Rapporto OCHA del periodo 6 – 19 settembre 2016

Nell’arco di quattro giorni (16-19 settembre), sono state registrate sette aggressioni e presunte aggressioni da parte di palestinesi contro israeliani: è il numero più alto a partire dalla precedente escalation di violenza registrata nell’ultimo trimestre del 2015. Sei dei presunti aggressori, tra cui un ragazzo di 17 anni ed un cittadino giordano, sono stati uccisi sul posto;

altri tre sono stati feriti ed arrestati. Cinque soldati ed agenti di polizia e tre coloni israeliani sono stati feriti. Uno degli episodi, verificatosi all’ingresso dell’insediamento colonico di Kir-yat Arba’ (Hebron), è consistito in un sospetto speronamento con auto; negli altri sei casi si è trattato di accoltellamenti, o presunti tentativi di accoltellamento: tre nella Città Vecchia di Hebron, due nella Città Vecchia di Gerusalemme e uno all’ingresso dell’insediamento colonico di Efrata (Betlemme). Da quanto riferito, nessuno dei presunti responsabili risulta affiliato a qualche gruppo armato; tutti avrebbero agito autonomamente.

Due palestinesi sono stati uccisi con armi da fuoco durante scontri con le forze israeliane: il primo nel villaggio di Beit Ula (Hebron), a seguito di una operazione di ricerca-arresto, ed il secondo nei pressi della recinzione che circonda la Striscia di Gaza, nel corso di un episodio di lancio di pietre. La vittima di questo secondo caso è un ragazzo di 16 anni che, secondo le indagini svolte da diverse organizzazioni per i diritti umani, è stato colpito alla testa da un candelotto lacrimogeno sparato dai soldati israeliani. Sale così a 16, dall’inizio dell’anno, il numero di civili palestinesi uccisi dalle forze israeliane durante scontri e proteste.

Complessivamente, durante il periodo di riferimento di due settimane, nel contesto di molteplici scontri, le forze israeliane hanno ferito 98 palestinesi, tra cui 37 minori. Oltre tre quarti di queste lesioni sono dovute ad inalazione di gas richiedente un trattamento medico; la maggior parte dei restanti ferimenti sono da attribuire a proiettili di gomma o ad armi da fuoco. Più della metà dei feriti sono stati registrati durante scontri avvenuti nelle città di Abu Dis e di Al ‘Eizariya (nel governatorato di Gerusalemme), a seguito di lancio di pietre da parte di giovani palestinesi contro le forze israeliane; altri cinque ferimenti si sono verificati durante scontri nei pressi della recinzione che circonda la Striscia di Gaza.

Sempre nella Striscia di Gaza, durante le due settimane di riferimento, in almeno 29 casi le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso palestinesi presenti nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, costringendoli ad allontanarsi, ma senza provocare vittime. In altri due casi, le forze israeliane sono entrate nella Striscia ed hanno spianato il terreno ed effettuato scavi in prossimità della recinzione perimetrale.

In solidarietà con i prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane e in sciopero della fame per protestare contro la detenzione amministrativa cui sono sottoposti, si sono svolte otto manifestazioni, concluse tutte senza scontri. Il Coordinatore delle Nazioni Unite per l’Assistenza Umanitaria e l’Aiuto allo Sviluppo ha sollecitato Israele a formalizzare le eventuali accuse o a rilasciare senza indugio tutti i detenuti amministrativi. Una ulteriore manifestazione si è tenuta per protestare contro la detenzione di sei palestinesi da parte delle Forze di Sicurezza Palestinesi.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno condotto 137 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 183 palestinesi. Il numero più alto di arresti (56) si è avuto nel governatorato di Gerusalemme. Altri tre palestinesi sono stati arrestati nelle vicinanze di tre posti di blocco, secondo quanto riferito perché trovati in possesso di coltello.

Le autorità israeliane hanno restituito alle famiglie i corpi di due palestinesi sospettati di aver compiuto aggressioni contro israeliani; uno dei corpi è stato trattenuto per più di otto mesi. Attualmente, sono ancora trattenuti dalle autorità israeliane i corpi di altri dieci presunti aggressori palestinesi; alcuni da sette mesi.

Il 15 settembre, nella Città Vecchia di Gerusalemme, la polizia israeliana ha sfrattato a forza, dall’appartamento tenuto in affitto fin dagli anni 30, una famiglia palestinese di otto persone; l’alloggio è stato consegnato ad un’organizzazione di coloni israeliani che, secondo quanto riferito, l’aveva acquistato. Il provvedimento è conseguente a prolungati procedimenti legali presso i tribunali israeliani dove la famiglia, sostenendo di essere “affittuari protetti” [categoria di inquilini non sfrattabili], si è opposta, senza successo, allo sfratto. L’appartamento in questione è parte di un più ampio complesso residenziale composto da nove appartamenti; nel luglio 2010, coloni israeliani erano entrati in possesso di otto di essi, causando lo sfollamento di sette famiglie palestinesi appartenenti alla stessa famiglia allargata.

In Area C e Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito 15 strutture di proprietà palestinese, sfollando 23 persone, tra cui 12 minori, e coinvolgendone, in modi diversi, altre 47. Due di queste strutture erano abitazioni di Gerusalemme Est, demolite dai proprietari dopo aver ricevuto ordini di demolizione: l’autodemolizione evita l’addebito dei relativi costi da parte delle autorità israeliane. Altre cinque strutture, situate nel villaggio di Al Aqaba, nel nord della Valle del Giordano, erano ripari di emergenza finanziati da donatori e forniti a seguito di precedenti demolizioni. Quest’ultima comunità è stata anche esposta a proiettili vaganti dovuti ad una lunga esercitazione a fuoco effettuata dai militari israeliani il 12 ed il 13 di settembre in vicinanza dell’area di residenza della comunità; non sono stati segnalati feriti.

In diverse aree della Cisgiordania, secondo i media israeliani, sei episodi di lancio di pietre, da parte di palestinesi contro veicoli israeliani, hanno provocato il ferimento di quattro israeliani, tra cui due donne, e danni a quattro veicoli.

Nei villaggi di Burin (Nablus) e Jinsafut (Qalqiliya), secondo quanto riferito, almeno 45 ulivi sono stati incendiati da coloni israeliani. Sempre in Burin, coloni israeliani accompagnati da forze israeliane, hanno spianato con bulldozer un appezzamento di terreno incolto di proprietà palestinese.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato eccezionalmente aperto per tre giorni: due giorni in entrambe le direzioni (6-7 settembre) ed un giorno (18 settembre) solo per consentire il ritorno a Gaza dei pellegrini. Complessivamente, sono entrate in Gaza 916 persone e 1.175 ne sono uscite. Secondo le autorità palestinesi di Gaza circa 27.000 persone sono registrate ed in attesa di attraversare. Dall’inizio del 2016 il valico è stato parzialmente aperto per soli 23 giorni.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 20 settembre, all’ingresso del villaggio di Bani Na’im (Hebron), le forze israeliane hanno ucciso un 16enne palestinese, presumibilmente dopo un suo tentativo di accoltellamento di un soldato; non sono stati segnalati feriti israeliani.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivoli




La “S” in BDS: L’insegnamento della Campagna della Elbit Systems (Parte I)

Da: Al-Shabaka

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente senza scopo di lucro la cui missione è di educare e stimolare il dibattito pubblico sui diritti umani palestinesi e sull’autodeterminazione nel quadro del diritto internazionale.

In questo documento programmatico di Al-Shabaka, Maren Mantovani e Jamal Juma analizzano alcune delle congiunture che il complesso militare industriale di Israele si trova ad dover affrontare, con un focus particolare sulla campagna contro la Elbit Systems.

6 settembre 2016

Il rapporto esamina i momenti difficili che attendono il settore, il mito della superiorità tecnologica israeliana, i cambiamenti locali e globali del settore, e le alleanze emergenti al fine di ribaltare (il processo di, n.d.t.) militarizzazione e la cartolarizzazione delle aziende. Sulla base di questa analisi, essi traggono insegnamenti importanti e identificano, per il movimento globale per la solidarietà palestinese, gli indirizzi da perseguire.

Le più grandi aziende militari di Israele l’anno scorso hanno lanciato il segnale d’allarme per un calo dei contratti internazionali, citando tra i motivi i budget ridotti, una maggiore concorrenza e una minore richiesta dei prodotti israeliani. Si tratta di un indicatore del fatto che l’industria delle armi israeliana potrebbe non essere così imbattibile come sembra? Che cosa ha indotto il crollo del commercio di armi con le aziende israeliane? Qual è stato il ruolo del movimento a guida palestinese per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), che ha chiesto le sanzioni militari come parte della sua campagna per promuovere i diritti umani?

Un settore “imbattibile” si confronta con momenti difficili.

