Le forze israeliane uccidono 16 persone a Gaza mentre i palestinesi manifestano nel “Giorno della Terra”

MEE ed agenzie


Venerdì 30 marzo 2018, Middle East Eye

Più di 1.000 manifestanti feriti mentre i palestinesi rivendicano il diritto al ritorno e la fine del furto di terra.

Secondo le autorità venerdì le forze israeliane hanno ucciso almeno 16 palestinesi nella Striscia di Gaza assediata, mentre decine di migliaia manifestavano nei territori occupati e in Israele nel “Giorno della Terra”.

Il giorno della Terra” nasce nel 30 marzo 1976, quando forze israeliane uccisero sei palestinesi con cittadinanza israeliana durante una protesta contro la confisca di terre. I palestinesi hanno celebrato questo giorno negli scorsi 42 anni per denunciare le politiche israeliane di appropriazione della terra palestinese.

Quest’anno ciò è avvenuto sulla scia di mesi di rabbia contro la decisione del presidente USA Donald Trump di spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme, generalmente percepita come il rifiuto da parte degli Stati Uniti delle rivendicazioni palestinesi su Gerusalemme est come loro capitale nel contesto della soluzione dei due Stati.

Nella Striscia di Gaza, dove 1.3 dei 2 milioni di abitanti del piccolo territorio sono rifugiati, gli organizzatori della protesta hanno promosso sei settimane di manifestazioni chiamate la “Grande Marcia del Ritorno” lungo il confine tra l’enclave palestinese assediata e Israele, che iniziano con il “Giorno della Terra” e culmineranno il 15 maggio con il “Giorno della Nakba”, che segna l’espulsione dei palestinesi da Israele nel 1948.

Mentre il discorso politico israeliano con il primo ministro Benjamin Netanyahu si sposta ulteriormente a destra, i palestinesi sono diventati sempre più scettici riguardo alla possibilità di negoziati o di un miglioramento delle loro condizioni di vita a Gaza, in Cisgiordania, a Gerusalemme est e nello stesso Israele.

Il ministero [della Salute di Gaza, ndt.] ha aggiunto che, alla fine del pomeriggio, più di 1.000 manifestanti sono stati feriti. Un portavoce della Mezzaluna Rossa palestinese ha detto a MEE di stimare che circa 800 manifestanti di Gaza siano stati colpiti da proiettili veri.

Secondo il ministero della Salute, ore prima delle proteste un carrarmato israeliano ha ucciso un contadino gazawi e ne ha ferito un altro.

Omar Samour, 27 anni, è stato ucciso da martire e un altro abitante è stato ferito a est del villaggio di Qarara in seguito al fatto che i contadini sono presi di mira,” ha detto un portavoce del ministero della Salute di Gaza. Abitanti del villaggio a sud della Striscia di Gaza hanno detto che Samour era andato a raccogliere erbe.

Un portavoce dell’esercito israeliano ha confermato l’incidente: “Durante la notte due sospetti si sono avvicinati alla barriera di sicurezza, hanno iniziato a muoversi in modo sospetto e il carrarmato ha sparato verso di loro,” ha affermato il portavoce.

Il portavoce di Antonio Guterres ha affermato in un comunicato che il segretario generale delle Nazioni Unite ha chiesto un’inchiesta indipendente e trasparente sulle morti e feriti venerdì a Gaza.

Ha anche fatto appello a quanti sono coinvolti per evitare ogni atto che possa portare ad ulteriori vittime, e in particolare ogni misura che possa mettere in pericolo i civili,” ha detto il portavoce ONU Farhan Haq.

Brutale violazione”

Il ministero della Salute di Gaza ha confermato che almeno 16 manifestanti palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane sul confine con Israele, ed ha identificato alcune delle vittime: Mohammad Kamel Najjar, 29 anni, ucciso nei pressi di Jabalia, a nord di Gaza; Mahmoud Abu Muammar, 38 anni, nei pressi di Rafah, a sud; Mohammad Abu Amro, noto artista della Striscia di Gaza; il sedicenne Ahmad Odeh, a nord di Gaza City; Jihad Farina, 33 anni, a est di Gaza City; Mahmoud Rahmi, 33 anni; Ibrahim Abu Shaer 22 anni, nei pressi di Rafah; Abd al-Fattah Bahjat Abd al-Nabi, 18 anni; Abd al-Qader al-Hawajra, 42 anni, ucciso nella zona centrale di Gaza; Sari Abu Odeh; Hamdan Abu Amsha, nei pressi di Beit Hanoun, nel nord di Gaza.

L’ong per i diritti umani “Adalah” ha denunciato l’uso da parte dell’esercito israeliano di proiettili letali come una “brutale violazione degli obblighi legali internazionali nella distinzione tra civili e combattenti,” ed ha chiesto un’inchiesta sulle uccisioni. In un comunicato l’esercito israeliano ha annunciato di aver dichiarato l’area di confine della Striscia di Gaza una zona militare chiusa – intendendo che ogni palestinese che si trovi vicino alla recinzione di confine può rischiare di essere colpito.

La marcia ha raggiunto i suoi obiettivi, ha scosso i pilastri dell’entità (Israele), ed ha posto il primo mattone sulla via del ritorno,” ha detto a MEE Ismail Haniyeh, uno dei principali dirigenti politici di Hamas mentre visitava un campo della protesta a Gaza.

Secondo il mezzo di informazione israeliano di sinistra “+972 Magazine”, un gruppo israeliano noto come la “Coalizione delle Donne per la Pace”, pensa di unirsi alla protesta sul lato israeliano.

La distanza tra quello che stiamo sentendo sugli eventi dall’interno di Gaza e l’istigazione [alla violenza] che stiamo sentendo nei media israeliani è enorme e non lascia dubbi sulle intenzioni violente delle autorità israeliane. Speriamo che i nostri timori di una risposta militare violenta si dimostrino sbagliati, ma indipendentemente da ciò sabato saremo presenti in appoggio ai manifestanti, che hanno il diritto di chiedere i propri diritti e la propria libertà,” ha detto Tania Rubinstein, una coordinatrice del gruppo.

A settecento metri da quei soldati c’è il mio diritto e il diritto del popolo palestinese a tornare a casa dopo 70 anni di espulsione. Non aspetteremo altri 70 anni,” ha detto a MEE Alaa Shahin, un giovane uomo palestinese che stava festeggiando il suo matrimonio in un campo di protesta nei pressi di Jabaliya.

Conservo ancora i documenti originali della nostra terra a Nilya, che ho ereditato da mio padre,” ha detto Yousef al-Kahlout, un insegnante di storia in pensione che venerdì ha partecipato ad una delle manifestazioni di Gaza insieme a cinque dei suoi nipoti. “Oggi spiego ai miei nipoti che loro hanno il diritto di riprenderne possesso se io non fossi più vivo per realizzare il mio sogno di tornare.”

Mentre gli organizzatori di Gaza hanno insistito che le manifestazioni sarebbero state pacifiche, vari incidenti di gazawi arrestati dopo essere entrati in Israele negli scorsi giorni – compresi tre palestinesi che stavano portando armi – hanno visto le forze israeliane ansiose di dimostrare il proprio controllo della situazione.

In un comunicato l’esercito israeliano ha confermato che stava usando “mezzi per disperdere disordini” – un termine regolarmente utilizzato in riferimento a gas lacrimogeni e a bombe assordanti – così come sparando ai “principali istigatori” della protesta.

La “Grande Marcia del Ritorno” ha anche visto le forze israeliane utilizzare droni per lanciare gas lacrimogeni sui manifestanti – una tecnologia che è stata usata solo poche volte a Gaza dalle forze israeliane.

Mercoledì il capo dell’esercito israeliano ha detto che più di 100 cecchini sono stati schierati sul confine di Gaza in vista delle previste manifestazioni di massa nei pressi della frontiera. Pesanti pale meccaniche hanno costruito cumuli di terra sul lato israeliano del confine ed è stato collocato filo spinato come ulteriore ostacolo contro qualunque tentativo dei dimostranti di violare il confine nel territorio israeliano.

