‘Una scelta crudele’: perché Israele prende di mira le scuole palestinesi

Ramzy Baroud

23 ottobre 2018,Ma’an News

Il 15 ottobre diversi studenti palestinesi, insieme a insegnanti e dirigenti, sono stati feriti nell’attacco dell’esercito israeliano ad una scuola a sud di Nablus in Cisgiordania. Gli studenti della scuola mista al-Sawiya al-Lubban stavano sfidando un ordine militare israeliano di chiudere la loro scuola, sulla base dell’accusa onnipresente che la scuola fosse un “sito di terrorismo e rivolta popolare.”

Terrorismo popolare” è un’espressione in codice dell’esercito israeliano che sta per proteste. Ovviamente gli studenti hanno tutto il diritto di protestare, non solo contro l’occupazione militare israeliana, ma anche contro l’aggressiva colonizzazione degli insediamenti di Alje e Ma’ale Levona. Questi due insediamenti ebrei illegali hanno illecitamente confiscato migliaia di dunum [unità di misura terriera in Medio Oriente: 10 dumun corrispondono a 1 ettaro, ndtr.] di terra appartenente ai villaggi di al-Sawiya e al-Lubban.

I cittadini israeliani” che l’esercito di occupazione intende proteggere attraverso la chiusura della scuola sono, di fatto, proprio i coloni ebrei armati che hanno terrorizzato per anni questa regione della Cisgiordania.

Secondo uno studio del 2016 commissionato dalle Nazioni Unite, ogni giorno almeno 2.500 studenti palestinesi di 35 comunità della Cisgiordania devono attraversare i checkpoint militari israeliani per raggiungere le loro scuole. Circa la metà di questi studenti ha subito aggressioni e violenze da parte dell’esercito solo per aver cercato di arrivare a lezione o di tornare a casa.

Però questa è solo metà della storia, perché i violenti coloni ebrei sono sempre alla ricerca di bambini palestinesi. Anche questi coloni, che “creano anche loro checkpoint”, compiono regolarmente atti di violenza, “tirando pietre” contro i bambini (palestinesi) oppure “maltrattandoli fisicamente”.

ONU, “i gruppi di protezione dell’UNICEF hanno riferito che i propri volontari hanno subito attacchi fisici, aggressioni, arresti e detenzione e minacce di morte”.

In altri termini, addirittura i “protettori” stessi cadono spesso vittime delle tattiche terroristiche dell’esercito e dei coloni ebrei.

Aggiungete a questo il fatto che l’area C – la maggior parte della Cisgiordania, sotto pieno controllo militare israeliano – rappresenta l’apice della sofferenza palestinese. Qualcosa come 50.000 bambini affrontano moltissimi ostacoli, compresa la mancanza di servizi, aggressioni, violenza, chiusura e ingiustificati ordini di demolizione.

La scuola di al-Sawiya al-Lubban, situata in area C, è quindi alla totale mercé dell’esercito israeliano, che non tollera alcuna forma di resistenza, comprese le proteste non violente degli alunni della scuola.

Ciò che è davvero confortante però è che, nonostante l’occupazione militare israeliana e le continue restrizioni alla libertà dei palestinesi, la popolazione palestinese resta una delle più istruite in Medio Oriente.

Secondo il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP), il tasso di alfabetizzazione in Palestina (stimato del 96,3%) è uno dei più alti in Medio Oriente ed il tasso di analfabetismo (3,7% tra le persone sopra i 15 anni), è uno dei più bassi al mondo.

Se queste statistiche non sono abbastanza incoraggianti, tenendo conto della costante guerra di Israele contro la scuola e i programmi scolastici, considerate questo: la Striscia di Gaza, assediata e devastata dalla guerra, ha un tasso di alfabetizzazione persino più alto della Cisgiordania, in quanto [queste zone] registrano rispettivamente il 96,6% e il 96%.

In realtà questo non dovrebbe stupire del tutto. I rifugiati palestinesi della prima ondata che subì la pulizia etnica dalla Palestina storica erano talmente desiderosi di assicurare che i loro figli fossero in condizioni di proseguire la loro educazione che già nel 1948 crearono delle tende adibite a scuola, gestite da insegnanti volontari.

I palestinesi sanno bene che l’educazione è l’arma più forte per ottenere la libertà a lungo negata. Anche Israele è consapevole di questa dicotomia, sapendo che una popolazione palestinese competente è in grado di sfidare il dominio israeliano molto più di una con scarsi mezzi culturali, di qui il fatto che Israele prenda di mira incessantemente e sistematicamente il sistema educativo palestinese.

La strategia israeliana nel distruggere l’infrastruttura del sistema scolastico palestinese si incentra sull’accusa di “terrorismo”: cioè, i palestinesi insegnano “terrorismo” nelle scuole; i libri scolastici palestinesi celebrano i “terroristi”; le scuole sono covi del “terrorismo popolare”, e varie altre accuse, che, nella logica israeliana, costringono l’esercito a chiudere scuole, distruggere servizi, arrestare gli studenti e sparargli.

Prendiamo ad esempio i recenti commenti fatti dal sindaco israeliano di Gerusalemme, Nir Barkat, che ora sta conducendo una campagna governativa con lo scopo di chiudere le attività dell’organizzazione dell’ONU che si occupa dei rifugiati palestinesi, l’UNRWA.

È tempo di rimuovere l’UNRWA da Gerusalemme”, ha annunciato Barkat all’inizio di ottobre.

Senza alcuna prova, Barkat ha denunciato che “l’UNRWA sta rafforzando il terrorismo” e che “ai bambini di Gerusalemme viene insegnato, sotto la sua egida, il terrorismo, e ciò deve essere fermato.”

Ovviamente Barkat è disonesto. L’attacco all’UNRWA a Gerusalemme fa parte di una più vasta campagna israelo-americana finalizzata a chiudere un’organizzazione che si è dimostrata fondamentale per lo status e il benessere dei rifugiati palestinesi.

Secondo questo pensiero distorto, senza l’UNRWA I rifugiati palestinesi non avrebbero un riconoscimento giuridico, quindi chiudere l’UNRWA significa chiudere una volta per tutte il capitolo dei rifugiati palestinesi e del loro diritto al ritorno.

La chiusura della scuola al-Sawiya al-Lubban, l’attacco all’UNRWA da parte di Israele e Stati Uniti, i tanti checkpoint che separano gli studenti dalle loro scuole in Cisgiordania ed altro ancora, sono molto più in rapporto tra loro della falsa accusa israeliana di “terrorismo”.

La scrittrice israeliana Orly Noy ha sintetizzato la logica israeliana in una frase: “Distruggendo le scuole nei villaggi palestinesi dell’area C e altrove, Israele costringe i palestinesi a fare una scelta crudele – tra la loro terra e il futuro dei propri figli”, ha scritto all’inizio di quest’anno.

E’ questa logica brutale che ha guidato la strategia del governo israeliano riguardo all’educazione dei palestinesi per 70 anni. È una guerra di cui non si può discutere o che non può essere compresa al di fuori della più complessiva guerra all’identità e alla libertà dei palestinesi e, di fatto, alla stessa esistenza del popolo palestinese.

La lotta degli studenti per il proprio diritto all’educazione alla scuola mista al-Sawiya al-Lubban non è assolutamente una scaramuccia isolata che riguarda alunni palestinesi e soldati israeliani dal grilletto facile. È invece al centro della lotta del popolo palestinese per la sua libertà.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è “The last earth: a palestinian story” [L’ultima terra: una storia palestinese].

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Palestina: diario di un bambino dell’UNRWA

Ramzy Baroud

22 settembre 2018, Al-Jazeera

Nonostante il livello scadente della scuola ed il pane raffermo, noi palestinesi vediamo l’UNRWA come un simbolo del nostro inalienabile diritto al ritorno.

Conservare la propria dignità quando si conduce una triste esistenza in un campo profughi non è un’impresa facile. I miei genitori hanno combattuto duramente per risparmiarci le quotidiane umiliazioni che implica il vivere a Nuseirat – il più grande campo profughi di Gaza. Ma quando ho compiuto sei anni e sono entrato nella scuola elementare maschile di Nuseirat, gestita dall’UNRWA [Agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi, ndtr.], non c’è stato scampo.

Non ero un rifugiato solo nei documenti ufficiali delle Nazioni Unite, ma lo ero anche in pratica, proprio come tutti i miei compagni.

Essere un rifugiato palestinese significa vivere costantemente in un limbo – senza la possibilità di reclamare ciò che è stato perduto, l’amata patria, né di concepire un futuro alternativo ed una vita in libertà, giustizia e dignità.

Come possiamo ricostruire la nostra identità che è stata distrutta da decenni di esilio, quando i nostri potenti aguzzini hanno collegato la nostra stessa esistenza e il nostro ritorno in patria alla loro scomparsa? Nella logica israeliana la nostra semplice richiesta di attuazione del diritto al ritorno sancito a livello internazionale equivale ad un appello al “genocidio”.

In base a quella stessa logica perversa, il fatto che il mio popolo viva e si riproduca è una “minaccia demografica” ad Israele. Quando Israele ed i suoi amici nel mondo sostengono che il mio popolo è “un’invenzione”, non solo stanno cercando di annichilire la nostra identità collettiva, ma stanno giustificando nelle loro menti le continue uccisioni e mutilazioni di palestinesi, senza che alcuna considerazione morale o etica le ostacoli.

Io sono cresciuto a Gaza resistendo a questo tentativo di Israele di cancellare noi palestinesi. “Ramzy Mohammed Baroud: rifugiato palestinese”, stava stampato su ogni pezzo di carta che io ho posseduto dal giorno in cui ho aperto gli occhi.

Con un sempre crescente numero di rifugiati in uno spazio sempre più ridotto a Gaza, il nostro linguaggio corrente è stato dominato da un vocabolario a cui quattro generazioni di rifugiati sono dolorosamente abituati: soldati assassini, barriere, aerei da guerra, una costante sensazione di morte incombente, fame, coprifuoco militari, resistenza, martiri e UNRWA.

Sempre l’UNRWA. L’ United Nations Relief and Works Agency [Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e il Lavoro] per i rifugiati palestinesi ha accompagnato la nostra via dell’esilio fin dal primo momento. Pochi mesi dopo la Nakba – la catastrofica distruzione della patria palestinese e l’esilio di circa 750.000 palestinesi nel 1948 – l’UNRWA è diventata sinonimo del nostro esodo e della nostra odissea ancora in atto.

Molto si può dire sulle circostanze sottese alla creazione dell’UNRWA da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel dicembre 1949, sulle sue operazioni, sull’efficienza ed efficacia del suo lavoro, che cerca di soddisfare le esigenze di cinque milioni di rifugiati.

Ma per me, per la mia famiglia e per molti palestinesi, l’UNRWA non è stata meramente un’organizzazione di soccorso o assistenza. Essere registrati come rifugiati presso l’UNRWA ci ha fornito una temporanea identità che ci ha permesso di trascorrere 70 anni di esilio, vagando senza una casa o neppure un piano per tornare in quella che è stata, per un migliaio di anni e più, la nostra storica patria palestinese.

È come se il timbro di “rifugiato” su ogni certificato che possedessimo – nascita, morte e tutto quello che vi è in mezzo – fosse una bussola, che segnava i luoghi da dove provenivamo: il mio distrutto villaggio di Beit Daras e non il campo profughi di Nuseirat; non Jabaliya, Shati’, Yarmouk [in Siria, ndtr.] o Ein El-Hilweh [in Libano, ndtr.], ma le 600 cittadine e villaggi che furono distrutti durante l’attacco sionista alla Palestina.

L’esistenza di questi villaggi può essere stata cancellata, poiché un nuovo Paese è stato costruito per intero sulle loro rovine, ma i rifugiati palestinesi sono rimasti – sono sopravvissuti ed hanno progettato il loro ritorno a casa. Lo status di rifugiato dell’UNRWA era il riconoscimento internazionale dei nostri diritti.

Sinceramente quando avevo sei anni non mi importava nulla di tutto ciò. Mi mettevo in fila a scuola come tutti gli altri bambini; tutte le mattine scandivo gli slogan di routine che ci dicevano di recitare; prendevo il mio posto dietro il decrepito banco che portava i segni di generazioni di bambini rifugiati che incidevano i loro nomi e i riferimenti a passate guerre e tragedie; e facevo tutto quello che dovevo fare per essere un bravo bambino UNRWA.

E nel primo anno, quando arrivò il primo acquazzone invernale, imparai anche a sistemare il mio banco in modo da schivare l’acqua che pioveva dal soffitto.In tutti i soffitti di tutte le aule Unrwa in cui sono stato c’erano perdite d’acqua quando pioveva.

Infatti, uno dei miei più bei ricordi della scuola è quando, in terza classe, la nostra aula fu allagata e il nostro insegnante di storia, arabo e matematica, Mohammed Diab, ci disse di sederci sopra i nostri banchi mentre lui proseguiva la lezione. Morivamo di freddo nelle nostre fruste giacchette fornite dall’UNRWA, indossate da molti altri prima di noi. Ci accalcavamo insieme eccitati mentre l’acqua invadeva il pavimento dell’aula e il professor Diab continuava a raccontare le storie della passata grandezza araba dalla Palestina all’Andalusia.

Fu in quella scuola dell’UNRWA che disegnai la mia prima bandiera palestinese e provai l’esperienza della mia prima incursione da parte dell’esercito israeliano. Mentre gli studenti, accecati dai gas lacrimogeni e dal fumo, correvano in tutte le direzioni senza sapere come raggiungere il cancello principale per scappare, ricordo che quelli della sesta classe tornarono indietro per soccorrere i bambini più piccoli. Fu allora e là che compresi che cosa significa il coraggio palestinese.

Disegnare una gran quantità di bandiere era un rituale che si ripeteva nella prima settimana di ogni anno. Non era una prassi prevista ufficialmente dall’UNRWA, poiché l’amministrazione militare israeliana di Gaza arrestava i bambini, multava pesantemente i genitori e chiudeva le scuole a causa di ciò che presumevano essere un atto illecito. Sventolare o persino possedere una bandiera palestinese era un reato a Gaza. Lo facevamo lo stesso.

A volte, nei primi giorni di scuola, un grosso camion blu si fermava nella nostra scuola, accolto dalle grida di eccitazione di centinaia di bambini. Entro poche ore ogni allievo avrebbe ricevuto diversi libri usati, due quaderni nuovi, una serie di matite, un quaderno bianco da disegno e quattro pastelli.

Quelli abbastanza fortunati da possedere i pastelli verdi, rossi e neri li avrebbero condivisi con gli altri, in modo che tutti correvamo a disegnare il maggior numero possibile di bandiere palestinesi.

