La repressione israeliana vuole mettere a tacere i giornalisti palestinesi
13 aprile 2021 Electronic Intifada
Le operazioni di insediamento dei coloni mirano a impedire agli espropriati di documentare le loro esperienze, e sono parte del tentativo più ampio di dominarli e disumanizzarli e annullare ogni aspetto della loro indipendenza.
La violenza di Israele contro i giornalisti palestinesi ne è un esempio.
Nel 2019 il Congresso mondiale della Federazione Internazionale dei Giornalisti ha adottato una mozione del Sindacato dei Giornalisti Palestinesi che “condanna le continue violazioni della libertà di stampa nei Territori Occupati palestinesi”.
Israele reprime con violenza i giornalisti che documentano i suoi crimini contro i palestinesi – prendendo di mira principalmente i giornalisti palestinesi ma non esclusivamente – perché il controllo delle narrazioni è una componente cruciale del controllo politico.
Violenza
Secondo il Centro Palestinese per lo Sviluppo e la Libertà dei Media, MADA, tra il 2000 e il settembre 2018 Israele ha ucciso 43 giornalisti in Cisgiordania e Gaza.
Durante i primi sei mesi della Grande Marcia del Ritorno di Gaza, una serie di proteste iniziate nel marzo 2018, Israele ha effettuato decine di attacchi contro i giornalisti, incluso il caso di un cecchino israeliano che ha ucciso il giornalista Yaser Murtaja mentre si trovava a circa 350 metri dal confine di Gaza con indosso un giubbotto e un casco che lo identificavano chiaramente come membro della stampa.
Una settimana dopo, in circostanze identiche i soldati israeliani hanno sparato ad Ahmad Abu Hussein che si trovava a diverse centinaia di metri dal confine e indossava un giubbotto e un casco che lo contraddistinguevano come giornalista. Abu Hussein ha subito una serie di operazioni ma è morto circa due settimane dopo.
Israele ha inflitto una miriade di ferite gravi ai giornalisti palestinesi durante le proteste. Yasser Fathi Qudih è stato colpito all’addome, ciò che ha portato all’asportazione di parte della milza. Abdullah al-Shourbaji è stato colpito al bacino e ha perso parte dell’intestino. Yasmin al-Naouq è stata colpita alla schiena.
Decine di giornalisti sono stati sottoposti ad amputazioni a causa delle ferite riportate.
MADA ha riscontrato che in totale, nel 2018 in soli due mesi dal 30 marzo, primo giorno della Grande Marcia del Ritorno, al 30 maggio, ci sono stati 46 giornalisti feriti a Gaza con munizioni vere o proiettili esplosivi.
Questo elevato bilancio, conclude MADA, è “un risultato diretto dell’impunità dell’esercito e degli ufficiali di occupazione israeliani per i crimini commessi negli ultimi anni”.
“Massimo danno “
Il Centro Palestinese per i Diritti Umani ha riscontrato ulteriori 25 feriti fra i giornalisti che coprivano la Grande Marcia del Ritorno tra il 1 ° maggio 2019 e il dicembre dello stesso anno, quando le proteste furono sospese. Tutte le ferite erano imputabili all’esercito israeliano. Cinque di quei giornalisti sono stati colpiti da proiettili veri.
L’associazione conclude che Israele “ha preso di mira i giornalisti per infliggere loro il massimo danno” – giornalisti come Sami Jamal Taleb Misran, che è stato colpito a un occhio con un proiettile rivestito di gomma e alla fine ha perso la vista a quell’occhio. Grazie al suo giubbotto antiproiettile Misran era già sopravvissuto una settimana prima a un colpo diretto al petto.
La violenza contro i giornalisti non è affatto limitata a Gaza e alle proteste della Grande Marcia del Ritorno.
Il Centro Palestinese per i Diritti Umani riporta, nell’anno esaminato, 15 casi di soldati israeliani che hanno ferito giornalisti in Cisgiordania con proiettili veri, proiettili rivestiti di gomma o bombolette di gas lacrimogeni sparati direttamente contro di loro.
