Milizia privata e controllo poliziesco a distanza: Israele sta incrementando la repressione contro i palestinesi

Ameer Makhoul

4 ottobre 2022 – Middle East Eye

Le recenti iniziative da parte delle autorità israeliane su entrambi i lati della Linea Verde segnalano una strategia coordinata di divide e impera.

La Linea Verde esiste indipendentemente da quello che ne pensa la politica israeliana. Le politiche per la sicurezza nazionale non finiscono al suo confine, che Israele cancella ogni giorno attraverso le sue pratiche.

Varie recenti iniziative da parte delle autorità israeliane su entrambi i lati della Linea, compresa la creazione di una forza di polizia privata a Beersheba [nel sud di Israele, ndt.], la minaccia che le reti sociali potrebbero essere bloccate durante i futuri conflitti e l’installazione di un sistema di controllo da remoto per disperdere la folla a Hebron, dimostrano come le strutture militari e civili israeliane siano il prodotto di una stessa logica unitaria.

Iniziando da Beersheba, la decisione del Comune di pagare imprese di vigilanza private per collaborare al controllo poliziesco che costano decine di milioni di shekel all’anno [1 shekel = 0,29 €, ndt.], richiama l’annuncio di questa estate da parte dell’ex-primo ministro Naftali Bennett riguardo alla formazione di una “guardia nazionale civile” per lottare contro il “terrorismo”. Bennett è rapidamente scomparso dalla scena politica, ma la sua eredità repressiva continuerà a incombere pesantemente sui palestinesi.

La guardia nazionale, un organismo parallelo alla polizia israeliana, includerà una componente di volontari, sollevando dubbi su quale tipo di misure di supervisione e responsabilizzazione saranno messe in campo. Persino nei confronti delle forze di polizia israeliane ufficiali le sanzioni sono penosamente carenti, raramente gli agenti vengono puniti per la violenza che scatenano contro i civili palestinesi.

Inaugurato questo mese, il nuovo organismo della sicurezza a Beersheba, che a quanto si dice sarà guidato dall’amministrazione comunale in collaborazione con il ministero della Sicurezza interna di Israele, verrà finanziato dai contribuenti. Il costo del programma viene stimato a circa 27 milioni di shekel (circa 8 milioni di euro) all’anno e gli abitanti arabo-palestinesi saranno obbligati a sostenere parte di questi costi attraverso le tasse che pagano.

Razzismo e aggressioni

L’uso della polizia privata solleva molte preoccupazioni. Durante la rivolta del maggio 2021 milizie armate hanno dimostrato un razzismo e un’aggressività estremi, intrisi da una generale ostilità verso la presenza araba e un concetto distorto in base al quale gli arabo-palestinesi sono la causa fondamentale dei crimini e del caos nel Paese.

Alcuni recenti rapporti hanno sostenuto che la nuova forza di polizia di Beersheba includerà membri di Im Tirtzu, una ong che lavora per “rafforzare i valori del sionismo in Israele”. Sulla stessa linea l’Israel Cities Association [Associazione delle Città di Israele], recentemente formata, ha il compito di “rafforzare la resilienza della comunità e la sicurezza personale e pubblica nelle città coinvolte” ed essere pronta in caso di “crisi e minacce alla sicurezza”, un velato riferimento al rafforzamento della difesa ebraica contro presunte aggressioni da parte degli arabi.

All’indomani della rivolta del maggio 2021, l’associazione ha pubblicato un rapporto in cui afferma che i dirigenti palestinesi avevano alimentato il conflitto, attribuendo la maggior parte della responsabilità all’High Follow-Up Committee for Arab Citizens of Israel [Alto Comitato di Monitoraggio per i Cittadini Arabi di Israele], un’organizzazione collettiva dei cittadini palestinesi di Israele.

Sul fronte delle reti sociali, recentemente il commissario della polizia israeliana Kobi Shabtai ha proposto che, in caso di futuri scontri violenti, le reti di social media dovrebbero essere bloccate. Lo Stato e i suoi apparati aggressivi sembrano essere preoccupati di reprimere i palestinesi. Allo stesso tempo le dichiarazioni di Shabtai rappresentano un chiaro riconoscimento del trionfo dei media e delle piattaforme comunicative diffusi tra i palestinesi sul sistema razzista dei mezzi di informazione israeliani.

