radio, e quello era il segnale perché (le nostre forze) se ne andassero. Corremmo all’indietro, gli artificieri rimasero, schiacciarono i pulsanti, era tutto rudimentale. Accesero la miccia o premetterono sul detonatore e tutte quelle case sparirono.”

Fortunatamente Haaretz ha avuto le trascrizioni integrali.

Questa ‘task force’ chiamata Malmab ha anche lanciato minacce contro archivisti. Menahem Blondheim, direttore dell’archivio presso l’Istituto di Ricerca Harry S. Truman dell’Università Ebraica di Gerusalemme, ricorda i suoi scontri con funzionari della Malmab nel 2014:

Ho detto loro che i documenti erano vecchi di decenni e che non potevo immaginare che ci potesse essere alcun problema di sicurezza che potesse giustificare una restrizione al loro accesso per i ricercatori. Mi hanno risposto: ‘Mettiamo che ci sia una testimonianza secondo cui durante la guerra d’indipendenza [la guerra tra milizie israeliane, Paesi arabi e palestinesi nel 1947-48, ndtr.] i pozzi vennero avvelenati?” Ho risposto: “Bene, quella gente dovrebbe essere processata.”

Haaretz nota come “il rifiuto di Blondheim portò a un incontro con un funzionario più importante del ministero, solo che questa volta l’atteggiamento che riscontrò fu diverso e vennero fatte minacce esplicite. Alla fine le due parti raggiunsero un compromesso.”

A quanto pare questo intervento di un ente segreto del ministero della Difesa sta provocando un considerevole dissenso negli archivi di Stato. Circa un anno fa, il consigliere giudiziario degli archivi di Stato, l’avvocatessa Naomi Aldouby, ha scritto un parere intitolato “Documenti negli archivi pubblici secretati senza autorizzazione.” Secondo lei la politica di accessibilità agli archivi pubblici è di esclusiva competenza del direttore di ogni istituzione. Gli storici sospettavano che questo ente segreto esistesse, perché ne avevano trovato tracce. Benny Morris:

Ne ero a conoscenza. Non ufficialmente, nessuno mi ha informato, ma ci ho avuto a che fare quando ho scoperto che documenti che avevo visto nel passato ora sono secretati. C’erano documenti dell’archivio dell’esercito che avevo usato per un articolo su Deir Yassin [villaggio palestinese in cui nel 1948 avvenne la strage più nota, ndtr.) e che ora sono secretati. Quando sono andato nell’archivio non mi è più stato possibile vedere l’originale, per cui ho sottolineato in una nota (nell’articolo) che l’archivio di Stato aveva negato l’accesso ai documenti che avevo reso pubblici 15 anni prima.

Questa scomparsa di documentazione in precedenza disponibile è parte di un più generale modello di segretezza. Secondo il direttore di Akevot , Lior Yavne, l’archivio dell’IDF, che è il più grande di Israele, è quasi del tutto inaccessibile. L’archivio dello Shin Bet (servizio di sicurezza [interna]) è “totalmente chiuso salvo una manciata di documenti.” Nel 1998 la riservatezza dei documenti più antichi dello Shin Bet e del Mossad [servizio di sicurezza esterno, ndtr.] doveva scadere (dopo 50 anni). Nel 2010 esso è stato retroattivamente esteso a 70 anni, e lo scorso febbraio a 90 anni, nonostante l’opposizione del Consiglio Supremo degli Archivi.