Proteste del “Giorno della Terra” in Israele e in Cisgiordania

Nel contempo venerdì i palestinesi hanno manifestato anche in Israele e in Cisgiordania per commemorare il “Giorno della Terra”. Nella città a maggioranza palestinese di Arraba, nella regione della Galilea, nel nord di Israele, migliaia di persone, compresi parlamentari palestinesi della Knesset israeliana, sindaci e personalità religiose, sono scesi in strada.

Prima del corteo membri dell’”Alta Commissione di Verifica per i Cittadini Arabi di Israele” della Knesset si sono recati alle tombe dei sei palestinesi cittadini di Israele che vennero uccisi durante la prima marcia del “Giorno della Terra” nel 1976, nei cimiteri di Arraba, Sakhnin e Deir Hanna.

Israele sta ancora rubando e confiscando le nostre terre, e l’oppressione continua contro il nostro popolo all’interno del ’48, nella diaspora e a Gaza,” ha detto in un discorso il sindaco di Arraba Ali Asleh, utilizzando una perifrasi per riferirsi alle terre su cui è stato dichiarato lo Stato di Israele nel 1948.

Secondo mezzi d’informazione palestinesi ci sono stati scontri in alcune città della Cisgiordania, comprese

Un portavoce della Mezzaluna Rossa palestinese ha detto a MEE che l’organizzazione ha curato almeno 63 manifestanti in Cisgiordania, la maggior parte per aver inalato gas lacrimogeno, mentre almeno 10 sono stati feriti da proiettili di metallo rivestito di gomma.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




B’Tselem: Gaza non è “zona di guerra”, sparare ai manifestanti è un crimine

29 marzo 2018, B’Tselem

Il Centro di informazione israeliano sui diritti umani nei Territori Occupati:

Prima delle manifestazioni palestinesi programmate per l’inizio di domani (venerdì) a Gaza, gli ufficiali israeliani hanno ripetutamente minacciato di rispondere con l’eliminazione fisica.

Ignorando completamente il disastro umanitario a Gaza di cui Israele è responsabile, stanno interpretando la protesta in termini di rischio per la sicurezza, rappresentando i manifestanti come terroristi e riferendosi a Gaza come a una “zona di guerra”.

Informazioni frammentarie riferite dai media indicano che: i soldati avranno l’ordine di sparare a chiunque si muova entro i 300 metri dalla recinzione; cecchini spareranno a chiunque la tocchi; si sparerà anche in circostanze che non siano una minaccia mortale [per i soldati]. In altre parole sparare per uccidere i palestinesi che partecipano alle dimostrazioni.

Le forze israeliane da tempo hanno già sparato per uccidere contro manifestanti palestinesi a Gaza. Solo nel dicembre 2017- il mese con il più alto numero di morti dello scorso anno- a Gaza le forze israeliane hanno sparato e ucciso otto manifestanti palestinesi disarmati.

Indubbiamente l’ incremento dell’uso illegale delle armi da fuoco innalzerà il numero dei morti. Ma questo prevedibile esito appare non avere scosso gli israeliani responsabili delle decisioni riguardo alla risposta da dare alle manifestazioni a Gaza, sia in generale che in particolare nell’ impartire gli ordini che consentono di aprire il fuoco.

Inoltre, la presunzione israeliana di poter decidere le azioni dei palestinesi all’interno della Striscia di Gaza è assurda. La decisione di dove, se e come manifestare a Gaza non è Israele che la deve prendere, nè rispetto alla manifestazione di domani né in generale rispetto alla vita quotidiana.

I comunicati ufficiali israeliani non fanno alcun riferimento alle concrete motivazioni della protesta, alla situazione disastrosa di Gaza o al diritto di manifestare liberamente. Israele ha il potere di cambiare in meglio [le condizioni] di vita a Gaza, ma ha scelto di non farlo. Ha fatto di Gaza un enorme prigione, ma impedisce ai prigionieri persino di protestare contro di ciò, pena la morte.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Promemoria al “New York Times”: andate al villaggio di Ahed Tamimi in Palestina e dite la verità

Mondoweiss

22 marzo 2018

A: David Halbfinger, capo della redazione di Gerusalemme del New York Times

Ahed Tamimi, che ha solo diciassette anni, è ormai una dei palestinesi più noti di sempre, ma i lettori del tuo “New York Times” sono ancora all’oscuro di tutto. Hai scritto solo due articoli su di lei: il primo, un testo relativamente lungo a dicembre, era un resoconto con una “narrazione a confronto” su come palestinesi ed israeliani interpretano in modo diverso la sua resistenza all’occupazione. (Il tuo secondo articolo, oggi, è solo una sintesi su come un tribunale militare israeliano l’ha condannata a 8 mesi di reclusione. Il resoconto di oggi non è neanche incluso nell’edizione cartacea del “Times”).

Basta con le “narrazioni a confronto”. Vai al suo villaggio nella Palestina occupata, Nabi Saleh, e racconta qualche fatto. Finora tutto quello che hai avuto da dire nel tuo primo articolo è stato che i Tamimi vivono in “un piccolo villaggio” che ha “da molto tempo un contenzioso con un vicino insediamento israeliano, Halamish, che secondo gli abitanti di Nabi Saleh avrebbe rubato la loro terra e la loro acqua.”

Un momento. Restiamo ai fatti. Verifica se gli abitanti di Nabi Saleh hanno ragione. Ben Ehrenreich, che nel 2013 ha pubblicato un lungo articolo sulla vostra rivista a proposito del villaggio, ha già fornito qualche precedente. Alla fine degli anni ’70 Israele si è impossessato di più di 60 ettari delle terre di Nabi Saleh, apparentemente per “ragioni militari”, ma poi li ha dati a coloni ebrei. Negli anni seguenti Israele ha rubato altra terra palestinese nella zona, come racconta Ehrenreich nel suo eccellente libro “The Way to the Spring: Life and Death in Palestine” [La via per la sorgente: vita e morte in Palestina]. In base alle leggi internazionali l’esproprio di terre è illegale, come riconosce ogni altro Paese al mondo, tranne Israele. In seguito i coloni ebrei hanno confiscato una sorgente d’acqua palestinese, chiamata “Sorgente dell’Arco”, ed hanno costruito vicino a questa uno stagno per i pesci. I palestinesi hanno di nuovo protestato. Anni dopo, spiega Ehrenreich, “i coloni hanno retroattivamente fatto richiesta per avere una licenza edilizia, che le autorità israeliane hanno rifiutato di concedere, sentenziando che “i richiedenti non hanno dimostrato i loro diritti sulla terra in questione.” Così ora i coloni non stanno sfidando solo le leggi internazionali, ma le loro stesse autorità. Eppure in qualche modo continuano a controllare la sorgente. Scopri perché.

Potresti anche fare un resoconto intervistando sia i coloni israeliani che i palestinesi della zona. Noi di “Mondoweiss” abbiamo scoperto che i coloni ebrei sono piuttosto disponibili a parlare apertamente e in modo aggressivo, per cui non censurare il loro estremismo. I coloni ebrei fanno vendere più copie e possiamo garantire che le loro colorite citazioni attireranno lettori per il tuo articolo.

Poi comincia a indagare sul livello di violenza nella zona, e chi ne è responsabile. Fai pure, racconta che alcuni giovani palestinesi lanciano pietre contro l’esercito israeliano (anche se dovresti sottolineare che neppure un solo soldato israeliano è mai stato ucciso da chi lancia pietre). Ma dovresti anche verificare quanti palestinesi di Nabi Saleh sono stati uccisi o seriamente feriti durante anni di manifestazioni per lo più non violente. Lo zio materno di Ahed Tamimi, Rushdie, è stato ucciso da proiettili letali e sua madre, Nariman, è stata colpita a una gamba e per un anno ha dovuto usare un bastone.

Non ti sarà difficile fare interviste a palestinesi di Nabi Saleh. A quanto pare Ben Ehrenreich non ha avuto problemi a trovare abitanti che parlassero con lui. Anche il fondatore di “Mondoweiss”, Phil Weiss, ha visitato il villaggio, ed ha scoperto che Bassem Tamimi, il padre di Ahed, parla un inglese fluente ed è ospitale.