I soldati israeliani sapevano sempre in anticipo della nostra azione di ribellione collettiva e ci aspettavano come avvoltoi nelle strade. Molti bambini UNRWA venivano ammanettati e trascinati nelle “tende” militari – un enorme accampamento dell’esercito che separava Nuseirat dal campo profughi di Buraij – mentre molti invocavano piangendo i genitori e supplicavano pietà a dio.

Una volta ho gettato la mia borsa in un cespuglio di spine per sfuggire alla furia dei soldati israeliani. Recuperarla è stato come essere punto contemporaneamente da un centinaio di aghi.

Gli israeliani ci terrorizzavano anche con i loro continui raid nelle scuole dell’UNRWA. Migliaia di bambini e ragazzi furono uccisi e feriti in quel modo, soprattutto durante la prima intifada palestinese del 1987. Spesso le nostre proteste iniziavano nelle scuole UNRWA ed era in quelle stesse scuole che ci incontravamo per consolarci l’un l’altro per il ferimento e il martirio dei nostri compagni di scuola.

No, la guerra di Israele non prendeva di mira l’UNRWA in quanto organo dell’ONU, ma in quanto organizzazione che ci consentiva di mantenere la nostra identità di rifugiati con diritti inalienabili, che chiedono giustizia e ritorno alle nostre case. L’UNRWA alimentava in noi la speranza che un giorno ci saremmo liberati di ciò che doveva essere un’identità temporanea, per riprenderci la nostra vera identità, tornando ad essere nuovamente noi stessi, il popolo palestinese, un’antica Nazione che è esistita per secoli prima di Israele.

È in gran parte a causa di queste esperienze che l’UNRWA è una parte essenziale della mia identità come rifugiato palestinese. Questa intrinseca relazione non è fondata sui servizi che l’UNRWA fornisce o non fornisce, ma piuttosto sui principi politici e giuridici su cui si basa la sua esistenza.

Quando entrai nella scuola dell’UNRWA ottenni anche la mia prima tessera alimentare. La usavo raramente alla “tu’meh” (letteralmente “alimentazione”) – il centro alimentare dell’UNRWA nel nostro campo profughi. Fin da molto piccolo detestavo quell’esperienza. Non ci tenevo a una fettina di pane secco, mezzo uovo e mezza mela. Stare in coda in quella lunga fila di bambini poveri alla ‘tu’meh’ – un posto che puzzava di migliaia di uova sode – non era mai un’ esperienza piacevole.

Qualche settimana dopo diedi di nascosto la mia tessera alimentare ad un altro compagno povero, un ragazzo beduino che si chiamava Hamdan, la cui famiglia non aveva ottenuto lo status di rifugiati. Non fu un gesto virtuoso da parte mia; il cibo dell’UNRWA era semplicemente disgustoso.

Si, nonostante i tetti della scuola che perdono acqua ed il pane raffermo, l’UNRWA è stata e rimane fondamentale ed insostituibile. Per quanto riguarda Israele, i rifugiati dovevano essere “imprecisati” – in effetti, era quello il termine preciso scritto sul mio lasciapassare emesso da Israele nello spazio riservato alla nazionalità. I fondatori di Israele preconizzavano un futuro in cui i rifugiati palestinesi alla fine sarebbero svaniti, scomparendo all’interno della vasta popolazione del Medio Oriente. Settant’anni dopo, gli israeliani si cullano ancora in quella stessa illusione.

Ora, con l’aiuto dell’amministrazione USA di Donald Trump ostile ai palestinesi, stanno programmando campagne ancor più sinistre per far sì che i rifugiati palestinesi svaniscano, attraverso la distruzione dell’UNRWA e la ridefinizione dello status di rifugiati di milioni di palestinesi. Negando all’UNRWA gli stanziamenti di cui ha urgente bisogno, Washington intende imporre una nuova realtà, in cui né i diritti umani né il diritto internazionale o l’etica contano qualcosa.

Che cosa ne sarà dei rifugiati palestinesi sembra non avere importanza per Trump, per il suo genero e consigliere Jared Kushner e per gli altri dirigenti USA. Gli americani stanno ora a guardare con insolenza, sperando che la loro cinica strategia costringa alla fine in ginocchio i palestinesi, in modo che si sottomettano definitivamente ai dictat del governo israeliano.

Gli israeliani vogliono che i palestinesi rinuncino al loro diritto al ritorno per raggiungere la “pace”. La “visione” condivisa tra israeliani e americani per i palestinesi significa sostanzialmente l’imposizione dell’apartheid. Il mio popolo non l’accetterà mai.

L’ultima follia di USA e Israele si dimostrerà vana. In passato, le successive amministrazioni USA hanno fatto tutto quel che potevano per sostenere Israele e punire gli intransigenti palestinesi. Tuttavia il diritto al ritorno è rimasto la forza trainante dietro la resistenza palestinese, come ha dimostrato all’inizio di quest’anno la ‘Grande Marcia del Ritorno’ a Gaza.

Tutto il denaro che c’è nei forzieri di Washington non estirperà mai ciò che ora è una fede profondamente radicata nei cuori e nelle menti di milioni di rifugiati in tutta la Palestina, nel Medio Oriente e nel mondo.

Molti anni dopo essere entrato nel sistema educativo dell’UNRWA, ancora mi identifico con il bambino UNRWA che sono stato. Mi chiedo che cosa ne sia stato del mio vecchio banco nella mia prima aula della scuola. È crollato sotto il peso degli anni e delle successive guerre?

Se esiste ancora, spero davvero che i miei scarabocchi ci siano ancora. Ho inciso una mappa della Palestina storica, l’ho circondata di una corona di fiori e vi ho scritto sotto: Ramzy Baroud. Palestina. Libertà. Giustizia. Resistenza. Raed Muanis. Raed era un mio amico, vicino di casa e anche lui bambino UNRWA, ucciso dai soldati israeliani che lo avevano visto correre con una piccola bandiera palestinese.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

Ramzy Baroud è un giornalista internazionalmente accreditato, esperto di media, scrittore.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

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Sono Mohammed Bakri, regista perseguitato da Israele

20 settembre 2018

Mohammed Bakri, è un attore, regista e sceneggiatore palestinese con cittadinanza israeliana. Da 15 anni è perseguitato da Israele e a gennaio 2019 dovrà subire l’ennesimo processo per diffamazione. La sua ‘colpa’? Essere l’autore di “Jenin, Jenin”, un documentario del 2002 che denuncia, attraverso i racconti di testimoni oculari, i crimini commessi dall’esercito israeliano durante l’attacco al campo-profughi di Jenin.

Sottotitoli a cura di Assopace Palestina,




Gli avvenimenti dal 29 luglio, quando la Marina israeliana ha assalito la “al-Awada” della Freedom Flottilla, l’ha dirottata e ha deviato verso Israele la sua rotta verso Gaza

dott.ssa Swee Ang, medico di bordo della C

4 agosto 2018

Riceviamo e pubblichiamo la testimonianza diretta della dottoressa Swee Ang, medico di bordo dell’imbarcazione al-Awad che fa parte della Freedom Flottilla che negli scorsi giorni ha cercato di arrivare a Gaza con un carico di medicinali e per protestare contro l’assedio a cui la Striscia è sottoposta da Israele ed Egitto. Ci pare molto importante dare voce alla sua testimonianza in quanto l’arrembaggio in acque internazionali e la deportazione degli attivisti è stata del tutto ignorata dai media mainstream . Essa dimostra quale sia il comportamento dello Stato di Israele in violazione delle più basilari norme del codice della navigazione e persino del rispetto dovuto a persone ingiustamente imprigionate per aver manifestato solidarietà nei confronti del popolo palestinese.

Era previsto che l’ultima parte del viaggio della “al-Awada” (“La barca del ritorno”) raggiungesse Gaza il 29 luglio 2019. Eravamo pronti a raggiungere Gaza quella sera. C’erano 22 persone a bordo, compreso l’equipaggio, con 15.000 dollari di antibiotici e bende per Gaza. Alle 12,31 abbiamo ricevuto una chiamata persa da un numero che cominciava con +81…In quel momento Mikkal stava al timone dell’imbarcazione. Il telefono ha suonato di nuovo, con il messaggio che stavamo entrando in acque israeliane. Mikkel ha risposto che eravamo in acque internazionali e secondo le leggi del mare avevamo diritto a un passaggio pacifico. L’accusa di aver oltrepassato (le acque territoriali) è stata ripetuta in continuazione mentre Mikkel ripeteva il messaggio che stavamo navigando in acque internazionali. Tutto ciò è continuato per circa mezz’ora, mentre al-Awda era a 42 miglia nautiche dalla costa di Gaza.

Prima dell’inizio di quest’ultimo tragitto abbiamo passato 2 giorni a imparare azioni non violente e ci siamo preparati in anticipo all’arrembaggio israeliano contro la nostra imbarcazione. Le persone più fragili, soprattutto i malati, dovevano sedersi a poppa sul ponte superiore con le mani sul tavolo di coperta. La leader di questo gruppo era Gerd, una grande atleta norvegese di 75 anni, e aveva nel gruppo l’aiuto di Lucia, un’infermiera spagnola.

La gente che doveva organizzare una barriera non violenta per gli israeliani saliti sul ponte e si fossero impadroniti dell’imbarcazione ha formato tre file – due di 3 e una terza di 2 persone, che bloccassero la porta della sala di comando per proteggerla il più a lungo possibile. C’erano staffette tra la sala di comando e la poppa del ponte di coperta. Il capo dell’imbarcazione, Zohar, ed io eravamo ai due estremi del corridoio dei gabinetti, dove scrutavamo l’orizzonte e informavamo tutti di ogni avvistamento di navi da guerra. Ho scherzato con Zohar e gli ho detto: “Siamo la brigata dei gabinetti”, ma credo che Zohar non l’abbia trovato molto divertente. È stata probabilmente una battuta di cattivo gusto, date le circostanze. Io avrei potuto essere utile anche come staffetta e avrei avuto l’accesso ad ogni parte del ponte in qualità di medico di bordo.

Presto abbiamo visto almeno tre grandi navi da guerra israeliane all’orizzonte con 5 o più barche veloci (Zodiac) che sfrecciavano verso di noi. Mentre gli Zodiac si avvicinavano ho visto che avevano a bordo soldati con mitragliatrici e che sulle barche c’erano grandi mitragliatori montati in posizione e puntati contro di noi. Dal mio punto di osservazione il primo soldato israeliano è salito a bordo a livello della cabina, si è arrampicato sulla scaletta dell’imbarcazione verso il ponte superiore. Il suo volto era coperto con un passamontagna bianco e dietro di lui ce n’erano molti altri, tutti mascherati. Erano armati di mitra e con piccole videocamere sul petto.

Immediatamente si sono impadroniti della sala di comando superando la prima fila e torcendo le braccia dei partecipanti, sollevando Sara e scagliandola lontano. Joergen, il capitano, era troppo grosso per essere malmenato, per cui l’hanno colpito con una pistola elettrica prima di toglierlo di mezzo. Hanno attaccato la seconda fila prendendosela con Emelia, infermiera spagnola, l’hanno tolta di mezzo rompendo così la fila. Poi si sono avvicinati alla porta della sala di comando ed hanno colpito con la pistola elettrica Charlie, il primo ufficiale, e Mike Treen, che stavano ostruendo l’ingresso della sala di comando. Anche Charlie è stato colpito. Mike non li lasciava passare nemmeno dopo essere stato colpito agli arti inferiori con il dissuasore elettrico, per cui è stato colpito con la pistola elettrica al collo e al volto. In seguito ho visto Mike sanguinare dalla guancia sinistra. Quando l’ho visitato era semi-cosciente.

Hanno fatto irruzione nella sala di comando rompendo la serratura, hanno forzato il motore per spegnerlo e hanno tolto prima la bandiera palestinese e poi quella norvegese e l’ hanno calpestata.

Poi hanno portato via tutta la gente dalla parte anteriore della imbarcazione attorno alla sala di comando e l’hanno spostata con la forza e l’intimidazione, sbattendola a poppa. Tutti sono stati obbligati a sedersi sul pavimento in fondo, tranne Gerd, Lucy e la gente più debole che era seduta attorno alla tavola sui sedili di legno. I soldati israeliani allora hanno formato una fila, isolando le persone nella parte posteriore impedendo loro di tornare a prua.

Come siamo arrivati a poppa siamo stati tutti perquisiti e ci è stato ordinato di consegnare i nostri telefonini o li avrebbero presi con la forza. Questa parte di ricerca e confisca è stata fatta sotto il comando di una soldatessa. Oltre ai telefonini sono stati portati via anche le medicine e i portafogli. Al momento (4 agosto 2018) a nessuno è stato restituito il telefonino.

Ho visitato Mike e Charlie. Charlie aveva ripreso conoscenza e i suoi polsi erano strettamente legati con lacci di plastica. Mike stava sanguinando da un lato del volto, e ancora non era del tutto cosciente. Le sue mani erano legate molto strette con i lacci, la circolazione nelle dita era interrotta e le sue dita e i palmi delle mani avevano iniziato a gonfiarsi. A questo punto tutte le persone sedute per terra hanno iniziato ad gridare chiedendo che i lacci venissero tagliati. È passata circa mezz’ora prima che gli venissero finalmente tolti.

In quel momento a Charlie, il primo ufficiale, è stata consegnata la bandiera norvegese. Era palesemente arrabbiato mentre diceva a tutti noi che la bandiera norvegese era stata calpestata. Charlie si è arrabbiato più per la bandiera norvegese calpestata che per il fatto di essere stato picchiato e colpito con la pistola elettrica.

I soldati hanno poi iniziato a chiedere del capitano dell’imbarcazione. I ragazzi si son messi a rispondere di essere ognuno il capitano. Alla fine gli israeliani hanno capito che il capitano era Herman e hanno preteso di portarlo nella sala di comando. Herman ha chiesto che qualcuno andasse con lui, e io mi sono offerta. Ma come ci siamo avvicinati alla sala di comando sono stata spinta via e Herman è stato obbligato ad entrare da solo. Divina, la nota cantante svedese, nel frattempo si è liberata dalla poppa ed è andata a prua per vedere attraverso la finestra della sala di comando. Ha iniziato a gridare e piangere: “Basta, basta, stanno picchiando Herman, gli stanno facendo del male.” Non potevamo vedere quello che vedeva Divina, ma sapevamo che era qualcosa di molto allarmante. In seguito, quando Divina ed io eravamo insieme nella stessa cella in prigione, mi ha detto che stavano scagliando Herman contro la parete della sala del timone e lo prendevano a pugni sul petto. Divina è stata portata via a forza e i soldati l’hanno riportata a poppa torcendole il collo.

