Primo fine settimana del 2017: Israele ha demolito le case di 151 palestinesi, circa quattro volte la media dello scorso anno

Amira Hass – 7 gennaio 2017 Haaretz

L’amministrazione civile dell’IDF [l’esercito israeliano] sta adempiendo alla promessa di Netanyahu di demolire per vendetta le case degli arabi.

La promessa del primo ministro Benjamin Netanyahu ai coloni dell’avamposto illegale di Amona di applicare la legge “equamente”, demolendo le case di arabi, sta essendo pienamente rispettata.

Il numero di edifici palestinesi demoliti nella prima settimana del gennaio 2017 è quasi quattro volte maggiore della media settimanale nel 2016: 20 strutture. Secondo i dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), nel 2015 la media era stata di 10 alla settimana.

Nell’area C, sotto totale controllo civile e militare israeliano, tra lunedì e giovedì l’Amministrazione Civile dell’esercito israeliano ha demolito 65 strutture e 7 cisterne per la raccolta di acqua piovana in comunità palestinesi. Il Comune di Gerusalemme ha demolito altre due case a Gerusalemme est. Circa 151 persone, compresi 90 bambini, vivevano negli edifici che sono stati demoliti.

Lunedì, il giorno in cui la commissione Costituzione, Legge e Giustizia della Knesset [il parlamento israeliano. Ndtr.] ha discusso l’annessione a Israele della cittadina di Ma’aleh Adumim (a est di Gerusalemme), l’amministrazione civile e l’esercito israeliano hanno demolito dodici capanne in legno e lamiera – di cui otto utilizzate come abitazioni – in due comunità beduine della tribù Jahalin, a sud della colonia; tre baracche a Bir al-Maskub e nove a Wadi Sneysel. In totale 84 persone, 68 delle quali bambini, sono rimaste senza tetto nel giro di poche ore.

Lo scorso agosto l’amministrazione civile ha demolito strutture in quelle comunità. Ma i residenti non hanno un altro posto in cui vivere e sono state obbligate a costruire nuove baracche. Negli anni ’90 dozzine di famiglie della tribù Jahalin furono espulse dalla zona per consentire l’espansione della colonia.

Martedì l’amministrazione civile ha demolito 49 strutture a Khirbet Tana, nel nordovest della valle del Giordano: 13 strutture abitative, 9 gabinetti mobili e per il resto costruzioni agricole di vario genere. Ventotto adulti e 22 bambini hanno perso la casa a causa delle demolizioni. Altre 71 persone sono state danneggiate dalla distruzione delle strutture agricole.

Circa 40 famiglie (250 tra uomini e donne) vivono in quell’antico villaggio di grotte a est del villaggio di Beit Furik. In quattro precedenti incursioni lo scorso anno l’amministrazione civile ha demolito 150 baracche, ovili, tende e varie strutture igieniche – così come una scuola che è stata costruita grazie a fondi europei. Durante l’attacco di martedì, è stato anche consegnato un ordine di interruzione dei lavori per la nuova scuola, che sta per essere costruita, di nuovo con donazioni europee. L’Alta Corte di Giustizia [israeliana] ha respinto un ricorso degli abitanti di Khirbet Tana contro l’ordine di abbandonare definitivamente le loro case, ma i residenti hanno semplicemente costruito nuove abitazioni e una scuola perché si rifiutano di abbandonare il villaggio in cui le loro famiglie hanno vissuto molto prima del 1948 e prima che l’IDF dichiarasse la zona servitù militare.

Mercoledì una consistente forza militare ha fatto un’incursione sulle terre del villaggio di Tekoa, a sudest di Betlemme. Qui i bulldozer dell’amministrazione civile hanno demolito sette cisterne per l’acqua piovana e altre tre rimesse per scopi agricoli. Il capo del consiglio di villaggio ha raccontato ad Haaretz che una delle cisterne era stata scavata 25 anni fa, mentre le altre erano più recenti. Circa 180 persone dipendono da quelle cisterne per la loro vita. E giovedì mattina l’amministrazione civile ha demolito una struttura agricola nel villaggio di Jinsafut, a est di Qalqiliyah, in Cisgiordania.

A metà dicembre l’Amministrazione Civile ha detto ad Haaretz di essere in possesso di 11 macchine agricole, per lo più trattori, confiscate a contadini palestinesi dopo che l’IDF ha trasformato le loro terre nella zona settentrionale della valle del Giordano in servitù militare.

I palestinesi devono pagare all’Amministrazione Civile un’ammenda di qualche migliaio di shekel [1.000 shekel= 247 €. Ndtr.] per il rilascio di ogni trattore, e impegnarsi a non commettere una seconda volta l’ “infrazione”. Nel 2016 solo due trattori sono stati restituiti, previo pagamento dell’ammenda. Oltre ad uso agricolo, i trattori servono anche a trasportare acqua agli abitanti ed ai loro armenti dalle sorgenti che si trovano a qualche chilometro dalle stalle. Israele non consente alle comunità palestinesi residenti in zone sotto il suo controllo di collegarsi alle infrastrutture idriche.

Il 21 dicembre un altro trattore è stato confiscato ai contadini nel nord della valle del Giordano, dopo che avevano tentato di raggiungere le loro terre sul lato orientale dell’autostrada 90 (chiamata come quel sostenitore del trasferimento della popolazione palestinese, l’ex ministro Rehavam Ze’evi [del partito di estrema destra Modelet e assassinato nel 2001 da un palestinese. Ndtr.]).

Negli ultimi tre mesi del 2016 l’IDF ha condotto 20 esercitazioni di addestramento con proiettili letali sulla terra delle comunità palestinesi nella zona settentrionale della valle del Giordano. Secondo l’organizzazione israeliana dei diritti umani B’Tselem, queste esercitazioni significano che a circa 220 persone – compresi circa 100 minori delle comunità di Al-Ras al-Ahmar, Khirbet Khumsa e Abzik – è stato ordinato di lasciare temporaneamente le proprie case in 19 diverse occasioni.

B’Tselem ha segnalato che nel villaggio di Al-Farisiyah, che non è stato evacuato, l’esercito ha proibito agli abitanti di portare al pascolo le greggi nelle terre circostanti, poi si è addestrato su terreni coltivati e vi ha persino sistemato bagni provvisori. Inoltre le truppe hanno dissodato parte delle terre dell’area per rendere più agevole il passaggio dei mezzi militari, e in questo modo hanno provocato ulteriori danni ai terreni agricoli.

L’ufficio del portavoce dell’IDF ha detto ad Haaretz che “le zone di servitù militare, soprattutto nella valle del Giordano, e in generale in Giudea e Samaria, sono state dichiarate tali con un’ordinanza dell’autorità del comando militare della regione fin dagli anni ’70, in base a necessità di sicurezza. Gli abitanti che si trovano in quelle zone di addestramento lo stanno facendo in violazione della legge.

“Prima di ogni addestramento militare, si prendono iniziative con lo scopo di evitare danni fisici o alle proprietà, tali come controlli a vista, pattugliamenti, piazzando protezioni e dialogando con gli abitanti della zona attraverso l’Amministrazione Civile. Durante le esercitazioni, agli abitanti viene richiesto di lasciare la zona delle manovre. Le attività menzionate al riguardo sono state approvate dalla Corte Suprema in richieste che sono state presentate in modo simile,” ha affermato l’ufficio del portavoce dell’IDF.

Martedì 20 dicembre 2016 Dafna Banai, di Machsom Watch [associazione di pacifiste israeliane che controllano il comportamento dei militari nei Territori Occupati. Ndtr.] ha riferito: “Tutti i sentieri che collegano la valle del Giordano palestinese alle località di Aqraba, Beit Furik e Tubas, in Cisgiordania, sono ora bloccati da mucchi di terra, fossati, enormi massi e cancellate chiuse. Persino quelli aperti negli scorsi anni sono stati ora nuovamente interrotti.”

“Solo il cancello di Gokhia, che separa la valle del Giordano da Nablus e Tubas oggi è aperto (da domenica, secondo gli abitanti del posto). Tutto ad un tratto non ci sono “ragioni di sicurezza”, né “pericolo per i palestinesi perché l’area è utilizzata per le manovre militari” – da sempre, quando le manovre sono in corso, il cancello è aperto (per consentire il libero passaggio ai mezzi militari senza perdita di tempo ogni volta che deve essere aperto o chiuso). Nei pressi del cancello si vedono tre veicoli blindati e soldati annoiati. Si sta di nuovo svolgendo un’esercitazione militare nella valle del Giordano. Siamo entrate ad Al-Ras al-Ahmar, ma non abbiamo potuto andare oltre il primo accampamento a causa del fango spesso. Stava piovendo a dirotto quella mattina e tutta la regione si è trasformata in un grande pantano,” ha scritto.

“Da mezzogiorno alle 16,30 del pomeriggio la strada che sale a Tyassir ed il resto della Cisgiordania sono state interrotte a causa delle manovre militari. Si vedevano lunghe file di veicoli palestinesi da Al-Malih, dove due soldati annoiati stavano bloccando il traffico. I soldati non avevano nessuna idea di quando sarebbe stata riaperta la strada,” ha raccontato Banai.

“I palestinesi, per lo più maschi, lavoratori a giornata sulla strada di casa dal loro lavoro nelle colonie, stavano ad oziare sulla strada, fumando. Qualcuno ci ha domandato di chiedere ai soldati di lasciarli andare a casa – qui, là, a 200 metri di distanza, a Al-Burj. Ma i soldati sostenevano di avere l’ordine di non lasciar passare nessuno, senza eccezioni. Eravamo anche in contatto telefonico con Mahdi, che si trovava sull’altro lato (occidentale) del blocco, ed ha parlato di lunghe code in attesa anche là. Peggio di tutto, bambini dell’asilo e delle elementari (come Rina, di 5 anni) hanno dovuto aspettare sulla strada per 4-5 ore! Gironzolavano in mezzo ai carri armati israeliani, chiedendo un po’ di cibo ai soldati; non avevano mangiato niente dalla mattina,” ha scritto.

(traduzione di Amedeo Rossi)




“Un’atmosfera di paura”: l’aumento delle operazioni dell’esercito israeliano preoccupa il campo profughi di Aida

di Chloe Benoist

11 dicembre 2016, Ma’an News

Betlemme (Ma’an) – In un freddo pomeriggio di lunedì, un gruppo di quattro soldati israeliani stava sul terrazzo di quello che gli abitanti conoscono come l’edificio Cola nel cimitero del campo di rifugiati di Aida, puntando le loro armi contro un gruppo di cinque ragazzi palestinesi, nessuno con più di 11 anni, che sbirciavano da un angolo della strada a circa 50 metri di distanza.

La scena è diventata familiare nel campo di rifugiati nella Cisgiordania occupata, in quanto l’esercito israeliano ha intensificato le azioni militari ad Aida nel corso degli scorsi mesi, creando quella che alcuni abitanti hanno definito una costante “atmosfera di paura”.

Una presenza dell’esercito “praticamente continua”

Aida, abitata da circa 5.500 palestinesi, si trova a nord di Betlemme. Nei pressi del campo si trovano il muro di separazione di Israele, che divide in particolare la Tomba di Rachele dalla popolazione palestinese, e una base militare israeliana.