Dovresti anche parlare con i soldati di leva israeliani che sono lì. Come i coloni, anche loro possono fornirti citazioni senza peli sulla lingua. Ma poi contatta “Breaking the Silence”, la coraggiosa organizzazione dei veterani israeliani contro l’occupazione. Forse qualcuno di loro è stato distaccato a Nabi Saleh e può dirti quello che sta dietro alla vicenda. E non dimenticare di verificare a B’Tselem, la famosa organizzazione per i diritti umani israeliana. A quanto pare alcuni dei tuoi predecessori del “New York Times” hanno avuto dei problemi a trovarli.

Infine dovresti cercare di intervistare la stessa Ahed Tamimi. Lei a quanto pare rimarrà in prigione fino a luglio, e Israele ovviamente cercherà di zittirla. Ma il “New York Times” è un’istituzione potente e potresti almeno chiedere.

Potrai sicuramente parlare con i membri della sua famiglia che non sono in prigione. Permettici di ricordarti che non hai citato neppure uno dei Tamimi in nessuno dei tuoi articoli. Dovresti iniziare dando loro la possibilità di rispondere a quell’affermazione che hai inserito nel tuo primo articolo di dicembre: “Che la sua famiglia sembri incoraggiare i rischiosi scontri dei figli con i soldati offende alcuni palestinesi e fa infuriare molti israeliani.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Questa è la giustizia per chi uccide palestinesi

Yael Marom

22 marzo 2018, +972 Magazine

Ahed Tamimi è stata condannata a otto mesi di reclusione per avere schiaffeggiato un soldato. Il colonnello Israel Shomer, che ha sparato a un adolescente palestinese tre colpi alla schiena non ha passato neanche un giorno in prigione.

Fin da quando è stata arrestata in piena notte alla fine dello scorso dicembre, la diciassettenne Ahed Tamimi è stata tenuta in una prigione israeliana. Mercoledì Tamimi ha firmato un patteggiamento con il tribunale militare israeliano e sconterà otto mesi di prigione, compresi i tre mesi già passati in carcere. Anche sua madre, Nariman, e sua cugina, Nur, hanno firmato un patteggiamento. Nariman sconterà otto mesi e Nur è stata condannata ad una detenzione che corrisponde al tempo già passato in prigione.

Il sistema giudiziario militare israeliano utilizza spesso il sistema del patteggiamento. Circa il 70% delle condanne di minori nei tribunali militari israeliani si conclude con un patteggiamento, portando la percentuale totale dei minori condannati nei tribunali militari a uno sconcertante 95%. Per gli adolescenti palestinesi è evidente che se firmano un patteggiamento ci sono molte probabilità di tornare a casa dalle loro famiglie e dai loro amici più rapidamente che se insistono a voler andare a processo – anche quando hanno qualche possibilità di vincere. Spesso le cause penali possono persino durare più a lungo della pena a cui verrebbero condannati con un patteggiamento.

Nel caso della famiglia Tamimi, si potrebbe supporre che avessero ben chiaro che ciò che era iniziato come un “processo spettacolare” sarebbe prima o poi finito con la prigione. Quindi il cammino verso il patteggiamento era già stato aperto. L’insistenza del tribunale militare nel tenere il processo ad Ahed a porte chiuse, in modo che rimanesse nascosto al pubblico, non ha lasciato alla famiglia alcuna ragione per confidare neppure in quel poco di giustizia che l’occupante avrebbe potuto garantire.

La condanna di Ahed a otto mesi giunge in un momento particolare. È sufficiente che una ragazzina palestinese umili un soldato israeliano perché tutto il sistema venga coinvolto per garantire che lei e i suoi familiari finiscano in galera. Eppure non è mai capitato che un soldato sia stato giudicato per aver spintonato o insultato un palestinese.

Ma andiamo anche oltre nel confronto – per averlo ucciso.

Proprio questa settimana la commissione per la libertà condizionata dell’IDF [l’esercito israeliano, ndt.] ha deciso di ridurre di un terzo la condanna di Elor Azaria, che in precedenza era già stata ridotta dal capo di stato maggiore dell’IDF. Al momento è stato rilasciato, e sconterà un totale di 9 mesi in prigione. Azaria non ha schiaffeggiato nessuno, ma ha sparato ed ucciso Abedel Fattah Sharif, un palestinese colpito e ferito a terra, che non rappresentava un pericolo per nessuno, dopo che, pochi minuti prima, aveva aggredito un soldato con un coltello nel quartiere di Tel Rumeida a Hebron. Se non ci fosse stato sul posto un volontario di B’Tselem [associazione israeliana per i diritti umani, ndt.] a riprendere la scena in un video, Azaria sarebbe stato acclamato come un eroe che “ha neutralizzato un terrorista”.

Oppure, che dire del caso di Amir Awad, un adolescente palestinese che nel 2013 è stato colpito alla schiena da due soldati dell’IDF durante una protesta nel villaggio cisgiordano di Budrus? I soldati spararono otto proiettili nella schiena di Awad, uccidendo il sedicenne mentre cercava di scappare. In seguito a un’inchiesta fasulla i due soldati sono stati processati per uso incauto e negligente di un’arma da fuoco, eppure i loro legali non hanno accettato un patteggiamento della pena a tre mesi di servizi sociali. Durante un’udienza tenutasi la scorsa settimana, gli avvocati hanno presentato alla corte dati dell’esercito che mostrano come negli ultimi sette anni su 114 casi in cui dei soldati hanno sparato ed ucciso palestinesi sono stati presentati solo 4 atti di accusa. Ora il pubblico ministero sta prendendo in considerazione di ritirare tutti i capi d’imputazione.

Come se non bastasse, c’è il caso del colonnello Israel Shomer. Nel luglio 2015 Shomer, che all’epoca era comandante di brigata in Cisgiordania, ha sparato e ucciso il diciassettenne Muhammad al-Kasba. L’adolescente aveva lanciato pietre contro la jeep blindata di Shomer, dopodiché l’ufficiale è uscito dalla vettura e, insieme ad un altro soldato, si è messo ad inseguirlo. A un certo punto Shomer ha aperto il fuoco. Due proiettili hanno colpito il ragazzo alla schiena e un altro alla testa. Shomer non era in pericolo; forse voleva solo impartire una lezione al ragazzo. Un anno dopo l’accaduto il pubblico ministero militare ha chiuso il caso ed ha deciso che Shomer non sarebbe stato processato.

Le donne della famiglia Tamimi, che hanno osato resistere solo con pugni e parole ai soldati occupanti nel loro cortile, rimarranno in carcere per un tempo più lungo di Shomer, dei soldati che hanno ucciso Samir Awad e solo poco meno tempo di Elor Azaria. Questa è la giustizia del regime giudiziario dell’occupazione.

Yael Marom è gestore per il coinvolgimento del pubblico di “Just Vision” [organizzazione no profit che si occupa dei movimenti di base contrari all’occupazione israeliana, con sedi a Gerusalemme est e negli USA, ndt.] in Israele e co-redattore di “Local Call” [sito israeliano indipendente di informazione in ebraico, ndt.], su cui questo articolo è stato originariamente pubblicato in ebraico.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




La giovane palestinese Ahed Tamimi raggiunge un patteggiamento per restare otto mesi in un carcere israeliano

Yotam Berger

21 marzo 2018, Haaretz

Anche la cugina e la madre di Tamimi ottengono un patteggiamento – l’avvocato afferma che l’accordo è una prova che l’esercito ha voluto ‘ un regolamento di conti’.

Mercoledì la giovane palestinese Ahed Tamimi ha raggiunto un patteggiamento con la procura militare, in base al quale verrà condannata a otto mesi di prigione. Il tribunale militare che si occupava del suo caso ha approvato il patteggiamento mercoledì, trasformandolo in sentenza ufficiale.

Come parte dell’accordo, la diciassettenne si è dichiarata colpevole di quattro aggressioni, compresi gli schiaffi, ripresi in un video, a un soldato israeliano. Oltre alla condanna ad otto mesi di prigione, dovrà pagare una multa di 5.000 shekels (1.437 dollari).

La procura ha raggiunto il patteggiamento anche con Nur e Nariman Tamimi, cugina e madre di Ahed Tamimi, entrambe coinvolte nell’attacco al soldato ripreso dal video. L’accordo, anch’esso approvato dal tribunale, condanna Nur Tamimi a passare 16 giorni in prigione e ad una multa di 2.000 shekels (575 dollari). La condanna di Nariman Tamimi è di otto mesi di prigione ed una multa di 6.000 shekels (1.725 dollari).