Io sono stata spinta di nuovo a poppa. Dopo un po’ il motore dell’imbarcazione è partito. Più tardi Gerd mi ha raccontato di essere riuscita a sentire Herman raccontare in prigione al console norvegese che gli israeliani volevano che lui avviasse il motore, minacciando di ucciderlo se non l’avesse fatto. Ma loro non capivano che su quell’imbarcazione, una volta fermato, il motore può essere fatto ripartire solo manualmente nella sala macchine al livello inferiore. Arne, il macchinista, si è rifiutato di far ripartire il motore, per cui gli israeliani hanno portato giù Herman e lo hanno picchiato davanti ad Arne, dicendo chiaramente che avrebbero continuato a picchiarlo se Arne non avesse fatto partire il motore. Arne ha 70 anni e quando ha visto che il volto di Herman diventava livido, ha ceduto e ha fatto partire il motore manualmente. Gerd è scoppiata a piangere raccontando questa parte della vicenda. Gli israeliani hanno poi preso il controllo dell’imbarcazione e l’hanno diretta verso Ashdod.

Quando la barca si è mossa, i soldati israeliani hanno portato Herman all’ambulatorio medico. Ho visitato Herman ed ho visto che soffriva molto, in silenzio ma cosciente, con respirazione spontanea ma molto poco profonda. Il medico dell’esercito israeliano stava cercando di convincere Herman a prendere qualche medicina per il dolore. Herman non ne voleva sapere. Il medico israeliano mi ha spiegato che quello che gli stava offrendo non era una medicina dell’esercito, ma sua personale. Mi ha dato il farmaco in mano in modo che lo potessi controllare. Era una piccola bottiglietta di vetro marrone ed ho immaginato che fosse un qualche tipo di preparazione di morfina liquida, probabilmente equivalente a Oromorph o a Fentanyl. Ho detto a Herman di prenderlo e il dottore gli ha detto di prenderne 12 gocce, dopodiché Herman è stato portato fuori e sdraiato su un materasso a poppa. È stato vegliato dalla gente che lo circondava e si è addormentato. Dalla mia posizione ho visto che respirava meglio.

Una volta sistemato Herman, mi sono concentrata su Larry Commodore, leader nativo americano e ambientalista. È stato eletto due volte capo della sua tribù. Larry ha un’asma lieve e con la situazione di stress il mio timore era che potesse avere un brutto attacco e necessitasse di un’iniezione di adrenalina. Stavo per fargli fare degli esercizi di respirazione profonda. Ma Larry non stava per avere una crisi di asma, era impegnato a parlare con un israeliano con la faccia coperta da un panno nero. Quest’uomo era evidentemente il comandante.

Ho chiesto all’israeliano mascherato il suo nome e ha detto di chiamarsi Field Marshall Ro…Larry ha capito male, pensava che avesse detto di chiamarsi Field Marshall Rommel e si è messo a gridare come potesse, lui israeliano, prendere il nome di un nazista. Field Marshall lo ha smentito e si è presentato come Field Marshall (?) Ronan. Quando ho fatto lo spelling di Ronan mi ha rapidamente corretta dicendo che il suo nome era Ronen, e che lui, Field Marshall Ronen, era il comandante.

I soldati israeliani avevano tutti telecamere addosso e ci hanno filmato tutto il tempo. Ci è stata portata sul ponte una cassetta di panini e pere. Nessuno di noi ha toccato il loro cibo in quanto avevamo deciso di non accettare l’ipocrisia e la carità israeliane. Il nostro cuoco, Joergen, aveva già preparato dei deliziosi biscotti molto calorici e proteici con noci e cioccolato, avvolti in carta stagnola, da consumare se fossimo stati catturati, in quanto sapevamo che sarebbero stati un lungo giorno e una lunga notte. Joergen lo chiamava cibo per il viaggio.

Sfortunatamente, quando stavo per mangiarlo, gli israeliani me l’hanno tolto e l’hanno buttato via. Mi hanno solo detto: “È vietato”. Non ho mangiato niente per 24 ore, perché ho rifiutato il cibo dell’esercito israeliano e non avevo cibo mio.

Mentre navigavamo verso Israele abbiamo potuto vedere la costa di Gaza nella totale oscurità. C’erano 3 piattaforme di petrolio/gas in mare a nord di Gaza. Le luminose fiamme del petrolio che bruciava contrastavano con la totale oscurità in cui i proprietari del combustibile sono obbligati a vivere. Appena al largo di Gaza ci sono i più vasti giacimenti di gas naturale mai scoperti ma del gas naturale dei palestinesi si impadronisce da sempre Israele.

Mentre ci avvicinavamo a Israele, il capo della nostra imbarcazione, Zohar, ha suggerito che iniziassimo a salutarci. Eravamo probabilmente a 2-3 ore da Ashdod. Abbiamo ringraziato il capo della nostra imbarcazione, il nostro capitano, l’equipaggio, il nostro caro cuoco e ci siamo fatti coraggio l’un l’altro [dicendo] che avremmo continuato a fare il possibile per liberare Gaza e anche per portare giustizia in Palestina. Herman, il nostro capitano, che ora cercava di stare in piedi, ha fatto un discorso molto commovente e alcuni di noi sono scoppiati a piangere.

Sapevamo che ad Ashdod ci sarebbero stati i media israeliani e le telecamere. Non saremmo entrati ad Ashdod come disperati perché eravamo stati fatti prigionieri. Così siamo scesi dalla nave scandendo “Free, Free Palestine” lungo tutto il tragitto. Mike Treen, il sindacalista, si era ripreso dal pesante attacco con la pistola elettrica ed ha guidato gli slogan con la sua vociona, e avviandoci abbiamo riempito il cielo notturno di Israele con “Free, Free Palestine”. Lo abbiamo fatto lungo tutto il percorso dall’imbarcazione fin dentro Ashdod.

Siamo arrivati direttamente dentro la zona militare ristretta di Ashdod. Era un’area isolata con molte postazioni. Era stata preparata apposta per noi 22. Si partiva da una zona con il metal detector. Quando sono uscita dal metal detector non mi sono resa conto che si erano tenuti la mia cintura con i soldi. La postazione successiva era per la perquisizione corporale, ed è stato mentre raccoglievo le mie cose dopo essere stata perquisita che mi sono accorta di non avere più la cintura con i soldi. Sapevo di avere circa duecento euro e che stavano cercando di rubarmeli. Ho chiesto che mi venisse restituita e mi sono rifiutata di andarmene dalla postazione finché non l’avessero fatto. Per la prima volta stavo gridando. Sono stata contenta di averlo fatto perché qualcun altro era stato derubato dei soldi. Al giornalista di Al-Jazeera Abdul erano stati sottratti tutte le carte di credito e 1.800 dollari, oltre all’orologio, al telefono satellitare, al telefono personale e alla carta d’identità. Pensava che le sue cose fossero insieme al passaporto, ma quando è stato rilasciato per essere espulso si è reso amaramente conto che l’unica cosa che gli hanno restituito è stato il passaporto. Tutto il denaro e gli altri valori non sono mai stati trovati. Sono semplicemente svaniti.

Siamo passati da un controllo all’altro in questa zona militare ristretta, perquisiti varie volte, le nostre cose sono state portate via, finché tutto quello che ci è rimasto sono stati i vestiti che avevamo addosso con nient’altro che un bracciale con sopra un numero. Ci hanno tolto anche i lacci delle scarpe. A qualcuno di noi è stata data una ricevuta per le cose che gli erano state portate via, ma io non ho avuto nessuna ricevuta. Siamo stati fotografati varie volte e visitati da due dottori. A questo punto sono venuta a sapere che Larry era stato spinto giù dalla passerella, si era ferito a un piede ed era stato mandato in un ospedale israeliano per un controllo. Il suo sangue era sul pavimento.

Quando hanno finito con me avevo freddo e fame, vestita solo con una maglietta e pantaloni. Il mio cibo era stato portato via; l’acqua mi era stata portata via, tutte le mie cose, compresi gli occhiali per leggere, portate via. La mia vescica stava per esplodere ma non mi è stato permesso di andare al gabinetto. In questo stato sono stata portata fuori, dove c’erano due veicoli – cellulari dipinti di grigio. Per terra lì vicino c’era un grande mucchio di zaini e valigie. Ho trovato la mia e sono inorridita perché avevano aperto e perquisito il mio bagaglio e preso quasi tutto – tutti i vestiti, puliti e sporchi, la mia cinepresa, il mio secondo telefonino, i miei libri, la mia Bibbia, tutte le medicine che avevo portato per i partecipanti e per me, i cosmetici. La valigia era parzialmente rotta. Anche il mio zaino era completamente vuoto. Ho avuto indietro due bagagli vuoti tranne che per due grandi magliette da uomo sporche che evidentemente erano di qualcun altro. Mi hanno anche lasciato la maglietta della Freedom Flottilla. Ho immaginato che non avessero rubato la maglietta della Flottilla perché hanno pensato che nessun israeliano avrebbe voluto portare quella maglietta in Israele. Non se la sono presa con Zohar e Yonatan, che stavano orgogliosamente portando le loro. È stato uno shock perché non mi sarei mai aspettata che nell’esercito israeliano ci fossero anche dei ladri. Cos’è diventato il glorioso esercito israeliano della guerra dei Sei Giorni, che il mondo ha tanto ammirato?

Non mi era ancora stato consentito di andare in bagno, ma sono stata spinta nel cellulare, insieme a Lucia, l’infermiera spagnola, e poi dopo qualche tempo portata alla prigione di Givon. Durante il percorso mi sentivo tremare in modo incontrollabile.

La prima cosa che hanno fatto le guardie nella prigione di Givon è stata ordinarmi di andare al gabinetto per liberarmi la vescica. È interessante vedere che sapevano che avevo un disperato bisogno di andarci ma me l’avevano impedito per ore! Siamo state di nuovo controllate con il metal detector e perquisite, e dovevano essere circa le 5 o le 6 del mattino. Lucia ed io siamo poi state messe in una cella in cui stavano già dormendo Gerd, Divina, Sarah ed Emelia. C’erano tre letti a castello – tutti arrugginiti e polverosi.

Divina non aveva ricevuto la dose di medicine, a Lucia era stata rifiutata la sua, gliene era stata data un’altra israeliana che aveva rifiutato di prendere. Divina ed Emelia hanno iniziato subito uno sciopero della fame. I carcerieri erano molto ostili, in cose semplici come negarci la carta igienica e sbattendo in continuazione la porta di ferro della prigione, lasciando sempre accesa la luce della cella e obbligandoci a bere acqua rugginosa dal rubinetto, urlandoci e gridandoci continuamente, sfogando la loro rabbia su di noi.

Le guardie mi chiamavano “Cina” e mi trattavano con totale disprezzo. La mattina del 30 luglio 2018 il vice console britannico è venuto a visitarmi. Qualche persona gentile li aveva chiamati per sapere dove mi trovassi. È stata una benedizione perché dopo mi hanno chiamata “Inghilterra” e c’è stato un netto miglioramento nel modo in cui “Inghilterra” è stata trattata rispetto al modo in cui era stata trattata “Cina”. Mi è venuto in mente che “Palestina” sarebbe stata pestata, e probabilmente uccisa.

Alle 6,30 del mattino del 31 luglio 2018 abbiamo sentito Larry gridare che aveva bisogno di un medico dalla cella degli uomini attraverso il corridoio. Stava evidentemente molto male e piangeva. Noi donne abbiamo risposto chiedendo alle guardie di consentirmi di andare a vedere Larry in quanto potevo aiutarlo. Abbiamo gridato: “Abbiamo un dottore”, e usato i nostri cucchiai di metallo per colpire le sbarre di ferro della cella e richiamare la loro attenzione. Hanno mentito dicendo che il loro medico sarebbe arrivato entro un’ora. Non gli abbiamo creduto ad abbiamo ricominciato. Il dottore in realtà è arrivato alle 4 del pomeriggio, circa 10 ore più tardi e Larry è stato portato direttamente all’ospedale.

Nel frattempo, per punire le donne per aver sostenuto la richiesta di Larry, hanno ammanettato Sarah e messo Divina e me in un’altra cella per separarci dalle altre. Ci è stato detto che non ci sarebbe stato permesso di avere i 30 minuti d‘aria fresca e un bicchiere di acqua pulita nel cortile. Ho sentito Gerd dire “Grosso guaio”.

Improvvisamente Divina è stata portata fuori con me in cortile e le sono state date 4 sigarette, al che è scoppiata in lacrime. Divina aveva lavorato molte ore nella sala di comando manovrando l’imbarcazione. Aveva visto quello che era successo a Herman. La prigione aveva rifiutato di darle una delle sue medicine e le aveva dato solo metà della dose dell’altra. Era ancora in sciopero della fame per protestare contro il nostro sequestro in acque internazionali. Spezzava il cuore vedere Divina piangere. Uno dei guardiani che ha detto di chiamarsi Michael ha cominciato a dirci di come deve proteggere la sua famiglia contro quelli che vogliono cacciare gli israeliani. E di come i palestinesi non vogliano vivere in pace… e che non era colpa di Israele. Ma le cose sono improvvisamente cambiate con l’arrivo di un giudice israeliano; hanno trattato tutti con una certa decenza, benché lui avesse visto personalmente solo qualcuno di noi. Il suo compito era di dirci che il tribunale sarebbe stato convocato il giorno seguente, che ogni prigioniero avrebbe avuto un orario di comparizione, e avremmo dovuto avere un avvocato con noi al momento di comparire [in tribunale].

Alla fine della giornata Divina era ormai molto intontita e malmessa, per cui l’ho convinta a smetterla con lo sciopero della fame; ha anche accettato di firmare un ordine di espulsione. Poco dopo, penso intorno alle 6 del pomeriggio, dato che non avevamo né orologi né telefonini, ci è stato detto che Lucia, Joergen, Herman, Arne, Abdul di Al Jazeera ed io saremmo stati espulsi entro 24 ore e saremmo stati immediatamente portati nella prigione per le espulsioni a Ramle, nei pressi dell’aeroporto Ben Gurion, per attendere lì. Sarebbe stata la stessa prigione di Ramle da cui sono stata espulsa nel 2014. Ho visto le stesse cinque vecchie e forti palme ancora in piedi alte e fiere. Sono le uniche sopravvissute del villaggio palestinese distrutto nel 1948.