Il campo ha una lunga storia di manifestazioni contro Israele, anche durante la guerra del 2014 contro Gaza. Tuttavia gli abitanti hanno raccontato a Ma’an che l’esercito israeliano ha notevolmente incrementato l’uso della violenza e gli arresti negli ultimi due o tre mesi, nonostante non ci sia stato un aumento delle proteste o di altre azioni contro l’occupazione israeliana.

” Negli ultimi due mesi le forze israeliane hanno messo sotto controllo la maggior parte della zona,” dice a Ma’an Salah Ajarma, il responsabile del centro Lajee [centro culturale di base palestinese, Ndtr.] di Aida. “Scendono (nel campo) in continuazione e non lo avevamo mai visto prima nella nostra area.”

“(Operazioni militari) sono avvenute ad Aida da quando hanno costruito il muro (di separazione), ma negli ultimi due mesi le azioni di provocazione da parte dei soldati sono diventate molto pericolose,” dice a Ma’an Nidal al-Azza, abitante di Aida e direttore dell’ong BADIL. “Ciò crea un’atmosfera di paura tra la gente.”

Muhammad Abu Srour, un volontario del centro giovanile di Aida, dice a Ma’an che i soldati sono schierati in un certo numero di zone chiave, soprattutto di notte. “Ma anche durante il giorno sparano lacrimogeni, pallottole di metallo ricoperte di gomma e a volte anche proiettili letali”, afferma.

Ajarma sostiene di temere l’uso crescente di armi contro persone e case, affermando che mentre poche persone del posto sono state ferite da pallottole vere negli scorsi mesi, molti sono stati colpiti da proiettili in apparenza meno pericolosi, come pallottole di metallo ricoperte di gomma, o da gas lacrimogeni.

L’ufficio dell’ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) ha detto a Ma’an di aver registrato ad Aida dal 1 settembre al 28 novembre almeno 43 palestinesi feriti dalle forze israeliane, compresi 14 bambini.

Mentre al-Azza conferma che le forze israeliane hanno usato gas lacrimogeni “ogni giorno”, lui sottolinea che anche l’uso da parte dell’esercito di riflettori nel campo ha un effetto deleterio sulla popolazione. “Di notte le luci arrivano fin dentro le case della gente – sembra di essere di giorno,” afferma. “Ti senti come se stessero seduti con te in casa tua. Non si tratta solo di paura, ti senti a disagio, come se qualcuno ti stesse guardando.”

Il portavoce dell’UNRWA Chris Gunness ha detto a Ma’an che l’agenzia delle Nazioni Unite che fornisce servizi ai rifugiati palestinesi è “preoccupata” per l’incremento dell’uso di munizioni letali da parte dell’esercito israeliano, sottolineando di aver registrato un aumento delle ferite e delle morti provocate da questi proiettili all’interno e nei pressi dei campi di rifugiati palestinesi nel 2016.

“L’ UNRWA continua a denunciare alle autorità competenti questa preoccupazione, così come l’uso spropositato di gas lacrimogeni nel campo densamente abitato di Aida,” ha aggiunto Gunness.

“L’impatto potenziale dell’uso massiccio di gas lacrimogeni sulla salute del personale dell’UNRWA e sulla popolazione del campo, soprattutto sulle persone vulnerabili, comprese donne incinte, anziani e bambini, è inquietante.”

Gunness ha anche affermato che “in numerose occasioni” le munizioni sparate dalle truppe israeliane hanno colpito una scuola e un ufficio dell’UNRWA ad Aida.

Bambini diventati bersagli

Ciò che ha maggiormente allarmato la popolazione di Aida, tuttavia, è il fatto che sempre più spesso l’esercito prende di mira i minori, in quanto sempre più giovani palestinesi del campo, alcuni di soli 12 anni, sono stati arrestati.

“Circa sei mesi fa l’esercito ha iniziato ad arrestare ragazzi di 16-17 anni. Tre mesi fa, hanno iniziato ad arrestare bambini,” ricorda Abu Srour. “Erano soliti arrestare uno o due bambini ogni due settimane circa, ma recentemente hanno cominciato ad arrestare più bambini in un periodo di tempo più breve.”

In ottobre forze israeliane in borghese travestite da turisti hanno picchiato ed arrestato otto minorenni che si erano riuniti nei pressi della “Chiave” – il cancello simbolo di Aida che si trova nei pressi della base militare israeliana.

“Ero alla finestra quando le forze in borghese sono saltate fuori ed hanno iniziato a picchiare un bambino. Pensavo che fosse un genitore che non voleva che suo figlio stesse nella zona perché è pericolosa,” ricorda Umm Muhammad, una residente dell’area. “Ma dopo hanno iniziato a catturare altri bambini, picchiandone due, poi tre. Dopodiché, soldati (in uniforme) sono usciti rapidamente dalla base militare.”

Solo più tardi Umm Muhammad ha scoperto che nell’incursione erano stati arrestati Mohammad, il figlio sedicenne, e il nipote disabile quattordicenne, Adam. “Non ci saremmo mai aspettati che potesse capitare a noi,” dice.

“Soldati in abiti civili sono arrivati da tre diverse direzioni, ” afferma Abu Srour, che ha assistito all’incidente. “I ragazzini non stavano protestando o facendo qualcosa, stavano solo seduti lì. I soldati sono arrivati ed hanno iniziato a picchiarli, a sbatterli contro il muro e ad arrestarli.”

Umm Muhammad dice di aver potuto visitare suo figlio in carcere per la prima volta il 4 dicembre, circa due mesi dopo che era stato arrestato, aggiungendo che stava bene, ma che il personale della prigione aveva respinto la sua richiesta di avere degli occhiali per ovviare alla sua miopia.

Secondo il padre di Mohammed, i minori rischiano di essere condannati a una pena da otto a dieci mesi di prigione e a un’ammenda di 2.000 shekel (circa 500 €) per aver lanciato pietre.

Abu Srour stima che tra i 30 e i 35 giovani di Aida di un’età compresa tra i 12 e i 17 anni sono stati imprigionati da Israele fino a fine novembre.

Da parte sua l’OCHA ha detto a Ma’an che almeno 35 palestinesi sono stati arrestati ad Aida tra il primo settembre e il 28 novembre.

“Siamo spaventati”

La gente del posto deve adeguare la propria vita quotidiana all’aumentata presenza dell’esercito, in quanto, come molti hanno detto, ha inciso sulla loro libertà di movimento così come sulla loro salute psicologica.

“Vivo in questa zona (nei pressi del muro) ed ero solito usare (l’ingresso principale nei pressi del cimitero) per uscire dal campo, ma ora non più,” dice Abu Srour. “Quando torno di notte passo da un’altra parte perché è pericoloso.”

Abu Srour ha inoltre affermato che la situazione ha danneggiato le aziende nella zona, che hanno dovuto chiudere durante le incursioni, e che alcune famiglie hanno anche iniziato ad aver paura di lasciare i propri figli giocare nell’unico parco giochi del campo a causa della sua vicinanza con la base militare.

Maya al-Orzza, una ricercatrice giuridica di BADIL che inoltre vive ad Aida, ha detto a Ma’an di aver smesso di portare giacche con il cappuccio di notte per non attirare l’attenzione dei soldati, ma che da quel momento è stata infastidita dai soldati israeliani. Alcuni dei suoi amici evitano di accendere le sigarette fuori di casa alla sera, per timore che le forze israeliane possano credere che si tratti di una bottiglia molotov, ha aggiunto al-Orzza.

Nel contempo Umm Muhammad afferma che Shadi, l’altro figlio, di 15 anni, dall’arresto di Muhammad si è chiuso in se stesso.

“Dopo che hanno arrestato suo fratello, è cambiato. Non va più a scuola, ha paura, piange, non dorme,” sostiene.

“Siamo preoccupati per Shadi,” aggiunge, sottolineando che in settembre aveva sofferto di gravi attacchi di asma a causa dell’esposizione a gas lacrimogeni e aveva dovuto stare in casa per due settimane per riprendersi.

“I cani vivono meglio di noi, “afferma Umm Mohammad. “Voglio avere una vita sicura, senza minacce, senza problemi. Voglio avere una vita normale.”

Ajarma sostiene che anche l’uso di forze in borghese vestite da turisti ha avuto conseguenze nel campo, che mantiene stretti rapporti con la comunità degli attivisti internazionali filo-palestinesi.

“E’ molto difficile…ospitiamo molti stranieri, per cui questo incrina la fiducia tra i palestinesi del posto e gli internazionali,” afferma.

Tattiche intimidatorie o l’inizio di una nuova normalità?

Un portavoce dell’esercito israeliano ha detto a Ma’an che hanno “incrementato le operazioni nel campo” a causa delle “attività terroristiche ostili” da parte dei residenti di Aida, come il lancio di pietre o l’uso di bottiglie molotov, che secondo loro ha messo in pericolo i civili israeliani.

L’esercito non ha risposto a ulteriori domande riguardanti quanti israeliani, se ce n’è stato almeno uno, siano stati feriti da settembre, né quanti palestinesi siano stati arrestati ad Aida durante lo stesso periodo.

Gli abitanti di Aida hanno escluso che giovani del posto abbiano tirato più pietre e bottiglie molotov del solito negli ultimi mesi, e si chiedono le ragioni dell’estensione delle attività militari israeliane nella zona.

“Forse vogliono spezzare lo spirito di resistenza della gente,” dice al-Azza. “Vogliono che la nuova generazione cominci a pensare che non vale la pena resistere.”

Nel contempo Abu Srour sostiene che l’esercito sta cercando di provocare una reazione dei giovani del posto per avere un’ulteriore giustificazione per le sue azioni ad Aida.

“A volte sparano (lacrimogeni) per provocare i ragazzini, per iniziare scontri. A volte ci sono pochi ragazzini che tirano pietre lontano dalla Tomba di Rachele. Non colpiscono niente, ma per i soldati questo è un motivo per iniziare a sparare gas lacrimogeni,” sostiene Abu Srour. Sospetta che a volte la noia sia la ragione per cui i soldati israeliani aprono il fuoco.

Tuttavia più preoccupante è la teoria secondo cui la quasi continua presenza militare nel campo possa diventare la nuova normalità.

“Uno dei giovani mi ha parlato del fatto che la stessa cosa è successa anni fa nel campo profughi di Al-Arrub, quando hanno iniziato a fare incursioni nel campo ogni giorno, a sparare gas lacrimogeni e a creare questa atmosfera di paura,” afferma Al-Azza, riferendosi al campo nel distretto di Hebron. “Ora se vai ad al-Arrub, tutti i giorni ci sono checkpoint all’ingresso e gruppi di soldati che pattugliano il campo.”

Ajarma esprime il timore che la situazione di Aida attirerà l’attenzione esterna solo quando degenererà fino a provocare morti.

“Nelle ultime due settimane, quando abbiamo sentito (bottiglie molotov), subito dopo abbiamo sentito (i soldati) sparare pallottole letali” afferma. “Forse uccideranno qualcuno in futuro, ed è di questo che abbiamo paura.”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




La censura dell’IDF ha cancellato 1 ogni 5 articoli che controlla per la pubblicazione

di Haggai Matar – 26 settembre 2016

+972 Magazine

La censura militare israeliana ha cancellato, del tutto o in parte, oltre 17.000 articoli dal 2011. Mentre pochi articoli sono stati censurati nel 2015 e nel 2016, la nuova censura dell’IDF (esercito israeliano) sta tentando di censurare con allarmante frequenza informazioni già pubblicate.