Evitare la responsabilizzazione

Riguardo al terzo sviluppo, secondo un reportage di Haaretz il sistema per disperdere la folla controllato da remoto a Hebron consentirà di sparare in modo automatico granate stordenti, lacrimogeni e proiettili ricoperti di gomma. “Il sistema, ancora nella sua fase sperimentale, è stato installato in via Shuhada, sopra un posto di controllo in una zona che nel passato è stata il punto focale di manifestazioni e scontri tra i palestinesi e i soldati israeliani,” nota l’articolo.

Per l’esercito israeliano ciò assicura due cose fondamentali: la possibilità di proteggere le vite dei soldati occupanti evitando scontri fisici diretti e di eliminare rapidamente i militanti della resistenza palestinese premendo un bottone. Serve anche come deterrente per i giovani palestinesi, rafforzando la sensazione di essere osservati e monitorati in ogni momento.

In effetti Hebron è diventata un laboratorio in cui vengono testate sui civili palestinesi tecnologie letali prima che siano utilizzate in modo più generalizzato nel resto del Paese e all’estero, attraverso i rapporti commerciali con regimi amici di Israele.

Tutte le iniziative summenzionate sono parte di una strategia coordinata con cui le forze israeliane stanno tentando di evitare il controllo a livello internazionale e la responsabilizzazione a livello personale per le continue violazioni contro i palestinesi.

Mentre cerca di frammentare i palestinesi tra Gaza, la Cisgiordania occupata e i territori del 1948 [cioè lo Stato di Israele, ndt.], Israele sta tentando di colpire tutti questi fronti simultaneamente per impedire la loro ulteriore integrazione. Ciò dimostra il desiderio da parte di Israele di un’escalation aggressiva. Ma al popolo palestinese, che, nonostante la sua vacillante dirigenza politica, continua a sfidare l’oppressione israeliana e a resisterle, resta un barlume di speranza.

Le opinioni espresso in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ameer Makhoul è un importante attivista e scrittore palestinese della comunità palestinese del ’48 [cioè con cittadinanza israeliana, ndt.]. È l’ex-direttore di Ittijah, una ong palestinese in Israele. È stato incarcerato da Israele per 10 anni.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Paradossalmente è la destra israeliana a riconoscere la Nakba palestinese

Yehouda Shenhav-Shahrabani

13 dicembre 2021 – Haaretz

Alla fine qui sta succedendo che gli arabi hanno dimenticato la Nakba. È tempo di ricordargliela”

Un interessante voltafaccia nel riconoscere la Nakba (“catastrofe”) è arrivato questa settimana da un giornalista di nome Itamar Fleischman, ex portavoce del primo ministro Naftali Bennett. Durante un programma televisivo su Canale 14 Fleischman ha detto quanto segue: “Alla fine quello che sta succedendo adesso è che gli arabi hanno dimenticato la Nakba. Ed è giunto il momento di iniziare a ricordargliela, la Nakba”.

Anche se i termini sono invertiti (“Gli arabi hanno dimenticato… e bisognerebbe ricordarglielo”), non capita tutti i giorni che un ebreo sionista salti su e riconosca con tanta franchezza la tragedia palestinese.

Anche se la Nakba è il buco nero nella costituzione dello Stato di Israele, e sebbene il riconoscimento della Nakba sia una condizione per la convivenza, lo Stato sovrano di Israele la nega ancora risolutamente. Con la macchina della memoria nazionale e con i suoi rappresentanti culturali, la discussione sulla Nakba resta sotto chiave: ogni tentativo di tornarci è bloccato da una barriera di tabù, e le “strategie di accesso” a una discussione critica sulla Nakba sono interdette.

I libri di testo del sistema scolastico non comprendono il riconoscimento della Nakba e offrono una prospettiva storica superficiale, che ha istruito generazioni di studenti israeliani ad una sistematica ignoranza. La storia della Nakba è anche confusa dalla percezione del governo e del pensiero politico rappresentato dal modello di “Stato ebraico e democratico” che comporta spiegazioni tortuose (“Hanno iniziato gli arabi”, “Non accettarono il Piano di Partizione [della Palestina, elaborato dall’UNSCOP (United Nations Special Committee on Palestine) e approvato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1947; assegnava il 56% della Palestina ad Israele, ndtr.]”, “Non hanno perso occasione”, “I loro capi gli ordinarono di fuggire”).

Il motivo di questa radicale negazione è che rappresenta lo scheletro nell’armadio di Israele, scheletro che minaccia di diventare pubblico e di sconvolgerne l’immagine virtuosa e corretta. La negazione della Nakba è il pilastro del governo israeliano, e gli scheletri che tiene nell’armadio sono la pulizia etnica del 1948, i massacri, la distruzione di villaggi e città e il furto di terre e proprietà palestinesi.