Arrivati alla prigione di Ramle, Abdul ha scoperto con orrore che i suoi soldi, le sue carte di credito, il suo orologio, il suo telefono satellitare, il suo telefonino personale e la sua carta d’identità erano persi – era completamente rovinato. Abbiamo fatto una colletta e raccolto circa cento euro come contributo per pagare il costo del percorso in taxi dall’aeroporto a casa sua. Come può l’esercito israeliano essere così corrotto e spietato da derubare qualcuno di tutto?

Conclusione:

Noi, le sei donne a bordo della al-Awda, abbiamo imparato che loro hanno cercato di umiliarci completamente e di disumanizzarci in ogni modo possibile. Siamo anche rimaste scioccate dal comportamento dei soldati israeliani, da ladruncoli, e del trattamento delle prigioniere internazionali. Carcerieri maschi entravano continuamente nella cella delle donne senza avere la decenza di informarci perché ci mettessimo i vestiti.

Ad ogni passaggio hanno anche fatto in modo di ricordarci la nostra vulnerabilità. Sappiamo che avrebbero preferito ucciderci ma naturalmente la pubblicità derivante da ciò sarebbe stata negativa per l’immagine internazionale di Israele.

Se fossimo state palestinesi sarebbe stato molto peggio, con aggressioni fisiche e probabilmente perdita della vita. La situazione per le palestinesi è certo molto peggiore.

In merito alle acque internazionali, sembra che non esista niente di simile per la Marina israeliana. Possono assaltare e sequestrare imbarcazioni e persone in acque internazionali e farla franca. Hanno agito come se pensassero di essere proprietari del Mar Mediterraneo. Possono sequestrare qualunque barca e rapire qualunque passeggero, metterlo in prigione e criminalizzarlo.

Non possiamo accettarlo. Dobbiamo alzare la voce, protestare contro questa illegalità, oppressione e brutalità. Eravamo assolutamente disarmati. Il nostro unico crimine secondo loro è che siamo amici dei palestinesi e vogliamo portare loro assistenza medica. Abbiamo voluto sfidare il blocco militare per farlo. Non è un delitto. Durante la settimana che abbiamo navigato verso Gaza, a Gaza hanno ucciso 7 palestinesi e ne hanno feriti più di 90 con pallottole vere. Hanno ulteriormente ridotto il combustibile ed il cibo per Gaza. A Gaza due milioni di palestinesi vivono senza acqua potabile, con elettricità solo per 2-4 ore, in case distrutte dalle bombe israeliane, in una prigione bloccata da terra, cielo e mare da 12 anni. Dal 30 marzo gli ospedali di Gaza hanno curato più di 9.071 feriti, 4.348 colpiti dalle armi di un centinaio di cecchini israeliani mentre stavano organizzando manifestazioni pacifiche all’interno dei confini di Gaza, sul loro territorio. La maggior parte delle ferite da arma da fuoco erano agli arti inferiori e con strutture sanitarie prive di mezzi gli arti dovranno essere amputati. In questo periodo più di 165 palestinesi sono stati colpiti a morte dagli stessi cecchini, compresi medici e giornalisti, minori e donne. Il persistente blocco militare di Gaza ha privato gli ospedali di ogni approvvigionamento chirurgico e medico. Questo massiccio attacco contro la Freedom Flottilla disarmata che portava amici e qualche aiuto sanitario è un tentativo di distruggere ogni briciolo di speranza per Gaza. Mentre scrivo sono venuta a sapere che anche la nostra Flottilla sorella, “Freedom”, è stata rapita dalla Marina israeliana in acque internazionali.

Ma non ci fermeremo, dobbiamo continuare ad essere forti per portare speranza e giustizia ai palestinesi, essere pronti a pagarne il prezzo ed essere degni dei palestinesi. Finché vivrò esisterò per resistere. Non farlo sarebbe un delitto.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Vi racconto la giornata dei martiri bambini. Reportage da Gaza est

Patrizia Cecconi

28 luglio 2018, Pressenza

Sono le 3 del pomeriggio. Il sole anche oggi brucia la pelle e fa stringere gli occhi. Qui a Malaqa a quest’ora siamo ancora pochissimi e nessuno è vicino alla rete. Si sentono tre, quattro, cinque colpi secchi. Vengono dalla parte israeliana. Ma non c’è ancora nessuno, che fanno i killer? Scaldano i fucili?

Roger, il ragazzo che mi accompagna, uno degli skater più bravi di Gaza e, quando può, anche studente di italiano, mi dice che oggi sarà una giornata molto rischiosa anche se ci saranno molti bambini perché il tema della Grande marcia oggi è l’omaggio ai martiri bambini che Israele ha ucciso in questi mesi. Tutti i venerdì mi dicono che è molto pericoloso e lo so. Staremo attenti. Come sempre del resto. Oggi non vorrei rilasciare interviste ma farne. Comincio proprio con Roger chiedendogli “Ma tu perché sei qui?” la sua risposta è precisa, formata da tre frasi “Per condividere con gli altri il mio desiderio di libertà” poi gira la testa verso il confine e aggiunge “la mia libertà è oltre la rete, dove c’è la nostra terra che abbiamo il diritto di recuperare”. Bene, in tre frasi ha citato la risoluzione Onu 194 e la necessità di rompere l’assedio, praticamente gli obiettivi per cui è nata la grande marcia del ritorno.

Intanto i cecchini seguitano a sparare. L’orecchio ormai è abituato e sa distinguere il rumore dei colpi sparati dalle jeep da quello dei fucili degli snipers. Forse veramente si stanno allenando al tirassegno perché non c’è motivo di sparare, le migliaia di persone arriveranno dopo.

A fine giornata si conteranno lungo tutto il confine due morti e circa 160 feriti. I martiri sono Ghazi Abu Mustafa, un uomo di 43 anni che camminava sulle stampelle, perché già ferito in precedenza da questi soldati, e che voleva avvicinarsi alla recinzione. Sua moglie, un’infermiera che partecipava alla marcia occupandosi dei feriti lo aveva dissuaso, ma deve essere stato un boccone molto ghiotto per il killer con la divisa dello Stato ebraico che lo ha mirato alla testa. Succedeva più a sud, al border di Khan Younis e la notizia è arrivata tramite gli altoparlanti proprio mentre a Malaqa un cecchino colpiva un ragazzo a pochi metri dalla rete e i soccorsi correvano verso di lui caricandolo in ambulanza. Poi, più tardi, arrivava la notizia del secondo martire, quasi un bambino, al border di Rafah, Madj Ramzi Al Sarri, quattordici anni. I cecchini hanno sparato alla testa anche a lui.

I cecchini israeliani possono farlo, nessuno li accuserà per questo. Insieme al bambino e all’uomo uccisi vengono scarnificati piano piano i principi base della moderna democrazia, ma il mondo sembra non accorgersene e seguita a tenere regolari rapporti con questo Stato di Israele, ormai per sua propria legge Stato Ebraico, quindi etnico-religioso, rendendo impunito ogni crimine che oltre a massacrare il popolo palestinese ferisce, portando gradualmente al suo annichilimento, il Diritto internazionale.

A Malaqa è andata meglio che a al sud. Si pensava a un morto ma era “solo” gravemente ferito. I colpi secchi hanno accompagnato l’intero pomeriggio, intervallati da quelli più gonfi e più sordi sparati dalle jeep e provocando diversi feriti, sia per proiettili vivi che per inspirazione di tear gaz. I copertoni bruciati, il cui fumo nero e tossico ha sollecitato l’attenzione ecologista di alcuni sionisti nostrani, hanno salvato anche oggi parecchie vite, ma le ambulanze hanno fatto comunque molti viaggi.
Le ambulanze! Sì, una delle cose impressionanti di questa Grande marcia è il numero delle ambulanze. Un numero altissimo perché è dato per scontato che ci saranno ogni volta centinaia di feriti. Lo sanno le organizzazioni internazionali e sovranazionali, lo sanno e ne conoscono l’essenza criminale ma sono impotenti. O conniventi.

A Malaqa i tear gaz, oggi, sono arrivati da terra e dal cielo ed hanno colpito anche il personale di un’ambulanza. La scena sembrava da film: l’ambulanza corre nel budello sterrato che dal confine porta alla strada principale, è il percorso normale. Ma si ferma e si buttano fuori, sdraiandosi a terra, gli operatori sanitari. Stanno male, hanno inspirato il gas tossico dei lacrimogeni israeliani. Arrivano le barelle di altre ambulanze che caricano i più gravi e partono al volo verso l’ospedale. Intanto in cielo si sono levati gli aquiloni. Alcuni hanno la fiammella in fondo alla coda. I ragazzi che ne manovrano il filo li lasceranno al vento quando saranno sulla rete dell’assedio. Da quel momento andranno liberi e porteranno il loro messaggio attraverso quella fiammella. Forse bruceranno qualche stoppia e gli agricoltori chiederanno il rimborso alle assicurazioni dichiarando danni esagerati. Ormai le compagnie assicuratrici hanno scoperto il gioco, ma a Netanyahu è più utile far credere che siano stati gli aquiloni a bruciare ettari di campi. Se così fosse Gaza avrebbe un’arma semplice e imbattibile e forse Israele sarebbe costretto, finalmente, a rispettare la legalità internazionale come mandano a dire proprio quegli aquiloni che vorrebbero tornare ad essere solo un gioco.

Ma qui di voci straniere che rinforzino il messaggio degli aquiloni non ce ne sono, solo oggi finalmente ho visto un altro internazionale, rispondeva ai giornalisti palestinesi. Stampa e Tv era in grande abbondanza oggi. Ma tutta informazione interna. Per l’estero è routine e quindi non ci sono inviati. Quelli che ne parlano – a parte pochissime eccezioni – le notizie le ricevono normalmente dall’IDF e non corrono rischi di carriera nel trasmetterle in quella versione.

Oggi non voglio rilasciare interviste ma farne e mi dirigo verso un gruppo di donne. In realtà sono stata catturata dall’attenzione che loro mi hanno rivolto e vogliono farmi delle domande. In fondo è normale, gli stranieri sono una rarità. Faremo delle interviste incrociate. Una delle donne porta il niqab ed ha una gruccia alla quale si appoggia per camminare. E’ stata ferita due settimane fa ma appena ha potuto è tornata alla Great march. Si chiama Samia, Samia Jaber e non ha problemi a darmi il suo nome intero. Suo marito è stato imprigionato dagli israeliani per 12 anni. Ha 7 figli e il più grande, 13 anni, partecipa regolarmente alla marcia. Tutte le donne del gruppo mi danno il loro nome e mi raccontano qualcosa della loro storia. Etaf, Ilaf, Tagreed, Nabila, Ridah, Nashreeem, tutte sono passate per l’ospedale in uno di questi 18 venerdì, ma tutte stanno qui. Sono “hard” le donne di Gaza! Tutte vogliono foto ricordo, le facciamo. Mi chiedono di portare la loro voce in Italia. Ecco, lo sto facendo, anche se la mia non è una voce molto alta. Mi dicono di mettere anche il loro nome, non hanno problemi ad essere pubblicate, vogliono solo che si sappia cosa significa vivere a Gaza e cosa significa chiedere la pace e avere come risposta l’esercito pronto a uccidere. Tra loro c’è una donna più avanti negli anni, una donna molto magra, con un viso ossuto e volitivo. Porta un cappello con la visiera parasole sopra l’ijiab e parla, parla ininterrottamente e non lascia quasi il tempo a Roger di tradurre. E’ Etaf e tutte la rispettano riconoscendola come “l’organizzatrice del caucciù”, un vero boss che coordina l’arrivo e la distribuzione dei copertoni che ormai possono essere chiamati salvavita dato che disorientano la mira dei cecchini. Chiedo loro quale futuro prevedono per la grande marcia. Le risposte sono comuni, “la grande marcia non si può fermare”, ok, ma questo non è il futuro. Mi rispondono ancora che non si fermeranno allora devo cambiare domanda, chiedo se sono affiliate a qualche fazione politica e ridono. Una di loro risponde che la politica che le interessa è il recupero della libertà dall’assedio. Le altre annuiscono. In un’altra intervista una giovane donna, quella che in realtà mi avvicina per intervistarmi ma, appunto, è una giornata di interviste incrociate, mi dice che lei è di Giaffa. Avrà al massimo 35 anni e quindi non è possibile sia nata a Giaffa, ormai israeliana fin dal 1948. Ma la marcia del ritorno è per il rispetto della Risoluzione 194, quella che appunto riconosce il diritto a tornare nelle case da cui sono stati cacciati i palestinesi nel “48, e la sua famiglia è stata cacciata da Giaffa. Quella è la sua origine. Mi presenta le sue amiche, due giornaliste e una docente universitaria. Il loro inglese non è migliore del mio ma ci si intende. Dove l’inglese arranca usano l’arabo e Roger traduce. Faccio anche a loro la stessa domanda che faccio a tutti: cosa vi aspettate dal futuro della grande marcia. Tutte e tutti mi sembra abbiano chiaro che con la grande marcia, sul breve periodo, non otterranno nulla. Eppure, e qui c’è un’altra prova della straordinarietà di questo popolo, eppure si fa. Si fa perché ci sono dei principi irrinunciabili. Si fa perché farla sedimenta il diritto a far riconoscere i propri diritti.

“Si fa perché i figli non abbiano da vergognarsi dei genitori” mi dice Tagreed. Si fa perché a Gaza non si può vivere così,” i nostri giovani vogliono scappare. Viviamo di sussidi. I nostri giovani hanno un livello di istruzione generalmente molto alto ma sono disoccupati perché l’economia di Gaza è morta.” Vogliamo la libertà, come aveva detto Etaf, “la boss del caucciù” con aria definitoria “o libertà o morte” e Ridah aveva aggiunto “raggiungeremo una delle due”.

Intanto i cecchini sparano, le ambulanze corrono, i gas si infittiscono. Ci avviciniamo un po’ al border, restando sempre a non meno di cento metri. I ragazzini sono tanti, onorano i loro coetanei caduti ma in realtà per loro è quasi un gioco. Roger scruta sempre il cielo e a un certo punto dice che dobbiamo allontanarci e tornare nella zona delle tende. Mi dice una cosa incomprensibile sia in arabo, e questo è abbastanza normale, che in inglese. Ho imparato, in questi tanti venerdì passati al border, a dare ascolto ai miei accompagnatori, tutti nel ruolo affettuoso di bodyguard. Ho fatto bene e l’unico danno riportato è stata qualche leggera inalazione di gas. Non riesco a capire cosa mi dice indicando il cielo, credo voglia mostrarmi un aquilone e invece ora lo vedo, è un puntino lontano, sembra un ragno, è un drone che si sta avvicinando. I droni possono portare la morte e comunque qui porteranno i gas lanciati dal cielo che si sommeranno a quelli delle jeep. Ora lo vedono anche gli altri. Tutti provano a capire dove si dirige per allontanarsi. Riesco a prendere qualche foto mentre lancia i gas. Torniamo alle tende.