Per anni, i palestinesi e i loro sostenitori – personaggi mondiali come Desmond Tutu, Adolfo Peres Esquivel, Naomi Klein e Noam Chomsky – hanno chiesto un embargo militare immediato e globale contro Israele sostenendo la sua responsabilità nelle violazioni dei diritti umani dei palestinesi. Decine di migliaia di persone hanno firmato petizioni e gli attivisti hanno manifestato contro le aziende legate al settore militare israeliano. Negli ultimi dieci anni, gli attivisti hanno condotto una campagna contro la Elbit Systems, una delle più grandi compagnie militari di Israele. Lo sforzo va da pressioni a livello governativo ad attività di blocco delle filiali della Elbit in paesi come l’Australia, il Regno Unito (UK), e il Brasile.

Una dozzina di istituti finanziari, tra cui quasi tutti i principali fondi pensione scandinavi, non stanno più investendo nella Elbit Systems. Inoltre, e in particolare a seguito di importanti attacchi israeliani, alcuni governi europei hanno adottato misure restrittive, inclusi il congelamento temporaneo del commercio di armi e il rifiuto di licenze di esportazione di armi. Ad esempio, il Regno Unito ha revocato cinque licenze di esportazione di armi dopo il massacro di Gaza del 2009-10, la Spagna ha congelato la vendita di armi dopo il massacro di Gaza del 2014, e durante il periodo del suo governo di centro-sinistra (2005-13), la Norvegia ha rifiutato costantemente le licenze di esportazione di armi a Israele e ha anche impedito che un costruttore tedesco sperimentasse nelle sue acque sommergibili di appartenenza israeliana. Il Sud Africa ha di fatto cessato le sue relazioni militari con Israele.

Eppure, fino a poco tempo sembrava che queste azioni mantenessero un impatto simbolico: L’industria militare israeliana appariva imbattibile, come le armi che produceva. La situazione è cambiata nel mese di ottobre dello scorso anno, quando le più grandi aziende militari di Israele hanno chiesto un incontro con il governo per discutere su come affrontare la riduzione delle esportazioni militari, che si prospettavano, al momento, in calo dai 7,5 miliardi di dollari del 2012 ai circa 4,5 miliardi di dollari nel 2015. Le aziende sottolineavano che il margine di profitto dell’industria della difesa di Israele è di circa il 4,5 per cento – 5,5 per cento, contro l’8 per cento – 9 per cento del settore della difesa in ambito mondiale. Esse adducevano come motivi “budget ridotti, maggiore concorrenza, minore richiesta di prodotti israeliani, e la crescita delle richieste di trasferimento di know-how e di lavoro all’estero.

La spesa militare globale è rimasta pressoché invariata negli ultimi anni e in effetti è aumentata dell’1 per cento nel 2015. Ci si aspetta  che le entrate da uno dei prodotti di esportazione militari chiave di Israele – i droni – dovrebbe quasi raddoppiare da 6,4 miliardi a 11,5 miliardi di dollari tra il 2014 e il 2024. Mentre le ragioni citate dall’industria militare israeliana sembrano rappresentare una descrizione accurata delle tendenze nel settore del commercio militare mondiale, il calo delle esportazioni israeliane non può essere spiegato semplicemente a causa di una mancanza di domanda per gli armamenti.

È vero, l’industria militare israeliana è riuscita a garantire le esportazioni per oltre 5 miliardi di dollari nel 2015 – una lieve ripresa rispetto all’anno precedente – e gli sviluppi politici a livello mondiale possono essere di buon auspicio per il settore nel prossimo futuro. Ma il complesso militare industriale si trova ad affrontare cambiamenti nelle dinamiche del suo commercio e della propaganda. L’erosione del marchio “Made in Israel”, anche nei settori della difesa e della sicurezza, alla quale hanno contribuito gli sforzi del movimento BDS 2014, è un terreno fertile in cui i sostenitori dei diritti umani possono ottenere un cambiamento.

Interrogato di recente circa l’impatto del BDS sulle operazioni della Elbit Systems, l’amministratore delegato Bezhalel Machlis ha ammesso: “Non sto dicendo che non sia una minaccia, ma penso che complessivamente siamo in grado di gestire la cosa.” Gli attivisti per i diritti umani stanno ora affrontando la sfida di incrementare la capacità del movimento BDS in modo che incida sull’economia di guerra israeliana in misura tale che possa passare dall’essere una minaccia al diventare un cambiamento definitivo.

In che modo la Elbit Systems e la campagna Brand Israel stanno perdendo terreno.

(Dopo, n.d.t.) quasi un decennio di campagna per fermare  investimenti, contratti e altre forme di cooperazione con la Elbit Systems, alcuni insegnamenti possono essere tratti circa il mix di dinamiche di mercato, strutture di governo, e l’attivismo, che contribuisce al cambiamento. Questa sezione si concentra sulle più recenti perdite subite dalla Elbit in Francia e in Brasile: due governi che hanno avuto visioni quasi opposte sulla Palestina e la legittimità del movimento BDS.

La decisione contraria della Francia all’offerta della Elbit nella sua ultima gara sui droni, all’inizio del 2016, è stata una cattiva, inaspettata, notizia per l’azienda. Il drone Watchkeeper, ora scartato, deriva dal drone Elbit Hermes 450, che venne utilizzato nei massacri contro Gaza. Il Watchkeeper era in costruzione nel Regno Unito da una joint venture tra Elbit e una società del Regno Unito. Un intensa campagna della società civile in Francia ha chiesto l’esclusione del Watchkeeper dalla gara per motivi di coinvolgimento della Elbit in crimini di guerra israeliani, mentre nel Regno Unito gli attivisti hanno protestato nei confronti del sito di produzione del Watchkeeper.

La società francese Segem, che alla fine ha vinto l’appalto, ha minimizzato il fatto che i suoi droni includono anche la tecnologia Elbit. Invece, ha celebrato la sua tecnologia e produzione “nazionale”. Solo pochi anni fa, il tag “Made in Israel” sarebbe stato valutato come un plus per un drone. Oggi, la crescente tendenza a garantire la crescita delle industrie militari nazionali e un optimum di trasferimenti di tecnologie ha rappresentato un elemento centrale, erodendo il fascino della tecnologia militare israeliana in tutto il mondo. Questo inoltre, in ultima analisi, contribuisce ad uno degli obiettivi dei difensori dei diritti umani palestinesi – la riduzione dei profitti che Israele ricava dalla sua macchina da guerra – e rafforza il sostegno per l’acquisizione dei risultati.

Non è chiaro fino a che punto la pressione del movimento di solidarietà con la Palestina abbia influenzato la decisione del governo francese, che ha sviluppato leggi contro il BDS ancora più draconiane di quelle in Israele. Tuttavia, nel mese di aprile Israele ha riferito che nel 2015 il governo francese ha respinto un altro affare, in questo caso riguardo la tecnologia di sorveglianza. Fox News ha citato un “esperto israeliano dell’antiterrorismo molto titolato:” “Alle autorità francesi è piaciuto, ma il funzionario è tornato e ha riferito che esistevano istruzioni dall’alto di non comprare la tecnologia israeliana” Se il rapporto non è una propaganda rivolta a spingere avanti altri contratti, indica una riluttanza inaspettata all’interno degli ambienti governativi francesi a stipulare accordi con Israele.

In Brasile, la filiale locale della Elbit, AEL Sistemas, ha visto la fine di un decennio, durante il quale i suoi ricavi sono cresciuti in modo esponenziale, con una quota in ogni grande progetto di difesa brasiliana. Il paese è stato uno dei maggiori importatori di armi israeliane, quinto tra il 2009 e il 2014 e uno dei clienti più importanti per i droni  Elbit. Tuttavia, nel dicembre 2014, la società ha perso il suo primo progetto strategico: il governo di Rio Grande do Sul, nel sud del Brasile, ha annullato un memorandum d’intesa con AEL Sistemas per lo sviluppo di un parco tecnologico per la costruzione di satelliti militari. L’accordo è stato contrastato da una intensa campagna della società civile per un embargo militare. Questa campagna era fondata sulla solidarietà con il popolo palestinese e sulla necessità di porre fine all’impunità di Israele, ma è andata anche oltre. Ha ‘smascherato il tentativo di AEL Sistemas’ di passare come una società brasiliana e ha rivelato che era una filiale israeliana, sottolineando il fatto che le imposte brasiliane sarebbero state incanalate verso Israele. Inoltre, ha dimostrato che il trasferimento di tecnologia, in effetti, sarebbe passato dalle università brasiliane ad una società israeliana. In definitiva, il governo ha addotto vincoli di bilancio e il suo impegno alla cooperazione con la comunità e palestinese e ai movimenti come ragioni per porre fine al progetto. Questa è stata una chiara vittoria per il movimento BDS.