La stessa parola, Nakba, come descrizione della tragedia palestinese era quasi sconosciuta agli israeliani fino al 2011 quando, grazie a una legge insensata soprannominata Legge sulla Nakba, in quasi tutte le case israeliane è comparsa a descrivere la tragedia palestinese. Sino ad allora l’uso specifico della parola “Nakba” alimentava la negazione e assumeva un senso diverso, ad esempio in maniera volgare nell’orrendo (e antisemita) opuscolo titolato Nakba Harta (Cazzate Nakba) distribuito da Im Tirtzu [“Se lo vuoi”, organizzazione sionista non governativa con lo scopo di delegittimare le associazioni israeliane di sinistra e per i diritti umani, ndtr.].

Bisogna ammettere che negli ultimi due decenni il muro della negazione è stato scalfito, grazie soprattutto alle correnti di revisione della storiografia del 1948, a nuove scoperte d’archivio (anche in arabo) che descrivono la pulizia etnica della Palestina e al lavoro di organizzazioni commemorative, la più importante delle quali è Zochrot [organizzazione non profit israeliana fondata nel 2002 a Tel Aviv, con lo scopo di promuovere la conoscenza della Nakba palestinese, ndtr.]

Da queste rivelazioni abbiamo appreso che, anche se accettiamo la dubbia affermazione che in ogni guerra è probabile che ci siano delle espulsioni, in questo caso si tratta di qualcosa di più di un semplice sottoprodotto della guerra perché, anche alla conclusione della guerra, lo Stato sovrano di Israele ha impedito il ritorno dei profughi alle loro case, confiscato le loro terre e saccheggiato le loro proprietà. Ecco perché il concetto di “pulizia etnica” non si riferisce solo alla guerra del 1948, ma anche al divieto di ritorno dei profughi dopo l’instaurazione della sovranità ebraica e alla cancellazione della storia palestinese. Questa è anche una delle ragioni dell’affermazione che la Nakba non è mai finita, e nel discorso palestinese è definita “una Nakba continua”.

Le parole di Fleischman ci portano un passo avanti nel riconoscimento della Nakba, e non sorprende che la dichiarazione provenga dai ranghi dell’estrema destra. Una delle fantastiche anomalie nel discorso pubblico israeliano è che la destra ha sempre preceduto la sinistra sul problema del riconoscimento della Nakba, anche se a scopo di sfida e provocazione.

Circa 10 anni fa, quando Itamar Ben-Gvir [avvocato e leader del partito di estrema destra antiarabo Otzma Yehudit, Potere Israeliano, ndtr.] venne a manifestare davanti all’Università di Tel Aviv sostenendo che sorge sulle rovine del villaggio palestinese Sheikh Munis, studenti e docenti di sinistra uscirono per allontanare i manifestanti. Rimettere in discussione la questione del 1948 mina l’idea di due Stati per due popoli, che si basa su una soluzione del conflitto che non riconosce la Nakba, come se il conflitto fosse iniziato nel 1967.

Ma torniamo a Fleischman. Proseguendo nel discorso, non si è preoccupato di raccontarci la memoria della Nakba o la sua storia. Invece, ci ha presentato il suo progetto per il futuro.

“Se non tornano presto in sé e se continuano a cercare di uccidere i nostri bambini, la loro prossima tappa è trasferirsi in Giordania o nel campo di Al Yarmouk in Siria. Questo accadrà se le cose continueranno in questo modo. La grande tragedia degli arabi è… che semplicemente li caricheremo sui camion, li scaricheremo oltre il confine, ed è così che andrà a finire”.

Fleischman traccia una linea diretta tra passato e futuro con la minaccia di espulsione, legittimando la prossima espulsione. La minaccia di una seconda Nakba è il prezzo da pagare per il riconoscimento della prima Nakba. Questa minaccia di Nakba non ha data di scadenza. Continuerà ad accompagnare i palestinesi come una Spada di Damocle finché vivranno e respireranno. L’unica data di scadenza collegata alla minaccia è la catastrofe. Il riconoscimento della Nakba da parte di Israele è la sola opportunità di dare vita a una discussione che impedisca una seconda Nakba.

L’autore è professore di sociologia all’Università di Tel Aviv e caporedattore di Maktoob, collana di libri di prosa e poesia in arabo ed ebraico presso il Van Leer Institute di Gerusalemme

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)