La Corte israeliana sentenzia a favore di un’ampia impunità

Maureen Clare Murphy

11 luglio 2022 – The Electrèonic Intifada

La settimana scorsa l’Alta Corte di Israele ha emesso una sentenza in favore di un’ampia immunità per lo Stato per i crimini di guerra perpetrati a Gaza.

Le associazioni palestinesi per i diritti umani affermano che la sentenza sottolinea l’urgente necessità di un’immediata inchiesta della Corte Penale Internazionale.

Adalah, un’associazione palestinese per i diritti umani, ha dichiarato che “la sentenza significa che tutti gli abitanti di Gaza sono esclusi da qualunque risarcimento e ricorso in Israele, a prescindere dalle circostanze, nel corso di ‘azioni di guerra’ o di altro genere”.

La sentenza dell’Alta Corte è una risposta ad una richiesta di risarcimento da parte di Israele per le gravi ferite riportate da Attiya Nabaheen, che aveva appena compiuto 15 anni quando fu colpito dal fuoco delle forze israeliane nel cortile davanti a casa sua mentre rientrava da scuola a Gaza nel novembre 2014.

Nabaheen è rimasto paralizzato in seguito alle ferite.

Adalah e Al Mezan, un’altra associazione per i diritti umani, avevano fatto ricorso presso la Corte per contestare una legge entrata in vigore nel 2012, che prevede che gli abitanti della Striscia di Gaza non possano ricevere risarcimenti da parte di Israele in quanto nel 2007 essa è stata dichiarata ‘territorio nemico.’

Un tribunale di prima istanza ha utilizzato quella legge per respingere il tentativo di Nabaheen di ricevere un risarcimento da Israele per le sue ferite.

L’Alta Corte ha affermato che la legge è conforme al diritto internazionale e che in ogni caso il parlamento israeliano “ha il potere di scavalcare le norme del diritto internazionale.”

Adalah e Al Mezan hanno replicato che la sentenza dell’Alta Corte “giustifica l’avvio immediato di un’inchiesta [della Corte Penale Internazionale], in quanto essa nega alle vittime civili palestinesi di crimini di guerra compiuti da Israele la possibilità di ogni ricorso giuridico.”

Le associazioni aggiungono che “non c’è prova più evidente del fatto che il sistema giuridico israeliano è determinato a legittimare i crimini di guerra e a cooperare con l’esercito nei suoi sforzi di negare alle vittime ogni rimedio legale.”

Un’inchiesta indipendente dell’ONU sull’utilizzo da parte di Israele di forza letale contro i manifestanti della Grande Marcia del Ritorno nel 2018 ha preso in esame il caso di Nabaheen e le sue implicazioni per altri abitanti di Gaza.

La sentenza preclude “la via principale per far valere il loro diritto ad ‘un efficace risarcimento legale’ da parte di Israele, che è loro garantito dalla legislazione internazionale”, hanno dichiarato gli inquirenti dell’ONU.  “E’ quindi difficile sopravvalutare il peso di questa sentenza.”

Nel tentativo di giustificare l’uso della forza letale contro manifestanti disarmati, Israele ha inventato un nuovo infondato paradigma del diritto internazionale, che etichettava la Grande Marcia del Ritorno come parte del suo conflitto armato con Hamas, l’organizzazione politica e di resistenza palestinese che controlla gli affari interni di Gaza.

Le direttive dell’esercito israeliano stabiliscono che deve essere avviata un’inchiesta penale immediatamente dopo la morte di un palestinese al di fuori di attività di combattimento.

Classificando la Grande Marcia del Ritorno come parte del conflitto armato con Hamas, anche se i manifestanti erano disarmati, Israele ha creato un quadro giuridico separato per gestire le denunce relative alle proteste.

Una scappatoia legale

Questa importante scappatoia legale viene anche impiegata riguardo ai palestinesi uccisi dalle forze di occupazione israeliana in Cisgiordania.

Il procuratore generale dell’esercito israeliano ha dichiarato che l’uccisione della corrispondente di Al Jazeera Shireen Abu Akleh mentre documentava un’incursione dell’esercito a Jenin in maggio era “un evento bellico” e pertanto nessun soldato dovrebbe subire denunce penali.

Israele ha praticamente ammesso che uno dei suoi soldati ha ucciso Abu Akleh e la scorsa settimana il Dipartimento di Stato USA ha comunicato che la giornalista è stata “probabilmente” uccisa da un’arma da fuoco delle truppe israeliane.

