Israele non ha attuato nessuna pulizia etnica nel 1948

Nota redazionale: pur non condividendone affatto i contenuti, e non potendo in questa sede entrare nel merito della sua fondatezza dal punto di vista storico (smentita ad esempio dai lavori di Ilan Pappé), abbiamo deciso di proporre questa risposta di Benny Morris all’articolo di Daniel Blatman su Haaretz.

Pensiamo infatti che i lettori di Zeitun possano essere interessati a seguire il dibattito storiografico innescato in Israele dalle dichiarazioni di Netanyahu in merito alla definizione di “pulizia etnica” nel caso di un ritiro dei coloni dai territori occupati della Cisgiordania e di Gerusalemme est. Va comunque ricordato quanto lo stesso Morris ha dichiarato al quotidiano Haaretz… “Senza la rimozione dei palestinesi, qui non avrebbe potuto nascere uno Stato ebraico… quel che penso è che questo posto sarebbe stato più tranquillo e avrebbe conosciuto meno sofferenza se la questione fosse stata risolta una volta per tutte. Se Ben Gurion avesse compiuto una grande espulsione e ripulito l’intero paese – l’intera Terra d’Israele, fino al fiume Giordano. Potremmo scoprire che questo fu il suo errore fatale. Se avesse portato a termine un’espulsione completa – invece di una parziale – avrebbe potuto stabilizzare lo Stato d’Israele per molte generazioni.”
E riguardo alle responsabilità di Ben Gurion e dei dirigenti sionisti ha affermato: “Dall’aprile del 1948, Ben Gurion trasmette l’idea del trasferimento. Non ci sono ordini espliciti nei suoi scritti, non c’è una precisa linea politica, ma traspare l’idea del trasferimento [di popolazione]. L’idea del trasferimento è nell’aria. L’intera leadership ha capito che questa era l’idea. Il corpo ufficiali capisce cosa gli viene richiesto. Sotto Ben Gurion, viene creato il consenso al trasferimento….Certo, Ben Gurion era un sostenitore del trasferimento. Aveva capito che non avrebbe potuto esistere uno Stato ebraico con una vasta minoranza araba ostile al suo interno. Non avrebbe mai potuto esistere uno Stato simile. Non sarebbe stato in grado di sopravvivere.”

Vedi: http://www.forumpalestina.org/Doc%20forumpalestina/2004/Febbraio04/27-02-0Nakba_ 1948_ Intervista_di_Benny-Morris.htm

di Benny Morris

Haaretz – 10 ottobre 2016

Il professor Daniel Blatman distorce la storia quando afferma che il nuovo stato di Israele, un paese che affrontava eserciti invasori, ha condotto una politica di espulsione delle popolazioni arabe locali.

In fondo al suo articolo della scorsa settimana, “Netanyahu, ecco che cosa è veramente la pulizia etnica”, il professor Daniel Blatman viene definito uno “storico”. In tal caso, Blatman ha tradito la sua professione attribuendomi posizioni che non ho mai sostenuto e distorcendo gli eventi della guerra del 1948.

Anzitutto nel suo articolo Blatman ignora il fatto fondamentale che sono stati i palestinesi a dare inizio alla guerra, quando hanno respinto il piano di compromesso delle Nazioni Unite ed hanno intrapreso azioni ostili in cui 1800 ebrei sono stati uccisi tra il novembre 1947 e la metà di maggio 1948. (In questo, tra l’altro, c’è differenza tra gli ebrei ed i serbi, che hanno iniziato le guerre in Yugoslavia negli anni 1990 ed hanno effettivamente attuato una pulizia etnica in Bosnia ed altrove).

Riguardo alla seconda fase della guerra del 1948, Blatman sostiene che i paesi arabi hanno invaso il futuro stato di Israele per salvare i loro fratelli palestinesi dalla pulizia etnica che gli ebrei avevano iniziato, e che la maggior parte di essi ha attaccato il nuovo stato di Israele a questo scopo. Nel corso di questa presunta pulizia etnica “più di 400.000” arabi – che secondo Blatman costituivano oltre la metà della popolazione araba palestinese – sono stati espulsi dalle loro case e costretti a fuggire dal 14 maggio (1948). (In realtà, all’epoca vi erano da 1,2 a 1,3 milioni di arabi nel paese.)