Nel mese di gennaio del 2016, la Elbit Systems ha dovuto abbandonare il suo progetto di ricerca e sviluppo del drone (R & S) in Brasile, che aveva lanciato nel 2011 in pompa magna. Il Ministero della Difesa, guidato da un membro del partito comunista filo-palestinese del Brasile, fino al colpo di stato contro il governo del maggio di quest’anno, ha rifiutato i fondi per la sua attuazione. La reticenza del ministero è stata senza dubbio influenzata dalla presa di posizione politica del governo brasiliano. Un alto funzionario della difesa brasiliano ha scatenato una discussione sui media, quando ha avvertito che la spaccatura diplomatica provocata dal rifiuto del Brasile di accettare un leader dei coloni come ambasciatore di Israele avrebbe potuto ritardare l’esecuzione dei contratti militari tra i due paesi. Questa preoccupazione è stata ripresa da altre figure come l’ex-ministro della Difesa, Celso Amorim, il quale sosteneva che ora è il “tempo di diversificare i nostri fornitori” e ridurre la dipendenza eccessiva dalla tecnologia israeliana.

Vale la pena notare che le organizzazioni palestinesi come Stop the Wall e il movimento di solidarietà con la Palestina avevano fornito la prova del fatto che il software, il monitoraggio e la tecnologia di sorveglianza israeliana erano a quel tempo parte integrante di quasi tutti i progetti di sviluppo industriale strategici del Ministero della Difesa brasiliana.

La tecnologia avionica nella maggior parte dei velivoli, l’arsenale dei droni in Brasile, la tecnologia di sorveglianza nei sistemi di controllo delle frontiere, la tecnologia dei carro armati del Brasile, e il sistema di comunicazione delle forze di mare brasiliane sono tutti forniti sia dalla Elbit Systems o da Israel Aerospace Industries  che dalle loro filiali. Ciò si traduce in modo efficace in una perdita di sovranità nazionale e indipendenza, i principi fondamentali sui quali sono impegnate le strutture della difesa. Un rapporto del 2015 da The Marker, il più importante quotidiano economico di Israele, ha giustamente sottolineato che “ragioni politiche” hanno portato a un congelamento de facto delle transazioni militari con il Brasile – uno sviluppo che è particolarmente doloroso per la Elbit Systems.

Senza dubbio, i tempi duri che la Elbit Systems ha dovuto affrontare in Brasile sono in gran parte causa dell’inasprirsi delle relazioni tra Brasile e Israele durante gli ultimi anni del governo guidato dal Partito dei Lavoratori, che ha governato il paese dal 2003 al maggio 2016. Questo a sua volta è in parte il risultato della crescente influenza del movimento BDS nel paese e l’accettazione delle sue argomentazioni nell’ambito di settori del Partito dei Lavoratori. Le campagne di sensibilizzazione che cercano di smantellare

il “Brand Israel” sottolineano che le armi israeliane sono “testate sul terreno” contro i palestinesi e avvertono il pubblico del fatto che i soldi delle tasse vengono spesi per sostenere le imprese militari israeliane. Queste strategie sono penetrate fin dentro l’organizzazione della difesa. Tuttavia, sarà ora necessario per i sostenitori per i diritti umani dei palestinesi identificare nuove strategie, dato il colpo di stato contro il Governo eletto.

Il fallimento del Watchkeeper nel vincere la gara coi droni francesi dimostra che anche in contesti del tutto ostili alle richieste di un embargo militare, l’incantesimo della tecnologia militare israeliana può sbiadire e altri interessi possono prevalere. E’ fondamentale capire che cosa, in un governo apparentemente antagonista ad atteggiamenti pro-Palestina, sta creando spaccature tra i settori militari israeliano e francese e come capitalizzare su questo nel migliore dei modi. Una nuova proposta per un ulteriore contratto su droni, in cui la Elbit Systems è di nuovo tra gli offerenti, rende questo sforzo urgente.

Ciò che queste occasioni di studio dimostrano è che investire tempo ed energia nella comprensione  delle dinamiche nei settori della sicurezza e della difesa della patria è fondamentale per lo sviluppo efficace dell’attivismo del BDS. In questa fase, dato che i vantaggi di una cooperazione militare con Israele diventano sempre più discutibili, gli attivisti  per la Palestina  possono usare questa conoscenza acquisita per fornire, o trovare, alleati che possono offrire argomenti che soddisfano gli interessi dei decisori nazionali. Il risultato netto potrebbe essere la riduzione del mercato dell’industria militare israeliana.

Fonte:  Ma’an News Agency

Traduzione di Aldo Lotta per BDS Italia




I social media e la terza intifada: la scomoda verità

Maanews 15 aprile 2016

di Albana Dwonch

Albana Dwonch è una candidata al dottorato di ricerca presso l’Università di Washington, attualmente ricercatrice a Gerusalemme.

Sei mesi dopo il suo inizio, sono state poste più domande che fornite risposte relativamente alla violenta rivolta dei giovani nei territori palestinesi occupati.

E’o non è una terza intifada?” è stata la questione più dibattuta da molti media ed analisi. La seconda, “I social media vi hanno contribuito?”, ha provocato un analogo disorientamento sul loro ruolo nell’ultima rivolta dei giovani.

La confusione è stata soprattutto evidente nella difficoltà dei media nel definire questi nuovi soggetti senza leadership e le loro inconsuete modalità di mobilitazione. I giornalisti hanno dovuto modificare la propria terminologia e creare nuove espressioni, come “lupo solitario” e “ istigatore informatico”.

Anche questi termini erano comunque problematici. “Lupi solitari” – gli utilizzatori degli strumenti più arcaici della strada – erano difficili da distinguersi dagli “istigatori informatici” – utilizzatori delle tecnologie dei social, che producevano, postavano e diffondevano video di eventi attraverso le loro reti.

Nonostante la difficoltà di definire e spiegare questi nuovi soggetti ed i loro metodi organizzativi decentrati, la conclusione finale è che i social media sono stati un vettore per la diffusione della violenza e per la radicalizzazione della gioventù palestinese negli ultimi sei mesi.

Comunque questa conclusione non tiene conto di uno sviluppo più profondo e persistente. Al di là del ruolo specifico dei social media in questa rivolta giovanile, le più vaste implicazioni del drastico cambiamento dell’ambito sociale e mediatico stanno incominciando a modificare i sistemi politici palestinese ed israeliano e le loro basi di potere interne ed internazionali.

L’uso dei social media ha evidenziato che, mentre l’ANP (Autorità Nazionale Palestinese, ndt.) ed Israele possono ancora essere in grado di contenere i disordini, di certo l’ANP non può controllare il coinvolgimento dei giovani in essi, né può Israele fermarlo definitivamente.

Perché sono arrabbiati ma senza guida?

Il grado di influenza dei social media sulla dinamica delle violenze in questa rivolta dei giovani è strettamente correlato alla più vasta implicazione del palesamento della crisi di legittimità delle strutture politiche palestinesi.

La scelta dei giovani di non avere leadership e di mobilitarsi in modo decentrato rivela un profondo distacco e perdita di fiducia nei loro partiti e leaders.

L’accusa che la diffusione virale di video violenti attraverso i social media ha amplificato la rabbia ed incitato ad ulteriore violenza è stata ora superata da un altro involontario effetto mediatico di quest’ultimo ciclo di violenza.

Il video del 24 marzo prodotto da un attivista dei diritti dei cittadini ad Hebron ha rivelato il sottile confine tra “istigare” e “mostrare” la violenza.

L’immagine di un soldato israeliano che uccide un palestinese già ferito steso a terra ha rivelato al vasto pubblico il lato meno conosciuto della stessa brutta storia: l’eccessivo uso da parte di Israele della violenza di stato nei territori palestinesi occupati.

Analogamente al sottile confine tra “lupo solitario” e “istigatore informatico”, i video che mostrano “gli attacchi palestinesi col coltello” vengono ora affiancati ai video che mostrano le esecuzioni extragiudiziali israeliane.

L’esposizione della violenza di stato come involontario effetto di attrazione di “lupi solitari” ha portato ad un altro problema: la maggiore sorveglianza e censura per individuare gli “istigatori informatici”.

Israele, con la sua potente infrastruttura informatica e tassi di diffusione di internet tra i più alti al mondo, da ottobre 2015 ha aumentato il controllo su internet ed ha arrestato centinaia di giovani palestinesi per “istigazione online” sulle loro pagine Facebook.

Inoltre il governo israeliano ha chiuso organi di stampa palestinesi in Cisgiordania e determinate Ong israeliane che pubblicizzano video e materiali per la difesa dei diritti umani dei palestinesi sono attualmente sotto indagine dello stato, che le considera sospette di essere agenti stranieri.