Il caso di Ahed Tamimi è stato discusso a porte chiuse. Il tribunale militare ha respinto una richiesta, da lei presentata questa settimana, di tenere il procedimento in pubblico.

Precedentemente l’avvocato di Tamimi, Gaby Lasky, ha confermato che era stata raggiunta un’ammissione di colpevolezza. “Il fatto che il patteggiamento preveda la riduzione di tutti i capi di imputazione che hanno reso possibile tenerla in prigione fino alla fine del procedimento è la prova che l’arresto di Tamimi in piena notte e il processo contro di lei erano atti finalizzati ad un regolamento di conti”, ha detto Lasky.

Prima che la sentenza fosse confermata dal tribunale, alcune fonti hanno riferito a Haaretz che, in base al patteggiamento, Tamimi sarebbe stata dichiarata colpevole dell’aggressione di dicembre ripresa dal video, di incitamento alla violenza per aver postato il video, e di due altre aggressioni a soldati. Ulteriori accuse per aggressione e lancio di pietre sarebbero state ritirate.

Secondo una delle fonti, nel caso di Ahed Tamimi la punizione non viene considerata né particolarmente mite né particolarmente severa. L’esercito israeliano ha sentito la necessità di porre fine alla questione legale, ha detto la fonte, in quanto essa ha danneggiato la reputazione dell’esercito sui media e a livello internazionale, il che potrebbe essere il motivo per cui il patteggiamento è stato fortemente voluto.

Inizialmente, in gennaio, l’imputazione di Tamimi comprendeva 12 capi d’accusa, a partire dal 2016. Includeva cinque aggressioni contro le forze di sicurezza, compreso il lancio di pietre. E’ stata accusata di aggressione, di minacce e di intralcio ad un soldato nell’esercizio delle sue funzioni, di incitamento e lancio di oggetti contro persone o proprietà.

La madre di Tamimi, Nariman, è stata anche accusata di istigazione sui social media – ha filmato l’incidente degli schiaffi – e di aggressione. La cugina di Tamimi, Nur, è stata accusata di aggressione aggravata.

Nur Tamimi ha detto che lei e Ahed hanno preso a schiaffi i soldati in parte perché loro avevano invaso il cortile di Ahed il 15 dicembre, il giorno in cui sono state filmate – ma la ragione principale è stata che avevano appena letto su Facebook che un cugino, Mohammed Tamimi, aveva riportato una ferita alla testa apparentemente letale provocata da un proiettile [sparato da] un soldato israeliano. In realtà lui è sopravvissuto allo sparo.

Bassem Tamimi, padre di Ahed, ha detto che sua moglie e sua figlia non hanno fatto niente di male e che stanno“ lottando per la libertà e la giustizia.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Un bambino palestinese è rimasto orfano del padre disabile ucciso dall’esercito israeliano

Gideon Levy, Alex Levac

16 marzo 2018, Haaretz

A Hebron i soldati hanno ucciso Mohammed Jabri, un uomo mentalmente disabile incapace di parlare, che stava crescendo da solo il figlio di quattro anni.

Zain, poco più di 4 anni, fissa lo spazio nella sua piccola stanza con occhi spenti, senza emettere alcun suono. È seduto sulle ginocchia della nonna – anche se pensa che sia sua madre, perché così gli è stato detto. Ora gli hanno detto anche che suo padre è stato ucciso, anche se è improbabile che sia in grado di cogliere l’enormità della nuova catastrofe che lo ha colpito.

Tre anni fa, appena neonato, ha perso sua madre. Lo scorso venerdì ha perso anche suo padre, un giovane mentalmente disabile incapace di parlare. Con un gesto insensato, i soldati delle Forze di Difesa Israeliane, usando veri proiettili, gli hanno sparato al petto da una distanza di 20 metri, uccidendolo.

Abbiamo incontrato Zain tre giorni dopo la tragedia, seduto in silenzio in grembo alla nonna. A causa della terribile situazione economica della famiglia, il bimbo finirà probabilmente in un orfanotrofio, dice la nonna, che promette di andare regolarmente a trovarlo.

Mancano le parole in questa casa di dolore; è un momento di angoscia e lacrime. La casa è una struttura in pietra nella città vecchia di Hebron, sopra la Tomba dei Patriarchi e il quartiere dei coloni, ma in H1 – l’area che dovrebbe essere sotto il controllo palestinese. La penombra regna in casa.

Mentre gli occhi si abituano all’oscurità, una realtà incredibile prende forma. In questa casa vivono una coppia ed i loro 12 figli, quattro dei quali sono disabili, insieme ad alcuni giovani nipoti, tutti stretti in tre piccole stanze. I figli disabili soffrono di una varietà di problemi, tra cui malattia mentale e epilessia.

In questa casa viveva anche la giovane madre, morta a 18 anni di cancro, circa un anno dopo la nascita del suo unico figlio. E in questa casa viveva suo marito, Mohammed Jabri, 24 anni, che stava crescendo il loro giovane figlio, Zain, da solo. Adesso anche il padre è morto. Ucciso dalle forze di difesa israeliane.

Nel dimesso soggiorno vanno e vengono gli abitanti della casa, dando vita a scene indescrivibili. Ci sono il ventunenne Iyad, che ha l’epilessia e anche un handicap mentale; le sorelle Anwar, 20 anni, e Isra, 17, entrambe incapaci di parlare e che emettono solo suoni incomprensibili, esattamente come il loro fratello morto.

Ora sono tutti sconvolti dal dolore per Mohammed, figlio e fratello, ucciso vicino al recinto del liceo femminile in King Faisal Street a Hebron. Tre soldati, nascosti dietro il tronco di un ulivo secolare, stavano tendendo un agguato ai lanciatori di pietre nel cortile della scuola; improvvisamente sono balzati fuori dal loro nascondiglio e hanno sparato a Mohammed. Suo padre dice che non era in grado di cogliere un pericolo in arrivo.

“Mohammed era un semplice. Non si sarebbe accorto, per esempio, del pericolo di soldati che sparavano.” dice il padre Zain, col cui nome è stato chiamato il nipote. Né conosceva la differenza tra una banconota da cinquanta shekel e una moneta da mezzo shekel, in questa casa poverissima. “Per lui tutto era mezzo shekel”, aggiunge Zain.

A Hebron tutti conoscevano Mohammed a causa del suo strano comportamento, ed era chiamato “Akha, Akha” – un’eco dei suoni privi di significato che emetteva. “Akha, Akha” era ciò che abitualmente gridava ai soldati israeliani, alcuni dei quali sapevano anche chi fosse. Spesso li scherniva ai checkpoint tra le due parti della città, urlando loro suoni gutturali, a volte anche tirando pietre.

Era già stato arrestato due volte, ma in entrambe le occasioni fu rapidamente trasferito alla custodia dell’Autorità Nazionale Palestinese, che lo ha riportato a casa dai suoi genitori a causa delle sue condizioni. L’ultima volta è successo un anno e mezzo fa. È stato anche ferito tre volte da spari alle gambe mentre lanciava pietre, ma le ferite non erano gravi.

Quindi “Akha, Akha” ha continuato a provocare i soldati, come lo scorso venerdì, in quello che si rivelò essere l’ultimo giorno della sua vita. “Il governo israeliano e l’esercito sapevano esattamente chi era Mohammed. Dopo tutto, lo hanno arrestato e rilasciato” ci dice Zain, durante la nostra visita di questa settimana.

Ablaa, la madre, piange mentre suo marito racconta la storia. Hanno entrambi 51 anni. Zain lavora in un garage nel villaggio di Husan, i cui clienti provengono per la maggior parte dal grande insediamento ultra-ortodosso di Betar Ilit, nelle vicinanze. Mohammed faceva occasionalmente lavori saltuari come la pavimentazione stradale, per quanto consentito dalle sue disabilità. Dopo che Duah, sua moglie e madre del piccolo Zain, morì, si risposò, ma la sua seconda moglie, Amal, lo lasciò dopo un anno. Probabilmente trovava difficile vivere insieme al marito disabile in questa triste e affollata casa di tragedie.