La censura militare israeliana ha totalmente proibito la pubblicazione di 1.936 articoli e ha cancellato alcune informazioni da 14.196 articoli negli ultimi 5 anni. Ciò significa che 1.936 articoli che giornalisti professionisti e persone che hanno pubblicato notizie ritenute di pubblico interesse su internet non hanno mai visto la luce.

In effetti la censura dell’IDF ha eliminato almeno qualche informazione da uno su cinque degli articoli che le sono stati presentati dal 2011, secondo dati forniti dall’esercito israeliano su richiesta di “+972 Magazine”, del suo omologo in ebraico “Local Call” e del “Movimento per la Libertà di Informazione”.

Sotto il nuovo capo della censura dell’IDF, entrato in carica lo scorso anno, c’è stato un notevole incremento nel numero di casi in cui l’ufficio della censura ha contattato persone che hanno pubblicato notizie con richieste di modificare o eliminare articoli che erano già stati pubblicati – circa il doppio del numero di tentativi di interventi censori dopo la pubblicazione rispetto agli scorsi anni. Allo stesso tempo, la nuova censura dell’IDF sta intervenendo leggermente meno su articoli sottoposti al suo ufficio per essere controllati prima della pubblicazione.

Dall’inizio del 2011, gli anni che hanno visto la maggior presenza di interventi censori sono stati quelli in cui Israele era impegnato nella guerra contro la Striscia di Gaza. I più alti tassi e frequenze di censura hanno avuto luogo nel 2014, l’anno dell’operazione “Margine Protettivo”, e il secondo livello più alto è stato nel 2012, l’anno dell’operazione “Pilastro di Nuvola”.

Inoltre i dati confermano che l’ufficio della censura dell’IDF proibisce la pubblicazione di documenti e materiali dell’Archivio di Stato, che sono già stati approvati per la pubblicazione, e alcuni dei quali sono già stati divulgati.

La censura militare israeliana nel territorio di Israele trae la propria autorità da regolamenti d’emergenza istituiti durante il periodo del Mandato Britannico, molti dei quali sono rimasti nei codici israeliani per oltre 70 anni.

Mentre altri Paesi hanno meccanismi formali per chiedere che i giornalisti si astengano dal pubblicare certe informazioni relative alla sicurezza nazionale, Israele è l’unico tra gli Stati democratici occidentali che abbia una censura statale giuridicamente vincolante. Da nessun’altra parte dei materiali acquisiti devono essere sottoposti ad un controllo preventivo.

In Israele ai mezzi di comunicazione, recentemente estesi per includere blog e siti web indipendenti (come +972 Magazine), è richiesto di sottoporre al controllo della censura dell’IDF ogni articolo che rientri nell’ampia lista riguardante argomenti legati alla sicurezza nazionale ed alle relazioni internazionali. La censura può proibire in parte o del tutto un articolo. Ciò detto, la decisione di quali articoli e notizie sono sottoposte alla censura per un controllo è presa di volta in volta dalle organizzazioni dell’informazione e dagli stessi redattori. Tuttavia, una volta che un articolo è stato censurato dall’esercito, al giornalista viene vietato di rivelare quale informazione è stata eliminata, o persino di indicare che un’informazione è stata censurata.

Ad incrementare la mancanza di trasparenza è il fatto che la censura dell’IDF è tecnicamente parte del settore dell’intelligence. A causa di questa posizione istituzionale, “non è sottoposta alle leggi sulla libertà di informazione”, spiega l’avvocato Nirit Blayer, direttore esecutivo del Movimento per la Libertà di Informazione. “Ciononostante la persona incaricata della libertà di informazione nell’IDF ha la tendenza a rendere pubblico tutto ciò che può essere pubblicato.” Pertanto abbiamo ottenuto l’informazione richiesta rapidamente e senza molte difficoltà.

Questi sono i dati:

Tra il 2011 e l’agosto 2016 da 13.000 a 14.000 articoli sono stati sottoposti ogni anno alla censura dell’IDF per un controllo preventivo. Durante il 2011 e il 2013, dal 20 al 22% degli articoli sottoposti a controllo da parte della censura dell’IDF sono stati in parte o del tutto cancellati, anche se nella stragrande maggioranza dei casi solo una o più parti dell’articolo sono state bloccate per la pubblicazione.

Nel 2014 c’è stato un aumento significativo nella frequenza della censura, spiegabile per lo più con la guerra a Gaza di quell’anno. Degli articoli sottoposti al controllo previo dal censore in quell’anno, il 26% (3.719 articoli) è stato parzialmente o totalmente bloccato (il 22% è stato parzialmente cancellato, il 4% totalmente censurato).

Nei ultimi due anni, tuttavia, c’è stata una lieve riduzione della percentuale di articoli che sono stati modificati o censurati. L’ufficio dell’IDF ha parzialmente o totalmente censurato il 19% degli articoli sottoposti a controllo previo per la pubblicazione. Dall’inizio del 2016 ad agosto questo numero è sceso ulteriormente al 17% – il livello più basso di interventi censori negli ultimi cinque anni e mezzo.

Tuttavia, fin dall’inizio della sua nomina come attuale censore dell’IDF nello scorso anno, il colonnello Ariella Ben-Avraham ha esteso il raggio di competenza della censura dell’IDF, con una particolare attenzione alle pagine Facebook e ai blog che si qualificano come pagine di notizie o media. Alla fine del 2015 ha contattato decine di queste pagine Facebook ( compresa quella di +972 Magazine) ed ha inviato loro un ordine militare di censura chiedendo di presentare i materiali importanti prima della pubblicazione.

Ora è evidente che la politica aggressiva di Ben-Avraham non si limita a chiedere di sottoporle i materiali. L’attuale ufficio censura dell’IDF si è anche attivato per cercare di rimuovere, in parte o totalmente (i dati che abbiamo ricevuto non fanno distinzione) materiali che sono già stati pubblicati.

Tra il 2011 e il 2013 la censura dell’IDF ha chiesto la cancellazione di materiali già pubblicati, mediamente 9, 19 e 16 volte al mese, e 37 volte al mese nel 2014 (durante la guerra). Nel 2015, un anno in cui non ci sono state guerre, la censura dell’IDF ha contattato gli editori mediamente 23 volte al mese con richieste di eliminazione di contenuti già resi pubblici. Finora nel 2016 (fino ad agosto) questo numero è salito a una media di 37 volte al mese, lo stesso numero che durante la guerra, o, in altre parole, con una frequenza di circa 2 volte superiore rispetto al 2012.

Il censore ha anche rivelato che tra il 2014 e il 2016 circa 9.500 files degli Archivi di Stato riguardanti la sicurezza nazionale sono stati sottoposti a controllo. Secondo il censore, circa lo 0,5% di questi documenti sono stati parzialmente o totalmente censurati. Non è chiaro quanti singoli documenti fossero contenuti nei 9.500 files.

L’ufficio della censura dell’IDF, in risposta alle nostre domande, ha affermato di non avere mai interpellato servizi di notizie on line o media di parti terze (come fornitori di servizi internet o piattaforme di social media) per cercare di far eliminare informazioni pubblicate nonostante i tentativi di censura. Tuttavia le autorità di Israele utilizzano altri metodi di controllo del flusso di informazioni e di censura online, anche quando queste informazioni non sono state pubblicate da una persona sotto giurisdizione israeliana, come è stato riportato su +972 all’inizio di quest’estate.

In quel caso, come in molti altri, lo Stato ha utilizzato un altro sistema per bloccare la pubblicazione di informazioni che intendeva rimanessero segrete – ordini giudiziari riservati. Gli ordini riservati sono emessi da giudici, spesso senza molte discussioni e quasi sempre senza tenere alcun conto dell’interesse dell’opinione pubblica a saperlo. Il numero e la frequenza degli ordini giudiziari riservati in Israele sono aumentati notevolmente negli ultimi anni.

Il numero di questi ordini emessi dai tribunali israeliani è più che triplicato negli ultimi 15 anni, secondo una ricerca che verrà presto pubblicata condotta da Noa Landau, giornalista dell’edizione inglese di Haaretz, durante una borsa di studio presso il “Reuter Institute” di Oxford lo scorso anno. Raccogliendo dati della polizia israeliana, del sistema giudiziario, dell’esercito israeliano e di Haaretz, Landau ha scoperto che, solo negli ultimi 5 anni, il numero di richieste in base ad ordini riservati è aumentato del 20% circa.

Così, mentre il censore dell’IDF – con l’eccezione del periodo di guerra – sta mantenendo l’uso dei propri poteri a livelli che rimangono relativamente costanti, e in una certa misura persino riducendoli, le autorità israeliane hanno trovato una scappatoia negli ordini giudiziari riservati.

Tuttavia la parte di informazioni che manca in questo quadro è l’autocensura. Quanto spesso giornalisti e redattori decidono da soli di non indagare, verificare o scrivere in merito ad argomenti sensibili perché ritengono che la censura militare o un giudice impediranno la pubblicazione del loro articolo? Quante vicende scompaiono semplicemente in questo modo ogni anno? Non lo sapremo mai.

Michael Schaeffer Omer-Man ha contribuito a questo articolo. Una versione in ebraico di questo articolo è comparasa anche su “Local Call”.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 1 – 14 novembre 2016 (due settimane)

Nei pressi dell’insediamento colonico israeliano di Ofra (Ramallah), le forze israeliane hanno ucciso, con arma da fuoco, un 23enne palestinese mentre tentava di aggredire con un coltello i soldati israeliani. Questo episodio porta a 73 il numero di palestinesi uccisi dalle forze israeliane, dall’inizio del 2016, nel corso di attacchi e presunti attacchi.

Un altro palestinese è stato ferito con arma da fuoco, e successivamente arrestato, in un presunto tentativo di accoltellamento verificatosi nel villaggio di Huwwara (Nablus). In nessuno di tali episodi sono stati riportati ferimenti di israeliani. In un altro caso, ad un posto di blocco vicino alla città di Tulkarem, palestinesi hanno aperto il fuoco e ferito un soldato, riuscendo poi a fuggire.

Nei Territori Palestinesi Occupati (oPt), nel corso di molteplici scontri, le forze israeliane hanno ferito 57 palestinesi, tra cui 19 minori. Nove dei ferimenti si sono verificati nella Striscia di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale e in mare. I rimanenti feriti sono stati registrati in Cisgiordania: durante scontri scoppiati nel corso di operazioni di ricerca-arresto (la maggior parte), durante le manifestazioni settimanali contro la Barriera e gli insediamenti a Ni’lin (Ramallah) e Kafr Qaddum (Qalqiliya) e nel corso di eventi commemorativi del 12° anniversario della morte dell’ex presidente palestinese Yasser Arafat.

In tre diversi episodi, che hanno visto coinvolte forze israeliane e coloni, altri nove palestinesi, tra cui tre minori, sono stati feriti mentre raccoglievano olive sui propri terreni. In particolare: in una zona vicino all’insediamento colonico israeliano di Qedumim (Qalqiliya), in circostanze poco chiare, soldati israeliani hanno aggredito fisicamente due persone che erano entrate nella propria terra dopo aver ottenuto una “preventiva autorizzazione” all’accesso; nel villaggio Al Janiya (Ramallah), coloni israeliani hanno fisicamente aggredito quattro persone che stavano lavorando vicino all’insediamento colonico di Talmon; altre quattro persone sono rimaste ferite, nei pressi di Bani Na’im (Hebron), dall’esplosione di una granata assordante abbandonata dalle forze israeliane. In altri due episodi, sempre nel contesto della raccolta delle olive, coloni israeliani hanno vandalizzato 70 ulivi in Sa’ir (Hebron) mentre, presso l’insediamento colonico di Shave Shomron (Nablus), hanno raccolto olive da alberi di proprietà palestinese.

