L’enciclopedia in rete sulla “questione della Palestina”

 

Françoise Feugas

17 agosto 2022 – Orient XXI

 

Concepita dall’Institute for Palestine Studies [Istituto per gli Studi sulla Palestina, il più antico istituto di ricerca indipendente senza scopo di lucro nel mondo arabo, ndt.] nel contesto del progetto congiunto con il Museo Palestinese di Birzeit, l’Enciclopedia interattiva della questione palestinese [https://palquest.org/e] ha come obiettivo offrire a un pubblico più ampio, in arabo e in inglese (in attesa che abbia presto una versione in francese), una storia impegnata della Palestina moderna, dalla conquista ottomana a nostri giorni.

Da una ventina d’anni l’Institute for Palestine Studies (IPS) cerca di presentare a un vasto pubblico le conoscenze e i documenti sulla storia della Palestina accumulati dalla sua creazione nel 1963. L’idea di base, ispirata al modello di Wikipedia, era pubblicare in rete una serie di brevi testi informativi piuttosto didascalici e una cronologia del “processo di pace”, progressivamente esteso per coprire altri argomenti legati alla questione palestinese.

Da parte sua la Welfare Association/Taawon [Ong palestinese con sede in Svizzera, ndt.], che da molto tempo collabora con l’IPS, si preparava a lanciare il suo progetto di punta, il Palestinian Museum [Museo Palestinese, https://www.taawon.org/en/media/news/palestinian-museum]. Nel 2012-2013 l’IPS e la Welfare Association cercarono insieme ciò che potesse essere utile sia ai futuri programmi culturali del museo che a promuovere la missione dell’IPS. Le due organizzazioni concordarono sulla necessità di definire una cronologia degli avvenimenti politici e militari che hanno plasmato la Palestina dalla metà del XIX secolo, collegata a documenti storici e completata da qualche articolo di fondo sui principali temi legati alla questione palestinese.

Dalla conquista ottomana alla colonizzazione israeliana

All’inizio del 2014, nel corso dalla sua prima fase di sviluppo, erano già pronti circa 1.000 sequenze temporali e 30 highlights (episodi o fatti salienti). Due anni dopo, basandosi sull’esperienza acquisita, l’IPS sviluppò delle cronologie tematiche. La copertura degli highlights venne estesa per includere non solo le questioni politiche e militari, ma anche quelle sociali e culturali. In seguito sono state aggiunte delle biografie di intellettuali, artisti, dirigenti, combattenti e politici palestinesi che hanno segnato la storia della Palestina nel corso del XX secolo, e poi un sistema di ubicazione geografica delle città e dei villaggi distrutti, indicati su carte storiche della Palestina.

Oggi il sito si presenta come una piattaforma bilingue, in arabo e in inglese, rivolta ai docenti universitari, agli studenti, ai giornalisti e al pubblico in generale. La sua colonna vertebrale è una cronologia generale e dettagliata, probabilmente la più completa che esista, composta da circa 2.000 voci. Inizia con la conquista del Levante da parte degli Ottomani nel 1516 e termina, per il momento, con il 31 dicembre 2018 e l’ennesimo resoconto dell’avanzata della colonizzazione israeliana in Cisgiordania. È suddivisa in tredici macro-periodi storici, l’ultimo dei quali inizia nel gennaio 2017.

Ogni avvenimento citato è un collegamento che porta a una scheda riassuntiva e rinvia a un articolo di analisi approfondita scritto da un autore qualificato, seguito da una bibliografia selezionata e da altri collegamenti su avvenimenti complementari e fatti significativi. Ogni fatto storico è anche definito in funzione della sua natura grazie a uno o due termini: “contestuale”, “azione popolare”, “istituzionale”, “socio-economica”, “violenza”, “diplomatica”, “giuridica”, “politica”, “colonizzazione”, “programma politico”, “biografico”, “culturale”. In compenso il fatto che [questi termini] non siano cliccabili non consente di visualizzare l’insieme dei documenti che essi prendono in considerazione. Quindi funzionano piuttosto come altrettanti sottotitoli.

Li si ritrova nelle cronologie tematiche che esplorano la storia in modo trasversale, ad esempio con la storia della diplomazia e delle relazioni internazionali, quella dell’OLP, delle diverse tappe delle guerre israelo-arabe e dei cicli di negoziati.

Queste multiple classificazioni e questa pletora di collegamenti a volte possono dare una sensazione di vertigine e sembrano molto prescrittive. Tuttavia si capisce che sono presenti per ragioni didattiche, illustrate dall’affermazione un po’ contraddittoria secondo cui l’Enciclopedia è stata voluta sia come “obiettiva” che “militante”.