Gli apparati di potere reagiscono

La cooptazione di soggetti non statali, un’accresciuta sorveglianza e l’uso eccessivo della forza militare sono la consueta risposta dello stato a queste proteste dei giovani.

Di fatto, con la sua reazione a questi disordini, il governo israeliano agisce in modo perfettamente simile a quello con cui l’Autorità Palestinese in Cisgiordania e Hamas a Gaza hanno represso e poi schiacciato il movimento giovanile non violento del 15 marzo 2011.

Ispirato alle immagini indimenticabili della primavera araba, il movimento del 15 marzo era iniziato su Facebook sottoforma di un infiammato manifesto, che ha innescato una risposta emotiva in una vasta area di giovani che condividevano le stesse frustrazioni ed hanno occupato le piazze in Cisgiordania e a Gaza.

Queste proteste si rivolgevano contro la divisione tra le fazioni palestinesi ed altre strutture di potere. Poco dopo, le autorità palestinesi hanno significativamente aumentato il controllo su internet, hanno chiuso o cooptato le Ong locali, hanno sciolto i gruppi giovanili online ed hanno incarcerato e minacciato i giovani leaders carismatici.

Quindi, mentre la caccia da parte di Israele ai lupi solitari e agli istigatori informatici è lungi dall’essere finita, si sta sviluppando qualcosa di molto più importante: se da un lato la risposta dello stato alle proteste dei giovani sta diventando relativamente facile da prevedere, dall’altro lato la prossima ondata di protesta giovanile e ciò che comporterà è estremamente imprevedibile.

Abbiamo assistito almeno due volte in questo decennio a proteste diffuse attraverso i social media che hanno cercato di colpire le strutture di potere palestinesi ed israeliane. Entrambe sono state accese da un sentimento di rabbia largamente condiviso ed entrambe hanno sorpreso il sistema al potere. Entrambe sono state momentaneamente arginate.

Però, individuando i social media come la causa del fallimento di questo tipo di mobilitazioni o del loro divenire violente, si svia l’attenzione dal comprendere l’evolversi delle condizioni che permettono la trasformazione del sentimento emotivo di speranza o disperazione nel prossimo movimento per il cambiamento contro i poteri in carica.

Questa comprensione potrebbe drasticamente modificare i rapporti di potere nel conflitto israelo-palestinese.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

( Traduzione di Cristiana Cavagna)




La disgregazione politica, la cultura e l’identità nazionale palestinese

16 marzo 2016

Al-Shabaka

di Jamil Hilal

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente no-profit il cui obiettivo è di stimolare e far progredire il dibattito pubblico sui diritti umani e l’autodeterminazione dei palestinesi nel quadro delle leggi internazionali.

Il commentatore politico di Al-Shabaka Jamil Hilal è un sociologo indipendente e scrittore palestinese ed ha pubblicato molti libri e numerosi articoli sulla società palestinese, il conflitto arabo-israeliano e sui problemi del Medio Oriente.

Il campo politico palestinese, dominato dall’Organizzazione della Liberazione della Palestina (OLP) fin dalla fine degli anni ’60, è stato disintegrato da quando in base agli accordi di Oslo è stata fondata l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Qual è stato l’impatto della supremazia dell’OLP e quali sono state le ripercussioni della sua disgregazione per la classe politica palestinese? E fino a che punto la disgregazione del campo politico ha colpito quello culturale e il suo contributo all’identità nazionale palestinese? Queste sono le questioni affrontate in questo articolo.

Il predominio dell’OLP nel contesto politico palestinese è iniziato nel 1968 dopo la battaglia di Al-Karameh [città giordana in cui avvenne uno scontro tra l’esercito israeliano, quello giordano e i guerriglieri palestinesi e fu considerato una sconfitta per gli israeliani. Ndtr.], che le ha permesso di istituire un relazione centralizzata con le comunità palestinesi nella Palestina storica, in Giordania, in Siria, in Libano, nel Golfo, in Europa e nelle Americhe. Queste comunità hanno sostanzialmente accettato l’OLP come proprio unico rappresentante legittimo, nonostante le influenze esterne su di essa, compresa la sua pesante dipendenza da aiuti esterni, gli alti e bassi dei suoi rapporti con il Paese di residenza e le sue relazioni regionali ed internazionali. In conseguenza di ciò, le condizioni e caratteristiche specifiche di ogni comunità sono state ignorate, così come le prerogative nazionali, sociali e organizzative.

Dalla sua posizione dominante, l’OLP è stata anche in grado di consolidare le pratiche delle elite politiche comuni al mondo arabo e a livello internazionale, ma che non avrebbero dovuto mettere radici all’interno del popolo palestinese a causa della sua dispersione territoriale e della lotta per la liberazione. Il fatto che l’OLP sia emersa ed abbia funzionato in un contesto regionale ed internazionale ostile alla democrazia sia in teoria che in pratica ha contribuito a questo sviluppo. La regione araba è stata dominata da regimi con un’ideologia totalitaria e nazionalistica, così come da monarchie ed emirati teocratici autoritari; la democrazia era vista come un concetto occidentale estraneo e colonialista. Allo stesso tempo, l’OLP e le sue fazioni hanno formato alleanze con i paesi socialisti e del Terzo Mondo, pochi dei quali godevano della democrazia politica. La natura parassitaria delle istituzioni e delle fazioni dell’OLP e la dipendenza dall’aiuto e dal sostegno di Paesi arabi e socialisti non democratici ha rafforzato un approccio elitario e non-democratico alla politica.

Un terzo aspetto dell’egemonia dell’OLP è stato che le sue fazioni sono state sottoposte a una militarizzazione formale fin dall’inizio, in parte a causa dei conflitti armati dell’OLP con regimi arabi ostili e in parte per il fatto di essere costantemente attaccate da Israele. Questa militarizzazione formale, opposta alle tattiche belliche della guerriglia, ha aiutato a giustificare la relazione estremamente centralizzata tra la dirigenza politica e i suoi sostenitori.

Tra gli anni ’70 e i ’90 le fazioni e le istituzioni dell’OLP hanno sofferto molti duri colpi a causa dei cambiamenti della situazione regionale e internazionale. Questi hanno incluso l’espulsione dalla Giordania in seguito agli scontri armati nel 1970-71; la guerra civile scoppiata in Libano nel 1975, l’invasione israeliana nel 1982, l’espulsione dell’OLP dal Paese e i massacri di Sabra e Shatila; la guerra contro i campi palestinesi in Libano del 1985-86. La Prima Intifada (la rivolta popolare) contro Israele in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza alla fine del 1987 è stata anche il periodo nel quale l’islam politico per la prima volta ha occupato il contesto politico palestinese (1988). Il collasso dell’Unione Sovietica alla fine del 1989, la prima guerra del Golfo nel 1990-91 e il conseguente isolamento finanziario e politico dell’OLP hanno notevolmente eroso le sue alleanze e le sue fonti di finanziamento.

Le ripercussioni della disgregazione

Durante la Prima Intifada, l’elite politica palestinese non ha capito l’importanza di riorganizzare il movimento nazionale palestinese né di ricostruire le relazioni tra la dirigenza centralizzata e le varie comunità palestinesi. Inoltre l’OLP non ha trovato un modo per affrontare l’islamismo politico quando è emerso sulla scena palestinese come una filiazione della “Fratellanza musulmana” e non ha integrato Hamas nelle istituzioni politiche palestinesi. Allo stesso tempo, Hamas non si è ridefinito come un movimento nazionale. Il movimento politico palestinese, che è stato in un primo tempo indicato come un movimento nazionale o come una rivoluzione ha iniziato a essere citato come “il movimento nazionale ed islamico.”

Infatti la Prima Intifada ha portato la dirigenza politica a centralizzare ulteriormente i processi decisionali: ha firmato gli accordi di Oslo senza consultare le forze politiche e sociali all’interno o fuori dalla Palestina. Oslo ha fornito all’OLP la razionalizzazione politica, organizzativa ed ideologica per marginalizzare le istituzioni rappresentative nazionali palestinesi che esistevano, con l’argomento che stava costruendo il nucleo di uno Stato palestinese. L’ANP è stata esclusa dall’occuparsi dei palestinesi in Israele ed ha perso interesse fin da subito verso i palestinesi in Giordania. I suoi rapporti con loro, così come con i palestinesi in Libano, in Siria, nei Paesi del Golfo, in Europa e in America sono stati largamente ridotti a formalità burocratiche attraverso le sue ambasciate e gli uffici di rappresentanza in quei Paesi.