Solo il padre e una delle sue sorelle, Asma, riuscivano a capire cosa c’era nel cuore di Mohammed e a decifrare le sue strane espressioni. Mohammed non sapeva nemmeno leggere o scrivere, e comunicare con lui era difficile.

Suo padre racconta che Mohammed era triste dopo che Amal lo aveva lasciato e aveva mandato degli intermediari alla sua famiglia, per convincerla a tornare; chiese anche a Zain di riportarla indietro, ma fu inutile. Ablaa ricorda che l’ultima sera della sua vita Mohammed era particolarmente triste. Andò a dormire prima del solito e si alzò più tardi del solito il giorno seguente. Era così preoccupata per lui che andò a controllarlo alcune volte durante la notte per assicurarsi che stesse ancora respirando, dice ora tra le lacrime.

Erano già passate le 10 venerdì quando Mohammed si è svegliato. Suo padre era da tempo andato al lavoro al garage; sua madre mandò Mohammed a comprare del pollo. Dopo di che è andato alla moschea per pregare, ma non è mai tornato. Ablaa ricorda che aveva preparato il maqluba, un piatto tradizionale a base di carne e riso; poiché era in ritardo per il pranzo, gli aveva tenuto la sua porzione sul tavolo.

“Era così sensibile”, dice ora. “Non sapevi mai dove fosse.”

Mohammed non era ancora tornato quando Zain tornò a casa dal lavoro, si lavò le mani e si sedette a mangiare. Un parente chiamò Asma per dire che Mohammed era stato ferito alle gambe. “Possa Dio avere pietà di lui”, esclamò il padre sentita la notizia, aggiungendo adesso che aveva già il sentore che la situazione fosse più seria. Lui e Ablaa andarono in fretta all’ospedale Alia di Hebron, mentre lui recitava sottovoce i versetti da pronunciare in caso di morte: “Possa Dio compensarci.” Sua moglie cercava di calmarlo. Adesso dice: “Possa Dio punire i soldati che hanno ucciso Mohammed!” e ricomincia a piangere.

Dozzine di residenti locali stavano già affollando il pronto soccorso quando sono arrivati all’ospedale. Zain dice di essere stato l’ultimo a conoscere la verità sulle condizioni di suo figlio.

Lasciata la macchina in mezzo alla strada, era corso dentro. I medici gli chiesero chi fosse e lui si identificò. In quel momento stavano ancora cercando di rianimare suo figlio. Zain dice di non aver mai visto una cosa simile: l’intero corpo di suo figlio era coperto di sangue, anche il viso. Anche il pavimento era intriso di sangue. Riusciva a malapena a identificare Mohammed e chiese ai dottori di dirgli la verità. Uno di loro disse: “Possa Dio compensarti”.

In seguito, ricorda Zain, i soldati dell’ esercito israeliano sono arrivati in ospedale per arrestare Mohammed. La famiglia in fretta e furia ha fatto uscire di nascosto il corpo su un’auto privata e l’ha trasportato nell’altro ospedale della città, Al-Ahli.

L’unità portavoce dell’esercito ha dichiarato, in risposta a una domanda di Haaretz: “Venerdì 9 marzo 2018 è scoppiato un violento disordine nella città di Hebron, con dozzine di partecipanti palestinesi che lanciavano pietre, macigni e bottiglie molotov alle forze dell’esercito.

“Da una prima indagine, sembra che durante l’evento, i soldati abbiano sparato a un dimostrante che ha sollevato una bottiglia Molotov da distanza ravvicinata con l’intenzione di colpirli. Il dimostrante fu ferito dagli spari e in seguito, all’ospedale, fu dichiarato morto. Si continua a investigare sulle circostanze dei fatti.

“Diversamente da quanto affermato [nell’articolo], in nessun momento le forze dell’esercito sono venute in ospedale in merito al corpo del defunto.”

In lutto, il fratello epilettico di Mohammed, Iyad, arriva nella stanza. Quanti anni hai? Iyad risponde “Ho 16 anni”, in realtà ne ha 21. Sembra sconvolto. “Ho perso Mohammed, ho perso Mohammed”, mormora in continuazione, e si siede. Qualche minuto dopo si alza, evidentemente agitato – molto agitato, anche se non minaccioso – finché il padre non riesce a calmarlo.

Dice Zain: “Quando vogliono uccidere qualcuno, non fanno differenza tra ricchi e poveri, sani e malati, normali e malati di mente. Avrebbero potuto arrestarlo, avrebbero potuto sparargli alle gambe, ma hanno deciso di colpirlo con quel proiettile.

Si capisce che Mohammed è stato colpito da una pallottola vera entrata nel petto sul lato destro e uscita dalla schiena sul lato sinistro. Zain dice di voler sporgere denuncia alle autorità militari per l’uccisione di suo figlio, ma teme di veder confiscare i permessi di lavoro israeliani ad alcuni membri della famiglia.

Siamo quindi andati sul luogo dell’uccisione. Alcune ragazze vagano nel campo di basket della scuola. Bisogna ricordare che questa parte di Hebron non è controllata da Israele. I soldati hanno invaso il sito, come al solito, all’inseguimento di persone che lanciavano pietre dal tetto di una casa sul vicino posto di blocco.

L’insediamento di Tel Rumeida si staglia sulla collina di fronte. King Faisal Street, via principale e rumorosa. Secondo Musa Abu Hashhash, ricercatore sul campo dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, che ha indagato sull’incidente, erano solo Mohammed e altri tre o quattro giovani a fronteggiare i soldati in quel fatidico giorno, non di più.

Si vede un foro di proiettile sul cancello di ferro grigio argento della scuola femminile. Sulla strada c’è una macchia di sangue, ora secca.

(Traduzione di Luciana Galliano)




Droni e disaffezione nella causa palestinese

Ramona Wadi

14 marzo 2018,Middle East Monitor

Sui media israeliani sono comparse immagini di droni che lo scorso venerdì hanno fatto cadere candelotti lacrimogeni su manifestanti palestinesi nei pressi del confine a sud di Gaza. Il “Times of Israel” [giornale israeliano on line che si pretende “apolitico”, ndt.] e “Haaretz” hanno entrambi informato, con racconti leggermente diversi, del fatto che la protesta è stata presa di mira.

Il primo ha raccontato che un portavoce dell’esercito israeliano (IDF) ha negato responsabilità per l’operazione con il drone, affermando che era stata la polizia di frontiera israeliana. Invece Haaretz ha attribuito l’uso del drone all’IDF, riportando fonti militari che hanno affermato: “Questo metodo di controllo della folla è al momento sperimentale e non è ancora stato reso operativo.”

Da queste informazioni si possono ricavare due importanti conclusioni. C’è una chiara ammissione che Israele sperimenta nuovi armamenti sulla popolazione palestinese di Gaza. Inoltre, che Israele sta continuamente cercando sistemi per evitare di essere considerato responsabile rendendo normale la propria violenza contro civili palestinesi. Utilizzare droni per lanciare gas lacrimogeno durante proteste legittime evita la necessità della presenza di militari sul posto. Ciò consentirà ad Israele di intensificare anche la propria narrazione sulla sicurezza, giustificando l’uso dei droni – finora sperimentale – per evitare vittime tra le truppe dell’IDF.

Essendo questa ancora una nuova forma di oppressione in nome della sicurezza, questo sviluppo consentirà inoltre a Israele di aggiungere un’ulteriore forma di violenza su cui la comunità internazionale chiuderà un occhio. L’assenza di uno scontro aperto ha molte conseguenze sui civili palestinesi. Israele non si sta astenendo dal prendere di mira i palestinesi, sta semplicemente affinando i propri metodi per farlo e lo sta sommando al disequilibrio di un’entità coloniale con potere militare preponderante che viola i diritti di una popolazione colonizzata che non ha l’opportunità di avvalersi del proprio diritto all’autodeterminazione.