I documenti d’archivio non spariscono

Si può anche accedere direttamente alla pagina dedicata agli highlights, tutti redatti da docenti universitari. Nel centinaio di avvenimenti che vi sono presentati figurano in particolare la riorganizzazione territoriale ottomana, il diritto penale nella Palestina mandataria, l’ebraizzazione della Galilea, il Partito Comunista Palestinese, i rifugiati, oppure le trasformazioni dei significati della Nakba nel corso del tempo.

“Biografie” permette di esplorare la vita e l’opera di alcuni “uomini importanti” palestinesi – ci sono solo 20 donne su 109 profili –, mentre “Luoghi” propone una cartina con la collocazione di centinaia di villaggi distrutti da Israele durante la Nakba. Ogni nome di villaggio ha un collegamento che porta a una scheda che lo situa sulla cartina locale, fornisce delle foto e cifre sul numero di abitanti, di proprietari e sulle terre coltivabili, ne descrive la configurazione prima del 1948, ed eventualmente la sostituzione con abitazioni ebraiche e ciò che ne resta oggi. Gli avvenimenti storici della cronologia che li riguardano sono anche accessibili attraverso dei link.

La sezione “Documenti” è senza dubbio la più ricca in termini di risorse e costituisce la principale dimostrazione del lavoro d’archivio molto lungo e minuzioso realizzato dall’IPS fin dalla sua creazione. Centinaia di foto, documenti storici, cartine e grafici digitalizzati sono qui liberamente accessibili attraverso un sistema di ricerca e di selezione per titolo, data o tipo di documento. L’interesse che questa sezione rappresenta, in particolare per gli accademici e i giornalisti, è indiscutibile.

Questo tesoro archivistico e documentario funziona, sul modello del sito e del progetto enciclopedico che ne è all’origine, come a specchio, per non dire in risposta, rispetto alla questione della cancellazione quasi annunciata della Palestina che forma il tredicesimo e ultimo capitolo della sua cronologia, intitolato con toni cupi “Con uno stallo sempre più insormontabile, fine della Palestina?” («With a growingly intractable deadlock, wither Palestine?»): quanto a loro, i documenti d’archivio continuano a testimoniare la sua esistenza nel tempo e nello spazio.

Françoise Feugas

Laureata in letteratura comparata e in scienze dell’informazione e della documentazione, giornalista, ha lavorato in particolare come documentalista-archivista e come direttrice di progetto in informazione-comunicazione. Responsabile editoriale di Orient XXI.

 

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Israele vanifica la distinzione tra civili e militari

Muhammad Ali Khalidi – 24 maggio 2021

Institute for Palestine Studies

Basta un’occhiata alle cifre delle vittime civili durante l’offensiva israeliana su Gaza per rendersi conto del numero terribilmente sproporzionato di civili palestinesi uccisi o feriti rispetto al numero dei militanti. Secondo i dati preliminari, a Gaza gli attacchi aerei e di artiglieria israeliani hanno ucciso 248 persone di cui almeno 66 bambini (il 27% di tutti i decessi), facendo 1.900 feriti. Il 16 maggio in un unico attacco Israele ha distrutto quattro case uccidendo 42 civili, seppellendo gli abitanti sotto le macerie.

L’elevata percentuale di vittime civili è una caratteristica degli attacchi militari israeliani sia sul fronte palestinese che su quello libanese. Nel 2014 l’assalto israeliano a Gaza ha provocato un totale di 2.189 morti, di cui 1.486 civili (68%) e circa 360 bambini sotto i 12 anni (16% del totale). Negli attentati del 2008-2009 sono stati uccisi ben 1.419 palestinesi, di cui 1.167 civili (82%) e 318 bambini (il 22% di tutte le vittime). Nella guerra del 2006 in Libano sono stati uccisi dall’esercito israeliano circa 1.200 civili libanesi (circa il 96% del totale).

I principali media hanno dato le vittime civili palestinesi come semplici incidenti e deplorevoli danni collaterali di una campagna israeliana diretta precisamente contro i militanti di Hamas. Ma è una forzatura credere che Israele, con una delle macchine militari tecnologicamente più avanzate che il mondo abbia mai visto possa essere così incapace ad evitare di causare danni ai civili. Data la pubblicità negativa associata all’infliggere morte e ferite a una popolazione civile disarmata, cosa c’è dietro il numero elevato e enormemente sproporzionato di vittime civili palestinesi?

Una risposta parziale si trova in uno stupefacente articolo pubblicato nel 2005 su una rivista accademica dall’ex capo dell’intelligence militare israeliana, Amos Yadlin, e da un professore israeliano, Asa Kasher. Il documento delineava l’ “etica militare” che dovrebbe guidare la guerra di Israele al “terrore”. Gli autori spiegavano il loro rifiuto del “principio di distinzione” del diritto internazionale, che richiede alle parti in conflitto di distinguere tra combattenti e non, e di adottare tutte le misure necessarie per evitare danni ai non combattenti.