Quando la definizione dell’ANP come un’autorità con un autogoverno limitato su alcune parti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza non ha portato ad uno Stato palestinese, le elite politiche sono state private di un potenziale centro di sovranità statale; ciò ha accelerato la disgregazione del movimento nazionale. La vittoria di Hamas nelle elezioni legislative del 2006 ed il suo controllo sulla Striscia di Gaza nel 2007 hanno contribuito alla frammentazione dell’autorità di auto-governo in due entità sovrane, una rimasta su una parte della Cisgiordania e l’altra nella Striscia di Gaza. Entrambe queste autorità rimangono sottoposte all’occupazione ed al controllo di uno Stato coloniale d’insediamento che continua a colonizzare in modo aggressivo la terra e ad espellere palestinesi dai due lati della Linea Verde [il confine tra Israele e la Giordania precedente all’occupazione del 1967. Ndtr.]

La disgregazione del campo politico nazionale ha avuto una serie di ripercussioni. Le istituzioni rappresentative nazionali sono svanite e le elite politiche locali sono diventate dominanti. I dirigenti hanno derivato la loro “legittimazione” dalla loro posizione del passato nel partito o nell’organizzazione e dalla loro interazione diplomatica con Stati regionali ed istituzioni internazionali. Il discorso che è prevalso localmente ed internazionalmente ha ridotto la Palestina ai territori occupati nel 1967 e il popolo palestinese a quelli che vivono sotto l’occupazione israeliana, marginalizzando quindi i rifugiati e gli esiliati così come i palestinesi con cittadinanza israeliana. L’apparato di sicurezza in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza è cresciuto considerevolmente come dimensioni e come destinatario di risorse nel bilancio generale. La natura parassitaria delle autorità nelle due aree era legata alla dipendenza dagli aiuti esterni e dal trasferimento di fondi, e l’influenza dei capitali privati nelle loro economie si è accresciuta.

Ci sono stati anche significativi mutamenti fondamentali nella struttura sociale in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Questi mutamenti includono la comparsa di una classe media relativamente estesa che fornisce di personale le istituzioni e le agenzie dell’ANP in aree come l’educazione, la salute, la sicurezza, le finanze e la pubblica amministrazione, così come nei settori di nuovi servizi, in quelli bancari e nelle molte ONG che sono state fondate. Intanto la classe lavoratrice si è ridotta di dimensioni. Le disuguaglianze tra diversi segmenti della società sono aumentate e il tasso di disoccupazione è rimasto alto, soprattutto tra i giovani ed i neolaureati. La mentalità dell’ “impiego pubblico” si è diffusa, sostituendo la forma mentis del combattente per la libertà. Benché Fatah e Hamas si autodefiniscano come movimenti di liberazione, sono stati trasformati in strutture gerarchiche e burocratiche e mirano in buona misura alla propria sopravvivenza.

Le elite politiche ed economiche non si vergognano di ostentare i propri privilegi ed il proprio benessere nonostante continui l’occupazione coloniale repressiva. La classe media in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza sa molto bene che i propri standard e stili di vita sono legati all’esistenza di queste due autorità di auto-governo. Tuttavia la maggior parte della popolazione rimane sottoposta all’oppressione ed all’umiliazione da parte delle forze militari israeliane e dei coloni armati, e non patisce solo per la mancanza di una vita decente e di un futuro lavorativo, ma anche della mancanza di una qualunque soluzione nazionale in futuro. L’assedio draconiano di Israele ed Egitto contro Gaza rimane più che mai pesante, punteggiato di devastanti guerre israeliane, e la pulizia etnica dei palestinesi da Gerusalemme continua inesorabile, per mezzo di espulsioni, cancellazione di permessi e una vasta gamma di altre modalità.

Queste condizioni costituiscono la premessa per una situazione esplosiva nei territori occupati nel 1967. Però, poiché l’OLP, i partiti politici, il settore privato e la maggior parte delle organizzazioni della società civile non si sono mobilitati o non hanno potuto mobilitarsi contro l’occupazione, gli scontri con le forze di occupazione militare di Israele e con i coloni nell’”ondata di collera” in corso dall’ottobre 2015 sono rimasti per lo più atti individuali, con caratteristiche locali, senza una visione unitaria e una dirigenza nazionale.

La disgregazione del campo politico palestinese ha anche portato ad una crescente oppressione e discriminazione contro le comunità palestinesi in tutta la Palestina storica così come nella diaspora. I cittadini palestinesi nella parte di Palestina che è diventata Israele nel 1948 devono far fronte a una serie crescente di leggi discriminatorie. Anche i rifugiati palestinesi in e da Siria, Libano, Giordania ed altrove devono affrontare discriminazioni ed abusi. Soprattutto, lo status della causa palestinese ha conosciuto un passo indietro nel mondo arabo e a livello internazionale, una situazione esacerbata dalle guerre interne ed esterne in alcuni Paesi arabi.

Eppure la cultura fiorisce e alimenta l’identità nazionale

Oggi il popolo palestinese non ha né uno Stato sovrano né un efficace movimento di liberazione nazionale. Tuttavia c’è un considerevole rafforzamento dell’identità nazionale palestinese, dovuto in buona parte al ruolo del settore culturale nel mantenimento e nell’arricchimento della narrazione palestinese. Il ruolo della cultura per alimentare l’identità ed il patriottismo palestinesi ha una lunga storia. Dopo la creazione dello Stato di Israele nel 1948 e la sconfitta delle elite politiche dell’epoca e del movimento nazionale, la minoranza palestinese in Israele ha sostenuto l’identità nazionale attraverso un significativo fiorire culturale: poesia, narrativa, musica e cinema.

Lo scrittore e giornalista palestinese Ghassan Kanafani lo ha colto nel suo notevole libro sulla letteratura resistenziale palestinese (al-adab al-mukawim fi filistin al-muhtala 1948-1966 [Letteratura della resistenza nella Palestina occupata. Ndtr.]), pubblicato a Beirut nel 1968. Altre figure letterarie fondamentali comprendono i poeti Mahmoud Darwish e Samih Al Qasim, il sindaco di Nazareth e poeta Tawfik Zayyad e lo scrittore Emile Habibi, sia nelle sue opere, come il “Pessottimista”, che attraverso il giornale comunista Al-Ittihad, di cui è stato uno dei fondatori.

Negli anni ’50 e ’60, quando gli israeliani hanno mantenuto i cittadini palestinesi sotto governo militare, la letteratura, la cultura e le arti sono servite a rafforzare e proteggere la cultura e l’identità arabe e la narrazione nazionale palestinese. Questi lavori sono stati letti in tutto il mondo arabo e altrove, e hanno permesso ai rifugiati palestinesi e agli esiliati di conservare la propria identità attraverso i continui legami con la cultura e l’identità della propria patria.

I “palestinesi del 1948”, come sono spesso definiti nel discorso palestinese, hanno giocato anche un ruolo nell’informare gli altri palestinesi ed arabi sul modo in cui l’ideologia sionista modella la politica israeliana e sui meccanismi di controllo repressivo. Molti degli studiosi ed intellettuali palestinesi del ’48 sono approdati nei centri di ricerca palestinesi ed arabi a Beirut, a Damasco e altrove ed hanno aiutato a sviluppare questa comprensione.

Da allora, soprattutto in periodi di crisi politica, il settore culturale ha offerto ai palestinesi maggiori possibilità rispetto alla sfera politica per unirsi in attività che trascendessero i confini geopolitici con forme e generi culturali ed ogni sorta di produzione intellettuale. Letteratura, cinema, musica e arte continuano ad essere prodotti, ed in misura sempre maggiore, andando da scrittori, registi ed artisti noti in tutto il mondo fino ai giovani artisti e scrittori di oggi a Gaza, in Cisgiordania e tra i palestinesi all’estero. Tutto ciò viene diffuso in moltissimi modi, comprese le reti sociali, favorendo e rafforzando i legami tra palestinesi e tra arabi e l’interazione al di là dei confini.

La vitalità del patriottismo palestinese è radicata nella narrazione storica palestinese e si basa sulle esperienze quotidiane delle comunità che affrontano la spoliazione, l’occupazione, la discriminazione, l’espulsione e la guerra. E’ forse questa vitalità che porta i giovani palestinesi, molti dei quali nati dopo gli accordi di Oslo del 1993, ad affrontare i soldati israeliani ed i coloni in ogni parte della Palestina storica. Ciò spiega anche le grandi folle che partecipano ai cortei funebri dei giovani palestinesi uccisi dai soldati e dai coloni israeliani e nella raccolta di fondi per ricostruire le case demolite dai bulldozer israeliani come punizione collettiva delle famiglie di quanti sono stati uccisi nell’attuale rivolta giovanile.