Sia Israele che gli USA sembrano trattare l’uccisione di Abu Akleh come un errore operativo piuttosto che come una sospetta esecuzione extragiudiziale.

Diverse indagini indipendenti condotte da associazioni per i diritti umani e da organi di informazione internazionali hanno altresì concluso che Abu Akleh molto probabilmente è stata uccisa da fuoco israeliano.

L’indagine forense della CNN, citando l’esperto di armi esplosive Chris Cobb-Smith, nota che “Abu Akleh è stata uccisa da diversi spari”.

Cobb-Smith ha affermato che “il numero di tracce dei colpi sull’albero dove si trovava Abu Akleh prova che non si è trattato di uno sparo casuale, lei è stata presa di mira.”

Venerdì scorso la famiglia di Abu Akleh ha inviato una lettera al Presidente USA Joe Biden, di cui è prevista una visita in Israele e Cisgiordania la prossima settimana, ed ha accusato la sua amministrazione di “muoversi verso la cancellazione di qualunque misfatto delle forze israeliane.”

Gli USA non sembrano far pressione su Israele per un’inchiesta penale: il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price ha detto durante una conferenza stampa martedì scorso che “non stiamo cercando di essere prescrittivi riguardo a ciò.”

Sembra che per l’amministrazione Biden responsabilizzazione significhi incoraggiare “passi verso la protezione dei civili e dei non combattenti in una zona di conflitto.”

Price ha aggiunto che l’esercito israeliano “è nella condizione di prendere in considerazione dei passi perché non possa più accadere niente di simile.”

Venerdì la famiglia di Abu Akleh ha detto che “non possiamo credere che una tale aspettativa sia il massimo della risposta della vostra amministrazione.”

La famiglia ha sottolineato l’aiuto militare incondizionato degli USA a Israele e “il quasi assoluto appoggio diplomatico per evitare ai dirigenti israeliani di assumersi le responsabilità.”

I famigliari di Abu Akleh hanno fatto richiesta a Biden di incontrarli durante la sua imminente visita e di fornire loro le informazioni raccolte dalla sua amministrazione riguardo all’uccisione della giornalista.

La famiglia ha parlato al presidente del proprio “dolore, sdegno e sensazione di tradimento” di fronte ai suoi determinati tentativi di assicurare “la cancellazione di ogni misfatto compiuto dalle forze israeliane.”

“Ci aspettiamo che l’amministrazione Biden sostenga i nostri sforzi per ottenere responsabilizzazione e giustizia…dovunque ciò possa condurci”, ha affermato la famiglia.

Corte Penale Internazionale

Una di tali sedi processuali è la Corte Penale Internazionale, che è stata adita relativamente all’uccisione di Abu Akleh sia dall’Autorità Nazionale Palestinese che da Al Jazeera. Gli USA si sono affiancati a Israele nel cercare di boicottare l’inchiesta dell’Aja in Palestina.

La CPI privilegia le indagini interne ad un Paese, dove esse sussistano.

La recente sentenza della corte israeliana che ha rifiutato il risarcimento per Attiya Nabaheen e la copertura della responsabilità per l’uccisione di Shireen Abu Akleh dovrebbero dissolvere ogni restante dubbio su ciò a cui si prevede che serva il sistema giuridico di Israele.

Ma resta in dubbio se la CPI funzionerà come un tribunale di ultima istanza per i palestinesi con qualche carattere di urgenza.

Mentre raccoglie risorse per una tempestiva inchiesta in Ukraina, con il rischio per la presunta indipendenza della Corte proveniente dalle contribuzioni volontarie all’indagine, l’inchiesta sulla Palestina sembra essere lasciata morire sul nascere.

Il silenzio sulla Palestina e su altre inchieste che non hanno l’appoggio di potenti Stati “può aver indebolito l’effetto di deterrenza della Corte ed ha lasciato un vuoto che è stato riempito da attacchi politici all’operato della Corte, e anche da attacchi nei confronti di difensori dei diritti umani”, ha recentemente dichiarato Amnesty International.

Senza una risposta ugualmente forte alle crisi in Palestina e in Afghanistan, come in altri luoghi, l’ufficio del procuratore della CPI potrebbe essere considerato “semplicemente il braccio legale della NATO”, come ha detto recentemente l’avvocato per i diritti umani Reed Brody.

Mureen Clare Murphy è caporedattrice di The Electronic Intifada

(traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Faranno un deserto e lo chiameranno pace?

