Gli italiani ci hanno regalato un sorriso a Gaza

Eman Abu Zayed

Scrittrice palestinese di Gaza

28 settembre 2025 – Al Jazeera

 

Lunedì scorso ero per strada a Nuseirat, nel centro della Striscia di Gaza, cercando di prendere la linea internet, qualcosa che è diventato quasi impossibile a Gaza. La nostra casa era stata appena bombardata per la terza volta nel corso della guerra ed eravamo stati costretti a fuggire per la decima volta. Avevo di nuovo perso tutto.

Il mio cuore era pieno di angoscia e tutto intorno a me mi ricordava la perdita che ci aveva colpiti.

Quando finalmente sono riuscita a connettermi il mio telefono è stato inondato da video, foto e messaggi audio dall’Italia. Ho visto masse di gente in marcia nelle strade, sventolando bandiere palestinesi e inneggiando insieme per la nostra libertà. Ho visto piazze piene di striscioni con la scritta “Fermare la guerra” e “Palestina libera” e volti che mostravano un misto di rabbia e speranza. Cercavano di mandarci un messaggio: vi ascoltiamo, siamo con voi.

Ho provato un’immensa gioia.

Era la prima volta che vedevo manifestazioni pro Palestina di questa grandezza ed impatto. I sindacati di base italiani avevano convocato uno sciopero di 24 ore e gli italiani hanno risposto in massa. In più di 70 città italiane le persone sono scese in piazza per dimostrarci che si preoccupano per Gaza, che sostengono la nostra causa, che vogliono una fine immediata del genocidio.

Non si trattava di una nazione musulmana o a maggioranza araba: si trattava di un Paese occidentale, il cui governo rifiuta di riconoscere uno Stato palestinese e continua a sostenere Israele. Eppure il popolo italiano ha marciato per noi per esprimere la sua solidarietà.

Questa mobilitazione dimostra che la solidarietà per i palestinesi non si limita a chi ci è vicino per lo stesso retroterra culturale, ma si estende alle persone di tutto il mondo, anche in luoghi dove le elite politiche continuano a sostenere Israele.

A Gaza queste immagini della solidarietà italiana si diffondono di telefono in telefono, portando un raggio di speranza tra le macerie, la fame e le bombe. La gente ha trasmesso questi video sulle chat, guardando con stupore le masse italiane. Queste immagini e questi video hanno dipinto un raro sorriso su tanti volti palestinesi. Si è insinuata la sensazione che non siamo completamente abbandonati, che il mondo esterno si sta mobilitando per fermare la guerra.

Durante la scorsa settimana ho anche seguito da vicino la Sumud Flotilla che si stava dirigendo verso Gaza. Il governo italiano ha fatto enormi pressioni sulla delegazione di 50 cittadini italiani perché desistessero. La maggioranza di loro ha rifiutato e ora sono a bordo di diverse navi che si dirigono verso di noi.

Sono anche stata in grado di comunicare con alcuni giornalisti a bordo della nave, che mi hanno detto parole piene di incoraggiamento e speranza, assicurandoci che non siamo soli e che c’è chi continua a lottare per noi, nonostante le distanze e i rischi.

Le manifestazioni e la flotilla non sono state il solo raggio di speranza che mi ha raggiunta dall’Italia. A giugno, dopo aver letto alcuni miei articoli, due italiani, Pietro e Sara, e Fadi, un palestinese che vive in Italia, mi hanno aiutata.

Il loro sostegno non si è limitato alle parole, è stato tangibile. Mi hanno aiutata a diffondere i miei scritti in modo che raggiungessero più persone. Inoltre mi hanno costantemente seguita, chiedendomi di me e della mia famiglia e inviandomi messaggi di speranza e incoraggiamento.

Ad agosto con l’aiuto dei miei amici sono riuscita a pubblicare la mia storia personale sul quotidiano italiano Il Manifesto, condividendo la nostra sofferenza e resilienza con migliaia di lettori.

Prima della guerra non conoscevo molto dell’Italia. Sapevo che è un bel Paese con una storia interessante e una popolazione amichevole. Ma non mi sarei mai aspettata di vedere gli italiani mobilitarsi per la Palestina, scendendo in piazza in tantissimi per sostenerci.

Oggi provo ammirazione e stima per gli italiani. La loro partecipazione alle manifestazioni, il loro appoggio personale e il loro ruolo in iniziative come la Sumud Flotilla mi hanno davvero fatto sentire che la nostra causa non è lontana dal cuore delle persone di tutto il mondo, che la solidarietà internazionale non è fatta solo di parole, ma di azioni concrete.

Spero di vedere manifestazioni simili in altri paesi, per sentire che il resto del mondo vede davvero la nostra sofferenza e sostiene il nostro diritto alla vita, alla libertà e alla dignità.