In Cisgiordania, in Area C e Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 47 strutture di proprietà palestinese, sfollando 26 palestinesi, dieci dei quali minori, e colpendo i mezzi di sostentamento di altre 330 persone. Nove di queste strutture erano state fornite come assistenza umanitaria, in risposta a demolizioni precedenti. Dall’inizio del 2016, il numero di strutture prese di mira ammonta a 1.033: più del doppio rispetto al dato relativo allo stesso periodo del 2015. Nel periodo di riferimento sono stati emessi almeno 24 ordini di demolizione, di arresto-lavori e di sfratto.

Nella comunità pastorale di Khirbet Tana (Nablus), i funzionari israeliani hanno sequestrato un generatore elettrico e una macchina per il taglio dei metalli, appartenenti ad una organizzazione assistenziale; hanno inoltre fatto rilievi fotografici di strutture precedentemente fornite come assistenza; tra queste, una struttura adibita a scuola, quattro cisterne per l’acqua e sei ricoveri abitativi. La comunità si trova all’interno di un’area dichiarata da Israele “zona per esercitazioni a fuoco” e, dall’inizio del 2016, ha subito quattro ondate di demolizioni.

In una dichiarazione rilasciata il 10 novembre, Robert Piper, Coordinatore delle Nazioni Unite per gli Aiuti Umanitari e lo Sviluppo, ha condannato il continuo osteggiamento dell’assistenza umanitaria da parte delle autorità israeliane, affermando che “colpire i più vulnerabili tra i vulnerabili ed impedire loro di ricevere assistenza – in particolare con l’arrivo dell’inverno – è inaccettabile e contraddice gli obblighi di Israele quale potenza occupante”.

In tre occasioni, per consentire l’addestramento militare, le forze israeliane hanno trasferito, per diverse ore ogni volta, 23 famiglie (123 persone, tra cui 59 minori) appartenenti a due comunità di pastori palestinesi nel nord della Valle del Giordano (Khirbet ar Ras al Ahmar e Ibziq). Le due comunità devono far fronte anche ad ripetute demolizioni e restrizioni ai loro spostamenti che acuiscono le crescenti preoccupazioni legate al rischio di trasferimento forzato.

Cinque famiglie palestinesi (29 persone) che vivono nella zona di Silwan di Gerusalemme Est, hanno ricevuto avvisi di sfratto connessi a cause intentate da organizzazioni di coloni israeliani che rivendicano la proprietà delle abitazioni. Un sondaggio esplorativo, effettuato a Gerusalemme Est da OCHA [Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari], indica che su almeno 180 famiglie palestinesi pende una causa di sfratto presentata contro di loro principalmente da organizzazioni di coloni israeliani: sono pertanto a rischio di sfollamento più di 818 palestinesi, tra cui 372 minori.

Nella zona H2 di Hebron, controllata da Israele, coloni israeliani hanno aggredito fisicamente e ferito un ragazzo palestinese che si stava recando a scuola. Nel corso del periodo di riferimento almeno quattro episodi di lancio di pietre da parte di coloni israeliani hanno causato danni a veicoli palestinesi.

Secondo i media israeliani, si sono verificati otto casi di lancio di pietre ad opera di palestinesi contro veicoli israeliani: ferito un colono israeliano, danneggiati almeno sei veicoli e la metropolitana leggera di Gerusalemme. Vicino a Betlemme un altro veicolo è stato danneggiato da un ordigno esplosivo.

A Rafah, nella Striscia di Gaza, un 15enne palestinese è stato ferito dall’esplosione di un residuato bellico con il quale stava giocando nei pressi della scuola.

In almeno 23 occasioni durante il periodo cui si riferisce questo Rapporto (due settimane), le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso palestinesi presenti o in avvicinamento ad Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare della Striscia di Gaza. In altri tre casi, le forze israeliane sono entrate nelle ARA di terra per livellare il terreno ed effettuare scavi. Non sono stati segnalati feriti, ma è stato interrotto il lavoro di agricoltori e pescatori.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, nell’ultimo giorno del periodo di riferimento [14 novembre] è stato eccezionalmente aperto per i casi umanitari, consentendo l’uscita dalla Striscia di Gaza a 386 palestinesi ed il rientro a 274 (dopo tale data il passaggio è rimasto ancora aperto per alcuni giorni). Secondo le autorità palestinesi di Gaza, dall’inizio del 2016, circa 20.000 persone sono registrate ed in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah. Il valico è stato eccezionalmente aperto il 6 novembre, per consentire a una delegazione di 93 palestinesi l’ingresso in Egitto; è stato quindi riaperto il 12 novembre per consentire il loro rientro.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Invece di scortare i bambini palestinesi dalla scuola a casa, i soldati israeliani tirano pietre.

di Amira Hass | 30/10/ 2016, Haaretz

Usando qui una fionda, costringendo con l’inganno due donne israeliane ad andare su una strada vietata lì, questo è l’esercito israeliano nella sua essenza.

Il video immortala due persone che tirano pietre. Sui 18 o 19 anni, a viso scoperto. Non vi facciamo più aspettare: possiamo dirvi subito che entrambi sono soldati delle Forze di Difesa Israeliane [IDF] che tirano pietre ad alcune ragazze vestite con l’uniforme scolastica. Il portavoce dell’IDF dice che le pietre non erano dirette contro i bambini. Ciò è discutibile, giacché almeno uno dei soldati stava di fronte ai bambini e le sue pietre li hanno costretti a fermarsi sul loro percorso

Questo è successo lo scorso giovedì 27 ottobre alle 13,30 circa. Il luogo: tra i villaggi di Tuba e di Twaneh nelle colline a sud di Hebron, sulla strada che passa sotto l’illegale e non autorizzato avamposto Havat Ma’on I due tiratori di pietre, con la divisa dell’IDF, si trovavano vicino ad un automezzo blindato in cui c’erano almeno altri due soldati. I soldati hanno anche usato una fionda , per aumentare la gittata.

Stavano solo giocando, direte. Non hanno ferito nessuno. Sono ragazzi anche loro. Erano annoiati, [volevano] sfogarsi un po’. Osiamo sfidare il “political correct” e annotare che uno di loro era nero, ovviamente etiope, per cui avrà avuto un sacco di ragioni per essere arrabbiato e volersi sfogare.

In base all’accordo del 2004, l’IDF ha il compito di scortare due volte al giorno gli scolari che vivono a Tuba e che frequentano la scuola a Twaneh. La strada, lunga circa 2 km, è stata sempre utilizzata dai residenti di Tuba e dagli altri villaggi della zona. Dopo la costruzione dell’avamposto, i suoi abitanti hanno cominciato a molestare i palestinesi sulla strada che passa sotto. I bambini erano traumatizzati. Non potevano dormire la notte e i loro genitori non potevano pagare il costo del trasporto su un percorso molto più lungo per evitare le violenze dei coloni.

Grazie alla tenacia dei genitori e agli sforzi di alcune organizzazioni israeliane e internazionali, la lotta per il diritto dei bambini di Tuba di andare a scuola non è stata inutile. [Il caso] è stato portato dinanzi alla Commissione per i diritti dei bambini della Knesset. È stato raggiunto un compromesso: lo Stato non avrebbe sanzionato i coloni violenti, ma l’IDF avrebbe provato a tenerli lontano con la sua presenza.

Il corto dei soldati che tirano le pietre è stato spedito a Haaretz venerdì mattina ed è stato immediatamente mandato al portavoce dell’IDF per una risposta, che è arrivata molto presto: “I comandanti sono al lavoro per indagare sulla faccenda” ci hanno risposto al telefono. Poi è arrivata la risposta scritta: “Una prima indagine rivela che le pietre non sono state lanciate verso i palestinesi e appena i soldati li hanno scorti, hanno smesso di tirare, sono andati incontro ai bambini e li hanno riportati indietro dalla scuola che si trova vicino a Havat Ma’on. Non è previsto che i soldati tirino pietre durante una missione militare e quindi l’incidente viene sottoposto a inchiesta.”

L’adulto che per un pezzo ha accompagnato i bambini e che ha filmato l’incidente ha detto a Haaretz che i soldati non sono andati incontro ai bambini, ma piuttosto hanno aspettato che loro si avvicinassero prudentemente, cercando di capire il motivo del lancio di pietre.

E in un altro incidente [accaduto] due giorni fa, non collegato, due donne attiviste dell’ associazione di base Machsom Watch sono partite per il loro turno al checkpoint della barriera di separazione tra Qalqilyah e Tul Karm. Il loro compito: assicurare che l’IDF non impedisca ai contadini di raggiungere le loro terre, che sono separate dal villaggio a causa della barriera.

Le donne si sono fermate al checkpoint nei pressi della colonia di Salit. Alle 16,15 con 15 minuti di ritardo, quattro soldati sono arrivati con una macchina civile per aprire il cancello per permettere il ritorno a casa dei palestinesi con il trattore, con un carro, con l’asino o con un pulmino. Un soldato sorridente, di nome Yuval, si è avvicinato e ha detto che la causa del ritardo era dovuta a motivi di sicurezza. Questo è quello che i soldati dicono sempre quando sono in ritardo per aprire il cancello chiuso con un lucchetto.

Yuval ha chiesto alle due donne di guidare attraverso il checkpoint aperto e di immettersi sulla strada di sicurezza vietata a chiunque non abbia un permesso. Come le donne hanno successivamente riferito, “due signore anziane con una grande esperienza di vita hanno compiuto [il più grande] errore della loro esistenza obbedendo a un giovane soldato gentile” che aveva detto di volere parlare con loro. E poi, una volta che erano sulla strada, i simpatici soldati, che erano in continuo contatto con il loro comando- le hanno informate che le trattenevano in arresto fino all’arrivo della polizia a causa della loro presenza in una zona proibita.

I soldati erano dei simpatici giovanotti, come ho detto. Hanno perfino offerto del caffè alle donne. Ma eseguivano gli ordini del comando di arrestare le due donne e con il loro gentile comportamento le hanno attirate nella zona proibita. “ I soldati hanno sostenuto che eravamo arrivate dalla Cisgiordania” ha raccontato Shosh, una delle donne. “Gli abbiamo detto:”Certo, da quale altra parte avremmo potuto venire? E da quando è proibito viaggiare in Cisgiordania?”

Hanno anche tentato di dire ai soldati che era una perdita di tempo, che la polizia sarebbe venuta e le avrebbe rilasciate immediatamente e si sarebbe arrabbiata per il disturbo.“ Era come parlare a un muro. Non abbiamo niente contro i soldati. Il problema veniva dal’alto. Gli era stato ordinato di arrestarci.” Dopo innumerevoli telefonate tra i soldati e i comandanti, e siccome stava già diventando buio, hanno detto alle donne che erano libere di andarsene. Così non sono state in grado di controllare la situazione in altri due checkpoint. Forse era questo il vero motivo della manovra?