Secondo Michael Walzer, una delle maggiori autorità in materia di etica militare (e talvolta difensore delle azioni militari israeliane), il principio di distinzione afferma che gli eserciti dovrebbero fare attenzione a evitare danni ai non combattenti dell’altra parte, anche a rischio dei propri militari. Come dice Walzer, “se salvare vite di civili significa rischiare la vita di soldati, il rischio dev’essere accettato.” (Walzer, Just and Unjust Wars, p. 156).

Ma Kasher e Yadlin ignorano tale principio. A loro avviso, la sicurezza dei loro soldati dovrebbe avere la meglio sulla sicurezza dei civili dall’altra parte. Scrivono: “Se lo Stato non ha controllo effettivo sulle adiacenze, non deve assumersi la responsabilità del fatto che le persone coinvolte nel terrorismo operino in prossimità di persone che non lo sono” (p. 18). Ma anche se si accetta che i civili “operino” nelle adiacenze dei combattenti, ciò non esonera i militari dall’adottare tutte le misure per evitare di danneggiarli. Questo tentativo di giustificazione è moralmente e legalmente inaccettabile.

Gli apologeti di Israele affermano regolarmente che le vittime civili sono giustificate dal presunto uso di scudi umani da parte di Hamas. Ma il Rapporto Goldstone delle Nazioni Unite non ha trovato prove dell’uso di scudi umani da parte di Hamas a Gaza nel 2009. Invece è stato ampiamente documentato l’uso di scudi umani palestinesi da parte di Israele in precedenti attacchi a Gaza, nel Rapporto Goldstone, da Amira Hass su Haaretz e da Clancy Chassay sul Guardian. In effetti, la Corte Suprema israeliana ha riscontrato come l’esercito israeliano abbia usato palestinesi come scudi umani in 1.200 occasioni nei cinque anni precedenti al 2014. Per citare solo un caso, durante l’invasione di Gaza del 2008-2009 due soldati israeliani hanno ordinato a un ragazzo di nove anni, puntandogli il fucile, di aprire una borsa che sospettavano fosse una trappola esplosiva.

Ci sono numerose prove di come questa deviazione dalle regole di guerra da parte dell’ex capo dell’intelligence militare israeliana e del suo coautore non sia solo un esercizio accademico o un proclama teorico. È stata indubitabilmente trasmessa agli alti ufficiali militari, ai comandanti di medio livello e alla base. Ora fa parte della dottrina militare israeliana, corroborata da numerose dichiarazioni e interviste.

Per quel che riguarda il personale militare superiore, il concetto di fondo è stato chiaramente articolato nel 2006 in riferimento al Libano dal generale israeliano Gadi Eisenkot, allora capo del Comando Settentrionale dell’esercito israeliano e in seguito Capo di Stato Maggiore dell’esercito israeliano. Ha affermato che i militari israeliani avrebbero esercitato una forza sproporzionata sulle aree civili considerando tali aree basi militari. Divenne nota come “Dottrina Dahiya” (dal sobborgo meridionale di Beirut) ed Eisenkot segnalò che si trattava di un piano “autorizzato”.

I rapporti di organizzazioni come il Comitato Pubblico contro la Tortura in Israele e Breaking the Silence [organizzazione di soldati veterani che espongono al pubblico israeliano la realtà dei Territori occupati, ndtr.] da dieci anni confermano che dai comandi militari vengono date istruzioni di privilegiare la vita dei soldati israeliani rispetto ai civili palestinesi. Riferiscono anche dell’ordine di non fare distinzione tra civili palestinesi e militanti e di non correre alcun rischio per evitare danni ai civili.

Tutto ciò porta inesorabilmente alla lampante conclusione che Israele semplicemente rifiuta il principio di distinzione sancito dal diritto internazionale e rifiuta di riconoscere la differenza legale e morale tra civili e militari. Lo fa sia in teoria che nella pratica, eppure questo fatto evidente sembra essere ignorato dalla copertura mediatica e dal discorso politico prevalente a proposito dell’ultima offensiva israeliana. Quasi a giustificare questa equazione tra i civili palestinesi e i militanti da parte dei media occidentali, la CNN ha recentemente ordinato al suo staff di riferirsi al Ministero della Salute a Gaza come “gestito da Hamas”. Questa direttiva conferma efficacemente il rifiuto israeliano di distinguere tra obiettivi civili e militari.

Muhammad Ali Khalidi è Professore Emerito di filosofia presso il Graduate Center della City University di New York e ha lavorato sugli aspetti filosofici della questione palestinese.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)