Riprese di un drone sollevano dubbi sulla giustificazione israeliana per un attacco mortale contro giornalisti a Gaza

 

 Louisa Loveluck, Imogen PiperSarah CahlanHajar Harb e Hazem Balousha 

19 marzo 2024 – The Washington Post

Gerusalemme – Il 7 gennaio fuori da Khan Younis, nel sud di Gaza, l’esercito israeliano ha condotto un attacco mirato con un missile contro un’auto su cui viaggiavano quattro giornalisti palestinesi.

Due membri di una troupe di Al Jazeera, Hamza Dahdouh, 27 anni, e l’operatore di droni Mustafa Thuraya, 30 anni, sono stati uccisi insieme al loro autista. Due giornalisti freelance sono rimasti gravemente feriti.

Stavano tornando dal luogo di un precedente attacco israeliano contro un edificio, dove avevano utilizzato un drone per riprendere le conseguenze. Il drone, un modello base che si può trovare su Best Buy [principale rivenditore di elettronica degli USA, ndt.], sarebbe fondamentale per la giustificazione israeliana dell’attacco.

Il giorno dopo in una dichiarazione le Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndt.] hanno affermato di aver “identificato e colpito un terrorista che manovrava un velivolo che rappresentava un pericolo per i soldati delle IDF.” Due giorni dopo l’esercito ha annunciato di aver scoperto prove che entrambi gli uomini facevano parte di gruppi di miliziani, Thuraya di Hamas e Dahdouh del Jihad Islamico Palestinese, il suo rivale meno numeroso a Gaza, e che l’attacco era stato una risposta a una minaccia “imminente”.

Il Washington Post ha ottenuto e analizzato le riprese dal drone di Thuraya, che erano conservate in una scheda di memoria ritrovata sul posto e inviata a un’agenzia di produzione palestinese in Turchia. Nessun soldato israeliano, velivolo o altra attrezzatura militare è visibile nelle riprese di quel giorno, che il Post ha pubblicato integralmente, sollevando domande critiche sul perché i giornalisti siano stati presi di mira. Colleghi reporter hanno affermato di non essere stati a conoscenza di movimenti di truppe nella zona.

Interviste con 14 testimoni oculari dell’attacco e colleghi dei giornalisti uccisi offrono il racconto finora più dettagliato dell’incidente mortale. Il Post non ha trovato indicazioni che quel giorno i due uomini stessero agendo nella veste di qualcos’altro che giornalisti. Entrambi erano passati attraverso posti di controllo israeliani lungo il percorso verso sud all’inizio della guerra; Dahdouh recentemente aveva ottenuto il permesso di lasciare Gaza, un privilegio raro che è improbabile venga concesso a un miliziano noto come tale.

In risposta a molteplici richieste e domande dettagliate del Post l’esercito israeliano ha risposto: “Non abbiamo nient’altro da aggiungere.”

Il Post non potrebbe identificare altri esempi durante la guerra in cui giornalisti siano stati presi di mira dall’IDF per aver fatto volare droni, che sono stati usati in modo massiccio per riprendere le dimensioni della devastazione a Gaza.

Giornalisti locali hanno detto al Post che non ci sono indicazioni ufficiali sui droni da parte dell’esercito israeliano. Un altro ha detto di aver deciso di non usare il suo drone durante il conflitto, temendo che potesse essere preso a pretesto per un attacco israeliano.

In un comunicato Al Jazeera ha condannato l’“assassinio di Mustafa e Hamza” e si è impegnata a “prendere tutte le misure legali per perseguire i responsabili di questi crimini.”

Secondo il Comitato per la Protezione dei Giornalisti novanta reporter e altri operatori dei media sono stati uccisi in soli cinque mesi, il periodo più letale per la professione da quando l’associazione ha iniziato a raccogliere dati nel 1992.

“Dovrebbe spettare all’esercito israeliano indagare su quanto avvenuto” il 7 gennaio, ha detto a febbraio al Post Irene Khan, la relatrice speciale dell’ONU sulla promozione e la protezione del diritto alla libertà di opinione ed espressione.