Il numero reale di coloro che sono fuggiti e sono stati costretti a fuggire era verosimilmente più basso, ma, cosa ancor più importante, gli stati arabi hanno attaccato lo stato di Israele soprattutto per nuocergli, se non per distruggerlo. Il fatto è che i loro leaders hanno minacciato l’invasione anche prima che fosse approvata la risoluzione dell’ONU il 29 novembre 1947 e prima che anche un solo arabo fosse stato cacciato dalla sua casa. Ed hanno continuato a minacciare un’invasione nei mesi seguenti, fino a maggio 1948.

Non è stata la tragedia palestinese a motivare i paesi arabi durante l’invasione. La verità è che la fuga e l’espulsione degli arabi dalle loro case prima della nascita dello stato di Israele, soprattutto da inizio aprile fino al 14 maggio 1948 [data della proclamazione dello Stato di Israele, ndt.] (è a tale proposito che sono stati sempre citati la presa di Jaffa, Tiberiade e Haifa ed il massacro di Deir Yassin) hanno alimentato l’estremismo tra le popolazioni arabe che circondavano il futuro Israele e sono state una delle ragioni per cui i leaders arabi hanno deciso di procedere all’invasione alla vigilia del 15 maggio.

Ma fattori più importanti hanno influenzato i leaders arabi nella loro decisione: per esempio, re Abdullah di Giordania voleva espandere i confini del proprio paese, il re egiziano intendeva negare a quello giordano ulteriori conquiste territoriali ed i leaders di Siria, Iraq ed Egitto temevano la reazione interna se non avessero effettuato l’invasione. La preoccupazione per il benessere degli arabi nel territorio, non ancora stato, di Israele non era il principale motivo dell’invasione araba.

Attaccare il neonato stato ebraico

Secondo Blatman, io ho sostenuto che “più di sei mesi prima che iniziasse l’invasione araba” i leaders dell’Yishuv, la comunità ebraica nella Terra di Israele, aspiravano ad espandere i confini del paese oltre quelli stabiliti dalla risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU, “e ridurre al minimo il numero” degli arabi che sarebbero rimasti nello stato ebraico.

Questo non ha senso, è una distorsione delle mie parole e della storia. Ovviamente i leaders, nei primi anni di vita di un paese, hanno interesse ad espanderne il territorio, ma c’è una grande differenza tra aspirazioni personali e politiche.

In termini politici, i leaders dell’Yishuv aspiravano ad ingrandire l’area dello stato che stava per nascere solo a partire da marzo-aprile 1948, non fin da novembre 1947. E questo è successo solo dopo quattro mesi di conflitto arabo contro l’Yishuv, che stava impostando una difesa strategica. Ed è successo solo dopo che i leaders arabi dichiararono apertamente, mattina, giorno e notte, che intendevano attaccare lo stato ebraico quando se ne fossero andati i britannici.

Riguardo al fatto di ridurre al minimo il numero di arabi, in nessun momento della guerra del 1948 fu presa una decisione da parte della leadership dell’Yishuv o dello stato di “espellere gli arabi” – né nell’ambito dell’Agenzia Ebraica né del governo di Israele; e neanche all’interno dello stato maggiore dell’Haganah [principale milizia sionista prima della creazione dell’esercito israeliano, ndt] o dell’esercito israeliano. E nessun partito importante nell’Yishuv, neppure i revisionisti [gruppi sionisti della destra nazionalista, ndt.], ha inserito tale politica nel suo programma.

E’ vero che negli anni ’30 ed all’inizio degli anni ’40 David Ben Gurion e Chaim Weizman hanno sostenuto il trasferimento di arabi dall’area del futuro stato ebraico. Ma in seguito hanno appoggiato la decisione dell’ONU, il cui piano prevedeva che più di 400.000 palestinesi rimanessero dove erano [cioè nel territorio dello Stato di Israele, ndt.].

E’ vero altresì che a partire da una certa fase della guerra Ben Gurion ha lasciato intendere ai suoi ufficiali che era preferibile che rimanessero nel nuovo paese meno arabi possibile, ma non diede mai loro l’ordine di “espellere gli arabi”. (Nel luglio 1948 si è espresso addirittura contro l’espulsione degli arabi di Nazareth, mentre ha ordinato a malincuore l’espulsione di quelli di Lod e Ramle.)