In uno di questi casi, le forze israeliane hanno sparato a Moath Amarneh negli occhi mentre copriva le proteste contro le confische di terra vicino a Hebron. Ha perso un occhio.
I soldati israeliani attaccano spesso i giornalisti mentre svolgono il loro lavoro.
Nell’anno esaminato dal Centro Palestinese per i Diritti Umani quattordici giornalisti “sono stati sottoposti a percosse e altre forme di violenza e trattamenti inumani e degradanti da parte delle forze israeliane”, incluso Mashhoor Wahwah dell’agenzia di stampa Wafa che, nell’ottobre 2019, stava riferendo di un’incursione israeliana a sud di Hebron quando un soldato israeliano lo ha picchiato con il calcio del fucile e lo ha costretto a lasciare l’area.
Soltanto un giorno dopo i soldati israeliani hanno attaccato fisicamente sei giornalisti mentre riferivano di una protesta pacifica di decine di civili a Gerusalemme est in solidarietà con i prigionieri palestinesi in sciopero della fame.
Israele ha arrestato quattro giornalisti – uno dell’agenzia turca Anadolu e gli altri dei canali palestinesi Alkofiya Satellite Channel e del quotidiano al-Quds – e ha costretto tutti gli altri giornalisti a lasciare l’area.
Arresti, detenzioni e intimidazioni
Israele arresta e imprigiona regolarmente i giornalisti. MADA riporta che dall’inizio del 2014 alla metà del 2017 ci sono stati 93 arresti e detenzioni di operatori dei media e giornalisti.
Fra questi 18 casi riguardano 15 persone sottoposte a detenzione amministrativa, la pratica di tenere qualcuno in carcere senza accusa o processo e per la quale Israele è stato criticato dalle Nazioni Unite.
Nel 2018 Israele ha arrestato quattro giornalisti palestinesi – Ala Rimawi, Mohammad Ulwan, Husni Injass e Qutaibah Hamdan – che lavoravano per la televisione Al-Quds in Cisgiordania, dopo aver definito la rete una “organizzazione mediatica terroristica” per i suoi legami con Hamas, una mossa condannata dalla Federazione Internazionale dei Giornalisti.
I soldati israeliani hanno anche sequestrato dalle loro case due automezzi e attrezzature tecniche, inclusa una telecamera.
Un mese dopo Israele ha prorogato la detenzione amministrativa di Ali Dar Ali, un popolare giornalista della TV palestinese. Ali era stato arrestato settimane prima per presunta “istigazione alla violenza contro i soldati israeliani” per aver pubblicato un video sulla sua pagina Facebook ufficiale che mostrava le forze di occupazione israeliane all’opera nel campo profughi di al-Amari.
Il Centro riferisce che nell’anno esaminato Israele ha detenuto o arrestato 26 giornalisti “in servizio o a casa loro… perché erano giornalisti”.
Nel marzo 2020 Israele ha arrestato Abdulrahman Dhaher e lo ha detenuto per mesi senza accusa. Una settimana prima del suo arresto aveva pubblicato un video sui social media con interviste raccolte per strada sulla storia dell’occupazione israeliana di Gaza.
Lo scorso novembre Christine Rinawi, corrispondente da Gerusalemme di Palestine TV, si è dimessa in seguito a quelle che Reporter Senza Frontiere ha descritto come “ripetute minacce giudiziarie e di polizia” da parte di Israele.
Rinawi se n’è andata dopo che la polizia israeliana l’ha convocata per l’ottava volta in un anno per interrogarla. Israele l’accusava di aver violato il divieto di lavorare a Gerusalemme. La polizia ha detto che l’avrebbero incarcerata se avesse continuato a lavorare per Palestine TV, che ha sede a Ramallah e – con l’importante eccezione di Gerusalemme – opera nei territori occupati.