“Non è sufficiente dire che ‘li abbiamo sospettati e quindi li abbiamo uccisi’,” ha affermato. “É molto facile dire questo in una situazione di guerra.”

I giornalisti

Dal 7 ottobre Israele ha impedito ai media stranieri di entrare nella Striscia di Gaza, tranne che a occasionali [reporter] inseriti nell’esercito il cui accesso è strettamente controllato. Per capire il conflitto il mondo si è basato su centinaia di giornalisti palestinesi.

Il più famoso è stato Wael Dahdouh, padre di Hamza e caporedattore di Al Jazeera a Gaza, la cui tenacia di fronte a una tragedia personale è stata di esempio in tutto il mondo arabo.

Il 28 ottobre Wael ha interrotto la diretta quando ha scoperto che sua moglie, il figlio Mahmoud e la figlia Sham, fratelli di Hamza, e un nipote erano stati uccisi nella loro casa da un attacco aereo israeliano. Il suo collega più vicino, il cameraman di Al Jazeera Samer Abu Daqqa, è morto il 15 dicembre per le ferite riportate dopo un attacco israeliano con i droni, in cui anche Wael è rimasto ferito.

Hamza ha raggiunto la redazione di Al Jazeera a Gaza durante il conflitto, lavorando come assistente cameraman e produttore sul campo, dice suo padre.

Thuraya era un freelance molto noto, forniva foto e immagini con il drone ad Al Jazeera così come all’Agence-France Presse, alla Reuters e a Getty Images. Secondo Shadi al-Tabatibi, 30 anni, collega giornalista nell’enclave, in precedenza aveva lavorato per circa cinque anni come fotografo per il ministero delle Fondazioni Religiose, parte del governo di Gaza guidato da Hamas. Non è chiaro quando sia terminato il suo contratto.

Secondo molti amici e colleghi intervistati dal Post, sia Dahdouh che Thuraya avevano lasciato Gaza City, il fulcro originario dell’operazione militare israeliana, alla fine di ottobre lungo una strada per l’evacuazione di civili indicata dall’esercito israeliano.

Gli uomini hanno vissuto in tende per più di due mesi con altri giornalisti nella città di Rafah, una zona vicina al confine con l’Egitto, dove hanno cercato rifugio circa 1.4 milioni di palestinesi sfollati. I giornalisti raccontano che stendevano i loro materassi su assi di legno per isolare i propri letti dal freddo e viaggiavano sul luogo dei bombardamenti aerei e altri attacchi in gruppo, convinti che fosse più sicuro essere in tanti.

Il 6 gennaio, alla vigilia della loro morte, Dahdouh e Thuraya avevano condiviso il pasto con dei colleghi. “È stata una cena semplice, ma piena di calore,” afferma Adli Abu Taha, 33 anni, un cameraman di Al-Kufiya TV. Thuraya ha parlato per telefono con la moglie e tre figlie, ricorda Tabatibi, promettendo che sarebbe andato presto a trovarle.

La missione

Secondo , Amer Abu Amr, un fotografo del canale televisivo Palestine Today anche lui presente sul posto quel giorno, il 7 gennaio i giornalisti si sono svegliati con la notizia di un attacco aereo contro la casa della famiglia Abu al-Naja, a sud di Khan Younis. In seguito l’esercito israeliano ha descritto la casa come un ufficio del Jihad Islamico Palestinese.

Un post sulle reti sociali suggerisce che almeno quattro persone sono state uccise nell’attacco e che alcuni dei morti e feriti erano già stati portati in ospedale.

Ma con altri corpi che si pensava fossero sotto le macerie, da Rafah si sono diretti sul posto almeno 11 giornalisti, tra cui Dahdouh, Thuraya e i reporter freelance Muhammad al-Qahwaji e Hazem Rajab. Secondo i metadati dei video che ha filmato quel giorno, Thuraya ha fatto volare un drone alle 10,39.