Con l’uso dei droni Israele sta occultando agli occhi del mondo la sua violenza più visibile, come esemplificata dall’[intervento dell’] esercito. I media più importanti saranno in grado di sfruttare la falsa narrazione diffusa ovunque della resistenza palestinese come “terrorismo”. L’ONU e altre istituzioni internazionali faranno altrettanto, seppure all’inizio con una strategia più velata. Nel momento in cui il colonizzatore elimina dall’equazione la parte più violenta e visibile del colonialismo, la narrazione israeliana sul “terrorismo” diventa più accettabile per la comunità internazionale. In fin dei conti non sta stabilendo un precedente in termini di uso dei droni, ma estendendo la giustificazione per un simile uso, attraverso la sua stessa narrazione, proteggendo il proprio personale militare dal giudizio riguardo a palestinesi uccisi o feriti.

Israele può essere certo che il suo utilizzo dei droni per colpire i manifestanti palestinesi non metterà in allarme la comunità internazionale. In fin dei conti ha commesso azioni peggiori contro i civili palestinesi di Gaza. Mentre la guerra con i droni diventa un’opzione ideale, il mondo è diventato così insensibile alle vittime palestinesi che non solo non ha compassione per i civili, ma è anche incapace di sdegno nei confronti dei responsabili.

Per i palestinesi non si tratta solo di massacri. La più recente sperimentazione da parte di Israele non si limita alle ferite visibili, sta anche cercando l’approvazione internazionale per i suoi metodi. Una minore attenzione alla resistenza di Gaza è fondamentale per i progetti israeliani di imporre l’oblio sull’enclave. Aggiungere un’ulteriore forma di violenza alla lista delle misure già messe in atto non farà arrabbiare la comunità internazionale, ma fornirà semplicemente più materiale per statistiche e rapporti. Nel frattempo Gaza rimane imprigionata nella sua implosione, la sua voce viene eliminata da fonti ufficiali palestinesi o estere che diffondono la narrazione israeliana, mentre sostengono di parlare a favore di una popolazione civile imprigionata.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Con un eccesso di falsità, funzionari israeliani affermano che il quindicenne Mohammad non è stato colpito alla testa da un proiettile

Jonathan Ofir

27 febbraio 2018,Mondoweiss

L’esercito israeliano sta utilizzando ogni mezzo per vendicarsi dei Tamimi [la famiglia palestinese che guida la resistenza popolare nel suo villaggio, ndt.] e di Nabi Saleh per la loro resilienza e resistenza, incarnata da Ahed Tamimi, la ragazzina imprigionata per aver preso a schiaffi un soldato.

Ieri mattina, prima dell’alba, soldati israeliani hanno fatto un’incursione nel villaggio occupato di Nabi Saleh ed hanno arrestato dieci membri della famiglia estesa dei Tamimi – la metà dei quali minori.

Le forze [israeliane] hanno anche utilizzato quello che è noto come “skunk water” [lett. acqua della puzzola, liquido maledorante, ndt.], come si può vedere in un video del giornalista locale Bilal Tamimi (fornito da +972 Magazine) – che è apparentemente destinato al “controllo della folla”, solo che [nel video] non c’è nessuna folla. L’esercito israeliano sta usando il liquido puzzolente, spruzzato da un blindato, per punire collettivamente i palestinesi, come già documentato in passato, cospargendo case e scuole.

Tra gli arrestati durante l’incursione notturna c’era il quindicenne Mohammed Tamimi, che era stato colpito alla testa a distanza ravvicinata da un proiettile ricoperto di gomma, appena prima dei famosi schiaffi di Ahed circa due mesi e mezzo fa. Mohammed era stato in coma farmacologico e gli è stata rimossa una parte del cranio, il che lo ha lasciato deforme. La sua situazione è particolarmente delicata, e c’è da chiedersi perché non sia stato risparmiato dalla violenza durante l’incursione notturna. Poche ore dopo l’arresto ed un interrogatorio relativamente breve è stato rilasciato.

Ed ecco stamattina la “notizia”.

Il generale Yoav Mordechai, il Coordinatore delle Attività di Governo nei Territori (COGAT), ha sostenuto in un post su Facebook che Mohammad non è stato colpito da un proiettile, ma piuttosto è caduto dalla sua bicicletta. Mordechai è la più alta autorità diretta dell’occupazione israeliana e sulla pagina Facebook ufficiale del COGAT in arabo ha scritto questo:

Una cultura di menzogne e di incitamento alla violenza continua per i giovani e gli adulti della famiglia Tamimi”.

Il post è stato segnato con un timbro rosso che diceva “notizia falsa” in arabo.

Nel suo post Haaretz ha informato, e si è stupito di come fosse possibile, che l’affermazione di Mordechai è stata contraddetta da “documenti medici, resoconti di testimoni e da immagini della pallottola rimossa dalla sua testa ottenute da Haaretz”. Inoltre persino la risposta ufficiale dell’esercito ad Haaretz è sembrata contraddire la sicurezza di Mordechai: vengono citate fonti militari che hanno affermato che “Tamimi è stato interrogato dalla polizia, e loro non possono confermare l’origine della sua ferita.”

Chi conosce la cultura dell’interrogatorio nell’apparato di sicurezza israeliano quando si tratta di palestinesi non si stupisce. Gli investigatori israeliani possono estorcere praticamente tutto quello che vogliono dai palestinesi, soprattutto se minori, ed è così che l’esercito può vantare un sorprendente tasso di condanne del 99,74%. Spesso i ragazzini sono obbligati a firmare documenti in ebraico, che non sanno neanche leggere, e durante questi interrogatori gli viene negata in modo praticamente sistematico la presenza di familiari o di un avvocato.

Da qui le affermazioni di Mordechai di aver ottenuto da Mohammed una “confessione”. E cosa ne dicono gli abitanti di Nabi Saleh? Sostengono che Mohammed “ha detto alla polizia di essersi ferito in un incidente in bicicletta e non dall’esercito israeliano per essere rilasciato dopo essere stato arrestato,” e che “aveva paura e temeva che se avesse detto di essere stato colpito da una pallottola, ci sarebbero state prove contro di lui e la sua detenzione sarebbe stata prolungata.”

È piuttosto ovvio, no? Questa “storia della bicicletta” è tutto quello che Mordechai voleva, o di cui aveva bisogno, come arma per screditare i palestinesi e provocare contro di loro. E non importa che persino l’esercito “non possa confermare”. È stato seminato il dubbio e quelli che sono propensi a credere alle menzogne dell’esercito israeliano, lo metteranno in dubbio.

Immaginate la situazione di Mohammed – immaginate di essere lui. Metà del tuo cervello è semplicemente senza protezione. Qualunque piccolo colpo può provocare un danno imprevedibile ed irreversibile, e sei nelle mani di gente violenta contro di te in modo sistematico. Tutto quello che vuoi fare è uscire e tornare a casa. Faresti qualunque cosa, diresti qualunque cosa.

È ovvio che tenere Mohammed in arresto prolungato sarebbe stato un danno per l’immagine pubblica di Israele. Egli è direttamente legato ad Ahed Tamimi, in quanto il suo ferimento è stato l’antecedente diretto degli schiaffi di Ahed. Il suo cranio deformato è una raffigurazione dello stato di Nabi Saleh: essere continuamente colpito dall’esercito israeliano. Ovviamente non volevano tenerlo in arresto a lungo, quantunque non sappiano cosa fare con Ahed, perché rilasciarla sarebbe troppo offensivo per moltissimi israeliani che non possono sopportare di essere presi a schiaffi. Perciò hanno rilasciato Mohammed molto presto, ma ora vediamo il tranello. Se Mordechai riesce a convincere qualche sciocco che la ferita di Mohammed è una “notizia falsa”, allora, di conseguenza, la storia di Ahed e quello che l’ha preceduta vengono indeboliti.

Una fonte ufficiale di B’Tselem [associazione israeliana dei diritti umani, ndt.] afferma che il governo israeliano deve mentire agli israeliani per salvare l’illusione:

Quello che stupisce dell’affermazione di ‪@cogat_israel secondo cui Muhammad Tamimi “è caduto dalla bicicletta” (non gli è stato sparato in faccia) non è quanto grande sia la menzogna: abbiamo già visto bugie orwelliane (Beitunia 2014). Ma queste menzogne così facili da smentire mostrano che l’unico pubblico a cui si mira è la destra israeliana.”