Tuttavia evidenziare l’importanza e la vitalità del settore culturale non colma l’assenza di un valido movimento politico, costruito su solide basi democratiche. Dobbiamo imparare dalle lacune delle istituzioni originali del movimento e superarle, piuttosto che sprecare forze, tempo e risorse per recuperare un quadro politico disintegrato e decaduto. Dobbiamo anche andare oltre quei concetti e quelle pratiche che l’esperienza ci ha mostrato aver fallito, come l’altissimo livello di centralizzazione: le politiche devono essere affidate al popolo ed alla base. Dobbiamo anche salvaguardare la nostra cultura nazionale da concetti ed approcci che asserviscono le menti, paralizzano il pensiero e il libero arbitrio, promuovono l’intolleranza, santificano l’ignoranza e nutrono i miti. Dovremmo piuttosto favorire i valori di libertà, giustizia e uguaglianza.

Abbiamo bisogno di una visione totalmente nuova dell’azione politica. Una tale visione può essere intravista nel linguaggio che sta prendendo forma tra i gruppi di giovani e nei rapporti tra le forze politiche palestinesi all’interno della Linea Verde, che riflettono una profonda coscienza dell’impossibilità di convivere con il sionismo in quanto ideologia razzista e regime coloniale di insediamento che criminalizza la narrazione storica palestinese.

Al cuore di questa emergente coscienza politica si trova la necessità di coinvolgere le comunità palestinesi nel processo di discussione, stesura e adozione di politiche nazionali inclusive: si tratta sia di un loro diritto che di un loro dovere. E’ ugualmente importante riconoscere il diritto di ogni comunità a definire la propria strategia nell’affrontare gli specifici problemi che deve affrontare mentre partecipa all’autodeterminazione di tutto il popolo palestinese.

Costruire un nuovo movimento politico non sarà facile a causa dei crescenti interessi di fazione e il timore di principi e pratiche democratici. Quindi è necessario incoraggiare iniziative di base per creare leadership locali, con la più ampia partecipazione possibile da parte di individui e istituzioni della comunità, seguendo il promettente esempio dei palestinesi del ’48 nell’ organizzare l'”Alto Comitato di Monitoraggio per i cittadini arabi di Israele” per difendere i loro diritti ed interessi, e dei palestinesi della Cisgiordania e di Gaza nella Prima Intifada. Anche il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) è un esempio di successo di questo nuovo tipo di consapevolezza politica e di organizzazione, che riunisce diverse fazioni politiche, organizzazioni della società civile e sindacati dietro una visione ed una strategia unitarie.

Qualcuno potrà pensare che questa discussione è utopica o idealista, ma noi abbiamo disperatamente bisogno di ideali nell’attuale caos e faziosità distruttiva. E abbiamo una ricca storia di attivismo politico e di creatività culturale a cui attingere.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




L’alfabeto di Oslo, linguaggio della colonizzazione

Professor Kamel Hawwash –Middle East Monitor

Sabato 23 gennaio 2016

Le prime tre lettere dell’alfabeto, A, B e C, sono diventate il marchio dell’occupazione e della strisciante colonizzazione della Palestina da parte di Israele. Le linee che delimitano queste aree sono state tracciate negli accordi di Oslo II firmati a Taba nel 1995. Dividono la Cisgiordania in tre zone, con Israele e la Palestina che beneficiano di differenti livelli di diritti amministrativi e relativi alla sicurezza in ognuna di queste.

L’area che copre tutte le città della Cisgiordania e la maggior parte della popolazione palestinese è stata etichettata come A, con l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) che gode del controllo “integrale”, sia amministrativo che per quanto riguarda la sicurezza. L’area B include vaste zone rurali con l’ANP che ha diritto solo al controllo amministrativo. Il rimanente 60% è stato denominato area C e ricade sotto il totale controllo israeliano, tranne per quello che riguarda i servizi educativi e quelli medici. Significativamente, Israele controlla tutte le questioni relative alla terra, comprese l’assegnazione e le pratiche per la costruzione sia di strutture private che di infrastrutture.

Per completare il quadro del controllo coloniale che Israele esercita sulla Cisgiordania, bisogna aggiungere l’impatto del Muro o Barriera, che Israele ha costruito dopo gli accordi di Oslo e le strade che servono alle colonie, molte delle quali possono solo essere utilizzate dai coloni, nella versione israeliana dell’apartheid.

E’ importante capire che le aree A, B e C non sono tre zone geografiche separate che sono facilmente identificabili, ma piuttosto una divisione amministrativa definita in pratica da Israele per perseguire i propri progetti espansionistici e coloniali. Basta fare un passo fuori dalle città palestinesi e ci si trova quasi sicuramente nell’area C e quindi sotto il totale controllo israeliano. L’area C è abitata da un numero stimato di 300.000 palestinesi, che vivono per lo più in piccoli villaggi e comunità, e di 350.000 coloni israeliani, che vivono in 135 insediamenti e 100 avamposti. Una parte delle terre palestinesi più fertili si trova nella valle del Giordano, che rientra nell’area C.

I 22 anni da Oslo e gli inutili negoziati per raggiungere un accordo finale sono passati con Israele che non ha rispettato neppure questa vergognosa divisione della Cisgiordania. Ogni pretesa di una zona palestinese libera dalle ingerenze israeliane è un mito.

Questa è la terza Intifada?

Le crescenti tensioni nei Territori Occupati hanno portato a dozzine di morti e a centinaia di scontri. Stiamo assistendo ad una terza Intifada?

Prendiamo l’area A, che include tutte le città palestinesi. L’ANP è responsabile della sicurezza e pertanto si potrebbe presumere che le forze di occupazione israeliane non possano entrarvi in nessun caso. Tuttavia si tratta di un mito. Le forze [di sicurezza] israeliane entrano regolarmente a Ramallah, Nablus, Hebron e Jenin per arrestare, ferire e mutilare. Hanno rapito membri del parlamento [palestinese], compreso la sua presidentessa e deputata del FPLP [Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, gruppo politico palestinese di sinistra. Ndtr.] Khalida Jarrar. Più di recente, il primo ministro israeliano Netanyahu ha detto di aver chiamato il presidente dell’ANP Abbas per scusarsi perché le forze di occupazione israeliane hanno condotto attività nei pressi della sua casa e si sono scontrate con la sua guardia presidenziale. Al tempo stesso, le forze di sicurezza palestinesi non possono arrestare nessun colono israeliano che abbia commesso violenze in qualunque parte della Cisgiordania e ogni colono che si sia casualmente avventurato nell’area A è stato rapidamente messo al sicuro e consegnato alle forze di occupazione.

Nell’area C le attività di colonizzazione di Israele abbondano, in quanto gode del controllo sia amministrativo che per la sicurezza. Qui la messa in pratica di alcune norme per i palestinesi e di altre per le colonie illegali è più evidente. I palestinesi non possono costruire, ampliare o migliorare le proprie case o le proprie attività senza l’interferenza da parte di Israele, che è spesso violenta. Il rifiuto praticamente certo da parte di Israele della concessione di autorizzazioni per la costruzione di case, scuole, strutture commerciali e agricole non lascia ai palestinesi altra possibilità che costruire senza permessi. Il risultato quasi inevitabile è la demolizione. L’ufficio dell’ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) ha descritto come 5.000 palestinesi dell’area C vivono nelle denominate “zone di fuoco” e si prevede che lascino le loro case per ore o giorni durante le esercitazioni militari israeliane. L’OCHA inoltre descrive la terribile situazione dei beduini, continuamente soggetti alla minaccia di deportazione dalle loro terre contro la loro volontà.

Anche altre comunità, oltre ai beduini, hanno ripetutamente subito la minaccia di ricollocamento. Un esempio particolarmente chiaro è stato quello della comunità di Susyia, sulle colline di Hebron, i cui membri hanno affrontato tre deportazioni in tre decenni per permettere che una colonia, che ha praticamente lo stesso nome, si installasse e poi che si espandesse.

In anni recenti, un certo numero di politici israeliani che si oppongono radicalmente all’esistenza di uno Stato palestinese hanno invocato l’annessione di ampie zone, se non di tutta l’area C. L’attuale ministro dell’Educazione, Naftali Bennet, ha persino chiesto che ai 300.000 palestinesi che vi vivono venga concessa la nazionalità israeliana. Pensa che il fatto che i rimanenti palestinesi della Cisgiordania potrebbero gestire i propri affari e una piena indipendenza sarebbe impossibile. Altri politici israeliani non sono magari stati altrettanto espliciti come Bennet nel chiedere l’annessione di aree della Cisgiordania, tuttavia è ora difficile trovarne uno che sostenga una onesta soluzione dei due Stati che porti ai palestinesi una qualche speranza della fine dell’occupazione.

Più di recente, il Coordinatore Israeliano delle Attività di Governo nei Territori (COGAT) ha annunciato che intende confiscare 370 acri [149 ettari. Ndtr.] di terra nel distretto di Gerico, dichiarandoli “terra dello Stato”. Questo tipo di iniziative rende la designazione di un lotto di terreno come A, B o C totalmente insensato. Israele agisce con totale impunità. Se decide di dichiarare la sede dell’Autorità Nazionale Palestinese a Ramallah zona militare chiusa o zona di fuoco, chi lo più impedire?