Sotto il grande tendone delle conferenze i bambini hanno le foto dei loro coetanei uccisi appese ai palloncini che lasceranno volare. Non portano fiammelle, non sono pericolosi. Portano una condanna morale ma i soldati dell’IDF “rispettano gli ordini” e quindi non si sentono condannabili, non conoscono né scrupolo, né rimorso. Sono la perfetta rappresentazione di cui Hanna Arendt ha dato magistrale spiegazione ne “La banalità del male”. Comunque i palloncini volano con i loro ritratti appesi andando verso il cielo.

Sul palco si alternano bambini e adulti e infine un bambino di una decina d’anni considerato un enfant prodige per la sua voce canterà. Lo avevo conosciuto in un’altra occasione, si chiama Mohammad e canta una canzone ritmata e coinvolgente. Chiedo a Roger cosa significhino alcune strofe che sembrano coinvolgere più di altre. “Al Gazaw alh soet” mi scrive sul mio blocco. Mi dice che la traduzione non rende e mi aggiunge un’altra frase. Nell’insieme il significato sembra essere più o meno questo: “Alziamo le nostre voci, i gazawi non hanno paura, solleviamo le nostre voci, non abbiamo paura di Israele”. Già, questo è il clima che in tutti questi venerdì ho respirato lungo il border. A Rafah o a Khuza’a o ad Abu Safia o a Malaqa o ad Al Bureji il clima sostanzialmente è stato questo. Le parole iniziali di Roger alla mia domanda “perché stai qui” completano la canzone del bambino sul palco: “per condividere col popolo il mio sogno di libertà”.

Ancora due morti uccisi per pura crudeltà ancora tanti feriti, ma la marcia continua. Sotto una sola bandiera: quella palestinese. Perché, come canta il piccolo Mohammed, i gazawi non hanno paura.




Tre storie incontrate per caso. Interviste da Gaza a tre feriti della Great Return March

Patrizia Cecconi

20 luglio 2018, Articolo 21

Tre piccole storie, piccole in quanto brevi da raccontare, ma lunghe tutte e tre oltre settant’anni. Più lunghe dell’età dei tre protagonisti. Il più giovane, Basel Ayoub, ne ha 18 e al momento è sulla sedia a rotelle. Il più vecchio, Mohammed E., non raggiunge i 60 e cammina sorretto da due stampelle. Come Khaled Bashir, che potrebbe essere il figlio di Mohammed e il padre di Basel e che, come loro, è stato ferito dagli snipers israeliani nel concentramento di Abu Safia, al nord della Striscia, durante i venerdì della Grande Marcia del Ritorno.

Incontrati per caso nell’ospedale Al Awda, a Jabalia, dove eravamo andati per fare il punto della situazione in attesa della marcia di domani con la quale i palestinesi riproporranno le loro richieste di rispetto delle Risoluzioni Onu e dove gli israeliani riproporranno la loro risposta negativa attraverso lacrimogeni e pallottole. Lo sanno bene tutti, eppure non si demorde. Il numero dei manifestanti si è ridotto rispetto ai primi venerdì, ma c’è uno “zoccolo duro” di notevole tenacia che ha deciso di non cedere finché i palestinesi non avranno raggiunto il loro obiettivo, peraltro legale. Questo ci dice il giovane Basel, ferito ben tre volte ma regolarmente tornato al border. Questo ci conferma il contadino Mohammed, padre di dieci figli tra a 12 e i 30 anni, i cui più grandi, ci dice con orgoglio, sono tutti laureati, uno in ingegneria, una in lingue, una in scienze mediatiche e così via.

Mohammed lo incontriamo sulla porta dell’ascensore e, nonostante si appoggi alle stampelle, ci lascia il passo invitandoci ad entrare prima di lui. E’ così che cominciamo a parlare e ci racconta la sua storia. Era il 14 maggio, il giorno della Nakba, quello in cui Trump, alleato numero uno di Israele, concretizzava il furto di Gerusalemme, e tutta la Palestina insorgeva. Lui era andato al border di Abu Safia a gridare il suo sdegno come decine di migliaia di palestinesi in altri punti del border. Quel giorno fu una vera mattanza, Israele dovrebbe portarne a lungo la vergogna, ma ancora è presto, ancora seguita a ferire e uccidere impunemente perché è comunque sostenuto da importanti alleati ai quali la sua funzione è utile.

Quel giorno Mohammed fu colpito a entrambe le gambe. Gli chiediamo se per caso si trovasse sotto la rete e la sua risposta decisa è “No, là mi avrebbero ammazzato. Ero nella zona delle tende ma i colpi arrivavano anche lì”. Lui è un rifugiato, nato nel campo profughi di Jabalia dove i genitori, cacciati dal loro villaggio, avevano avuto la tenda dell’URWA circa 70 anni fa. Nonostante la condizione difficile, anche Mohammed, come la maggior parte dei gazawi, è riuscito a far studiare i suoi figli pur essendo un semplice allevatore di polli. Ha lo sguardo vivo e il sorriso sempre accennato che fa supporre si tratti di una persona che sa bene quel che vuole. Ora vuole che l’assedio finisca, vuole libertà e lavoro adeguato per i suoi figli e per i ragazzi come loro, ma non tornerà al border i prossimi venerdì, perché non riesce a camminare e se un cecchino volesse ucciderlo sarebbe facile preda e lascerebbe la sua famiglia senza sostegno. Quindi per un po’ sarà fermo e sosterrà la Great march solo a distanza. Ci mostra il segno della prima ferita ormai cicatrizzata, mentre la seconda dovrà essere sottoposta ad altra operazione ed è qui per questo motivo. L’ospedale Al Awda, a parte la professionalità indiscussa di medici e infermieri, ha un suo statuto improntato a un’ideologia di carattere socialista (in senso proprio) e quindi medici e infermieri si pongono volontariamente a servizio dei pazienti considerando questo un dovere morale che si aggiunge a quello derivante dal giuramento di Ippocrate.

Lasciato Mohammed alle cure mediche con tanti auguri di buona fortuna, incrociamo un uomo giovane, magrissimo e con l’aria molto severa. Anche lui ha una stampella per aiutarsi a camminare. Mentre è in attesa del medico gli facciamo qualche domanda. E’ anche lui un ferito della Great March. Si trovava vicino all’ambulanza, insieme al gruppo dei paramedici che si occupavano dei soccorsi quando gli hanno sparato. Lui non è un paramedico era soltanto vicino ed offriva il suo aiuto, come fanno in tanti in un clima di grande solidarietà cui abbiamo assistito personalmente in più occasioni. L’ambulanza dovrebbe essere anche il luogo più sicuro, questo ovviamente se si rispettano le norme del diritto internazionale, e invece gli snipers israeliani hanno sparato proprio contro il personale e i veicoli di soccorso. Era il 6 giugno quando l’hanno colpito. Khaled ci tiene a specificare che per lui era una marcia veramente pacifica, che è davvero la fine dell’assedio e una vita di pace quello per cui lui era lì a dimostrare. Ci dice che si trovava abbastanza vicino alla rete di separazione, ma non tanto da rappresentare un pericolo, che poi, essendo disarmato, non avrebbe comunque potuto esserlo. Lui era vicino all’ambulanza e voleva aiutare a soccorrere i ragazzi che erano stati feriti, ma i cecchini, ci ripete, hanno sparato contro i soccorritori.

Parlando della sua vita privata, Khaled ci dice che ha due bambini e che vorrebbe vederli crescere fuori da questa galera. Loro sono nati sotto assedio e la libertà la sognano per averne sentito parlare. A Khaled l’assedio ha interrotto anche il suo sogno di diventare ingegnere perché la mancanza di denaro dovuta alla situazione lo ha costretto ad abbandonare gli studi. Frequentava l’Al Azhar University fino a dieci anni fa ma non aveva i mezzi per vivere e così ha lasciato gli studi per trovare qualche lavoro di sostentamento. Ha fatto il muratore, il bracciante, ha fatto tutti i lavori che gli capitavano e ora fa il contadino. In questo modo riesce a sbarcare il lunario con la sua famiglia. E i suoi sogni si trasferiscono sui suoi figli.

Non è pentito di essere andato al border, ci ripete che c’è andato in pace ed ora ha una doppia ferita: quella alla gamba, che sembra non voler guarire e quella nell’animo perché lui voleva per davvero andare in pace e lo hanno colpito gratuitamente sparando contro l’ambulanza, sparando nel mucchio dei soccorritori con tanto di simbolo ben evidente della Mezzaluna Rossa (la Croce Rossa locale). Questo, ce lo ripete più volte, perché riapre vecchie ferite ed è la “prova che Israele non vuole la pace, non vuole riconoscere i nostri diritti e ci spara addosso piuttosto che riconoscerli.” Khaled non potrà riprendere a studiare, ma non abbandona il sogno di vedere la Striscia di Gaza libera dall’assedio e di veder riconosciuto il diritto affermato nella Risoluzione Onu 194. Lo lasciamo appena arriva il medico che lo ha in cura e non facciamo cinque passi per raggiungere l’ufficio che ci incrociamo con un giovane su una sedia a rotelle spinta da un uomo con accanto un bambino. Si tratta Basel Ayoub, 18 anni.

Basel è stato ferito ad Abu Safia, anche lui come Mohammad e Khaled, è per questo che sono tutti nell’ospedale Al Awda, perché i feriti vengono portati negli ospedali più vicini al campo in cui si trovavano a manifestare. Infatti qui all’Al Awda hospital, come negli altri ospedali della Striscia, stanno già organizzandosi per l’emergenza perché sanno che domani ci sarà una nuova mattanza e dovranno essere pronti. Salvare una vita o salvare una gamba è questione a volte di momenti, oltre che di strumenti e medicinali che scarseggiano sempre più. Così ci ha detto Rami, il capo infermiere del settore emergenza che siamo andati a salutare prima di entrare nell’altro settore dell’ospedale.

Tornando a Basel la sua storia ha dell’incredibile. All’inizio non ha voglia di parlare ed è un po’ scostante. Rispetto la sua ritrosia, lo saluto e gli faccio i miei auguri, chiedo a suo padre da dove vengono e mi dice da Brer. Ma Brer non c’è più. Brer era un villaggio vicino all’attuale Ashkelon, quindi capisco che sono rifugiati. Infatti la domanda giusta da fare a un palestinese per sapere dove vive non è “di dove sei?” ma “dove abiti”, perché “di dove sei” è in fondo tutto compreso nelle ragioni della Grande Marcia del Ritorno. La risposta che si ha in questi casi sembra dire “sono del villaggio o della città da cui hanno cacciato la mia famiglia e in cui ho il diritto di tornare come stabilisce l’Onu nella Risoluzione 194” cioè la risposta è in uno dei due motivi per cui i palestinesi al border rischiano la vita. L’altro motivo è la fine dell’assedio.

Vive a Beitlaya, Basel, ma è di Brer, così risponde suo padre e a questo punto Basel inizia a parlare. La sua storia ha veramente dell’incredibile e forse chi legge non ci crederà. I medici confermano che è vero. Praticamente l’ultima pallottola che ha colpito questo ragazzo alla coscia aveva una potenza d’attrito tale che è uscita dalla sua gamba ed ha ferito altri tre ragazzi entrando ed uscendo dall’uno all’altro fino a fermarsi nel quarto. Gli esperti di balistica potranno fare le loro ipotesi, noi ci limitiamo a parlare con Basel visto che ora è disposto a raccontarci qualcosa di sé. Ha finito la scuola superiore ma non sa se andrà all’università, ha tanti fratelli e tutti vanno al border a prescindere dall’età, perché tutti sono… di Brer!

Ma la storia di Basel è una sorta di allegoria della storia di questo popolo. L’ultima ferita, quella per cui è sulla sedia a rotelle e ha subito e dovrà ancora subire altre operazioni chirurgiche, è un “regalo” del 16 luglio. Lui era uno dei ragazzi che rischiano la vita per proteggere se stessi e gli altri col fumo nero dei “caucciù”, come chiamano i vecchi copertoni bruciati. Ma i caucciù sono efficaci come cortina protettiva solo se il fumo è vicino ai cecchini, altrimenti non serve. Perciò qualcuno deve rischiare e Basel è uno dei tantissimi ragazzi (e anche qualche ragazza) che rischiano correndo a portare il loro pezzetto di difesa dai micidiali proiettili dei killers appostati oltre la rete.

Abbiamo detto che la storia di questo ragazzo è una sorta di allegoria di questo popolo, ma non lo è per questa ferita, ma perché questa è la terza ferita dal giorno in cui è stata lanciata la marcia. La prima, un proiettile al ginocchio destro, l’ha ricevuta il 30 marzo, ma la ferita non lo ha fermato e il 13 aprile si trovava di nuovo a manifestare quando un cecchino gli ha sparato alla spalla. Gli ha sparato alla spalla mentre correva per tornare verso il campo dopo aver lanciato il caucciù il cui fumo forse lo ha protetto. Infatti il cecchino che lo ha colpito – alle spalle è bene puntualizzare – probabilmente ha sbagliato la mira di qualche centimetro e Basel, ancora vivo e determinato, ha seguitato ad andare al border a fare quello che lui, e suo padre conferma, ritiene essere suo dovere. In questo senso la sua storia di ferite sembra un po’ il paradigma della storia della Palestina: non conta quante volte si cade, conta rialzarsi e resistere.

In ogni famiglia palestinese c’è almeno un martire, e quel che Israele non ha ancora capito – noi seguitiamo a ripeterlo sapendo che la nostra voce non è tanto forte da raggiungere Israele, ma seguitiamo a ripeterlo perché non si dimentichi – è il fatto che i martiri non nutrono la rassegnazione alla sconfitta, ma nutrono la determinazione alla resistenza e Basel ce lo dimostra dicendoci che Mohammed Ayoub, l’ultimo ragazzino di 13 o 14 anni che Israele ha ucciso alcuni giorni  fa, era suo cugino e che il dolore per la sua morte si è trasformato nella maggior convinzione che resistere sia un dovere.

Il padre di Basel accarezza il bambino che gli sta vicino e dice “anche lui viene alla marcia, tutti noi andiamo alla marcia, non abbiamo perso un solo venerdì. Noi non andiamo per farci uccidere ma per dire che vogliamo vivere e che abbiamo il diritto di vivere liberi”.