Il Post ha ottenuto le riprese dalla sede di Media Town production a Istanbul, che aveva sub-contrattato il lavoro di Thuraya per Al Jazeera e altri clienti. I video mostrano reporter vestiti di blu che osservano una massa di cavi contorti e cemento. Dei bambini stanno a guardare mentre degli uomini tirano fuori dei corpi. Lavoratori della difesa civile stendono lenzuoli sui morti e li portano via.

Le immagini includono 38 clip e durano poco più di 11 minuti. Ogni tanto si vede Thuraya che guarda il comando del suo drone e che lascia lo schermo ad altri colleghi. Zooma due volte, brevemente, mostrando il panorama a nordovest e sudovest dell’edificio danneggiato, circa un kilometro e mezzo in ogni direzione. Nelle immagini non si vedono soldati israeliani, velivoli o altri apparati militari.

Su richiesta del Post due analisti hanno visionato immagini satellitari disponibili dell’area prese il 7 gennaio da Planet Labs ed Airbus [società che forniscono immagini satellitari del pianeta, ndt.], che coprono un raggio di circa 2 kilometri da dove è stato lanciato il drone. Nessuno degli esperti ha visto prove di presenza militare o attività di miliziani. William Goodhind, un ricercatore open-source [pratica di condivisione aperta dei dati, ndt.] di Contested Ground, un progetto di ricerca che traccia i movimenti militari in immagini satellitari, afferma di non aver trovato alcun segno di “veicoli blindati, camion militari, fortificazioni, barricate e/o punti di lancio di razzi e mortai.” Ha identificato un posto di polizia a circa 800 metri a nord ovest dal lancio del drone, ma afferma che non è chiaro se fosse ancora in funzione.

Preligens, una ditta di intelligenza artificiale geospaziale, ha inserito le immagini satellitari del 7 gennaio fornite dal Post nel suo rilevatore AI di veicoli e non ne ha trovato nessuno blindato in un perimetro di circa 16 km2.

Il drone di Thuraya era un Mavic 2 disponibile in commercio, costruito dalla ditta cinese DJI, più o meno delle dimensioni di una tipica scatola da scarpe ma più sottile. I metadati mostrano che Thuraya ha smesso di riprendere alle 10.55.

Secondo Amr, che afferma che lui e il suo collega Ahmed al-Bursh sono stati feriti da schegge, un secondo attacco ha colpito il luogo alle 11.01. Bursh era piegato in due dal dolore quando è salito su un’ambulanza della Mezzaluna Rossa, come si osserva in un video filmato da Amr, che lo ha raggiunto nell’ambulanza ed ha ripreso la maggior parte del loro viaggio.

“L’ho fatto per paura,” dice. “Temevo che saremmo stati presi di mira.”

Anche Thuraya, Dahdouh, Qahwaji, Rajab e il loro autista, il ventiseienne Qusay Salem, che non erano stati feriti nel secondo attacco, se ne sono andati dal luogo. Qualche minuto dopo un video dell’IDF mostra un drone militare che intercetta il loro veicolo, che viaggia appena dietro l’ambulanza. Il suono dell’esplosione è colto nella ripresa di Amr dal finestrino posteriore dell’ambulanza approssimativamente alle 11.10.

Altri video di testimoni mostrano le orribili conseguenze: Thuraya e Salem sono dilaniati dall’attacco. Qahwaji è a terra e perde molto sangue, mentre i medici si affannano per mettere insieme una barella per lui. Il volto del freelance è ustionato e la sua mandibola è squarciata. Rajab ha gravi ustioni e ha perso l’uso di un occhio.

All’obitorio un Wael distrutto dal dolore stringe la mano di suo figlio e gli mormora dolcemente. Abbraccia la moglie di Hamza, Wafaa, mentre lei appoggia il volto sul petto del marito. La moglie di Thuraya, Soraya, nasconde la testa nel cuscino e piange.

Quella notte in una conferenza stampa a Doha, la capitale del Qatar, il segretario di Stato Antony Blinken ha descritto l’uccisione come una “perdita impensabile”. Come genitore non avrebbe potuto “immaginare l’orrore” che Wael stava provando “non una, ma ora due volte.” Il Dipartimento di Stato ha rifiutato di fornire ulteriori commenti.