A Oslo i negoziatori palestinesi non solo hanno accettato di riconoscere Israele senza un concomitante riconoscimento della Palestina, hanno anche concordato l’ulteriore spartizione in queste tre aree del 22% di quella che hanno accettato come “Palestina”. La realtà è stata che palestinesi e coloni hanno vissuto in tutte e tre le aree e che Israele ha utilizzato questa designazione perché si adattasse ai propri piani. Gli accordi di Oslo sono stati pensati come temporanei, dovevano portare a un accordo negoziale entro cinque anni. A fronte di ciò, i negoziatori palestinesi devono aver pensato che tutte e tre le aree sarebbero state restituite alla fine dei cinque anni, libere di coloni, per far parte dello Stato funzionante e con continuità territoriale che loro avevano sognato. Tuttavia, 22 anni dopo, non è stato raggiunto nessun accordo e in pratica Israele ha quotidianamente violato l’accordo provvisorio indistintamente nelle aree A, B e C. Questa denominazione è diventata un ulteriore ostacolo per la pace e non cambierà rapidamente senza una pressione esterna. Perché si ottenga la pace in terra santa, devono essere esercitate su Israele chiare e non ambigue pressioni per porre fine all’occupazione, spedendo l’alfabeto della colonizzazione nella pattumiera della storia.

Il professor Kamel Hawwash è un docente universitario anglo-palestinese in ingegneria presso l’università di Birmingham. E’ un commentatore di questioni mediorientali e vice presidente della campagna di solidarietà con la Palestina. Qui ha scritto a titolo personale.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




I giovani palestinesi soffrono di un continuo disagio, l’occupazione israeliana.

Parlando di Terza Intifada, i palestinesi con meno di 30 anni discutono su chi vedono alla testa delle ultime violenze.

Al Jazeera

Mentre le prime pagine dei media si concentrano sui drammatici attacchi all’arma bianca da parte di palestinesi e israeliani, gli uni contro gli altri, contemporaneamente nelle ultime settimane migliaia di giovani palestinesi sono scesi in strada in Israele, a Gerusalemme est, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza per chiedere la fine della pluridecennale occupazione israeliana, per protestare contro le violenze delle forze di sicurezza israeliane e dei coloni e per chiedere il riconoscimento dei loro diritti umani.

Ovviamente gli accoltellamenti sono una novità, mentre le proteste sono di lunga data – tranne per il fatto che oggi coinvolgono una nuova generazione di palestinesi, quelli che sono cresciuti nell’epoca del processo di pace di Oslo e delle conseguenti frustrazioni e fallimenti. Come le proteste della prima Intifada nel 1987, alcune delle manifestazioni di oggi sono pacifiche, mentre altre si sono trasformate in scontri con le forze di sicurezza israeliane.

Mentre i veterani palestinesi e gli analisti affrontano la questione se gli attuali avvenimenti presentino le caratteristiche di una nuova intifada, Al Jazeera si è messa in contatto con un certo numero di palestinesi con meno di 30 anni in tutta la regione. Abbiamo posto loro due domande:

1) Chi pensi che diriga l’attuale rivolta?

2) Se queste proteste e questi scontri continueranno, come ti aspetti che risponderanno le forze di sicurezza israeliane, i coloni e l’Autorità Nazionale Palestinese?

Alcune delle loro risposte sono state tradotte dall’arabo, altre sono state espresse in inglese ma sono state corrette.

Lema Nazeeh

Avvocata di 27 anni di Ramallah, Cisgiordania

Questa sollevazione popolare è spontanea e chi la guida è la nuova generazione – soprattutto studenti medi ed universitari. Questa volta siamo scesi in strada e abbiamo raddoppiato la resistenza ovunque, a cominciare da Gerusalemme fino alla Cisgiordania e a Gaza. Stanno partecipando anche i palestinesi che vivono nei territori del ’48 [in Israele]. Il messaggio della nuova generazione è che la Palestina sarà libera e che siamo determinati a porre fine all’occupazione e al terrorismo dei coloni in Cisgiordania e a Gerusalemme.

Per continuare, abbiamo bisogno di creare un comitato unitario in cui il popolo si possa organizzare e dirigere il movimento al di fuori dell’establishment politico.

I palestinesi di qualunque parte devono essere uniti nella resistenza contro l’occupazione – manifestando a Gaza, Gerusalemme, Haifa, Ramallah, Betlemme, Yaffa ed Hebron. Finché continuerà l’occupazione dobbiamo continuare a resistere per una vita di libertà e dignità.

Le forze di sicurezza israeliane ed i coloni continueranno con la loro violenza e il terrorismo contro di noi, ma noi, il popolo, abbiamo una sola voce, che il governo israeliano, i gruppi sionisti e i membri della comunità internazionale complici dei crimini israeliani contro i palestinesi non potranno mai far tacere. Non è il momento di aver paura.

Fadi Salah Al Shaik Yousef

28 anni, specialista in sviluppo infantile a Gaza City, Gaza

Questa intifada popolare, che non è organizzata né diretta da nessuna autorità, è una reazione normale a tutti gli anni di ingiustizia, di crimini e di umiliazioni perpetrati da Israele contro il popolo palestinese. Considerando il grande numero di palestinesi uccisi e feriti per mano delle forze di sicurezza israeliane si tratta di una reazione assolutamente normale.

Queste proteste e questi scontri accadono perché il popolo palestinese ha perso ogni speranza nei propri dirigenti, persino nell’umanità. Abbiamo scoperto che le soluzioni pacifiche non stanno portando alla fine dell’occupazione – per cui dobbiamo continuare a resistere.

La gente di Gaza ormai non ha più niente da perdere, per cui siamo pronti ad aiutare in ogni caso la Cisgiordania. Noi marciamo fino alla frontiera con Israele e protestiamo per dire ai nostri fratelli in Cisgiordania che siamo solidali con loro e respingeremo ogni attacco israeliano contro di loro.

Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese possono tentare di controllare la situazione, ma non ci riusciranno. Nessuno lo può fare. E’ anche difficile prevedere dove porterà tutto questo. Siamo abituati al fatto che Israele commetta dei crimini e poi faccia la parte della vittima. Non mi aspetto che questo cambi. Da parte sua l’Autorità Nazionale Palestinese deve cessare ogni forma di coordinamento in materia di sicurezza con l’occupante.

Come questo finirà dipenderà dalla volontà del popolo e dal livello di sostegno diretto o indiretto che riceveremo dalle varie fazioni palestinesi.

Nadine Khoury

16 anni, studentessa di scuola superiore a Taybeh, in Cisgiordania

Vorrei puntualizzare che questo non sta succedendo solo da una settimana. Ho vissuto qui in Palestina da circa tre anni e mezzo e mi sono resa conto che questi atti inumani sono molto comuni nella vita palestinese (il che non li rende meno tragici).

Penso effettivamente che i palestinesi stiano cercando di iniziare una terza intifada perché ne hanno abbastanza di vivere accanto a questa gente che continua a prendersi la loro terra, a uccidere i loro figli ed hanno realmente il coraggio di fare e giustificare tutto ciò. Tuttavia, anche se sono d’accordo che una terza insurrezione può essere la nostra unica possibilità di liberarci dell’occupazione israeliana, non penso che ora sia il momento migliore. I palestinesi non hanno la tendenza a pensare ed agire tutti insieme, per cui, finché non troveranno un’unità, personalmente non penso che ci sarà un’intifada. Vivendo in Palestina, posso notare la brutalità da ambo le parti per cui, per il momento, non vedo che la situazione si possa calmare  a breve.

Se e finché questi scontri continueranno, credo che le forze di sicurezza israeliane ed i coloni seguiteranno ad usare la forza, in ogni modo possibile, per reprimere una terza intifada. Israele vuole solo mantenere il controllo sul popolo palestinese e sulla indebolita Autorità Nazionale Palestinese. So che il popolo palestinese continuerà a lottare ardentemente per la propria terra, i propri diritti e la propria libertà. Una kefiah (hatta, copricapo palestinese, ndt.) e una pietra non sono niente rispetto a un giubbotto antiproiettile e a un cecchino. Purtroppo è una lotta impari e il mondo sta a guardare quello che succede.

Omar Daraghmeh

27 anni, traduttore a Tubas, Cisgiordania

La recente violenza è il risultato dell’assenza di un qualunque orizzonte politico tra i palestinesi e le autorità d’occupazione israeliane a causa della continua aggressione israeliana (dell’esercito e dei coloni) contro i palestinesi in generale e la profanazione della sacra moschea di Al-Aqsa in particolare.