Facciamo tanti auguri a Basel e a suo padre ed io e Haneen Wishah, la bravissima coordinatrice dell’UHWC cui l’ospedale Al Awda è collegato e che mi ha fatto da guida e da interprete, riprendiamo i nostri diversi lavori.

Tutto questo succedeva ieri. Ora, dopo aver sbobinato le interviste ed aver finito di scrivere queste righe, sento il Muezzin che chiama alla preghiera. E’ la preghiera di mezzogiorno. Tra poco si comincerà ad andare al border.

Israele oggi ha minacciato ancor più violenza in risposta al lancio degli aquiloni con la codina in fiamme. Israele minacciava violenza, e rispettava la promessa, anche prima degli aquiloni. Israele pratica violenza e trova voci mediatiche pronte a giustificarla, qualunque sia la giustificazione. Sempre! I palestinesi lo sanno ma non hanno le voci sufficientemente alte per presentare al mondo la verità e, quindi, i loro diritti continuamente violati. Ma esattamente come Basel, vanno avanti convinti che prima o poi la giustizia gli aprirà le braccia.

Intanto tra poco si partirà per i vari punti del confine, laddove si va per affermare quel diritto alla libertà che Israele non riesce a conculcare neanche con i suoi aerei da guerra, gli stessi che usa contro gli uomini e contro gli aquiloni che però, ne siamo sicuri, anche oggi  seguiteranno a volare.




Pennellate di vita comune dalla Striscia di Gaza

Patrizia Cecconi da Gaza

16 giugno 2018, Pressenza

Ieri era festa grande a Gaza, come in tutti i paesi a prevalenza musulmana. Una festa che non si ignora neanche laddove cadono senza sosta bombe devastatrici di vite e di intere comunità.

Ieri era il primo giorno dell’Eid fitr, quello che segue la fine del Ramadan e che ha ancor più importanza di quanto ne abbia il Natale nei paesi a prevalenza cristiana.

L’Eid fitr è la festa in cui i bambini hanno gli abiti nuovi e girano felici per le strade e le famiglie si fanno visita l’un l’altra. Anche nelle case dei recenti martiri si festeggia l’Eid ed è un’occasione per onorare il martire e ricordare che la sua morte è benedetta sebbene dolorosa.

Molti gazawi hanno deciso di passare questi giorni negli accampamenti della grande marcia lungo il confine. Israele, che non cessa mai di far sentire la sua presenza con il ronzio ossessivo dei droni-spia, ha partecipato all’Eid non solo con l’onnipresenza dei droni ma anche con alcuni missili lanciati su uno degli accampamenti in cui i ragazzi preparavano i temibili aquiloni diventati simbolo della grande marcia. Per fortuna niente vittime e l’Eid fitr continua per altri due giorni come previsto dal rito coranico.

Nei giorni precedenti l’Eid, cioè durante il Ramadan, è normale essere invitati all’iftar, cioè alla cena che interrompe il digiuno dopo il calar del sole. Queste cene sono un’immersione totale nello spirito del luogo. Uno spaccato sociologico che toglie ogni dubbio su quanto ci sia di falso negli stereotipi forniti dai media i quali, a parte pochissime eccezioni, si gingillano in cosiddette analisi di situazioni che non conoscono neanche per un affaccio veloce alla finestra.

Essere invitati all’iftar, in quanto stranieri, è una forma di rispetto e di affetto in tutta la Palestina. Essere invitati all’iftar nella Striscia di Gaza è anche qualcosa di più: è un ringraziamento per esserci, perché in una prigione come Gaza, in cui per gli stranieri è molto difficile entrare e per i gazawi è quasi impossibile uscire, anche se feriti o malati, esserci significa vedere e testimoniare. Testimoniare dal vivo e raccontare il vero, sempre che si abbia l’onestà intellettuale per farlo e non si dipenda dal libro paga di chi stabilisce cosa sia opportuno scrivere.

Quindi, stante la condizione di assoluta libertà di espressione, ecco una cronaca da Gaza arricchita dalle tante interviste informali raccolte durante questi incontri conviviali. Due o tre sono le cose particolarmente rilevanti emerse in queste conversazioni ed una di queste è che, nonostante il taglio dell’elettricità da parte di Israele, ogni casa visitata è illuminata da luce elettrica e non da candele. Come mai? Forse che Israele, detentore dell’assedio e anche dell’elettricità, ha concesso più ore di luce? No. Il motivo è che i gazawi, in questi 11 anni di illegale assedio, hanno sviluppato su vari fronti la loro creatività. Mentre gli ospedali o le grandi strutture usano i generatori e, chi può, usa i pannelli solari, le singole abitazioni – spesso appartamenti arrampicati l’uno sull’altro in uno degli 8 campi profughi, o piccole case ricostruite alla meglio dopo l’ultimo terribile massacro del 2014 – non hanno la possibilità di usare un generatore, sia per il costo dello stesso, sia per il costo del carburante, e allora qualcuno si è inventato l’uso alternativo della batteria dell’automobile. Qualche piccola modifica per poterla alimentare nelle due o tre ore in cui Israele fa passare l’elettricità, cioè verso mezzanotte quando normalmente la famiglia ormai dorme, e qualche altra modifica per alimentare gli impianti domestici con l’energia accumulata nella batteria et voila, il gioco è fatto: Israele vuole lasciare al buio Gaza e Gaza si attrezza sviluppando sistemi alternativi.

In questo periodo sembra che la scelta di rispondere in modo non violento alla negazione dei propri diritti abbia scatenato, in questa comunità di prigionieri, una grande fantasia creativa che ha preso il posto di frustrazione e rabbia. Lo si è visto nelle manifestazioni della Grande marcia del ritorno in cui ai micidiali lanci di tear gas un gruppo di manifestanti aveva organizzato il “rilancio” nel campo nemico usando racchettoni e racchette da tennis, o nel tentativo vagamente pitagorico di utilizzare gli specchi per confondere i cecchini, o nell’incendio dei copertoni il cui denso fumo nero impediva ai cecchini di prendere la mira, riducendo così il numero delle vittime che, comunque, sono state circa 130 alle quali si aggiungono oltre 13mila feriti. Ma l’idea principe è stata sicuramente quella delle mini mongolfiere e degli aquiloni con la codina accesa da far volare oltre la rete dell’assedio, spiegando così all’assediante che i gazawi non si arrendono e pretendono il riconoscimento dei loro diritti. Seguitano anche a spiegare, inascoltati dall’occidente, che dietro a queste decine di migliaia di uomini donne e bambini che si radunano lungo il confine non c’è il coordinamento di Hamas, né di altri partiti politici, bensì la riedizione di un tentativo già sperimentato, ma fallito, nel 2011 e cioè un movimento di base che scavalchi i partiti senza negarli, ma senza lasciarsi irretire dalle rivalità tra i vertici, e che tende a richiamarsi al concetto di fronte unico per ottenere i diritti affermati dall’ONU ma negati da Israele.

Questi i discorsi generali che hanno accompagnato le belle cene dell’iftar nell’ultima settimana del Ramadan. Ma a questi vanno aggiunti spunti e suggestioni che offrono inquietanti motivi di riflessione.

In parte per caso, in parte per scelta, nessuno degli incontri ha avuto come interlocutori militanti o simpatizzanti di Hamas, il partito al potere, il quale in passato ha scelto la lotta armata, compreso l’uso di kamikaze per ottenere senza mai riuscirci – il rispetto dei diritti del popolo palestinese da parte di Israele. Ormai Hamas ha preso un’altra via sebbene Israele trovi molto comodo nella sua propaganda con l’occidente attribuirgli la responsabilità di qualunque azione ostile, violenta o meno, ottenendo in tal modo due risultati: uno verso l’esterno, quello di screditare ogni azione legittima, quale la richiesta di applicare le Risoluzioni ONU, ammantandola di un falso velo di terrorismo grazie ai buoni servigi dei tanti opinion maker israelo-dipendenti. Verso l’interno, invece, quello di ottenere l’accredito di Hamas come organizzazione capace di muovere le masse dei gazawi anche se non sempre questo risponde al vero, restituendogli un carisma che ad un’analisi orientativa sembrava essere in caduta libera.

I due argomenti più interessanti, oggetto delle interviste informali realizzate in questi giorni, hanno riguardato: 1) il comportamento dell’Anp, che qui viene regolarmente riportato al solo presidente Abu Mazen, considerato come responsabile unico della punizione collettiva imposta ai palestinesi di Gaza attraverso il taglio degli stipendi e 2) l’uccisione di bambini e teenager da parte di Israele. Questo secondo argomento creerà sicuramente disappunto e verrà attaccato brutalmente dalle organizzazioni sioniste, se questo articolo verrà letto, come già successo per altri lavori che sono stati oggetto di attacchi rabbiosi ma non destrutturanti di quanto affermato, visto che scriviamo solo ciò che è dimostrabile e documentabile.

Per quanto riguarda il taglio degli stipendi dei dipendenti pubblici di Gaza in carico al governo di Ramallah, taglio dovuto al tentativo di fiaccare Hamas accrescendo a dismisura la povertà nella Striscia, sperando in una qualche forma di sollevazione pro Anp, l’effetto si è dimostrato un boomerang dal punto di vista politico e un baratro dal punto di vista morale. A nessuno sfugge l’altissimo livello di vita di Abu Mazen e dei suoi figli, ricchi imprenditori probabilmente per loro proprio merito, ma tacciati di corruzione da tutti gli intervistati. L’amaro senso di tradimento probabilmente porta a queste risposte esasperate, ma queste sono comunque le risposte offerteci. Gaza è assediata, Israele tra i tanti crimini passati sotto silenzio commette anche quello di irrorare di glifosato le coltivazioni gazawe per impedirne il raccolto, e l’Autorità palestinese invece di sostenere i propri figli li getta in un’ancor più nera miseria! Questo non è percepito da nessuno dei miei interlocutori come un errore politico, ma da tutti come un crimine commesso contro i fratelli gazawi per un odio contro Hamas tanto cieco da favorire Israele. Questo dicono i Gazawi.

Agli occhi di un occidentale che non conosce la cultura palestinese tutto questo sembra confliggere col fatto che la Striscia sia piena di Università (nessuna completamente gratuita) e che le università siano piene di studenti e studentesse i quali vengono spessissimo da famiglie in cui si sopravvive grazie ai sussidi dell’Unrwa. Studenti che solo in bassa percentuale hanno partecipato alle manifestazioni al confine ma che plaudono alla grande marcia e che mostrano l’icona dell’infermiera Razan Al Najjar, o dell’artista Mohammed Abu Amr che scolpiva sulla sabbia, o del giornalista Yaser Murtaja, tutti resi martiri da Israele. Studenti che pur non partecipando direttamente alla grande marcia, plaudono alla geniale idea degli aquiloni che è stata capace di mettere in crisi il potentissimo apparato bellico israeliano. Si riconoscono in quelle figure di combattenti disarmati capaci di far vacillare l’immagine di Israele come onnipotente e danno il loro sostegno ideale anche se raramente hanno raggiunto i manifestanti al confine.

Uno dei miei intervistati, padre di alcuni studenti e prima persona che mi ha mostrato con un’espressione vagamente divertita l’apparato elettrico alternativo che illumina la sua casa, lo stesso che mi ha fatto avere come regalo un paio di quei bellissimi aquiloni, che difficilmente potrò riportare in Italia, è uno dei tanti dipendenti legati a Fatah e rimasto senza stipendio per la “lungimiranza” dell’Anp. Tra le tante cose dette, mi dice una frase che riporto testualmente: “Hamas non brilla per creatività, sono i nostri giovani la nostra forza e questo Israele lo sa e per questo li uccide”. E’ lapidaria e terribile la sua affermazione, la contesto. Statistiche alla mano non ho difficoltà a contestarla, non perché voglia difendere Israele, conosco bene la gravità dei suoi crimini e l’ancora maggior gravità del fatto che questi restino regolarmente impuniti, ma mi sembra un’affermazione impropria. Gli faccio notare che per ragioni statistiche, essendo la popolazione gazawa mediamente giovane dato l’alto numero di figli che arricchisce ogni famiglia, è normale che vengano uccisi più ragazzi giovani che popolazione matura. Non è così. Alla conversazione partecipa uno dei medici degli ospedali che hanno fatto miracoli per provare a salvare vite e arti e mi chiede se ricordo che durante la mia visita nel suo ospedale ben tre ragazzi erano stati colpiti ai genitali e resi sterili oltre che invalidi. Mi dice che altri hanno avuto lo stesso destino e che sono troppi perché il fatto possa essere considerato pura coincidenza. Israele ha paura della crescita demografica del popolo palestinese, questo lo sappiamo, ma questo non può significare lo sterminio scientifico di una generazione. Sinceramente mi sembra troppo e insisto nella mia posizione.

Ho davanti a me un uomo che ha conosciuto (come il 90% degli uomini palestinesi) le galere israeliane da quando aveva 16 anni. Arrestato mai per crimini, ma per la sua militanza in Fatah, cosa che ora forse non succederebbe più. Un uomo che la mentalità israeliana e il cinismo scientifico che l’accompagna li conosce bene. Accanto a lui ho un medico ospedaliero che nei suoi tanti anni di professione ha avuto non solo malati ma molti feriti dall’esercito detto il più morale del mondo. Anche lui mi dice che c’è grande scientificità, perfettamente mirata, nei crimini israeliani. Ho di fronte a me anche dei ragazzi che ancora non hanno avuto modo, per fortuna, di conoscere le galere israeliane ma che mi dicono di aver perso un gran numero di amici della loro età nei bombardamenti del 2014. Mi viene ricordato un episodio avvenuto in Cisgiordania negli anni “80 in cui vennero rese sterili circa duemila ragazze. Quattro conti e viene fuori che in un colpo solo Israele ha ridotto la popolazione potenziale di circa 16.000 persone che oggi, per effetto del moltiplicatore generazionale ne avrebbero probabilmente fatte nascere già almeno altre 32.000.

E’ spaventoso oltre che inquietante. Faccio ancora qualche obiezione ma poi mi faccio qualche conto veloce. Prendo in esame solo i due massacri maggiori degli ultimi dieci anni: Piombo fuso e Margine protettivo. Non so quanti diciottenni o ventenni o venticinquenni siano stati ammazzati ma so che sono stati la maggioranza dei circa 1450 morti di piombo fuso e dei 2260 di margine protettivo. So però quanti bambini sono stati ammazzati. Ben 318 nei soli 21 giorni del primo massacro e 570 più un migliaio resi invalidi a vita nei 49 giorni del secondo.