Reporter Senza Frontiere ha descritto la vessazione nei confronti di Rinawi come “eccessiva e ingiustificata”.
Censura
Israele censura i palestinesi usando anche un’altra serie di strumenti.
Il Centro Palestinese per i Diritti Umani documenta la messa al bando di due giornali, al-Resalah e Palestine, pubblicati a Gaza ma stampati da al-Ayyam in Cisgiordania.
Nel maggio 2014, prima del sanguinoso assalto israeliano a Gaza dell’estate, le forze israeliane hanno fatto irruzione negli uffici di al-Ayyam a Beitunia, a ovest di Ramallah, per informare i proprietari che non avrebbero più avuto l’autorizzazione a stampare o distribuire alcun giornale che provenisse da Gaza.
Lo scorso novembre Israele ha prolungato di sei mesi la chiusura dell’ufficio di Palestine TV a Gerusalemme est, estendendo quello che in origine era un divieto di 12 mesi.
L’emittente era stata chiusa all’inizio per il crimine di trasmettere “contenuti anti-israeliani e anti-sionisti”. (Evidentemente Israele garantisce ai palestinesi il diritto di esprimersi sempre che non si tratti di ingratitudine per essere oggetto di pulizia etnica!)
I giornalisti palestinesi cittadini di Israele operano in un contesto caratterizzato sia da censura totale che da un’economia politica che agisce come forma di censura.
Quando Israele ha definito Al-Quds TV un’organizzazione “terrorista” a causa della sua adesione ad Hamas, lo Stato ha vietato alla rete di svolgere attività all’interno di Israele o in Cisgiordania. Una conseguenza è stata l’eliminazione di potenziali opportunità di lavoro per i giornalisti palestinesi che vivono in Israele.
Il giorno in cui è stato annunciato il divieto, la polizia israeliana ha convocato il personale di una società palestinese di produzione di media che forniva servizi alla TV Al-Quds e li ha interrogati per diverse ore.
Musawa è l’unico canale televisivo palestinese rivolto specificamente ai palestinesi all’interno di Israele. Ma è legato all’Autorità Nazionale Palestinese e, secondo un dipendente di Musawa, le critiche all’ANP non sono ammesse nelle trasmissioni.
Nel frattempo Makan, la versione in lingua araba dell’emittente nazionale israeliana Kan, impiega arabi e fornisce salari più alti e più risorse rispetto alle strutture arabe in Israele. Tuttavia a Makan parole come “occupazione” e “Nakba” sono proibiti.
La pratica della liberazione
Uccidere, mutilare, aggredire, imprigionare, minacciare e censurare i giornalisti palestinesi nella portata sopra descritta si sommano al sistematico tentativo israeliano di assicurarsi il controllo sulle narrazioni che circolano degli eventi nella Palestina storica.
Sembrerebbe che tali incessanti minacce ai mezzi di sostentamento, alla libertà, al benessere mentale e fisico e alla sopravvivenza dei lavoratori dei media palestinesi potrebbero avere l’effetto di un blocco. Eppure i palestinesi persistono nel produrre giornalismo di notevole quantità e qualità.
Il fatto che il loro lavoro continui non prova che Israele sia una democrazia che consente lo scambio aperto di idee e informazioni.
Suggerisce piuttosto che il giornalismo palestinese va compreso non solo come un modo di documentare i fatti su ciò che il sionismo significa per loro come popolo, ma anche come mezzo per aiutare a preservare proprio la possibilità di parlare dei palestinesi come popolo.
In questo senso il giornalismo palestinese è sia uno strumento nella lotta per la liberazione sia una pratica effimera ma viva che Israele, nonostante i suoi strenui sforzi, non è riuscita a spegnere.
Greg Shupak è autore di narrativa e analisi politica e insegna Media Studies e Inglese all’Università di Guelph-Humber. Ha scritto The Wrong Story: Palestine, Israel, and the Media [OR Books 2018, Una storia sbagliata: Palestina, Israele e i media, ndtr.]
(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)