La logica del trasferimento che prevalse nel paese a cominciare dall’aprile 1948 non si è mai trasformata in una scelta politica ufficiale – il che spiega perché ci sono stati ufficiali che espulsero gli arabi ed altri che non lo fecero. Né gli uni né gli altri sono stati redarguiti o puniti.

Alla fine, nel 1948 circa 160.000 arabi sono rimasti nel territorio israeliano – un quinto della popolazione. Nel corso dei decenni questo numero è aumentato fino a 1,6 milioni. (In questo mese i loro leaders hanno deciso di non partecipare al funerale di Shimon Peres, che cercò di promuovere un accordo basato sulla soluzione di due stati.)

Nessuna politica di espulsione totale

Se Blatman legge i miei libri, può apprendere che già il 24 marzo 1948 Israel Galili, vice di Ben Gurion nel futuro Ministero della Difesa e capo dell’Haganah, ordinò a tutte le brigate dell’Haganah di non deportare gli arabi dal territorio destinato allo stato ebraico. Le cose cambiarono all’inizio di aprile a causa delle instabili condizioni dell’Yishuv e dell’imminente invasione araba. Ma non vi fu una politica di espulsione totale – in qualche luogo espulsero la popolazione, in altri no, e per la maggior parte gli arabi semplicemente scapparono.

E’ vero che a metà del 1948 il nuovo stato di Israele adottò una politica di divieto del ritorno dei rifugiati – gli stessi rifugiati che mesi e settimane prima avevano cercato di distruggere il nascituro stato. Ma io continuo a ritenere tale politica logica e giusta.

Non accetto la definizione di “pulizia etnica” per ciò che fecero gli ebrei nel futuro stato di Israele nel 1948. (Se prendiamo in considerazione Lod e Ramle, forse possiamo parlare di parziale pulizia etnica). E sicuramente non vi fu una pulizia etnica che fu “una delle più riuscite del XX secolo”, come l’ha definita Blatman. Al contrario.

Alla fine, 160.000 arabi sono rimasti sul territorio israeliano e non tutti quelli che hanno cercato di tornare dai paesi arabi dopo il 1948 sono stati espulsi, come sostiene Blatman. Molti lo sono stati, e a molti che in qualche modo sono ritornati è stato consentito di restare e sono diventati cittadini dello stato ebraico.

Detto per inciso, i paesi arabi hanno attuato una pulizia etnica e scacciato tutti gli ebrei fino all’ultimo dai territori che hanno conquistato nel 1948 – per esempio, i giordani a Gush Etzion e nella città vecchia di Gerusalemme ed i siriani a Masada, Sha’ar Hagolan e Mishmar Hayarden. Gli ebrei, d’altra parte, hanno lasciato rimanere gli arabi ad Haifa e Jaffa e nei villaggi lungo le strade principali del paese – l’autostrada Gerusalemme-Tel Aviv e Tel Aviv-Haifa – un fatto che non corrisponde all’affermazione secondo cui si è trattato di una pulizia etnica “riuscita”.

Riguardo all’attuale preoccupazione su questa questione, è assurdo, per dirla in termini blandi, sostenere che cacciare le comunità ebraiche dalla Cisgiordania sia una “pulizia etnica”, ma c’è una logica nella presenza di ebrei in zone arabe, così come che arabi vivano nello stato ebraico. Nella situazione attuale, l’impresa di colonizzazione in Giudea e Samaria [come i sionisti israeliani definiscono la Cisgiordania occupata, ndt.] costituisce un ostacolo ad una possibile pace tra noi ed i palestinesi. Io mi sono sempre opposto a questa impresa, perché una divisione in due stati per due popoli è la soluzione giusta e logica.

Purtroppo Benjamin Netanyahu ha ragione quando dice che il principale ostacolo alla pace è la mancanza di volontà degli arabi da entrambe le parti della Linea Verde di accettare un compromesso basato su due stati per due popoli, ed il loro rifiuto della legittimazione dell’impresa sionista e dello stato di Israele.

Il professor Benny Morris, storico, è autore di “La nascita della questione dei rifugiati palestinesi rivisitata.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Netanyahu, ecco che cosa è veramente la pulizia etnica

di Daniel Blatman,

Haaretz – 3 ottobre 2016

    1. La pretesa di Benjamin Netanyahu che il trasferimento dei coloni dalla Cisgiordania sarebbe “pulizia etnica” è assolutamente insensata. Se vuole sapere che cosa sia la pulizia etnica, deve tornare al 1948, non al 2005.