Jeff Halper, La guerra contro il popolo. Israele, i palestinesi e la pacificazione globale, Edizioni Epoké, Alessandria 2017, pp. 338, euro 16,00.

 Francesco Ciafaloni

L’ultimo libro di Jeff Halper, antropologo ed attivista politico ebreo americano, cittadino israeliano dal ‘73, promotore del movimento contro la distruzione delle case dei palestinesi (ICAHD), attivo nel boicottaggio di Israele, segna una discontinuità netta rispetto ai suoi libri precedenti nei problemi affrontati, nelle fonti usate, nel modo di usarle, nella scrittura. Siamo abituati ad un autore che scrive di ciò che fa, di persone umane, di dolore e danno da evitare, di solidarietà e uguaglianza da costruire, di resistenza non violenta, di scuola e libri di testo. Scopriamo che questa volta si occupa di Sistema mondo, di imposizione della sicurezza (dei potenti, contro il popolo) con le armi, di egemonia globale del centro sulle periferie e delle élite transnazionali sul centro, del ruolo di Israele nella sicurezza globale, di sistemi d’arma, di potenziamento dei soldati, di robot e droni da combattimento, di logistica, di servizi segreti e manipolazione dell’informazione, di strategie: della guerra reale o minacciata, in una parola, come mezzo per controllare il mondo. Del resto è esattamente ciò che promette il titolo. La sorpresa è che qui non si racconta la storia di una guerra in atto. Si descrivono invece i mezzi, le tecniche, i linguaggi, le alleanze con cui si prepara una guerra globale possibile, eternamente minacciata al mondo intero, parzialmente realizzata ove necessario. Si descrive il ruolo importante che Israele ha nel fornire quei mezzi e quelle tecniche ai potenti che li richiedano. Si sostiene che quei mezzi e quelle tecniche, e le alleanze che essi consentono, sono determinanti per confermare il dominio di Israele sulla terra tra il Giordano ed il mare e il suo potere in Medio Oriente.

È questo perdurante dominio la causa della discontinuità. Abbiamo lasciato Jeff Halper in piedi davanti ad un bulldozer israeliano per impedire la distruzione di una casa palestinese. Lo ritroviamo, nelle conclusioni del volume, ad ascoltare lo storico e sociologo statunitense Immanuel Wallerstein che parla di economia mondo e attribuisce la debolezza della propria parte politica alla impossibilità di delineare una alternativa globale allo stato di cose presente. Perché?

La risposta dell’autore è che non si spiega il successo di Israele nel sopravvivere alla condanna morale per le sue politiche di occupazione discriminante ed oppressiva, la sua capacità di tenere sotto controllo gli occupati e di sconfiggere e reprimere chi protesta, senza mettere in conto la sua forza militare, non solo sul campo, che sarebbe ovvio, ma su scala globale; la possibilità di stringere alleanze vendendo tecnologie ed armi, offrendo se stessa come modello di repressione, di pacificazione, di guerra contro il popolo. Non si può andare avanti a cercare di impedire una demolizione dopo l’altra senza cercare di spiegare perché la parte propria, che dovrebbe essere politicamente vincente, almeno sul piano internazionale, finisca invece sempre isolata, sconfitta dall’indifferenza, senza cercare di capire e contrastare l’origine, i mezzi, della forza del nemico.

Non credo sia fuori tema osservare che un sociologo italiano morto non molto tempo fa, Luciano Gallino, è stato costretto dalle cose ad una discontinuità simile. Dopo aver passato buona parte della vita ad occuparsi di lavoro ed organizzazione del lavoro in fabbrica, di significato e storia del significato dei concetti della propria disciplina, ha finito occupandosi di finanza, di sociologia mondo, di sociologia del possibile, di teoria critica della società, di responsabilità etica degli scienziati. Se il sistema della oppressione diventa intrinsecamente globale, bisogna ripensare criticamente come funziona il mondo. Se sono globali la produzione e il trasporto delle merci, oltre alla comunicazione e all’informazione, bisogna occuparsi non solo dei precari che lavorano per la logistica o dei ragazzi in bicicletta con lo zaino fucsia di Foodora ma anche di logistica come sistema globale.