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Sì, Benny Morris, Israele ha perpetrato una pulizia etnica nel 1948

di Daniel Blatman

Haaretz – 14 ottobre 2016

Lo storico israeliano ha ragione su un punto:la convinzione che gli arabi dovessero essere espulsi nel 1948 non fu messa in pratica in modo totale.

Uno storico serio esamina sempre le proprie conclusioni. Se arriva alla conclusione che le cose che ha scritto in precedenza necessitano di una revisione, è obbligato a farsene carico. Ma uno storico che, all’inizio della sua carriera, stabilisce che Israele è responsabile della fuga di massa dei palestinesi nel 1948 e poi cambia la propria opinione fino a diventare il beniamino della destra dei coloni, è un caso patetico. Benny Morris ha seguito questo percorso.

Egli ha tradito due doveri fondamentali per lo storico: avere una mentalità aperta e riconoscere la vasta letteratura di ricerca che riguarda direttamente i suoi ambiti di ricerca; non distorcere le proprie conclusioni precedenti in base alle attuali opinioni politiche. [L’articolo di Morris “Israele non ha attuato nessuna pulizia etnica nel 1948“, Haaretz, 10 ottobre, era una risposta a quello di Daniel Blatman “Netanyahu, ecco cos’è veramente una pulizia etnica“, Haaretz, 3 ottobre].

Il 10 marzo 1948 il quartier generale dell’Haganah [principale milizia armata sionista, da cui è nato l’esercito israeliano. Ndtr.] approvò il “Piano Dalet”, che trattava dell’intenzione di espellere quanti più arabi fosse possibile dal territorio del futuro Stato ebraico. Morris ne ha scritto nel suo libro “1948: una storia della prima guerra arabo-israeliana” (2010) . Egli ha affermato che il piano ha suscitato una disputa storiografica, con gli storici filo-palestinesi che sostengono che fosse un piano generale per espellere gli arabi che vivevano in Israele. Egli ha affermato che un esame accurato del testo del piano porta a una conclusione diversa.

Quale conclusione diversa? Quella di studiosi esperti in pulizia etnica? O di esperti giuridici che si sono cimentati sul problema? No, quella di Morris, naturalmente. Egli non accetta la definizione di pulizia etnica attuata dagli ebrei nel 1948. Forse ci fu una “mini” pulizia etnica a Lod e Ramle [a sud est di Tel Aviv. Ndtr.]. Forse qualche massacro marginale (Deir Yassin), che provocò la fuga terrorizzata dei palestinesi.

Il problema è che queste sono esattamente le circostanze che portano ad una pulizia etnica. Se Morris si fosse preoccupato di studiare attentamente i documenti della Corte Penale Internazionale sulla ex-Jugoslavia, avrebbe capito perché queste affermazioni sarebbero considerate assurde in qualunque seria conferenza scientifica.

Quanto segue è stato sostenuto dal pubblico ministero nel processo a Radovan Karadzic, il leader serbo-bosniaco che è stato condannato per le sue responsabilità nella pulizia etnica dei musulmani di Bosnia: “Nella pulizia etnica..tu agisci in modo tale per cui, in un determinato territorio, i componenti di un determinato gruppo etnico sono eliminati… ci sono dei massacri. Non sono massacrati tutti, ma ci sono massacri allo scopo di spaventare quelle popolazioni…Naturalmente gli altri vengono scacciati. Sono spaventati…e, naturalmente, alla fine queste persone vogliono semplicemente andarsene…Se ne vanno sia per loro stessa iniziativa, oppure sono deportate….Alcune donne sono violentate e, inoltre, spesso vengono distrutti i monumenti che segnano la presenza di una determinata popolazione…per esempio, le chiese cattoliche o le moschee vengono distrutte.”

Esattamente come nel 1948: istruzioni implicite, accordi silenziosi, seminare il timore tra la popolazione la cui fuga è l’obiettivo; la distruzione della presenza fisica che hanno lasciato dietro di sé. Nel suo primo libro sull’argomento, “La nascita del problema dei rifugiati palestinesi, 1947-1949” (1989 in inglese), Morris scrisse: “Gli attacchi dell’Haganah e delle Forze di Difesa Israeliane (l’esercito del neonato Stato d’Israele. Ndtr.), ordini di espulsione, la paura degli attacchi e atti di crudeltà da parte degli ebrei, l’assenza di appoggio da parte del mondo arabo e dell’Alto Comitato Arabo, il senso di impotenza e di abbandono, gli ordini da parte di istituzioni e centri di comando arabi di andarsene ed evacuare, in molti casi erano la diretta e decisiva ragione per la fuga – un attacco da parte dell’Haganah, dell’Irgun, del Lehi [le due milizie armate della destra sionista, poi integrate nell’IDF. Ndtr.] o dell’IDF, o la paura degli abitanti per un simile attacco.”

Circa 15 anni fa, tuttavia, Morris ha cambiato opinione. Nel suo libro “Correggere un errore: ebrei ed arabi in Palestina/Israele, 1936-1956” (2000), egli ha affermato: “La maggioranza degli allontanamenti (da parte dei palestinesi) dalla maggior parte dei luoghi, il più delle volte l’ho attribuita ad attacchi da parte delle forze ebraiche. A volte uno storico deve correggere un errore.” Tanto di cappello ad uno storico che ammette di aver fatto un errore. Ma l’integrità professionale di Morris è messa alla prova in base a quanto egli ha detto ad Ari Shavit (Haaretz, gennaio 2004): “Non penso che le espulsioni del 1948 fossero crimini di guerra.. Penso che lui (Ben Gurion) abbia fatto un grave errore storico nel 1948…fu troppo timoroso durante la guerra. Alla fine vacillò….Se si fosse subito impegnato nell’espulsione, forse avrebbe fatto un lavoro definitivo.”

Allo stesso tempo Morris sostiene che Ben Gurion “non ha mai dato un ordine di espellere gli arabi.” In effetti, non è stato trovato nessun ordine scritto di questo tipo. E il lettore si chiederà: “Quindi c’era un ordine di espulsione, o forse un’espulsione senza un ordine? O forse c’è stata un’espulsione di massa, ma fu incompleta, e dunque non si tratta di pulizia etnica? E Morris rimpiange il fatto che non sia stato dato un ordine per completare la pulizia etnica?” Morris è fortunato a non essersi occupato della ricerca sull’Olocausto. Potrebbe essere stato capace di sostenere che non fu Hitler che ordinò la “Soluzione Finale”, dato che, per quanto ne sappiamo, non è mai stato trovato nessun ordine scritto da lui per l’uccisione degli ebrei europei.

Morris dice che le espulsioni non furono un crimine di guerra, perché furono gli arabi che iniziarono la guerra. In altre parole, centinaia di migliaia di civili innocenti, appartenenti alla parte che aveva iniziato la lotta, dovevano essere espulsi. Forse Morris sarebbe d’accordo che il genocidio compiuto dai tedeschi contro gli Herero nel 1904-1908 [i tedeschi sterminarono in campi di concentramento circa 65.000 indigeni su un totale di 80.000. Ndtr.] era giustificato perché, dopo tutto, gli Herero avevano iniziato la ribellione contro il colonialismo tedesco in Namibia.

Morris ha ragione su una cosa: la convinzione che gli arabi dovessero essere espulsi nel 1948 non fu messa in pratica in modo totale. Ci furono comandanti che obbedirono alla lettera; ce ne furono altri che non lo fecero. E’ esattamente la ragione per cui 160.000 arabi rimasero all’interno dello Stato di Israele nel 1949. Proprio come decine di migliaia di armeni rimasero in Turchia dopo la Prima Guerra Mondiale, perché ci furono funzionari del governo che non applicarono alla lettera l’ordine di espellerli o ucciderli. Fortunatamente, nel 1948 ci furono comandanti dell’IDF che si astennero dal fare quello che sapevano che avrebbero potuto fare senza doverne pagare le conseguenze. Se non fosse stato per loro, il crimine di guerra commesso da Israele sarebbe stato ancora più grande.

L’autore è uno storico.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Un anno di rivolta: chi erano i palestinesi uccisi dalle forze israeliane?

Middle East Monitor – 1 ottobre 2016

Ben White

E’ passato un anno da quando è iniziata la rivolta anticoloniale condotta da giovani palestinesi, caratterizzata da proteste e attacchi contro le forze israeliane ed i coloni nei Territori Palestinesi Occupati (TPO), insieme alla brutale violenza ed alle misure punitive delle autorità israeliane.

La cronologia non è definita; verso il primo ottobre 2015 la violenza dei palestinesi contro l’occupazione è andata gradualmente aumentando, con alti e bassi, per un anno. Qualcuno l’ha definita l'”Intifada di Gerusalemme”. Altri l’hanno descritta come “meno di un’Intifada e più di una esplosione di protesta popolare.”

Secondo un articolo di Quds News Network pubblicato questa settimana, 246 palestinesi sono stati uccisi durante lo scorso anno, e altri 18.500 sono stati feriti. Altre fonti parlano di 230 vittime (l’agenzia “Ma’an News”) o “più di 225” (Amnesty International).

La maggior parte dei palestinesi è stata uccisa mentre stava compiendo attacchi, o presunti attacchi; in luglio, per esempio, la Mezzaluna rossa palestinese ha affermato che 139 degli allora 218 morti in totale erano assalitori o presunti tali (poco meno dei 2/3).

Tuttavia, come l’Associated Press [agenzia di stampa USA. Ndtr.] ha affermato all’inizio di questo mese: “I palestinesi hanno spesso accusato gli israeliani di utilizzo eccessivo della forza contro aggressori e detto in molti casi che i supposti assalitori non lo erano neppure.” Questa fondamentale informazione è, purtroppo, raramente presente in molti articoli delle agenzie di notizie.

Sicuramente un certo numero di palestinesi – in genere giovani adulti – ha condotto attacchi durante lo scorso anno, la maggior parte dei quali ha preso di mira le forze militari israeliane di occupazione o coloni nei TPO. Alcuni di questi aggressori sono stati uccisi quando non rappresentavano più un pericolo.

Ma le forze israeliane – anche durante incidenti in cui i soldati hanno cambiato per varie volte la loro versione dei fatti – hanno ucciso anche palestinesi falsamente etichettati come aggressori, così come palestinesi a cui hanno sparato in irruzioni per arrestarli o durante la repressione di manifestazioni.

E’ significativo notare che, persino secondo le autorità israeliane, il numero di palestinesi uccisi in un contesto esclusivamente di proteste e incursioni durante lo scorso anno (71) è il doppio del numero totale di israeliani uccisi da palestinesi (33, più due persone straniere).

I palestinesi uccisi dalle forze armate israeliane sono di rado “umanizzati” in Occidente. Nei media, la loro morte merita – al massimo – un paio di righe che includono sempre la versione dei fatti del portavoce dell’esercito israeliano (e spesso solo la sua versione). E poi tutti passano ad altro.

Ecco allora un’istantanea dei costi umani del regime di apartheid israeliano e alcune delle storie di questi palestinesi che hanno perso la vita nell’ anno trascorso.