Una storia mutevole

La notte dell’attacco è iniziata una lotta di narrazioni. L’esercito israeliano ha affermato in un comunicato che il suo velivolo aveva “identificato e colpito un terrorista che stava manovrando un velivolo che rappresentava una minaccia per i soldati dell’IDF.”

Il giorno successivo il portavoce dell’esercito israeliano Daniel Hagari è sembrato fare marcia indietro: “Ogni giornalista che muore, dispiace,” ha detto alla NBC, affermando che il drone li aveva fatti sembrare “terroristi”.

In un nuovo comunicato il 10 gennaio l’esercito israeliano ha affermato che il drone rappresentava una “minaccia imminente” per i soldati che si trovavano nei pressi, benché l’attacco sia avvenuto circa 15 minuti dopo che Thuraya aveva smesso di filmare. Il Post ha condiviso con l’esercito israeliano le immagini di Thuraya e chiesto se poteva identificare un qualunque momento in cui il drone avesse rappresentato una minaccia per le sue truppe. “Non abbiamo nient’altro da aggiungere”, hanno affermato le IDF.

Il comunicato del 10 gennaio sostiene anche che l’intelligence militare israeliana ha confermato che Dahdouh e Thuraya erano membri rispettivamente del PIJ e di Hamas.

La giustificazione dell’esercito israeliano per l’attacco risponde “a un modello di risposte che abbiamo rilevato anche prima di questa guerra,” afferma Sherif Mansour, coordinatore del programma Medio Oriente e Nord Africa del Comitato per la Protezione dei Giornalisti. “Evitare di prendersi le responsabilità, lanciare accuse di terrorismo contro i giornalisti” e affermare che “erano in una posizione che minacciava le posizioni israeliane sul terreno.”

Giornalisti locali affermano che Israele non ha emanato nessun divieto o restrizione ufficiale sui droni, che descrivono come strumenti molto utili per trasmettere l’entità delle distruzioni provocate dalla guerra. Ma anche prima del 7 gennaio un giornalista esperto era giunto alla conclusione che le riprese non valevano il rischio.

Suliman Hijji, un video-operatore che lavora nella zona di Rafah, ha deciso all’inizio della guerra che avrebbe lasciato a terra il suo drone.

“L’uso di velivoli attira l’attenzione e può rendere le persone obiettivi vulnerabili,” afferma.

Un giornalista freelance di Gaza che ha lavorato per media internazionali, parlando in forma anonima per ragioni di sicurezza, sostiene di aver ricevuto un “avvertimento generico” da un ufficiale israeliano: “L’ufficiale mi ha detto di non espormi al pericolo e non far volare droni.”

Da quando Thuraya e Dahdouh sono stati uccisi “nessuno osa far volare un drone,” afferma Anat Saragusti, direttore per la libertà di stampa dell’Unione dei Giornalisti di Israele.

L’esercito israeliano non si è pronunciato sulla sua politica riguardo ai droni dei giornalisti a Gaza.

Il comunicato del 10 gennaio fa riferimento anche a un documento datato giugno 2022 con il logo e il nome delle Brigate Al-Quds, ala militare del PIJ. Il nome di Dahdouh compare di fianco alla cifra di 224 dollari. Nella dichiarazione l’esercito israeliano cita un secondo documento che definirebbe Thuraya come un vice comandante di squadrone del battaglione al-Qadisiyyah della brigata di Gaza City di Hamas, ma non ha reso pubblico il documento e non ha risposto alle numerose richieste di esaminarlo.

L’esercito israeliano ha anche rifiutato di rispondere ad altre domande relative ai documenti, tra cui quando fossero stati trovati e se la loro scoperta fosse legata all’attacco pianificato del 7 gennaio.

Michael Milshtein, ex-capo del dipartimento per gli affari palestinesi dell’intelligence militare delle IDF, afferma di non sapere se il documento con il nome di Dahdouh sia autentico, ma che esso segue “il formato standard di un documento del PIJ.”