Al popolo italiano e a tutti gli altri che si mobilitano per Gaza voglio dire: vi vediamo, vi sentiamo, voi riempite di gioia i nostri cuori.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

Eman Abu Zayed è una scrittrice palestinese di Gaza e una studentessa in traduzioni

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Gaza, la guerra alle porte

Michele Giorgio

18 ottobre 2018, Il Manifesto

Gaza/Israele. Presieduto dal premier Netanyahu, il Consiglio di difesa israeliano si è riunito ieri per decidere come rispondere al lancio da Gaza di un razzo Katiusha contro Beersheba dove ha distrutto una abitazione civile.

Non ci sono altre interpretazioni possibili. Il rinvio del viaggio del capo dell’intelligence egiziana Abbas Kamel, atteso oggi a Gaza, indica che l’offensiva israeliana è lì, alle porte della Striscia. L’unica incertezza è quando. Qualcuno l’attendeva già la scorsa notte, quando l’oscurità è scesa carica di tensione e paura su Gaza e le aree circostanti. Gli oltre duemila morti del 2014 sono un ricordo sempre molto vivo. La risposta, una ventina di raid aerei che hanno fatto un morto e tre feriti tra i palestinesi, data ieri dal governo Netanyahu al lancio martedì notte di un razzo Katiusha a medio raggio che ha colpito e distrutto in buona parte una abitazione di Beersheba, con una madre e i suoi tre figli che si sono salvati per un soffio, è giudicata insufficiente dall’opinione pubblica. Gli israeliani chiedono un’azione di forza, un colpo devastante. Nemmeno considerano che la tensione e le manifestazioni lungo le linee di demarcazione con Gaza sono il risultato inevitabile di una situazione insostenibile, da un punto di vista umanitario e politico, per due milioni di palestinesi che vivono come prigionieri, sotto embargo da oltre dieci anni, in meno di 400 chilometri quadrati di terra.

Con le elezioni sempre più all’orizzonte, nessun esponente politico israeliano vuole apparire debole nei confronti dei palestinesi e sulle questioni di sicurezza. A maggior ragione quando c’è il ministro della difesa Lieberman, uno dei rivali più insidiosi del premier Netanyahu Netanyahu, ad invocare un “colpo duro” al movimento islamico Hamas che controlla Gaza, unica via, afferma, per riportare la calma. «Israele agirà con tutta la sua forza» ha perciò proclamato il primo ministro durante la visita ieri nelle aree a ridosso di Gaza. «Guardiamo con grande severità agli attacchi alla frontiera, a Beersheba, ovunque. Se gli attacchi non finiranno – ha avvertito – gli metteremo noi fine». Poi nel tardo pomeriggio Netanyahu ha presieduto una riunione del Consiglio di difesa mentre dall’Unione europea e dall’inviato dell’Onu Nikolay Mladenov giungevano messaggi di solidarietà a Israele e di condanna del lancio del razzo palestinese.

La guerra però a questo punto la vuole anche Hamas malgrado il comunicato emesso assieme al Jihad in cui indirettamente condanna il lancio del razzo contro Beersheba. Un giornalista di Gaza, ben introdotto ai vertici del movimento islamico, sostiene che non ci sarebbe alcun mistero intorno a chi ha sparato il Katiusha. «Occorre tenere conto dello stato dei leader di Hamas – ci ha spiegato il giornalista – hanno cercato un accordo di tregua a lungo termine con Israele, l’hanno fatto per tutta l’estate senza riuscirci. Hanno intensificato le proteste popolari al confine per fare pressione, ancora una volta senza risultato mentre tanti manifestanti venivano uccisi». Ora, ha aggiunto, i vertici di Hamas si sono convinti che solo una nuova escalation militare potrà indurre Netanyahu ad accettare un’intesa in più punti che metta fine o almeno allenti il blocco israeliano. Un grande conflitto può portare a novità positive nei periodi di tregua». Secondo il giornalista di Gaza «Hamas non ha rivendicato l’attacco a Beersheba ma quel razzo, più potente di quelli soliti, è negli arsenali della sua ala armata e non di organizzazioni minori. Colpire Beersheba è stata una una dimostrazione di forza, un messaggio chiaro per gli israeliani: se non volete la tregua allora si farà la guerra e anche voi soffrirete».

Sullo sfondo ci sono anche le manovre dell’Autorità nazionale palestinese. Il presidente Abu Mazen è apertamente contrario ad una tregua separata tra Hamas e Israele. In questi mesi ha fatto di tutto per impedirla arrivando a dichiarare persona non grata Mladenov dell’Onu perché impegnato nelle attività di mediazione, assieme all’Egitto. La trattativa esclude totalmente l’Anp e il presidente la considera un tentativo mascherato di dividere per sempre Gaza dalla Cisgiordania, in linea con quello che prevederebbe il piano di pace Usa non ancora reso pubblico (il mediatore Usa Jason Greenblatt nega che l’iniziativa americana punti a separare i territori palestinesi). Per colpire Hamas, Abu Mazen non ha esitato nell’ultimo anno e mezzo a tagliare gli stipendi dei dipendenti pubblici, a varare sanzioni e ad attuare forme di boicottaggio economico che hanno soltanto reso più difficile la vita alla popolazione civile palestinese e scalfito appena la solidità del potere dei rivali islamisti.