Abd al-Rahman Obeidallah, 13 anni. Ucciso il 5 ottobre 2015

Obeidallah è stato colpito a morte da un soldato israeliano nel campo di rifugiati di Aida, a nord di Betlemme. Era in piedi e stava osservando gli scontri tra gli abitanti e le forze di occupazione a circa 70 metri di distanza, quando è stato raggiunto da un proiettile letale al petto. Obeidallah era uno di cinque figli, e il suo fratello diciassettenne Mohammed lo ha descritto come il suo “miglior amico”. Secondo sua madre Dalal, il ragazzino aveva “sempre sognato di andare a trovare” una zia di Gerusalemme, ma, ha aggiunto, ” ci viene negato visitare Gerusalemme”. L’esercito israeliano in seguito ha sostenuto che l’uccisione di Obeidallah non era stata “intenzionale”. Un’inchiesta penale sulla sparatoria è stata aperta dall’Avvocatura Generale dell’Esercito Israeliano (AGE) , ma dopo un anno non ci sono notizie di una conclusione.

Shadi Dawla, 24 anni. Ucciso il 9 ottobre 2015.

Shadi è stato ucciso quando le forze israeliane hanno aperto il fuoco contro manifestanti palestinesi che lanciavano pietre verso le torri di guardia dell’esercito lungo la recinzione di confine a est di Gaza City. Quel giorno 6 palestinesi sono stati uccisi e 145 feriti, quando soldati israeliani ben protetti hanno falciato manifestanti disarmati con proiettili letali. Shadi lavorava con suo padre come elettricista, e secondo il suo fratello minore stava pensando di sposarsi. “(Shadi) non era solo mio fratello”, ha detto, “era un buon amico. Stavamo sempre insieme. Parlavamo sempre tra di noi e ci chiedevamo consigli a vicenda.” Più di 20 palestinesi, compreso un bambino di 10 anni, sono stati uccisi lo scorso anno dall’esercito israeliano nelle proteste contro la barriera a Gaza. Nessuna inchiesta israeliana è stata aperta su nessuna di queste morti.

Nur Hassan, 26 anni. Uccisa l’11 ottobre 2015.

Nur Hassan,all’epoca incinta di 5 mesi, è stata uccisa insieme alla sua figlia di tre anni Rahaf in un attacco aereo israeliano contro la sua casa nel quartiere di a-Zeitun della Striscia di Gaza. La casa è stata colpita in pieno e completamente distrutta. Il bombardamento, avvenuto in piena notte mentre la famiglia dormiva, è stato descritto dall’esercito israeliano come un attacco contro un “luogo di produzione di armi”. La casa di Hassan si trovava in una zona agricola, circondata da oliveti e frutteti, con cui la famiglia si guadagnava da vivere. In un video ampiamente diffuso, il padre sopravvissuto, Yihya, sorregge il corpo di Rahaf dicendo ripetutamente: “Svegliati, figlia mia.” Anche Mohammed, il secondo figlio, di cinque anni, è sopravvissuto al bombardamento. Non c’è stata nessuna inchiesta israeliana.

Dania Ershied, 17 anni. Uccisa il 25 ottobre 2015.

Ershied è stata uccisa ad un checkpoint davanti alla moschea di Ibrahim di Hebron, in quello che secondo le autorità israeliane era stato un tentativo di accoltellamento da parte di una “terrorista”. Tuttavia resoconti di testimoni oculari riportati da gruppi per i diritti umani lo smentiscono. Durante una seconda indagine, ufficiali della polizia di frontiera avrebbero iniziato a gridarle di far vedere il suo coltello. Secondo Amnesty International, “colpi di avvertimento sono stati sparati ai suoi piedi, spingendola a retrocedere e ad alzare le mani. Ha gridato alla polizia di non avere nessun coltello ed aveva ancora le mani in alto quando la polizia ha di nuovo aperto il fuoco, colpendola sei o sette volte.” Dania era studentessa della Scuola Superiore Femminile Al-Rayyan di Hebron, ed è stata uccisa con la sua uniforme scolastica. Non c’è nessuna inchiesta sulla sua morte.

Ra’ed Jaradat, 22 anni. Ucciso il 26 ottobre 2015.

Jaradat è stato ucciso dopo aver attaccato le forze di occupazione israeliane fuori dal villaggio di Beit Einun, nei pressi di Hebron. Ha accoltellato un soldato prima di essere colpito più volte, anche dopo che era steso a terra immobile. Jaradat era uno studente di contabilità all’università Al-Quds, ed era originario del villaggio di Sair, un altro villaggio della zona di Hebron. Dopo l’uccisione di Dania Ersheid (vedi sopra), Jaradat ha scritto su Facebook: “Immagina se fosse tua sorella!” Suo padre affranto ha detto ai giornalisti: “Noi viviamo bene, mio figlio non aveva bisogno di niente. Ma l’unica cosa che manca nelle vite di questi giovani è la libertà.”

Tharwat al-Sharawi, 72 anni. Uccisa il 6 novembre 2015.

Al-Sharawi è stata uccisa dalle forze di occupazione israeliane mentre si stava avvicinando a un distributore di Hebron. L’esercito israeliano sostiene che questa madre di sei figli aveva tentato un attacco con la macchina. Eppure un video dell’incidente rivela che l’auto stava andando abbastanza piano da permettere ai soldati di spostarsi tranquillamente dalla sua direzione prima di aprire il fuoco sul veicolo mentre stava entrando nello spiazzo della stazione di servizio. Gli spari, continuati ben dopo che aveva superato i soldati, hanno ferito anche un dipendente della stazione di servizio. Il figlio di Al-Sharawi ha detto che la madre stava andando a pranzo a casa di sua sorella. Secondo Amnesty International l’uso di una violenza omicida da parte delle forze israeliane sarebbe stato illegale anche se la signora anziana stesse ponendo in pratica un attacco. Tuttavia la procura generale militare ha deciso di non aprire nessuna indagine penale.

Abdullah Shalaldah, 28 anni. Ucciso il 12 novembre 2015.

Abdullah Shalaldah è stato ucciso in una stanza di ospedale dalle forze di occupazione israeliane mascherate da civili palestinesi (di cui uno su una sedia a rotelle che fingeva di essere incinta). I soldati sono entrati in una stanza del terzo piano dell’ospedale con l’intenzione di arrestare il paziente, Azzam Shalaldah. Appena hanno fatto irruzione nella stanza, hanno sparato per tre volte alla testa ed alla parte superiore del corpo del cugino del paziente, Abdullah. L’esercito israeliano ha sostenuto che aveva aggredito i soldati, ma alcuni testimoni hanno detto che era disarmato ed è stato ucciso mentre usciva dal bagno dove era andato a lavarsi per pregare. A Sair migliaia di persone hanno partecipato al funerale di Shalaldah. Non c’è nessuna inchiesta israeliana sulla sua morte.

Lafi Awad, 22 anni. Ucciso il 13 novembre 2015.

Awad è stato ucciso durante una manifestazione presso il “Muro di separazione” a Budrud. Dopo le preghiere del venerdì, gli abitanti hanno marciato verso il “Muro”, costruito sulla terra del villaggio, dove le forze israeliane li stavano aspettando. Dopo qualche ora di scontri, un gruppo più ridotto di giovani si è avvicinato al “Muro”, solo per essere preso in un imboscata dai soldati. Awad è stato agguantato e aggredito, ma ha cercato di liberarsi. Quando si è messo a scappare, un soldato israeliano gli ha sparato alle spalle. Altri soldati israeliani hanno impedito di portarlo al più presto in ospedale. L’esercito israeliano ha sostenuto che un “rivoltoso” aveva cercato di impadronirsi dell’arma di un soldato. Lafi era uno di otto figli. Nel 2013 era stato arrestato e detenuto per 17 mesi per aver aiutato a distruggere una videocamera di sorveglianza dell’odiato “Muro”. Nessuna indagine penale è stata aperta sulla sua uccisione.

Mohammed Abu Khalaf, 20 anni. Ucciso il 19 febbraio 2016

Abu Khalaf, di Kafr Aqab, nella Gerusalemme est occupata, è stato colpito ed ucciso dalle forze israeliane fuori dalla Porta di Damasco, dopo aver accoltellato e ferito due poliziotti di frontiera. In una ripresa video girata da una troupe di Al Jazeera che si trovava per caso sul posto, le forze israeliane hanno sparato a lungo su Abu Khalaf anche dopo che era steso al suolo immobile. Le autorità israeliane hanno trattenuto il corpo di Mohammed per 200 giorni, restituendolo alla famiglia per il funerale solo il 6 settembre 2016. “Oggi la sofferenza per una ferita inguaribile è stata riaperta quando abbiamo ricevuto il suo corpo e lo abbiamo sepolto,” ha detto ai giornalisti sua madre Rula. Le autorità israeliane hanno in seguito deciso che nessuna imputazione sarebbe stata presentata contro i poliziotti coinvolti.

Anwar Al-Salaymeh, 22 anni. Ucciso il 13 luglio 2016.

Al-Salaymeh è stato colpito a morte dalle forze di occupazione israeliane mentre stava viaggiando con i suoi amici a a-Ram, in Cisgiordania. L’esercito israeliano ha affermato che i soldati hanno solo aperto il fuoco per impedire un tentativo di investimento con l’auto. I passeggeri sopravvissuti, tuttavia, hanno affermato che si stavano dirigendo verso una panetteria e non sapevano della presenza di forze israeliane nella zona, una versione dei fatti confermata da prove raccolte dall’associazione per i diritti umani B’Tselem. Al-Salaymeh, che si era sposato tre mesi prima della morte, stava andando a prendere dei biscotti per la moglie incinta quando è stato ucciso. Secondo suo padre, Al-Salaymeh “era stato di grande aiuto per la famiglia – e per questo aveva lasciato la scuola superiore e si era messo a lavorare.” Non c’è stata nessuna indagine sulla sua morte.

Muhyee al-Din Tabakhi, 10 anni. Ucciso il 19 luglio 2016.

Tabakhi è stato colpito da una cosiddetta granata “spugna nera” [proiettili ricoperti di materiale spugnoso nero, usati contro le manifestazioni e considerati non letali. Ndtr.], sparata da membri della polizia di frontiera a a-Ram, nella Gerusalemme est occupata. E’ morto poco dopo in ospedale. Scontri tra i giovani del luogo e le forze israeliane nella zona sono frequenti a causa di lavori in corso sul “Muro di separazione”. Poco prima che Tabakhi venisse colpito, alcuni giovani avevano lanciato pietre contro una jeep della polizia di frontiera, inducendo un poliziotto a scendere dal veicolo e a inseguirli. Il bambino di 10 anni è stato colpito al petto da una distanza di circa 30 metri. Anche un adulto che era intervenuto in soccorso è stato colpito ad una mano. Un portavoce della polizia israeliana ha semplicemente notato che non era stato usato nessun “proiettile letale”.

Muhammad Abu Hashhash, 19 anni. Ucciso il 16 agosto 2016.

Abu Hashhash è stato ucciso dalle forze di occupazione israeliane durante una brutale incursione durata un giorno nel campo di rifugiati di al- Fawwar, nei pressi di Hebron. E’ stato colpito alla schiena nel momento in cui stava uscendo dalla porta di casa da un cecchino israeliano nascosto in una casa palestinese a circa 30-40 metri di distanza. I soldati israeliani avevano fatto un piccolo buco nel muro della casa, attraverso il quale il ragazzo è stato ucciso. Abu Hashhash era un appassionato giocatore di pallone in un campo di circa 9.500 abitanti. Durante quella stessa incursione, le forze israeliane hanno ferito almeno 52 altri abitanti. anche con munizioni letali. Nel momento in cui sto scrivendo, non ci sono notizie di un’inchiesta dell’esercito israeliano sulla sua morte.