L’ultimo colpo da maestro del “nuovo storico” Benjamin Netanyahu continua a raccogliere seguaci.

Il primo ministro ha recentemente dichiarato che l’evacuazione degli insediamenti coloniali nei territori occupati – che sono caratterizzati da segregazione razziale e risultano illegali rispetto a qualunque standard giuridico internazionale – si configurerebbe come pulizia etnica.

L’ultimo della sua lista di accoliti è Moshe Arens [politico del partito di destra Likud, ndt.], che ha scritto: “ La pulizia etnica è la rimozione forzata di gruppi etnici o religiosi da un determinato territorio allo scopo di renderlo omogeneo dal punto di vista etnico o religioso” (“Pulizia etnica degli ebrei da Gaza e altrove”, Haaretz, 19 settembre). Conclude quindi che ogni volta che gli ebrei sono stati evacuati dalle loro case contro la loro volontà – a cominciare dai residenti di Gush Etzion nel 1948 fino ai coloni della Striscia di Gaza nel 2005 – è stata perpetrata una pulizia etnica e le vittime sono stati gli ebrei. Questa è un’assurdità che non trova il minimo riscontro nelle definizioni giuridiche riconosciute.

Il concetto di pulizia etnica è recente, è entrato nel linguaggio pubblico e giuridico nel 1992 durante la guerra in Bosnia. I serbi bosniaci attaccarono i musulmani in Bosnia, con l’obbiettivo di espellerli dal territorio in cui vi era una popolazione mista verso zone a maggioranza omogenea di musulmani bosniaci.

Gli stessi serbi utilizzarono il termine per la prima volta nel 1981, quando i serbi del Kosovo furono attaccati dai musulmani albanesi. Nel lessico internazionale degli anni ’90 il termine veniva identificato con la guerra nella ex Yugoslavia, quando i soldati di gruppi etnici attaccavano altre minoranze (serbi, croati, albanesi, kosovari, musulmani bosniaci) allo scopo di cacciarli con la forza verso differenti zone dove vivevano membri della stessa minoranza: i croati in Croazia, i serbi in Serbia, i kosovari albanesi in Albania, ecc.

A partire da allora, il termine è stato sottoposto ad esame critico da parte di esperti legali e ricercatori, poiché esso viene spesso usato come un eufemismo in casi che in realtà dovrebbero essere catalogati come genocidio.

Il fenomeno della pulizia etnica non è di semplice definizione. Da un lato, è diverso dall’esercitare pressioni per l’emigrazione e il trasferimento di popolazione; d’altro lato, è anche diverso dal genocidio. C’è ampio consenso nel campo della ricerca sul fatto che la pulizia etnica sia una forma di migrazione forzata – che può diventare violenta e spietata – di una popolazione indesiderata da un determinato territorio a causa di odio razziale, etnico, religioso, politico, strategico o ideologico.

E’ esattamente ciò che è successo nel 1948. Lo storico israeliano Benny Morris ha valutato che la maggior parte degli arabi del paese, oltre 400.000, furono incoraggiati ad andarsene o espulsi durante la prima fase della guerra – anche prima dell’attacco degli eserciti delle nazioni arabe. Alcuni ricercatori hanno ipotizzato che l’aggressione araba ad Israele in realtà iniziò perché Israele aveva adottato una politica di pulizia etnica. Ciò in quanto era difficile trovare una spiegazione alla massiccia evacuazione militare di quasi 500.000 residenti palestinesi ed alla giustificazione della loro espulsione col fatto che le aree in cui vivevano erano da ritenersi appartenenti allo stato ebraico in base al Piano di Ripartizione delle Nazioni Unite.

Morris sostiene che oltre sei mesi prima che iniziasse l’invasione araba la leadership ebraica tentò di espandere il territorio destinato all’insediamento dello stato ebraico e di ridurre al minimo il numero di arabi che avrebbero vissuto sulle sue terre. In altri termini, circa mezzo milione di palestinesi furono scacciati con la forza dal territorio in cui vivevano, in quanto erano una popolazione indesiderata, da un punto di vista etnico, razziale, religioso, di prospettiva strategica, o da tutti quanti questi punti di vista.