Le tensioni spariranno e la tranquillità verrà gradualmente ripristinata a meno che la più ampia maggioranza della popolazione palestinese si unisca alla sollevazione, sopratutto i gruppi armati palestinesi nei campi di rifugiati della Cisgiordania o nella Striscia di Gaza sotto assedio.

Ci si aspetta che Israele scateni una guerra contro Gaza mentre darà mano libera ai coloni e chiuderà Gerusalemme e la Cisgiordania e intensificherà la campagna di arresti.

D’altra parte l’Autorità Nazionale Palestinese se ne verrà fuori con le sue inutili dichiarazioni, terrà qualche “riunione d’emergenza” e chiederà una “protezione internazionale” per i palestinesi mentre contemporaneamente reprimerà ogni protesta palestinese contro l’occupazione.

Tarek Bakri

29 anni, ingegnere e ricercatore a Gerusalemme

Forse quello che è successo alla moschea di Al-Aqsa ha spinto molti altri a partecipare alla rivolta, ma la vedo come qualcosa di più grande. Riguarda l’occupazione e le sue politiche. A un certo punto crediamo che ci sia  una parte che sta eliminando l’altra. Gli israeliani stanno portando avanti una sorta di lenta pulizia etnica a Gerusalemme  attraverso esecuzioni immediate e seminando la paura per fare in modo che i palestinesi lascino la città. Israele vuole che Gerusalemme abbia una maggioranza ebraica.

Non possiamo rimanere in silenzio di fronte a queste umiliazioni quotidiane. Succederà che i palestinesi alzeranno il livello della resistenza. Nel frattempo aumenterà la violenza dei coloni. Ma le forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese rimarranno a guardare.

Raya Shamali

17 anni, studentessa di scuola superiore ad Arraba, Israele

La tensione tra le due parti è sempre stata  alta ed ogni tanto qualcosa la scatena e la rende più evidente. L’attuale situazione sta portando a scontri ancora peggiori tra i sionisti e i palestinesi e tra i cittadini palestinesi di Israele e il governo.

Ciò che sta avvenendo ora, i giovani palestinesi che lottano contro l’occupazione, è simile a quello che è successo nella seconda intifada, durante la quale questa generazione è cresciuta. Purtroppo è probabile che ciò porti a molti morti da entrambe le parti e colpisca in tutti gli ambiti della vita.

Finché le proteste continuano, mi aspetto che le forze di sicurezza israeliane continueranno nella repressione e nel razzismo verso i palestinesi. Mi aspetto anche che i coloni israeliani intervengano in modo più deciso.

E’ difficile dire cosa faranno le forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese. O cercheranno di porre fine a quello che stanno facendo quelle israeliane, cosa che ci potrebbe portare a una guerra, o reprimeranno i manifestanti in modo che la situazione non diventi ancora peggiore.

Mustafa Staiti

29 anni, fotografo cinematografico a Jenin, Cisgiordania

Per la mia generazione – nata a metà degli anni ’80 durante la prima rivolta e che ha vissuto la seconda in tutti i suoi aspetti – è più facile avere un’opinione su quando tutto ciò diventerà quello che chiamiamo intifada. Una nuova azione può obbligare il mondo a trovare una soluzione finale per i palestinesi, o terminare con un altro disastro ad aggiungersi alla pulizia etnica a danno dei palestinesi. Quelli che scendono in strada adesso sono di una generazione più giovani di me. Sono nati nel culmine della violenza durante la seconda intifada – sono arrabbiati, senza paura e non gli importa quello che gli possa succedere. Non hanno niente da perdere; hanno sempre vissuto in guerra.

L’Autorità Nazionale Palestinese è instabile perché è legata ad accordi che dovrebbe mandare al diavolo, ma ciò porterebbe a una divisione o ad una violenza tra palestinesi. Israele cercherà di occupare più terra e continuerà ad usare la mano pesante. I coloni saranno i più soddisfatti se l’esercito israeliano invaderà la Cisgiordania e se si avanzerà verso l’idea di un unico Stato di Israele [compresi i Territori Occupati].

Mariam Barghouti

22 anni, studentessa universitaria a Ramallah, Cisgiordania

Credo ci sia una grande discrepanza tra il dibattito in corso all’estero sul fatto  se questa sia una terza intifada o no e la realtà sul terreno, dove questa discussione appare insensata. Al di là delle etichette, i giovani palestinesi stanno esprimendo il proprio malessere contro l’aggressione israeliana e i fallimenti della dirigenza palestinese per trovare una concreta soluzione per il popolo palestinese.

La grande maggioranza dei giovani che scendono in piazza ha tra i 13 e i 27 anni. E’ importante notarlo perché questa è la generazione di Oslo. E’ una generazione che non conosce una realtà oltre il muro dell’apartheid o le tattiche repressive dell’Autorità Nazionale Palestinese. Quello a cui stiamo assistendo non sono solo casuali atti di violenza, questa frustrazione ha infettato il popolo palestinese ormai da anni, stiamo lentamente implodendo. Piccoli atti di protesta in Cisgiordania, razzi da Gaza, scontri nella Palestina storica [Israele], tutto questo va a braccetto. Non possiamo decontestualizzare la situazione attuale dal passato. Ogni reazione è stata preceduta da un’azione, sia che si tratti del progressivo aumento dell’aggressione israeliana o della repressione da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese. Non è solo uno scontro  nei confronti dell’aggressione israeliana, ma un messaggio all’Autorità Nazionale Palestinese che si creerà una rivolta se continueranno la normalizzazione dell’occupazione, tenendo tranquillo Israele grazie al coordinamento per la sicurezza, pretendendo contemporaneamente di parlare in nome dei palestinesi.

Questo è un momento cruciale, in cui i giovani diventano protagonisti. Le voci che erano rimaste assenti dalle politiche israelo-palestinesi stanno erompendo attraverso il suono di cori, pietre, accoltellamenti e qualunque altro metodo disponibile. Non si può dire dove finirà tutto ciò, ma non credo che adesso sia importante. La situazione potrebbe benissimo terminare con l’aiuto dell’Autorità Nazionale Palestinese, succube di Israele; oppure l’escalation potrebbe continuare ad aumentare finché formeremo una dirigenza dal basso che possa iniziare a formulare delle richieste. Comunque il messaggio chiaro è che per ogni azione c’è una reazione e questa è la reazione della gioventù palestinese al  fallimento dei negoziati e alle continue aggressioni israeliane.

Finché gli scontri continueranno da parte dei giovani palestinesi, le forze di sicurezza israeliane risponderanno nell’unico modo che conoscono, cioè con la violenza. E’ insito nella loro struttura coloniale opprimere e opporsi ad ogni forma di resistenza palestinese. E’ una tattica istituzionalizzata e non una reazione alle manifestazioni palestinesi. Le vite dei coloni sono state turbate dai palestinesi, non si sentono più a loro agio nella loro opera di colonizzazione e ciò potrebbe avere uno di questi due risultati, potrebbero accentuare  la violenza contro i palestinesi (come vediamo attualmente), o capire che la colonizzazione non gli conviene economicamente o socialmente e questo potrebbe obbligarli a voler lasciare le loro colonie. La differenza tra i giovani palestinesi e i coloni israeliani è che i giovani palestinesi non hanno dietro di loro un appoggio, si sostengono uno con l’altro. D’altra parte i coloni hanno il sostegno dell’esercito israeliano e naturalmente del sistema giudiziario israeliano, che non li incolperà né li condannerà per le continue violenze perpetrate contro i palestinesi.

Quanto alle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese, non agiranno senza un ordine della dirigenza dell’Autorità Nazionale Palestinese. Attualmente stanno permettendo ai giovani palestinesi di scontrarsi con le forze di sicurezza israeliane non per un sincero appoggio al popolo palestinese, ma perché stanno attenti a che la rabbia  in piazza non si rivolga contro di loro. D’altro canto ho detto “permettono” ai giovani, perché l’Autorità Nazionale Palestinese ha ancora il potere di placare l’ira dei giovani che scendono in strada. Il silenzio dell’Autorità Nazionale Palestinese potrebbe benissimo essere un metodo per lasciare che i giovani che manifestano si stanchino invece di cercare di tranquillizzare le masse come fanno di solito. Quello che è orribile comunque è la possibilità che l’Autorità Nazionale Palestinese utilizzi lo spirito dei giovani in piazza come una merce di scambio con Israele per rafforzare la propria legittimità in Cisgiordania come l’unica autorità in grado di ottenere la calma e controllare le masse palestinesi e obbligare Israele a tornare al tavolo dei negoziati.

Stilato da Renee Lewis, Ehab Zahriyeh, Nadeem Muaddi e Nadia AbuShaban

(Traduzione di Amedeo Rossi)