(traduzione di Amedeo Rossi)




I soldati israeliani uccisero dozzine di prigionieri nel corso di una delle guerre combattute dall’esercito israeliano (IDF) nei primi decenni dell’esistenza dello Stato di Israele.

di Aluf Benn,

Haaretz ,16 settembre 2016

Secondo una testimonianza ottenuta da Haaretz, ai prigionieri fu ordinato di mettersi in fila e voltarsi, prima di essere colpiti alla schiena. L’ufficiale che diede l’ordine venne rilasciato dopo aver scontato sette mesi di prigione, mentre il suo comandante fu promosso ad un alto grado.

I soldati israeliani uccisero dozzine di prigionieri durante una delle guerre combattute dall’IDF nei primi decenni di esistenza dello stato di Israele. L’ufficiale che aveva dato l’ordine di uccidere i prigionieri subì un processo, ma se la cavò con una condanna ridicolmente mite. Il suo comandante fu promosso ad grado molto superiore e l’intera vicenda venne insabbiata.

Le dozzine di prigionieri erano soldati degli eserciti nemici. Si erano arresi dopo la battaglia ed avevano deposto le loro armi. Alcuni di loro erano gravemente feriti.

I soldati israeliani che presero inizialmente il controllo del luogo dove loro si erano arresi li radunarono in un cortile interno circondato da un muro, diedero loro del cibo e parlarono con loro delle loro vite e del servizio militare.

Alcune ore dopo questi soldati vennero assegnati ad un’altra missione ed altre forze militari israeliane vennero inviate a sostituirli nel luogo in cui erano tenuti i prigionieri. Questo cambio della guardia pose il problema tra gli ufficiali preposti su che cosa fare dei soldati nemici catturati, poiché i nuovi militari si rifiutarono di assumersene la responsabilità, mentre quelli in partenza non avevano mezzi per il trasporto dei prigionieri.

Il comandante della compagnia che era l’ufficiale responsabile del posto ordinò allora ai suoi soldati di uccidere i prigionieri. Secondo la testimonianza rilasciata ad Haaretz, ai prigionieri venne ordinato di mettersi in fila e di voltarsi, quindi furono fucilati alla schiena. Un ufficiale nemico che era stato utilizzato come traduttore fuggì, ma fu colpito a morte da soldati del nuovo contingente, che erano in una jeep. Dopo il massacro un bulldozer dell’esercito ammucchiò i corpi in una fossa improvvisata.

Due testimonianze oculari del massacro dei prigionieri furono rilasciate al reporter di Haaretz molti anni fa. Secondo una di esse, da parte di un uomo che disse di essersi rifiutato di ubbidire all’ordine, il comandante gli ordinò di scendere ed uccidere i prigionieri feriti. Lui rifiutò perché prima i prigionieri gli avevano chiesto se sarebbero stati uccisi e lui aveva risposto di no.

Il comandante lo minacciò di inviarlo alla corte marziale per disobbedienza ad un ordine, ma lui continuò a rifiutarsi. Allora un altro uomo – il secondo testimone – saltò in piedi e si offrì volontario per eseguire l’ordine.

La testimonianza della seconda persona, che confessò di aver partecipato all’uccisione dei prigionieri insieme a tre suoi commilitoni, concorda a grandi linee con quella del primo testimone, benché essi non fossero in contatto e nessuno dei due conoscesse il contenuto della conversazione svoltasi con l’altro. Una differenza era che il secondo uomo sosteneva di aver anch’egli inizialmente rifiutato di ubbidire all’ordine, ma quando il comandante aveva insistito, lui aveva accettato di eseguirlo. Aggiunse che, dopo aver ucciso i prigionieri, si avvicinò e li colpì nuovamente da soli cinque metri di distanza, per assicurarsi che fossero tutti morti.

L’esercito israeliano avviò un’indagine della polizia militare sull’incidente, che si concluse con un processo per omicidio nei confronti del comandante della compagnia. Fu condannato a tre anni di prigione e rilasciato dopo soli sette mesi.

Il comandante sostenne che gli venne ordinato di uccidere i prigionieri dal suo superiore, che in seguito ottenne un’alta carica nell’esercito. Non è chiaro se l’ufficiale superiore sia mai stato indagato, ma sicuramente non subì mai un processo. Il comandante della compagnia lavorò come guida turistica dopo aver lasciato l’esercito, e quando anni dopo fu intervistato sull’argomento da un giornalista di Haaretz, rispose che “l’argomento è riservato” e gli suggerì di rivolgere le domande “ai servizi di sicurezza”.

Questo assassinio di dozzine di prigionieri fu uno dei più gravi crimini nella storia dell’IDF, ma l’esercito lo nascose e lo insabbiò. Portare alla luce i fatti è importante anche oggi, per comprendere la storia delle regole morali di combattimento dell’IDF ed imparare lezioni di leadership, di educazione e di comando per il futuro.

Traduzione di Cristiana Cavagna




Hebron, storia di una città sotto occupazione Video

Da Nena News

 

Il conflitto e l’occupazione nella città di Hebron raccontata dalle voci di coloni e residenti palestinesi. Il documentario di Francesco Sellari girato durante il seminario per giornalisti di Nena News

Hebron, 5 settembre 2016, Nena News – “Questo posto è la prova del fatto che abbiamo il diritto a stare ovunque in questo paese”. Basterebbero le poche parole di un colono ebreo di origini statunitensi che da trent’anni vive a Hebron, e la sua certezza resa inscalfibile dalla fede nelle Scritture, a spiegare il dramma di questa città di circa 170.000 abitanti nel sud della Cisgiordania.

Hebron – in arabo al Khalil – è la città della Grotta dei Patriarchi/Moschea di Abramo, sepolcro di Abramo, Isacco e Giacobbe e delle rispettive mogli. Un luogo sacro per ebrei e musulmani. Negli ultimi anni tuttavia, la “fama” di Hebron è associata alle durezza del conflitto e della occupazione militare israeliana. Solo per citare il più noto tra gli episodi più recenti: lo scorso 24 marzo nel quartiere di Tel Rumeida, il soldato israeliano Elor Azaria ha sparato ad un presunto attentatore palestinese, Abdel Fatah a-Sharif, ferito, disarmato e disteso a terra. La notizia è emersa e ha fatto il giro del mondo grazie ad un video girato da un attivista di B’Tselem.

In Palestina, Hebron vive una situazione paragonabile solo a Gerusalemme: una città divisa in due entità amministrative, una massiccia presenza dell’esercito israeliano, un nucleo di coloni (circa un migliaio ma mancano stime ufficiali) insediatisi nello stesso centro storico.

La città vecchia potrebbe essere un fiorente centro turistico ma nei fatti è una una città semi-deserta: tra continue tensioni e violenze, i pochi commercianti e artigiani rimasti devono convivere con i coloni e con i loro tentativi di espandere la loro presenza prendendo possesso, per vie legali e non, di case palestinesi, mentre Shuhada Street, quella che un tempo era la principale arteria cittadina,  il centro dei commerci, è zona militare chiusa dalla Seconda Intifada, ed è quasi del tutto interdetta al transito dei palestinesi.

Questo reportage video è stato realizzato alla fine di aprile 2016, nell’ambito del seminario per giornalisti organizzato da Nena News: una settimana tra Palestina e Israele per conoscere e capire la realtà del conflitto e dell’occupazione, con l’aiuto di associazioni locali, giornalisti e analisti sia israeliani che palestinesi.

Francesco Sellari

 




L’esercito israeliano sta conducendo una campagna di gambizzazione in Cisgiordania?

di Amira Hass,

27 agosto 2016, Haaretz

Il numero dei palestinesi feriti da pallottole vere sta aumentando, e i ragazzi che tirano pietre dicono che viene loro comunicato che sfidare i soldati può renderli zoppi per tutta la vita.

La manifestazione in onore dei feriti del campo profughi di Deheisheh è iniziato quasi in orario, alle 20,20 di domenica scorsa. Nella via principale, parzialmente chiusa al traffico, sono state sistemate file di sedie. Gli automobilisti che utilizzavano l’altra strada erano pazienti e si muovevano in entrambe le direzioni, creando due ingorghi di traffico che miracolosamente hanno lasciato passare un’ambulanza a sirene spiegate. Qualcuno ha instradato il traffico a destra e a sinistra ed in pochi secondi si è creato un varco. Dopo il passaggio dell’ambulanza, si sono di nuovo formati gli ingorghi, sotto le bandiere rosse del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e sul lato opposto di un enorme memoriale in cemento, con la forma della mappa della Palestina.

Recentemente, tre incursioni dell’esercito israeliano in meno di due settimane nel campo a sud di Betlemme si sono concluse con qualche arresto, ma 15 persone sono rimaste gravemente ferite da colpi di fucile.

Questo alto numero di palestinesi colpiti alle ginocchia dai soldati, probabilmente rimasti disabili per sempre, hanno ricordato a tutti molti altri feriti in modo simile nei recenti raid.

“I notiziari vi dicono che non ci sono stati morti, solo feriti, perciò tutti si tranquillizzano senza rendersi conto delle sofferenze che stiamo passando,” dice N., 23 anni, in una conversazione con Haaretz. Dice di essere stato colpito a una gamba da una pallottola due anni fa, mentre soccorreva un altro ferito e lo portava in salvo. Si parlò di amputargli la gamba, ma lui era deciso a tenerla e ha trovato delle cure adeguate in Germania. Tuttora cammina con una stampella, ma non parla del suo dolore.

Due ragazzi di 15 e 16 anni e uomini intorno ai vent’anni, arrancano con le stampelle per i vicoli scoscesi del campo. Sono stati feriti durante lo scorso anno, o prima ancora. Ognuno di loro ha subito complessi interventi chirurgici, e ne subiranno altri. E ciascuno deve affrontare un costante monitoraggio e ripetute pulizie alle ferite per rimuovere i frammenti dei proiettili, ed assumere farmaci antinfiammatori e sostituire le protesi di platino. Uno dei giovani ha avuto la gamba amputata.

Questi ragazzi parlano con cognizione di causa di farmaci anticoagulanti, di differenti tipi di antidolorifici e di operazioni. Raccontano di lunghi mesi in cui non potevano fare una doccia o andare al bagno senza essere accompagnati, di muscoli indeboliti, del desiderio di camminare senza assistenza.

Qualcuno ha visto il cecchino che li ha colpiti prendere la mira, con un ufficiale alle sue spalle. Qualcuno ricorda i mirini telescopici sul fucile, altri parlano di un treppiede usato dal cecchino. Qualcuno ipotizza che sono stati colpiti da un cecchino posizionato sull’alto edificio fuori dal campo.

Alcuni dei feriti hanno ottenuto le stampelle dove potevano – a volte sono spaiate, e alcune hanno la gomma così consumata che li fa scivolare. Le cure sono costose ed anche prendere un taxi per andare all’ospedale per i controlli è un peso economico.

Molti di loro non hanno assicurazione sanitaria, ma gli interventi chirurgici vengono comunque eseguiti. Però talvolta solo un’operazione all’estero potrebbe salvare una gamba e ciò rappresenta un problema finanziario più grave. Ci vogliono capacità e determinazione per ottenere una donazione da una delle istituzioni dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Parecchi di loro sono stati arrestati subito dopo l’intervento chirurgico, o prima di una seconda operazione, e condannati ad alcuni mesi di carcere e ad una multa. La convinzione dei feriti – di rappresentare il proprio popolo ed un principio, e di contrastare gli attacchi nemici al loro campo tirando pietre – viene sostituita da uno schiacciante senso di solitudine nel momento in cui affrontano le conseguenze delle loro ferite.