La narrazione delle “notizie false” e l’idea riguardo ai palestinesi sono state storicamente inculcate dalla dirigenza israeliana a livello ossessivo, come parte del suo tentativo di cancellare la Palestina. Ciò si può vedere nella grande narrazione, come nell’affermazione della defunta prima ministra Golda Meir che in realtà i palestinesi non esistono, o più tardi della ministra della Giustizia Ayelet Shaked alla federazione nazionale di basket secondo cui la Palestina è uno “Stato immaginario”. E può essere visto nei più puntuali tentativi di sostenere che la famiglia Tamimi non è una “vera famiglia”, come abbiamo visto con l’affermazione del parlamentare Michael Oren e la sua inchiesta parlamentare, niente di meno, su questa stessa “questione”. Recentemente Oren si è messo in difficoltà da solo con il post di un’immagine allo specchio della famiglia Tamimi, sostenendo che non poteva essere vera, dato che Mohammed, il fratello di Ahed, aveva un braccio ingessato a destra, poi a sinistra. La famiglia Tamimi quindi si stupisce ora di come “quello che è iniziato come un bizzarro tentativo di provare che non siamo neppure una famiglia è degenerato in una negazione della realtà.”

E si noti come Ahed Tamimi, con la sua semplice resilienza e con il suo coraggio, con il mantenere un contegno calmo e fiero, abbia creato una situazione che fa impazzire gli israeliani. È come se lei stesse continuamente schiaffeggiando Israele, semplicemente non arrendendosi. E ciò sta mettendo in luce un paradigma di oppressione istituzionalizzata e di violenza di Stato contro minori, che c’è stata da sempre, ma ora sta avendo un’attenzione particolare grazie ad Ahed. Israele non può sopportare questo smascheramento, e perciò tenta disperatamente di screditare l’oppresso – ma ogni passo che fa accentua solo ulteriormente la sua stessa corruzione.

Non ci si sbagli in merito – stiamo vedendo una violenza colonialista, è proprio davanti ai nostri occhi. La giornalista di Haaretz Amira Hass oggi lo ha chiamato “colonialismo ebraico”. Infatti è una violenza messa in atto in nome dello Stato ebraico. E questa non è una notizia falsa. Sta effettivamente avvenendo.

Su Jontathan Ofir

Musicista, conduttore e blogger / writer che vive in Danimarca.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Ferito da un proiettile in testa e poi arrestato, Mohammed Tamimi non si perde d’animo

Tessa Fox

28 febbraio 2018, Middle East Eye

L’adolescente, come altri dieci palestinesi, è stato arrestato nel quadro della continua repressione da parte di Israele contro il villaggio di Nabi Saleh, noto per la sua resistenza di lunga durata contro l’occupazione.

Nabi Saleh, Cisgiordania occupata – Alle tre del mattino Mohammed Tamimi è stato svegliato dalle urla e dai colpi alla porta d’entrata della casa della sua famiglia.

Mentre era ancora a letto, la porta della sua camera si è aperta ed ha visto dei soldati israeliani avvicinarglisi, mentre suo padre li seguiva.

Sapeva che stava per essere arrestato.

Il villaggio palestinese di Nabi Saleh, a nord ovest di Ramallah, nella Cisgiordania occupata, è abituato alle incursioni notturne delle forze israeliane. Mohammed, 15 anni, come altri dieci giovani palestinesi del villaggio, è stato arrestato alla mattina presto del 26 febbraio. Tutti tranne due hanno meno di 18 anni.

Quello di Mohammed è un caso speciale, dato che è uscito dall’ospedale solo alla fine di dicembre.

Mohammed ha passato quattro giorni in coma ed ha subito due operazioni per togliere un proiettile di acciaio ricoperto di gomma piantato nella parte posteriore del suo cervello dopo essere stato colpito quasi a bruciapelo dalle forze israeliane. La sua ferita gli impedisce di andare a scuola per almeno sei mesi.

La madre di Mohammed, Emthal Tamimi, è sembrata molto preoccupata riguardo al figlio dopo il suo arresto.

Un’esperienza traumatica

Sono impazzita,” ha confermato Emthal Tamimi a Middle East Eye.

Ha chiesto ai soldati di lasciare in pace suo figlio a causa del suo precario stato di salute. “Abbiamo avuto una discussione, gli ho detto che era inutile prenderlo, che è ferito, che tutte le mattine e tutte le sere deve prendere delle medicine,” ha raccontato Emthal. Disobbedendo ai soldati che le avevano ordinato di rimanere in casa, Emthal è corsa dietro a suo figlio mentre era portato dentro una camionetta blindata. “Li ho seguiti e gli ho chiesto di ammanettarlo davanti perché ha male ad una spalla, ma gli hanno lasciato le manette dietro,” ha ricordato.

Contrariamente agli altri giovani di Nabi Saleh, Mohammed è stato liberato il giorno stesso, a metà pomeriggio.

L’avvocato della famiglia ha potuto individuare il luogo in cui i soldati l’hanno portato e farlo liberare. “Sabato ha subito un’altra operazione, è per questo che hanno potuto ottenere il suo ritorno anticipato,” ha spiegato Emthal.

Dopo essere stata avvertita che Mohammed sarebbe stato riportato al villaggio entro un’ora, Emthal ha atteso pazientemente a casa, circondata da amici e dalla sua famiglia. “Spero che stia bene,” ha confidato Emthal, innervosita per il suo stato di salute e per la brutalità dei soldati.

Sempre su di morale

Dopo essere tornato a casa, Mohammed era tutto sorridente.

Ha preso la madre tra le braccia nella sala della loro casa. Emthal avrebbe voluto che questa parentesi fosse durata un più a lungo. Chiaramente non voleva perderlo di nuovo.

Mohammed sembrava rilassato e calmo, ma quando si è seduto vicino a sua madre, è stato sopraffatto dall’emozione e ha trattenuto a stento le lacrime. Tuttavia, quando ha iniziato a parlare, si è messo a scherzare.

Penso che si sia trattato solo di sfortuna,” ha detto.

Poi ha spiegato, scherzando, che le forze israeliane l’avevano arrestato perché aveva spostato i mobili della sua camera.

Quando ho cambiato la posizione del mio letto, sono venuti ad arrestarmi,“ ha dichiarato Mohammed a Middle East Eye. “All’inizio era messa così,” ha spiegato tracciando la stanza con le sue mani, “e loro non sono venuti.”

È la seconda volta. In precedenza mi hanno arrestato una volta, anche quella dopo che avevo spostato il mio letto,” ha indicato Mohammed agitando le braccia e ridendo, nel tentativo di confermare la validità della sua teoria.

Non sapendo più come mettere il letto per evitare di essere arrestato, Mohammed ha affermato che ormai avrebbe “spostato (il letto) in un’altra camera.”

Mohammed si è detto sorpreso di essere stato liberato il giorno stesso del suo arresto, pur tenendo conto del suo stato. “Stavo dormendo, mi hanno svegliato e mi hanno detto che avrei potuto tornare a casa,” ha raccontato.

Gli manca ancora una parte del cranio perché i chirurghi aspettano che il suo cervello si sgonfi per potergliela rimettere.

Non si può esporre ai raggi del sole e deve fare molta attenzione ad evitare urti contro la sua testa.

I soldati israeliani hanno ignorato il fatto che il suo cervello non è protetto. “Mi hanno colpito alle gambe, mi hanno schiaffeggiato in faccia e facevano come se non notassero quello che ho alla testa,” ha dichiarato Mohammed. “Ho fatto del mio meglio per proteggermi la testa perché a loro non importava. Hanno continuato a colpirmi e a darmi delle pedate.”

Liberato per trasmettere un messaggio

Mohammed e il resto della sua famiglia sanno che è stato arrestato con gli altri ragazzi di Nabi Saleh per farne un esempio. Una volta liberato, si ritrova nel ruolo di messaggero degli israeliani per il resto della comunità.

Il primo messaggio che mi hanno affidato (durante la mia detenzione) è stato: “Tutte le notti ne arresteremo sei, fino ad arrivare a quaranta,’” ha riferito Mohammed.

L’altro messaggio è rivolto ai più anziani: arresteranno la maggioranza di loro, tutti quelli che parlano,” ha proseguito, aggiungendo che prenderanno di mira soprattutto i dirigenti della resistenza di Nabi Saleh.