A parere dei miei intervistati tutto questo fa parte della lungimiranza strategica, tanto intelligente quanto cinica, dei governanti israeliani. Non solo di Netanyahu, ma di tutti i governanti israeliani e mi invitano a ricordare che molti di loro erano stati feroci terroristi prima della nascita dello Stato di Israele di cui poi sarebbero diventati onorevoli statisti.

Mi ripetono che questo rientra nella mentalità israeliana e che nessuna uccisione di palestinese in grado di procreare è casuale. “Sono i nostri giovani la nostra forza e per questo Israele li uccide” ripete il mio ospite. Però, con uno spirito assolutamente palestinese, aggiunge “ma non potrà ucciderli tutti e gli interessi che sostengono Israele non saranno eterni. Assaggia la zuppa di verdura che è speciale”. Si cambia registro così, qui a Gaza. Se non fosse così fosse sarebbero stati assuefatti e addomesticati. Qualcuno la chiama resilienza.

Mentre scrivo queste riflessioni dalla mia finestra entrano tre cose: l’insopportabile ronzio dei droni al quale non riuscirò mai ad abituarmi, un caldo che fino a poco fa pare abbia toccato i 42 gradi all’ombra e che mi ha tenuta bloccata in casa, e il rumore di clacson misto a tante voci che vengono dal porto. Tra un po’, appena spirerà un po’ di brezza scenderò sulla spiaggia che ho davanti al mio ufficio e che sarà piena di palestinesi in festa. La spiaggetta in cui nel 2014 vennero fatti a pezzi 4 bambini mentre giocavano a pallone. Ho sempre pensato si trattasse di crudeltà e sadismo, ma dopo le ultime interviste ho cambiato idea: Israele non ha soltanto bisogno di uccidere, come già scritto alcuni giorni fa, per una sindrome non superata dovuta all’olocausto, Israele ha anche l’obiettivo di uccidere per fermare la crescita del popolo palestinese. Lucidamente, scientemente, criminalmente.

Ripensando ad alcuni articoli di Gideon Levy, una delle firme più prestigiose del giornalismo israeliano progressista, mi rendo conto che Levy questo orrendo obiettivo lo denuncia da tempo. Ma solo l’impatto vis à vis con chi è direttamente colpito da questo progetto mi ha dato consapevolezza della sua mostruosità. Se Israele si salverà da se stesso sarà anche perché quella piccola minoranza di cui Gideon Levy fa parte e che rappresenta la parte sana del paese, riuscirà ad ostacolare questa deriva razzista o peggio.

Per oggi è tutto, la festa continua comunque, nonostante l’ombra minacciosa di Israele, nonostante la cecità politica dell’Anp, nonostante il dolore per i tanti martiri, che però non sono assenti, basta entrare nelle case per vedere che anche loro partecipano all’Eid. Partecipano in forma di icona e di ritratti che riempiono i muri.”

Per oggi è tutto, la festa continua comunque, nonostante l’ombra minacciosa di Israele, nonostante la cecità politica dell’Anp, nonostante il dolore per i tanti martiri, che però non sono assenti, basta entrare nelle case per vedere che anche loro partecipano all’Eid. Partecipano in forma di icona e di ritratti che riempiono i muri.




Dopo aver ucciso Razan al-Najjar, Israele assassina il suo personaggio

Gideon Levy

10 giugno 2018, Haaretz

Quando non c’è più onestà, ciò che rimane non è altro che propaganda

Poche parole – “Razan al-Najjar non è un angelo della misericordia” – riassumono la profondità della propaganda israeliana. Avichay Edraee, il portavoce in lingua araba dell’esercito israeliano, che parla anche in mio nome, è il rappresentante di un esercito della misericordia che ora si è autonominato giudice del livello di misericordia di una dottoressa che curava un ferito palestinese sul confine di Gaza con Israele e che i soldati dell’esercito israeliano hanno ucciso senza misericordia. Dopo averla uccisa, era anche necessario assassinare il suo personaggio.

La propaganda è uno strumento a disposizione di molti Paesi. Meno le loro politiche sono giuste, più incrementano i propri sforzi propagandistici. La Svezia non ha bisogno di propaganda. La Corea del Nord sì. In Israele viene chiamata ‘hasbara’ – diplomazia pubblica – in quanto: perché avrebbe bisogno di propaganda? Recentemente la sua propaganda è scesa a una bassezza talmente deprecabile che niente può dimostrare meglio di così che le sue giustificazioni sono esaurite, le sue scuse finite, che la verità è la nemica e che ciò che rimane sono menzogne e calunnie.

Si rivolge soprattutto al consumo interno. Nel resto del mondo pochi abitanti di Gaza ci crederebbero in ogni caso. Ma come parte del disperato tentativo di continuare con la repressione e la negazione psicologiche, nell’incapacità di dirci la verità e nell’elusione di ogni responsabilità – tutto è accettabile quando si tratta di questi sforzi.

Una dottoressa con un camice da infermiera è stata uccisa con un colpo di fucile da cecchini dell’esercito israeliano – come hanno fatto con giornalisti con i giubbotti con la scritta “stampa” e con un invalido senza gambe su una sedia a rotelle. Se ci fidiamo dei cecchini dell’esercito israeliano per sapere cosa stanno facendo, contando su di loro per essere i più corretti al mondo, allora queste persone sono state uccise deliberatamente. Sicuramente se l’esercito credesse alla giustezza della campagna militare che sta combattendo a Gaza, si sarebbe preso la responsabilità di queste uccisioni, manifestando rincrescimento e offrendo un risarcimento.

Ma quando la terra scotta sotto i nostri piedi, quando sappiamo la verità e capiamo che sparare contro manifestanti e ucciderne più di 120 e rendere centinaia di altri disabili assomiglia di più a un massacro, non si può chiedere scusa e esprimere rincrescimento. E allora l’aggressiva, goffa, imbarazzante e vergognosa macchina della propaganda del portavoce dell’esercito entra in azione – una fragorosa voce dal ministero della Difesa che aggrava semplicemente quello che è stato fatto. Martedì il maggiore Edraee ha reso pubblico un video in cui si vede da dietro un’infermiera, forse Najjar, mentre lancia lontano un lacrimogeno che i soldati avevano sparato verso di lei. Lo stesso Edraee avrebbe fatto altrettanto, ma quando si tratta di una propaganda disperata, è una prova inconfutabile: Najjar è una terrorista. Ha anche detto di essere uno scudo umano. Sicuramente un medico è un difensore di esseri umani.

Un’inchiesta militare israeliana, basata ovviamente solo su testimonianze dei soldati, dimostra che non è stata colpita volontariamente. Chiaro. La macchina della propaganda è andata oltre ed ha suggerito che potrebbe essere stata uccisa da armi da fuoco palestinesi, che sono state usate molto di rado durante gli ultimi due mesi.

Forse si è sparata da sola? Tutto è possibile. E ci ricordiamo forse di una qualunque inchiesta dell’esercito israeliano che abbia dimostrato il contrario? L’ambasciatore israeliano a Londra, Mark Regev, che è un altro grande, raffinato propagandista, è stato veloce nel twittare in merito alla “dottoressa volontaria” tra virgolette, come se una palestinese non potesse essere una dottoressa volontaria. Invece, ha scritto, la sua morte è “un ulteriore dimostrazione della brutalità di Hamas.”

L’esercito israeliano uccide un medico in camice bianco, durante una vergognosa violazione delle leggi internazionali, che garantiscono protezione al personale medico in zone di conflitto. E ciò nonostante il fatto che il confine di Gaza non costituisca una zona di guerra. Ma è Hamas che è brutale.

Uccidimi, signor ambasciatore, ma chi potrebbe mai seguire questa logica contorta, malata? E chi può credere a questa propaganda a buon mercato se non qualche membro del Consiglio dei Deputati degli Ebrei Britannici – la più grande organizzazione rappresentativa dell’ebraismo britannico – insieme a Merav Ben Ari [del partito di centro Kulanu, all’opposizione, ndt.], la deputata della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] che ha subito approfittato dell’occasione e ha dichiarato: “Risulta che la dottoressa, proprio quella, non era solo un medico, come vedete.” Sì, quella. Come vedete.

Israele avrebbe dovuto essere scioccato dall’uccisione della dottoressa. Il volto innocente di Najjar avrebbe dovuto toccare ogni cuore israeliano. Organizzazioni di medici avrebbero dovuto esprimersi. Gli israeliani avrebbero dovuto nascondere la faccia per la vergogna. Ma sarebbe potuto succedere solo se Israele avesse creduto alla giustezza della propria causa. Quando non c’è più onestà, ciò che rimane non è altro che propaganda. E da questo punto di vista, forse questa caduta ancora più in basso annuncia novità positive.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Perché Israele ha bisogno di uccidere

Patrizia Cecconi

2 giugno 2018, Pressenza

Osservando i fatti in quella striscia di terra del Vicino Oriente chiamata Striscia di Gaza, non ci si chiede più cosa sta spingendo quel popolo a rischiare la vita nella grande manifestazione iniziata il 30 marzo e chiamata Grande marcia del ritorno.  Sono state fatte tante analisi in questi due mesi e sono state dette anche molte sciocchezze, o più precisamente molte bugie, ma la verità è comunque emersa circa le ragioni di tanta esasperata determinazione.

Quel che viene da chiedersi, invece, è cosa spinge Israele a seguitare ad uccidere gratuitamente riuscendo a tirarsi addosso le attenzioni negative delle istituzioni abitualmente indulgenti rispetto alle sue azioni. E’ facile rispondere che Israele uccide con leggerezza perché può contare sull’incondizionato appoggio degli Usa e dei suoi satelliti, ma questa è una ragione insufficiente a spiegare, perché riguarda la copertura delle sue azioni nefande e non la spinta a commetterle.

Ieri ad esempio, penultimo venerdì della Grande Marcia, che motivo avevano i soldati israeliani per colpire un’ambulanza che portava soccorso? Chi o che cosa è stato a spingere quei soldati a sparare contro un gruppo di infermieri assassinando una giovane volontaria dall’aria di bambina in fiore? 21 anni, poco più  che adolescente, Razan Al Najjar era stata come un raggio di sole in questi due mesi in cui si era prodigata con  generosità ed efficienza al  soccorso dei feriti. Lei partecipava alla marcia così, portando aiuto con tanta determinazione e altrettanta grazia. Anche chi scrive aveva avuto modo di conoscerla durante una delle visite al border e non è stato facile scriverne, da morta, dopo averla riconosciuta in foto, viva, con quell’espressione a mezzo tra la gioia dell’adolescente che sorride al fotografo e la serietà del compito che aveva scelto di svolgere.

Hanno ucciso proprio lei ed hanno commesso un errore i suoi assassini perché c’è qualcosa di imponderabile nelle emozioni umane, qualcosa che va oltre la sfera della ragione. Hanno ucciso ragazzini inermi e il mondo ha fatto ahi! Hanno ucciso invalidi, già da loro stessi resi invalidi, su grucce o sedie a rotelle e il mondo ha detto ahi, Israele! Hanno ucciso fotoreporters “armati” solo di una macchina fotografica e individuabili col giubbetto “press” e il mondo ha sentito Israele invocare il suo diritto alla difesa e ha detto hmmm… hanno ucciso oltre 120 uomini donne ragazzi e bambini tutti disarmati e il mondo ha ripetuto la magica frase “sicurezza per Israele” passando sopra ai cadaveri. Hanno ferito 13.000 manifestanti disarmati e prima che il mondo potesse parlare, Israele ha detto “è tutta colpa di Hamas”! E il mondo ha detto “è colpa di Hamas” e si è addormentato sereno.

Ma ieri è successo qualcosa di particolare. Ieri non hanno ucciso un bambino, un invalido, una donna, o 120 palestinesi. Ieri hanno ucciso Razan Al Najjar. Un fiore che portava un nome e che, al pari del video che mostrava il camice insanguinato e l’inutile disperato tentativo di salvarla, ha fatto il giro del mondo con annessa foto. Non è morta “una palestinese”, è morta una ragazza palestinese ben identificabile come “umana”, col suo viso, il suo sorriso, il suo camice insanguinato senza un comprensibile perché, e poi altre foto sono apparse di Razan al confine, di Razan che corre a recuperare un ferito, di Razan con i guanti sanitari insanguinati mentre presta soccorso. Di Razan viva, sorridente, piangente, attiva e generosa. Perché l’hanno uccisa? Perché Israele uccide in questo modo i palestinesi che già sottopone alla tortura dell’assedio?

Abbiamo paura di rispondere. Temiamo che andando per esclusione possa emergere una verità terribile da accettare. Premettiamo che le autorità che governano la Striscia avevano accettato una sorta di tregua pilotata dall’Egitto, e anche se la marcia non è delle autorità governative, l’influenza di Hamas nel tenere bassa la guardia si è fatta sentire. Eppure anche ieri ci sono stati decine di feriti da colpi sparati dai cecchini, oltre ad altre decine di intossicati dai gas. A giudicare dall’andamento delle manifestazioni che abbiamo monitorato in diretta non sembrava ci fosse alcun motivo di sparare. E allora perché?

Israele è al di sopra della legalità internazionale, e lo è a tal punto di aver fatto della legalità internazionale un ectoplasma capace di prendere forma solo quando riguarda altri Stati. Ma questo spiega solo l’arroganza a crimine avvenuto e non spiega ancora cosa induce Israele a commetterlo.

L’accanimento con cui impedisce a una barca carica di feriti di raggiungere la Grecia per potersi curare è in fondo della stessa natura dello sparare gratuitamente a manifestanti disarmati. Poi in realtà spara anche in assenza di manifestazioni.  Potremmo supporre  che vuole ridurre i palestinesi al silenzio. Ma sono 70 anni che ci prova e sa che non può riuscirci. Vuole rendere la vita ai palestinesi e, nello specifico, ai gazawi talmente impossibile da farli fuggire? No, perché gli impedisce di uscire costringendoli in prigione. Vuole forse creare una sorta di califfato in accordo con l’Egitto che si estenda verso il Sinai in cui verranno rinchiusi i palestinesi illudendoli che quello è il loro Stato? Ci sembra improbabile e, comunque, non avrebbe a che fare con la gratuità delle violenze.

Forse Israele non ha elaborato, come collettività, la violenza subita nei secoli dagli ebrei e, in particolare, quella subita durante il nazifascismo e che tuttora rappresenta la coperta capace di bloccare le sanzioni per i suoi crimini. Senza calarci in un’interpretazione psicoanalitica che non abbiamo le competenze per sviluppare, possiamo però avanzare l’ipotesi che Israele stia affermando se stesso con la tragica introiezione dei valori negativi di cui non riesce a liberarsi. Vuoi perché li usa a propria giustificazione, vuoi perché deve superarli ma, non separandosene perché li usa, non può superarli se non inglobandoli per rielaborarli e poi, infine, potersene liberare.  Ma intanto, in questo percorso, ha bisogno di un corpo su cui scaricare la negatività subita e renderlo dipendente, annichilirlo, farne l’equivalente di quel che il “corpo ebreo” ha subito durante il nazismo.