Quindi Jeff Halper ha fatto benissimo ad allargare il campo della sua analisi. Forse non tutti gli aspetti affrontati sono però ugualmente utili e necessari per noi lettori. Penso che l’autore dimostri a sufficienza la solidità della propria tesi di fondo, cioè l’importanza della vittoria ideologica su scala mondiale e della connessione, tecnica e militare, con le potenze dominanti, ed ancor più con quelle periferiche, per il successo politico ed economico dello Stato di Israele. Il mondo è peggiorato. Sono talmente tanti gli Stati che fanno alle loro minoranze e ai loro vicini ciò che Israele ha fatto e fa ai palestinesi che le eventuali condanne di alcuni governi restano puramente verbali.

Non è detto però che le descrizioni di tecniche, armi, linguaggi, strategie, siano tutte indispensabili. Alcuni di noi sono nati, come me, prima dell’ultima guerra mondiale, hanno conservato l’abitudine di cercare di capire come funzionano le armi e leggeranno e controlleranno. Ma si può essere convinti della superiorità tecnica di alcuni sistemi d’arma israeliani anche senza sapere come funzionano, perché abbiamo visto in televisione gli effetti del loro uso. Anche senza conoscere i mezzi per potenziare le capacità fisiche e mentali dei combattenti che gli eserciti moderni cercano di mettere a punto, siamo già convinti che gli strumenti di cui dispongono gli danno considerevoli vantaggi su quelli che si ribellano al loro dominio. I quali però non si lasciano sconfiggere senza reagire.

Perciò il libro mi sembra fin troppo pessimista. Non tiene conto di una vecchia massima che, in metafora, è utile anche oggi: “Con le baionette si possono fare molte cose, ma non sedercisi sopra.” Per le potenze dominanti è facile sconfiggere gli eserciti dei paesi periferici; è impossibile governarne le città.

Forse l’autore sostiene che il dominio dell’informazione unito alla superiorità militare e a un sistema globale di alleanze e complicità può pacificare il mondo, cioè dominarlo di fatto, senza un vero consenso, senza una vera pace. Può avere ragione in generale o aver ragione su alcuni punti e torto su altri. Bisogna leggere il libro e controllare le singole affermazioni, in biblioteca e in rete, per cercare di capire cosa succede davvero quando la televisione ci porta in casa i fuochi d’artificio dell’ultima impresa militare, percepire la gravità delle tragedie delle vittime.

Se si ascoltano alla radio o si guardano in televisione i resoconti di alcuni eventi di questi giorni (23-24 gennaio) si trovano delle conferme alla tesi del libro della centralità del controllo globale della forza, ma anche delle difficoltà del dominio dei militarmente forti.

Mike Pence, vicepresidente degli Stati Uniti, ha tenuto un discorso, entusiasticamente accolto dalla maggioranza, alla Knesset, ripetendo, con più dettagli, la promessa del trasferimento della capitale di Israele a Gerusalemme, dove, secondo lui, avrebbe dovuto stare fin dalla fondazione dello Stato, sottolineando il significato salvifico per il mondo dell’alleanza e della identità di valori tra Israele e Stati Uniti. I deputati palestinesi che hanno protestato sono stati prontamente sospinti fuori dalla sala da commessi con kippà. Hanan Ashrawi, storica dirigente palestinese, che abbiamo sentito in passato parlare con eloquenza e competenza, durante un programma della BBC è apparsa recriminatoria e prolissa, è stata interrotta dal conduttore – “Perché nascondete la testa sotto la sabbia?” – non ha retto il confronto con il lapidario e trionfalistico intervento del portavoce dei vincitori. Il vento che spira sul mondo è contro di lei. L’alleanza ideologica e militare tra la potenza dominante globale e quella locale ha il vento in poppa.

Ma la farebbero male i vincitori a inorgoglirsi troppo della supremazia militare e dell’appoggio americano.

I saggi amici della Prussia le dicono sottovoce, non come minaccia ma come avvertimento: Vae victoribus!” [Guai ai vincitori] – scrisse Renan nel 1870, subito dopo la sconfitta francese nella guerra franco-prussiana.

Francesco Ciafaloni, nato il primo agosto 1937 a Teramo, ha lavorato come ingegnere del petrolio per l’Agip dal 1961 al 1966. È stato redattore di Paolo Boringhieri dal ’66 al ’70 e poi di Giulio Einaudi dal ’70 alla crisi dell’inizio degli anni ’80. Da allora ha lavorato soprattutto coi migranti, prima alle dipendenze della Cgil, poi come volontario. Ha lavorato per il “Comitato oltre il razzismo”. Attualmente collabora con i mensili “Una città” e “Gli asini” e con il sito “Workingclass”.