Lo storico Tuvia Friling, che fu capo archivista tra il 2001 e il 2004, dice che una delle ragioni principali per cui diede le dimissioni fu questo intervento da parte della Malmab. Afferma che in un primo tempo accettò il suo intervento con il pretesto che i documenti sarebbero stati messi su internet e che essa operava con il mandato di impedire che segreti nucleari divenissero accessibili a tutti, ma poi censurarono altre cose:

La secretazione posta su documenti riguardanti l’emigrazione araba nel 1948 è esattamente un esempio di quello che temevo. Il sistema di conservazione e archiviazione non è un’arma delle relazioni pubbliche dello Stato. Se c’è qualcosa che non ti piace – bene, così è la vita. Una società sana impara anche dai propri errori…Lo Stato può imporre riservatezza su alcuni dei suoi documenti – la domanda è se la questione della sicurezza non agisca come una sorta di copertura. In molti casi è già diventata una beffa.

Il fondatore della Malmab Yehiel Horev ha detto a Hagar Shezaf:

Quando lo Stato impone riservatezza, il lavoro pubblicato viene danneggiato perché lui (Morris) non ha il documento.

Shefaz gli chiede:

Ma nascondere documenti presenti nelle note di libri non è un tentativo di chiudere la porta della stalla dopo che i buoi sono già scappati?

Horev:

Se qualcuno scrive che il bue è nero, se il bue non è fuori dalla stalla, non puoi dimostrare che lo sia davvero.

Ma il bue è davvero nero. Un’altra intervista che la Malmab ha tentato di nascondere è quella con il generale Avraham Tamir (sempre tratta dalle interviste del Centro Yitzhak Rabin). Tamir dice:

Ben Gurion stabilisce come politica che dobbiamo demolire (i villaggi) in modo che non abbiano dove tornare. Cioè, tutti i villaggi arabi.

Proprio come la sistematica distruzione dei villaggi durante la Nakba, l’agenzia segreta israeliana Malmab “per la sparizione di documenti” sta cercando di far sparire le tracce della Nakba, in modo che gli storici non possano avere “nessun posto in cui tornare” in termini di ricerche, persino quando si tratta di verificare una documentazione storica critica già citata. La Malmab cerca di riportare i “buoi” della Nakba nella stalla – in modo che per dimostrare che “il bue è nero”, per dimostrare che c’è stata una Nakba, l’onere della prova spetti agli storici. E allora tutto diventa una discussione tra “narrazioni”.

Come dice Horev:

C’è ogni sorta di narrazione. Alcuni dicono che non ci fu nessuna fuga, solo espulsioni. Altri che ci fu una fuga. Non è bianco o nero. C’è una differenza tra la fuga e quelli che dicono che furono espulsi con la forza. È un’immagine diversa.

Hover e Israele sanno, precisamente, che nella stragrande maggioranza dei casi si trattò di una questione di espulsione forzata e del terrore di tale espulsione che si sparse tra le comunità palestinesi. Cercano di nascondere proprio i documenti che confermano ciò in termini chiari. La logica di questa negazione è evidente: intende scongiurare il problema della colpa per l’espulsione, per la pulizia etnica, in modo da negare la responsabilità per il ritorno dei rifugiati. Perché l’espulsione dei palestinesi è stata una necessità assolutamente fondamentale per il sionismo e Israele nei termini dell’”equilibrio demografico” in uno Stato “ebreo e democratico”. Conservare questo “equilibrio”, e negare il ritorno ai rifugiati è un obiettivo centrale del sionismo, e lo è stato dalla creazione di Israele.

La doppia presenza del termine “sicurezza” nell’acronimo Malmab è indicativo del suo opposto, l’insicurezza. Questa è l’intrinseca insicurezza morale israelo-sionista, che deriva dalla consapevolezza che il progetto sionista è basato per la sua stessa esistenza sullo sradicamento di altri. C’è una profonda consapevolezza in ogni sionista: non si potrà mai ottenere la sicurezza se non verrà posto rimedio al torto della (continua) pulizia etnica. Invece di affrontarlo, Israele pratica la negazione, nella speranza che se esso ne andrà via. Ma non lo farà. Questo bue è decisamente nero.

Jonathan Ofir è un musicista, conduttore e blogger / scrittore israeliano che vive in Danimarca.

(traduzione di Amedeo Rossi)