Molti nel campo di Deheisheh sono convinti che dietro tutto ciò ci sia la mano del “capitano Nidal” – un ufficiale del servizio di sicurezza dello Shin Bet che si accanisce sul campo perché qualcuno lo ha fotografato durante uno dei raid e lo ha postato su Facebook.

A febbraio è comparso nel campo uno striscione con i simboli di Fatah e dell’FPLP (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, gruppo storico della resistenza marxista, ndtr.). Con una spacconata tipica della parte più debole l’avviso conteneva la promessa che le pietre del campo avrebbero colpito “Nidal e i soldati”.

Nel campo si racconta che durante gli interrogatori, al telefono o nelle visite notturne nelle case del campo, il capitano Nidal dice ai ragazzi che non ci saranno martiri nel campo, ma “tutti voi finirete sulle stampelle”. O, secondo un’altra versione, “Vi renderemo tutti disabili”.

Il capitano Nidal (il nome che ha adottato è sacrilego, poiché significa “lotta” in arabo) fece la sua comparsa nel campo 18 mesi o due anni fa – i miei interlocutori non riescono a ricordare esattamente quando. Qualcuno ha detto ad Haaretz che diverse organizzazioni internazionali hanno denunciato il suo comportamento brutale. E’ scomparso per alcuni mesi, ma poi è ritornato.

E’ anche emerso che nel villaggio di Tekoa, più ad est, circa altri venti ragazzi sono stati colpiti alle gambe nell’arco di pochi mesi. Nel loro caso, si tratta di un “ capitano Imad” dello Shin Bet (è questo il nome che i funzionari del comune ricordano, benché non ne siano sicuri al 100 percento). Gli abitanti dicono che lui promette ai giovani che se affronteranno i soldati quando fanno le incursioni verranno azzoppati. E molte delle ferite da pallottole nel villaggio di Al-Fawwar, attaccato anch’esso dall’esercito due settimane fa, erano alle ginocchia.

In altri termini, Deheisheh non è solo, non è l’unico.

Un portavoce dell’esercito dice che i soldati usano fucili Ruger nei loro raid. I giornalisti (e probabilmente il portavoce) dicono che si tratta di un’arma non letale. Ma questa affermazione è falsa, o è un tentativo di trarre in inganno. Almeno quattro palestinesi disarmati, compreso un minore, sono stati uccisi dalle pallottole calibro 22 sparate da fucili Rugers negli ultimi 18 mesi. Sembra che il diciottenne Mohammed Abu Hashash [colpito durante scontri con le forze israeliane, ndt] sia stato anch’egli ucciso nello stesso modo ad Al-Fawwar [campo profughi nei pressi di Hebron, ndt] la settimana scorsa.

Ad Hebron e Deheisheh sono stati creati dei comitati per prendersi cura dei feriti. In molti luoghi sta crescendo l’impressione che l’esercito stia intensificando l’uso di pallottole vere negli scontri con ragazzi disarmati che tirano pietre, e che le ferite provocate siano deliberatamente più gravi. Ci devono essere più di 100 persone in Cisgiordania, compresi molti minori, che sono stati azzoppati dall’esercito israeliano nello scorso anno. Ma non si dispone ancora di informazioni o di dati che confermino l’apparente tendenza.

L., di Tekoa, dice che suo padre era così arrabbiato con lui quando è stato ferito, che si è rifiutato di andarlo a trovare in ospedale o di parlargli per i primi due giorni; solo più tardi si è calmato. L. confessa che non sfiderà nuovamente i soldati israeliani, anche se si trovava molto lontano da loro quando è stato colpito da un cecchino.

Y., un quindicenne di Deheisheh, è tornato dall’ospedale solo la settimana scorsa dopo avervi trascorso due settimane. Suo padre, che è sempre stato accanto a lui, ha detto: “Sono stati i soldati a venire verso di noi, verso le nostre case. Non siamo andati noi da loro.”

Ho incontrato 12 persone ferrite in tre giorni. Per i “fortunati”, la pallottola ha colpito solo i loro muscoli. Altri hanno avuto le ossa fratturate o i nervi ed i tendini lacerati o bruciati, o entrambe le cose.

A. è stato colpito da due pallottole ed è rimasto in coma 10 giorni. Tutti pensavano che sarebbe morto. I suoi amici non hanno lasciato il suo letto finché non si è svegliato, bianco come un cencio.

In alcuni casi la pallottola è entrata in una gamba, ne è uscita ed è entrata nell’altra, provocando un esteso danno. Alcuni ragazzi sono stati colpiti dai soldati due volte, in ognuna delle gambe. E’ ciò che è successo a Y. ed al suo amico H., che cercava di soccorrerlo.

Y. era fuori dalla sua casa all’alba quando ha visto avvicinarsi 20 soldati. E’ stato colpito ad una gamba ed è caduto. H., di 18 anni, è corso in suo aiuto, lo ha sollevato e si è diretto verso la loro casa. Allora un soldato ha sparato ad H., che cercava di andare avanti, mentre sorreggeva Y. Ma un soldato gli ha sparato di nuovo, lui è inciampato ed entrambi sono caduti. Allora Y. è stato nuovamente colpito all’altra gamba.

L’altro effetto farfalla

“Appena sono stato colpito, il mio piede tremolava come un pezzo di carta al vento”, racconta M., diciannove anni, di Deheisheh, a cui hanno sparato lo scorso dicembre. Ha subito sette operazioni, ma tuttora non può reggere alcun peso sul suo piede. Dice anche che i soldati sparavano alle persone che cercavano di soccorrerlo. Tra uno svenimento e l’altro, si è reso conto che veniva trasportato dai suoi amici dalla casa al cortile e dal cortile alla casa, per metterlo su una macchina che lo portasse all’ospedale.

L., il ragazzo di Tekoa, ha ripetuto ciò che il suo medico aveva descritto: la pallottola agisce come una farfalla, muovendosi dentro la gamba e distruggendo ciò che trova prima di fuoruscire. La gente che riferisce delle ferite nella zona di Hebron ha usato un’altra immagine – quella di un trapano.

La maggior parte dei ragazzi feriti ha deciso di non spiegare le circostanze del loro ferimento con un giornalista israeliano. Hanno preferito non ammettere che stavano tirando pietre ai soldati che sono comparsi all’alba o dopo mezzanotte nei vicoli del campo per arrestare i loro amici o vicini, o per consegnare una convocazione di interrogatorio.

Uno ha raccontato che gli era successo di svegliarsi presto quel mattino, un altro che stava viaggiando fuori Betlemme, un terzo che stava pregando, un quarto che stava lavorando al supermercato. “In breve, stavate tutti andando a comprarvi un gelato alle tre del mattino,” ho concluso io, e loro si sono messi a ridere.

Yazan Laham, comunque, non stava andando a comprare un gelato alle 2 e mezza del mattino del 28 luglio, e non stava nemmeno affrontando i soldati. Il ventiduenne era stato fuori con gli amici e stava accompagnando a casa uno di loro con la jeep di suo padre.

Laham è un ufficiale del Mukhabarat (il servizio di intelligence palestinese). Ha studiato sicurezza per 4 anni all’università Al-Istiqlal di Gerico, che forma reclute per i servizi di sicurezza palestinesi. Suo padre, Mohammed Laham, è un membro di Fatah al parlamento palestinese; è un membro veterano del movimento che, durante la seconda intifada, ha impedito a uomini armati a Deheisheh di fare fuoco dall’interno del campo, in modo che l’esercito non avesse la scusa per distruggerlo.

Il giovane Laham ha raccontato ad Haaretz che due soldati sulla strada principale hanno intimato a lui e ai suoi tre amici di fermarsi e scendere dalla jeep vicino distributore di benzina di Al-Huda, a nord del campo. Laham ha detto loro di far parte delle forze di sicurezza palestinesi, ma questo non li ha impressionati. Uno di loro era un cecchino. I soldati hanno detto loro di mettersi accanto ad un negozio di gommista lì vicino. Di tanto in tanto, il cecchino sparava e poi correva con un altro soldato dietro la jeep di Laham.

I soldati hanno detto a Laham di dire ai ragazzi che tiravano pietre di smetterla. Lo hanno fatto, ma poi i soldati hanno ricominciato a sparare. Lui ha protestato e discusso con loro e i soldati lo hanno picchiato, dice. Dopo più di un’ora, lo hanno lasciato tornare alla jeep con i suoi amici. Stava andando verso la jeep, a distanza di 10 metri, quando è stato colpito alla gamba sinistra. Non ha visto chi gli ha sparato, ma lo ha fatto con un fucile Ruger. Ha subito due operazioni e cammina con le stampelle, incapace di appoggiare il piede. Lo attende un lungo periodo di fisioterapia.

Suo padre, Mohammed, quella notte era a Ramallah. Suo cognato, Nasser Laham – giornalista e capo redattore del sito web Maan – è riuscito a raggiungerlo solo alle 10 del mattino del giorno seguente. “Mi ha detto che cosa era successo a Yazan,” dice Mohammed Laham. “Gli ho chiesto se fosse morto. Nasser mi ha assicurato di no, perciò gli ho detto ‘allora non va così male’. Che cosa potevo dire?

Non ho parlato pubblicamente di questo. Ci sono così tanti feriti. Ogni giorno ne visito qualcuno, quindi perché dovrei parlare solo di mio figlio? Ma quella notte ho parlato con il presidente (Mahmoud Abbas). Gli ho detto che c’era un’evidente escalation da parte di Israele. Perché c’è bisogno di 50 soldati per recapitare una convocazione di interrogatorio? Gli ho detto che erano tecnici, non soldati, quelli che sparavano. Sono tecnici con dei cavalletti che mirano attentamente alle ginocchia.”

Il portavoce dell’esercito israeliano ha risposto a queste accuse affermando: “Le nostre forze in Giudea e Samaria [la Cisgiordania secondo la definizione israeliana, ndt] seguono le regole di ingaggio, che non sono state cambiate di recente. Ogni incidente con pallottole vere viene riferito ai comandanti. Le attività dell’esercito nel campo di Deheisheh sono normalmente accompagnate da azioni di disturbo violente e dal lancio di congegni esplosivi verso le nostre forze.

Nei due incidenti a cui si riferisce questa storia l’esercito è entrato nel campo per eseguire degli arresti. Durante l’operazione sono stati lanciati ordigni esplosivi contro le nostre forze e ne sono seguiti violenti disordini. L’esercito ha risposto impiegando misure per disperdere i tumulti, compresi colpi di fucili Rugers. Un’indagine preliminare ha dimostrato un comportamento non inusuale da parte dell’esercito, ma vi saranno ulteriori indagini.”

Lo Shin Bet intanto ha risposto: “Nell’ambito delle attività degli ufficiali dei servizi di sicurezza al fine di garantire la sicurezza della regione e proteggere i residenti dalle minacce dei terroristi, essi mantengono un dialogo quotidiano con i residenti del luogo. Le accuse sollevate nel vostro articolo sono state prese in esame e riscontrate prive di fondamento.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)