“Penso davvero che se il portavoce dell’esercito lo ha reso pubblico sia autentico,” aggiunge. Altri esperti sono dubbiosi.

Potrebbe essere autentico, ma niente di quanto finora ha fornito l’esercito israeliano lo conferma,” sostiene Erik Skare, storico e ricercatore post-dottorato dell’università di Oslo che ha scritto un libro sulla storia del PIJ. Afferma che l’uso del linguaggio, soprattutto i nomi di zone geografiche, è inusuale, così come la mescolanza di testo in inglese e arabo in un documento presumibilmente pensato per uso interno.

Al Jazeera ha respinto le accuse contro i suoi reporter, definendole “un tentativo di giustificare l’uccisione e il fatto di prendere di mira giornalisti.”

Amici e familiari dei reporter uccisi evidenziano che nelle settimane precedenti alla loro morte erano stati sottoposti a controlli di sicurezza da parte dell’esercito israeliano. Entrambi avevano attraversato checkpoint da Gaza City per raggiungere il sud. Dicono che Dahdouh aveva ottenuto il permesso di andarsene da Gaza.

Secondo suo padre e un ufficiale intervistato sul suo caso, che ha parlato in condizione di anonimato trattandosi di un argomento sensibile, sei settimane dopo la morte di sua madre e di due fratelli e poco prima della sua morte, Dahdouh era stato autorizzato a lasciare l’enclave bloccata.

Un permesso di sicurezza probabilmente avrebbe richiesto l’approvazione del COGAT, un ente del ministero della Difesa israeliano che autorizza chi può entrare e uscire da Gaza. Il Post ha fornito al COGAT il nome e il numero della carta d’identità di Dahdouh per ricevere conferma se aveva l’autorizzazione ad andarsene, ma non ha ottenuto risposta.

Khan, la relatrice speciale dell’ONU, sostiene che è urgentemente necessaria un’indagine sulle uccisioni. “Se sono stati in grado di fornire così tante informazioni sicuramente ne hanno molte di più,” dice. “Hanno la responsabilità di controllare e di vedere se sono stati fatti degli errori.”

Wael Dahdouh ha lasciato Gaza il 17 gennaio per essere curato delle ferite ma ha giurato di tornare a informare. Altri giornalisti da allora sono scappati dall’enclave o hanno smesso di fare il loro lavoro, nel timore di poter essere i prossimi [a venire uccisi].

Piper e Harb hanno informato da Londra, Cahlan da Washington e Balousha da Amman, Giordania.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




CPJ: Israele “non si assume alcuna responsabilità” per l’uccisione di giornalisti

AL JAZEERA

9 maggio 2023 – Aljazeera

L’impunità dell’esercito israeliano nell’uccisione di almeno 20 giornalisti negli ultimi 20 anni mina “gravemente” la libertà di stampa, afferma il rapporto del CPJ.

Il Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ) afferma in un nuovo duro rapporto che l’esercito israeliano non si è assunto alcuna responsabilità per l’uccisione di almeno 20 giornalisti, 18 dei quali palestinesi, negli ultimi 20 anni.

Nel suo rapporto, Deadly Pattern, pubblicato martedì, questa organizzazione a tutela della libertà di stampa dichiara di aver riscontrato “uno schema sistematico nelle uccisioni di giornalisti da parte [dell’esercito israeliano]”.

“Nessuno è mai stato accusato o ritenuto responsabile di queste morti… minando con ciò gravemente la libertà di stampa”, aggiunge.

Il CPJ afferma che i palestinesi costituiscono l’80% dei giornalisti e degli operatori dei media uccisi dall’esercito israeliano.

Queste cifre riflettono in parte l’andamento generale del conflitto israelo-palestinese; secondo i dati delle Nazioni Unite negli ultimi 15 anni i sono stati uccisi 21 volte più palestinesi che israeliani, aggiunge il rapporto.