Hanno cercato di farmi dire dei nomi, perché sapevano che avevo paura che mi dessero delle pedate e mi ferissero in testa.” Questi messaggi e questi arresti in massa fanno parte della punizione collettiva che Israele continua ad infliggere a Nabi Saleh dopo che nel 2010 il villaggio ha iniziato a protestare contro l’occupazione israeliana.

Anche Naji Tamimi, il padre di Noor Tamimi, di 20 anni e arrestata insieme a sua cugina Ahed a metà dicembre, è stato minacciato durante l’incursione notturna.

Mi hanno fatto delle domande sulla resistenza a Nabi Saleh, vogliono che io me ne assuma la responsabilità,” ha dichiarato Naji a Middle East Eye.

Gli ho detto che il problema è l’occupazione, che la resistenza è un altro aspetto dell’occupazione. Che se vogliono mettere fine alla resistenza, devono porre fine all’occupazione.”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Dopo una brutale aggressione al figlio minorenne, una famiglia palestinese querela Israele e l’impresa olandese che fornisce cani all’esercito [israeliano]

Yumna Patel

26 febbraio 2018, Mondoweiss

Quando aveva 15 anni, Hamza Abu Hashem è stato aggredito da cani dell’esercito israeliano ed ha riportato gravi ferite alle gambe, alle braccia e alla schiena.

In un video dell’aggressione, che è avvenuta il 23 dicembre 2014 nel villaggio di Beit Ummar nel sud della Cisgiordania occupata, si possono sentire soldati israeliani dire “dagliele, figlio di puttana” e “chi ha paura?”, mentre il ragazzo piangeva e urlava di dolore.

Dopo che il video è stato reso pubblico, Michael Ben-Ari, un ex deputato del partito di destra “National Union Party”, lo ha postato sulla sua pagina Facebook dicendo: “I soldati stanno dando una lezione al piccolo terrorista. Diffondete! In modo che ogni piccolo terrorista che pensi di fare del male ai nostri soldati saprà che ci sarà un prezzo da pagare.”

Hamza è stato arrestato immediatamente dopo l’aggressione, per la quarta volta da quando aveva 11 anni, e condannato a tre mesi e mezzo di prigione con l’accusa di aver lanciato pietre – un crimine che è costato a lui e ai suoi cinque fratelli il carcere per decine di volte in due decenni.

Prima di essere trasferito in prigione è stato ricoverato in ospedale in Israele per una settimana, con le mani incatenate al letto per tutto il tempo e senza che la sua famiglia potesse visitarlo.

Adesso, quattro anni dopo l’aggressione che gli ha lasciato la mente ed il corpo segnati per tutta la vita, Hamza, insieme alla sua famiglia, sta facendo causa al governo israeliano per l’aggressione, ed anche all’impresa olandese che per più di 20 anni ha fornito ad Israele cani da attacco.

Secondo un reportage del 2015 del giornale olandese NRC, ‘Four Winds K9’, l’impresa a cui Hamza sta facendo causa, risulta aver esportato in Israele “cani di servizio” per 23 anni.

Nel reportage, NRC cita il proprietario di ‘Four Winds K9, Tonny Boeijen, che avrebbe detto di aver spedito in Israele ogni anno decine di cani addestrati all’attacco, e che il 90% dei cani dell’esercito israeliano venivano addestrati dalla sua impresa.

In seguito alle pressioni di politici olandesi e di organizzazioni come l’Ong palestinese per i diritti umani Al-Haq, nel giugno 2016 l’impresa ha comunicato che avrebbe interrotto l’esportazione di “cani da attacco” ad Israele ed avrebbe fornito allo Stato solo dei “segugi”, mentre la comproprietaria dell’impresa Linda Boeijen ha detto a NRC: “Non intendiamo violare i diritti umani.”

Ma per i genitori di Hamza, Ahmad e Hamda, questo non è abbastanza. “Dobbiamo mettere fine alla vendita di tutti i cani all’esercito israeliano di occupazione”, hanno detto a Mondoweiss nel loro salotto, mentre sullo schermo televisivo scorreva il video dell’aggressione ad Hamza.

Vogliamo sottolineare che non si tratta di soldi”, ha detto categoricamente Ahmad, dicendo a Mondoweiss che la famiglia non ha richiesto un solo shekel in nessuna delle sue denunce.

È intervenuta Hamda: “Nel corso degli anni, mio marito e tutti i miei sei ragazzi sono stati incarcerati molte volte da Israele, ed abbiamo pagato decine di migliaia di dollari di cauzione all’occupante. Tuttavia, non è il denaro che vogliamo.”

Scuotendo la testa, Hamda ha detto a Mondoweiss che l’ultima volta che la sua famiglia di 10 persone si è riunita è stato durante l’ultimo Ramadan, appena prima che il figlio maggiore Thaer, che è tuttora in carcere, fosse nuovamente arrestato. Prima di allora, dice che non ricorda nemmeno l’ultima volta in cui si sono trovati tutti insieme.

L’associazione per i diritti dei prigionieri Addameer ha calcolato che circa il 40% degli uomini palestinesi viene arrestato da Israele ad un certo punto della propria vita.

L’impresa olandese ha cercato di chiudere la faccenda con noi, dicendo che avrebbero dato a Hamza circa 10.000 euro se avessimo ritirato la denuncia e non avessimo pubblicato nulla della sua vicenda”, ha continuato. “Che insulto è questo? Pensano che vogliamo del denaro? No, vogliamo che i diritti di tutti i bambini palestinesi vengano protetti, ecco che cosa vogliamo.”

Per Ahmad e Hamda vi sono due principali obiettivi che sperano di raggiungere attraverso la loro denuncia. Primo, nella loro denuncia contro il governo israeliano – che ammettono abbia poca probabilità di ottenere giustizia – l’obiettivo è rendere responsabili i soldati che hanno aggredito Hamza ed i politici come Ben-Ari, che loro dicono abbia in seguito istigato alla violenza contro i bambini. “Israele non assicura quasi mai giustizia ai palestinesi vittime dell’occupazione, ma, anche se solo simbolicamente, dobbiamo portarli in tribunale per i loro crimini”, ha detto Ahmad, aggiungendo che è stato dopo aver visto i commenti di Ben-Ari riguardo a Hamza che si è deciso a sporgere denuncia.

Secondo, per Ahmad e Hamda il presupposto della loro denuncia contro ‘Four Winds K9 è che per anni l’impresa ha scientemente venduto cani ad una potenza occupante che viola sistematicamente i diritti e le leggi internazionali.

L’impresa, e tutte le imprese del mondo, dovrebbero sapere che quando vendono ad Israele stanno facendo profitti grazie all’oppressione, alle uccisioni e all’incarcerazione di bambini”, ha detto Ahmad, e Hamda ha annuito. “Lo scopo di tutto questo è ottenere giustizia, sì, ma anche di impedire che ciò che è avvenuto a mio figlio accada ad altri bambini ed altre persone, in Palestina e in tutto il mondo.”

Segnato per tutta la vita

Oggi, a 19 anni, Hamza – che ha perso gran parte della sua infanzia in diverse prigioni israeliane per il reato di lancio di pietre – è più maturo dei suoi anni per come si comporta e per come parla, ma dice di essere ancora colto da un’indescrivibile, infantile paura quando vede dei soldati israeliani con i loro cani, costantemente presenti a Beit Ummar.

Adesso, tutte le volte che vedo proteste o disordini nel villaggio, sono terrorizzato e cerco di scappare via il più presto possibile”, ha detto Hamza a Mondoweiss, mentre camminavamo nello spiazzo dove anni fa è stato aggredito.

Ero stato arrestato molte volte dall’occupante israeliano prima dell’aggressione, ma quella è stata di gran lunga la cosa più spaventosa accaduta a me e alla mia famiglia”, ha detto.

Seguito da Seja, la sua sorellina più piccola, Hamza ha indicato le decine di bambini che giocavano a calcio in una strada vicina, “Ciò che è ancor più spaventoso della mia aggressione, tuttavia, è che ci sono persone che intendono fornire all’occupante cani e armi, che in ogni momento possono essere usati contro questi bambini.”

Ecco perché non cederemo a tentativi di corruzione o minacce”, ha detto, “è una questione che è molto più grande di me. Si tratta del diritto di ogni bambino palestinese di vivere un’infanzia normale, una cosa che a me non è stata concessa.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)