Affermare la sua superiorità per curare le sue ferite. Sparare gratuitamente, lasciar boccheggiare ma non morire, grazie alla mortificante elemosina dei donatori 2 milioni di gazawi i quali, non potendo essere pubblicamente definiti esseri inferiori li si taccia di terrorismo, ottenendo così il consenso planetario al loro annichilimento. Far scendere normalmente i palestinesi dai bus in Cisgiordania per controllare i documenti mortificando la loro dignità sotto lo sguardo armato di quattro soldatelli diciottenni è un modo meno sanguinario ma tendente allo stesso scopo: spegnere l’autostima del popolo occupato per accrescere quella del popolo (popolo) occupante fino a considerarsi non occupante ma legittimo proprietario, potente, superiore per decreto divino, impunibile.

Sono solo ipotesi interpretative dettate dall’osservazione diretta. Possono essere confutate, ma solo da chi può farlo in seguito a lunga osservazione diretta. Israele comunque, al momento, ha un comportamento assolutamente criminale e questo non è, come potrebbe sembrare, un giudizio di valore, ma è un dato di fatto.

L’uccisione della piccola infermiera Razan, bella e commovente nella sua gioventù spezzata come per un atto vandalico, può essere l’errore che Israele non avrebbe dovuto fare e che forse cambierà l’andamento del suo progetto.
Israele sa che in questo caso non potrà usare la coperta del “diritto a difendersi” e quindi userà quella della “shoà”, ma forse stavolta resterà scoperto. Sarà il volto pulito e luminoso di Razan a inchiodarlo alla sua realtà di Stato che per emanciparsi da quel che ha subito si è infilato nella stessa uniforme del suo vecchio persecutore. Molto peggio che Stato canaglia! e quando la parte sana del suo corpo sociale se ne renderà conto cosa succederà? Ogni ipotesi è possibile.

Ora possiamo soltanto osservare che se i media non cederanno al silenzio ma avranno il coraggio di dire la verità, e cioè: Razan non è stata uccisa in scontri con i soldati, ma per il gusto sadico di un soldatello, forse affascinato dal suprematismo israeliano, di annientare una ragazza inerme, bella, forte nelle sue idee e quindi perfetto bersaglio da centrare in pieno petto in modo che il soldatino ancora in forse sul suo essere superiore o meno potesse affermarsi attraverso il fucile, sua appendice di virilità.

Come scrive il poeta giordano Abduhadi Raji Majali “Gaza è l’unico luogo nel mondo arabo che ha offerto martiri di ogni tipo. Ha fornito bambini, disabili e anziani … Il mare è chiuso e la terra è chiusa e l’aria è assediata .. ma il popolo di Gaza ha creato una quarta strada …E con tutta questa miseria, i gazawi producono arte attraverso la sabbia delle spiagge…Gaza è un fenomeno … Penso che Gaza sia un mito che Allah ha posto sulla terra in modo che il mondo possa imparare da esso …”

Questa è la percezione che anche il grande poeta Mahmud Darwish aveva di Gaza e la esprimeva in una sua poesia, Gaza è un fenomeno! e proprio perché Gaza è un fenomeno in cui accadono cose impensabili, forse l’assassinio sadico di Razan, potrebbe essere il primo gradino della discesa agli inferi di Israele o del suo adattarsi al rispetto del Diritto universale umanitario e del Diritto internazionale entrambi violati con impassibile e impunita costanza per 70 anni, gli stessi della resistenza che il popolo palestinese, nonostante frazionamenti e rivalità politiche, porta avanti rivendicando il rispetto dei  propri diritti.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente l’orientamento redazionale di Zeitun.info.




La paramedica di Gaza uccisa da Israele è stata colpita alla schiena

Ali Abunimah

2 giugno 2018, Electronic Intifada

Una fotografia scattata il 1^ aprile mostra la paramedica palestinese Razan al-Njjar mentre sta curando dei feriti in una tenda del pronto soccorso durante le proteste a Gaza vicino al confine con Israele. Il 1^ giugno Al-Najjar è stata colpita a morte da un cecchino israeliano mentre prestava soccorso a dimostranti feriti vicino a Khan Younis.

Nel corso dei loro continui attacchi indiscriminati contro i palestinesi che partecipavano alle proteste della ‘Grande Marcia del Ritorno’ a Gaza, svoltesi per 10 venerdì consecutivi, le forze di occupazione israeliane hanno colpito a morte un medico volontario e ferito decine di persone.

Venerdì sera, quando è stata colpita a morte, Razan Ashraf Abdul Qadir al-Najjar, di 21 anni, stava aiutando a curare ed evacuare dimostranti feriti ad est di Khan Younis.

L’associazione per i diritti umani “Al Mezan” ha affermato, citando testimoni oculari e proprie indagini, che, nel momento in cui è stata colpita, lei si trovava a circa 100 metri di distanza dalla barriera di confine con Israele ed indossava un giubbotto che la identificava chiaramente come paramedico. “Al Mezan” ha affermato che Al-Najjar è stata colpita alla schiena.

Al-Najjar era diventata famosa per il suo coraggio e perseveranza nel condurre la sua opera di soccorso nonostante l’evidente pericolo.

In precedenza era stata colpita dagli effetti dell’inalazione di gas lacrimogeni e il 13 aprile si è rotta un polso mentre correva per soccorrere un ferito. Ma Al-Najjar quel giorno si è rifiutata di andare in ospedale ed ha continuato a lavorare sul campo.

È mio dovere e mia responsabilità essere là ed aiutare i feriti”, ha detto ad Al Jazeera.

Ha anche reso testimonianza sugli ultimi momenti di vita di coloro che erano stati feriti a morte prima di lei.

Mi spezza il cuore il fatto che alcuni dei giovani feriti o uccisi abbiano espresso le loro ultime volontà di fronte a me”, ha detto ad Al Jazeera. “Alcuni mi hanno addirittura consegnato i loro effetti personali (come dono) prima di morire.”

Al-Najjar ha parlato del suo lavoro in una recente intervista televisiva che è stata ampiamente diffusa sui social media dopo la notizia della sua morte.

Molti utenti di Twitter, soprattutto di Gaza, hanno reso omaggio a al-Najjar.

I media palestinesi hanno diffuso immagini dei suoi familiari e colleghi che piangevano la sua morte.

Il dottor Ashraf al-Qedra, portavoce del ministero della sanità di Gaza, ha reso omaggio ad al-Najjar definendola una volontaria umanitaria impegnata, che non ha abbandonato il suo posto fino al punto di “offrirsi come martire”.

Mani alzate

[La foto qui sotto riprende Razan pochi istanti prima di essere uccisa da:http://www.globalist.it/world/articolo/2018/06/03/l-infermiera-palestinese-uccisa-dagli-israeliani-aveva-le-braccia-alzate-2025472.html ndt]


Il camice bianco che al-Najjar indossava, mostrato da sua madre in questo video, presenta un foro nella parte posteriore.

In una dichiarazione rilasciata sabato, il ministero della Sanità di Gaza ha affermato che al-Najjar faceva parte di un’equipe medica che “andava ad evacuare i feriti con entrambe le mani alzate, a dimostrazione del fatto di non costituire alcun pericolo per le forze di occupazione pesantemente armate.”

Le forze di occupazione israeliane hanno sparato proiettili veri direttamente al petto di Razan ed hanno ferito parecchi altri paramedici”, ha aggiunto il ministero della Sanità.

Dalla dichiarazione del ministero della Sanità non risulta chiaro quante volte al-Najjar sia stata colpita o in quale esatto punto della parte superiore del corpo. Il ministero ha anche pubblicato un video che mostra al-Najjar e i suoi colleghi che camminavano verso la barriera di confine con le mani alzate poco prima che al-Najjar venisse colpita.

Sabato il rappresentante speciale ONU per il processo di pace in Medio Oriente, Nickolay Mladenov, ha twittato che “gli operatori sanitari non sono un bersaglio. I miei pensieri e le mie preghiere vanno alla famiglia di Razan al-Najjar.”

Tuttavia Mladenov ha omesso di condannare le azioni di Israele, invitandolo invece a “calibrare il suo uso della forza.”

Sabato in migliaia hanno seguito il funerale di al-Najjar, mentre i colleghi portavano il suo corpo coperto dalla bandiera palestinese e dal camice macchiato di sangue che indossava quando è stata uccisa.

Attacchi ai medici

Al-Najjar è il secondo soccorritore ucciso dalle forze israeliane dall’inizio delle proteste della ‘Grande Marcia per il Ritorno’, il 30 marzo. Secondo il ministero della Sanità di Gaza, più di altri 200 sono stati feriti e 37 ambulanze sono state danneggiate.

Due settimane fa i cecchini israeliani hanno ucciso il paramedico Mousa Jaber Abu Hassanein.

Circa un’ora prima che venisse ucciso, Abu Hassanein aveva aiutato a soccorrere uno dei suoi colleghi, il medico canadese Tarek Loubani, che era stato ferito da un proiettile israeliano.

In seguito Loubani ha raccontato al podcast di The Electronic Intifada di essere stato colpito a una gamba mentre intorno a lui tutto era tranquillo: “Nessun pneumatico in fiamme, niente fumo, niente gas lacrimogeni, nessuno che si aggirasse davanti alla zona cuscinetto. C’era solo una squadra medica chiaramente identificabile, ben lontana da chiunque altro.”

Chirurghi di guerra

Secondo “Al Mezan” questo venerdì, come tutti i venerdì, le forze israeliane hanno sparato proiettili veri, proiettili ricoperti di gomma e candelotti lacrimogeni contro i palestinesi lungo il confine est di Gaza, ferendo circa 100 persone, 30 delle quali con proiettili veri.

I dimostranti non costituivano pericolo o minaccia alla sicurezza dei soldati, il che conferma che le violazioni commesse da queste forze sono gravi e sistematiche e si configurano come crimini di guerra”, ha affermato l’associazione per i diritti umani.

Secondo “Al Mezan”, dalla fine di marzo le forze israeliane hanno ucciso 129 persone a Gaza, compresi 15 minori, 98 delle quali durante le proteste.

Mentre Israele venerdì continuava ad aumentare il tragico bilancio, il sistema sanitario di Gaza si trovava già senza la possibilità di far fronte all’affluenza di persone ferite dall’uso evidente di proiettili a frammentazione, che provocano ferite terribili che richiedono trattamenti intensivi e complessi e lasciano spesso le vittime con disabilità permanenti.

Più di 13.000 persone sono state ferite da quando sono cominciate le proteste, comprese quelle che hanno inalato gas lacrimogeni. Delle oltre 7.000 persone che hanno subito danni diversi dai gas lacrimogeni, più della metà sono state colpite da proiettili veri.

Giovedì il Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC) ha comunicato che avrebbe fornito a Gaza due squadre di chirurghi di guerra e attrezzature mediche, per sostenere un sistema sanitario che ha affermato essere “sull’orlo del collasso”.

L’ICRC ha detto che la priorità per la sua missione di sei mesi sarebbe stata la cura delle vittime di ferite da arma da fuoco, tra cui circa 1.350 pazienti che avrebbero avuto bisogno da tre a cinque operazioni ciascuno.

Un simile carico di lavoro potrebbe travolgere qualunque sistema sanitario”, ha affermato l’ICRC. “A Gaza la situazione viene peggiorata dalla cronica carenza di medicinali, attrezzature ed elettricità.”

Baraccopoli infetta”

Le continue proteste a Gaza hanno lo scopo di rivendicare il diritto dei rifugiati palestinesi a ritornare nelle loro case e terre che sono ora in Israele e di chiedere la fine dell’assedio israeliano del territorio, che dura da oltre un decennio.

I due milioni di abitanti di Gaza sono “imprigionati dalla culla alla tomba in una baraccopoli infetta”, ha detto venerdì il responsabile dei diritti umani dell’ONU Zeid Ra’ad al-Hussein in una sessione speciale del Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani.

Zeid ha anche detto al Consiglio che ci sono “ poche tracce” del fatto che Israele stia facendo qualcosa per ridurre il numero delle vittime.

Ha confermato che “le azioni dei dimostranti di per sé stesse non sembrano costituire una minaccia immediata di morte o di ferite mortali tale che possa giustificare l’uso di forza letale.”

Zeid ha parlato al Consiglio quando esso stava prendendo in considerazione una bozza di risoluzione per avviare un’inchiesta internazionale per crimini di guerra a Gaza.

La settimana scorsa il Consiglio per i Diritti Umani ha deciso con 29 voti contro 2 di avviare un’inchiesta indipendente sulle violenze a Gaza.

Solo gli Stati Uniti e l’Australia hanno votato contro l’inchiesta, ma diversi governi dell’Unione Europea, inclusi Regno Unito e Germania, erano tra i 14 astenuti.

Medical Aid for Palestinians’, un’organizzazione benefica che ha fornito assistenza di emergenza in mezzo al crescente disastro, e una dozzina di altre organizzazioni, hanno criticato il rifiuto del governo britannico di appoggiare un’inchiesta “per accertare violazioni del diritto internazionale nel contesto delle proteste civili di massa a Gaza.”

Ma i tentativi di rendere Israele responsabile continuano, tra l’opposizione intransigente dei suoi sostenitori.

Venerdì sera il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha votato su una bozza di risoluzione proposta dal Kuwait, che deplora “l’uso eccessivo, sproporzionato e indiscriminato della forza da parte delle forze israeliane” e chiede “misure per garantire la sicurezza e la protezione” dei civili palestinesi.

Ha anche chiesto la fine del blocco di Gaza e deplorato “il lancio di razzi dalla Striscia di Gaza contro zone civili israeliane.”

Dieci Paesi, inclusi i membri permanenti Russia e Francia, hanno votato a favore. Quattro, compresa la Gran Bretagna, contro.

Nonostante avesse i voti sufficienti per essere approvata, la risoluzione è stata resa vana dall’ambasciatrice USA Nikki Haley, che – come aveva promesso di fare – ha posto il veto del suo Paese.

Poi Haley ha proposto la sua bozza di risoluzione, che assolve Israele da ogni responsabilità per la violenza a Gaza e attribuisce tutta la responsabilità della situazione ad Hamas.

L’unico Paese che ha votato a favore sono stati gli Stati Uniti.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)