Inoltre il rapporto evidenzia che “gli ufficiali israeliani sminuiscono le prove e le affermazioni dei testimoni, e spesso sembrano scagionare i soldati per le uccisioni mentre le indagini sono ancora in corso”, e aggiunge che le indagini dell’esercito israeliano sulle uccisioni sono una “scatola nera”, con risultati tenuti segreti.

Nello svolgimento delle indagini l’esercito israeliano spesso impiega mesi o anni per investigare sugli omicidi, e le famiglie dei giornalisti, per lo più palestinesi, hanno poche risorse all’interno di Israele per perseguire la giustizia”, afferma il CPJ.

Hagai El-Ad, direttore esecutivo dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, afferma nel rapporto che l’esame da parte di Israele delle azioni dei suoi soldati è meno seria di una “rappresentazione teatrale di un’indagine”.

Vogliono renderla credibile. Eseguono gli atti, le procedure richiedono molto tempo, molte scartoffie”, riferisce a CPJ. “Ma alla fine … è l’impunità quasi totale per le forze di sicurezza”.

Il rapporto afferma che le organizzazioni per i diritti umani hanno costantemente sollevato preoccupazioni circa “la… lentezza di queste valutazioni totalmente riservate, che possono trascinarsi per mesi o anni”, durante le quali “i ricordi dei testimoni svaniscono, le prove possono scomparire o essere distrutte e i soldati coinvolti possono far coincidere le testimonianze”.

L’uccisione di Shireen Abu Akleh

Il rapporto arriva due giorni prima del primo anniversario dell’uccisione della giornalista veterana di Al Jazeera Shireen Abu Akleh da parte di un proiettile israeliano alla testa mentre l’11 maggio 2022 conduceva un reportage su un raid militare israeliano nella città occupata di Jenin in Cisgiordania.

Nel settembre 2022 un’indagine congiunta di Forensic Architecture, organizzazione di ricerca multidisciplinare, e dell’organizzazione per i diritti dei palestinesi Al-Haq ha rivelato che le prove confutavano la versione di Israele secondo cui Abu Akleh sarebbe stata uccisa per “errore”.

L’inchiesta ha esaminato l’angolo di tiro del cecchino israeliano e ha concluso che era in grado di vedere chiaramente che in quel luogo c’erano i giornalisti. Ha anche escluso la possibilità che in quel momento ci fossero degli scontri tra forze israeliane e palestinesi, che avrebbero potuto dar luogo ad un fuoco incrociato.

Secondo l’inchiesta, per la quale Al Jazeera ha fornito del materiale, il cecchino israeliano ha sparato per due minuti e ha preso di mira coloro che cercavano di soccorrere Abu Akleh.

I risultati sono arrivati lo stesso giorno in cui la famiglia della giornalista palestinese americana di 51 anni ha formalmente presentato una denuncia ufficiale alla Corte Penale Internazionale (CPI) chiedendo giustizia per la sua uccisione.

Israele ha dichiarato a settembre che c’era una “alta possibilità” che Abu Akleh fosse stata “accidentalmente colpita” dal fuoco dell’esercito israeliano, ma ha aggiunto che non avrebbe avviato un’indagine penale.

“Mancato rispetto” della stampa cercando di imporre false narrazioni

Come Abu Akleh, che quando è stata uccisa indossava un casco e un giubbotto protettivo blu con la scritta “Press”, la maggior parte dei 20 giornalisti uccisi al momento della loro morte erano “chiaramente identificabili come membri dei media o si trovavano all’interno di veicoli con insegne della stampa, si legge nel rapporto.

Il rapporto afferma anche che dopo che un giornalista viene ucciso dalle forze di sicurezza israeliane gli ufficiali israeliani “spesso inviano ai media una contro-narrazione” nel tentativo di allontanare ogni responsabilità dai loro soldati.

Il CPJ ha sottolineato che nel caso di Abu Akleh gli ufficiali israeliani hanno iniziato a incolpare dei palestinesi nonostante i testimoni e il ministero della salute palestinese affermassero che era stata uccisa dalle truppe israeliane. Israele ha anche accusato alcuni giornalisti palestinesi uccisi dai suoi sodati di “attività terroristica e militante”.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)