Le centinaia di comunità in cui viveva la popolazione araba vennero rase al suolo o cedute ad insediamenti ebraici alla fine della guerra. Le proprietà arabe del valore di decine di milioni di sterline palestinesi (valuta della Palestina durante il mandato britannico, di valore pari alla sterlina inglese, ndtr.) furono rubate e confiscate. Chi tentava di ritornare fu espulso con la forza o ucciso. La pulizia etnica applicata in Palestina nel 1948 fu una delle più riuscite del XX secolo.

Il metodo di pulizia etnica nei confronti dei palestinesi vale anche per la popolazione ebrea che viveva negli insediamenti di Gush Etzion. Ma occorre ricordare che vi erano là solo quattro comunità e poche centinaia di ebrei. Ci sono altre differenze fondamentali tra la pulizia etnica adottata contro i palestinesi e quella adottata a Gush Etzion e Gush Katif, differenze che coloro che approvano l’interpretazione di Netanyahu ignorano.

Nel 1992 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite insediò una commissione di esperti il cui compito era proporre una definizione condivisa di pulizia etnica e fornire al sistema giuridico internazionale degli strumenti per definire il crimine e punire i responsabili.

In una nota, la commissione descrisse la pulizia etnica come “intesa ad ottenere la distruzione fisica di un gruppo, interamente o in parte” . E, in seguito, come l’evacuazione di popolazione da un’area ad un’altra in “circostanze tali da condurre alla morte dell’intera popolazione evacuata, o di parte di essa – se, per esempio, le persone fossero trascinate fuori dalle loro case e costrette a percorrere lunghe distanze in un paese in cui sono esposte alla fame, alla sete, al caldo, al freddo e alle epidemie. “

Lo scopo di questa formulazione era analizzare i punti in cui pulizia etnica e genocidio coincidono, e in quali condizioni la pulizia etnica si trasforma nel crimine di genocidio. Ma se consideriamo ciò che la commissione di esperti ha stabilito, possiamo vedere che sostenere che l’evacuazione degli ebrei dalle comunità individuate dal governo sia pulizia etnica è totalmente privo di senso.

Anzitutto perché sappiamo bene che un paese non può attuare una pulizia etnica su una popolazione che appartiene allo stesso gruppo etnico. Può perpetrare un genocidio (come fecero i Kmer rossi in Cambogia), ma l’evacuazione di una popolazione di uno specifico gruppo etnico e il suo re- insediamento all’interno di una popolazione dello stesso gruppo non configura pulizia etnica. E’ ciò che il governo ha deciso di fare riguardo agli sfollati da Gush Katif nel 2005 e a quelli dell’insediamento di Yamit nel Sinai nel 1982.

In secondo luogo, non c’è nulla di più lontano dalla verità che descrivere le persone sfollate da Yamit o dalla regione di Gaza nei termini di una miserabile popolazione sradicata dalle proprie case e lasciata alla fame, alla sete ed esposta a rischio per la propria esistenza.

Israele si impegnò a prendersi cura delle famiglie sfollate e stanziò a tal fine somme enormi. Se i coloni saranno evacuati in futuro dai territori occupati, il governo garantirà loro nuovamente una rete di sicurezza, che gli consentirà di ricominciare adeguatamente la loro vita in Israele.

Sono i palestinesi quelli che, a partire dalla pulizia etnica di cui sono state vittime nel 1948 fino ad oggi, sono rimasti esposti alla fame, alla deprivazione, alla violenza e ad ulteriori espulsioni dalle proprie case. E sono quelli che vivono in povertà nell’enorme ghetto di Gaza e nei campi profughi della Cisgiordania. Tutte le interpretazioni surrettizie di Netanyahu e dei suoi sostenitori non potranno nascondere nulla di tutto ciò.

L’autore è uno storico dell’Olocausto e capo dell’Istituto per il popolo ebraico contemporaneo all’Università ebraica di Gerusalemme.

Traduzione di Cristiana Cavagna




Shimon Peres: fondatore di Israele, architetto dell’occupazione

Rori Donaghy

Middle East Eye– mercoledì 28 settembre 2016

Per i suoi sostenitori Peres era una colomba della pace, ma per i suoi critici ha giocato un ruolo chiave nella costruzione di uno Stato israeliano che opprime i palestinesi

Shimon Peres, l’ultimo padre fondatore di Israele, è morto mercoledì all’età di 93 anni dopo che le sue condizioni sono rapidamente peggiorate in seguito a un grave ictus due settimane fa.

I leader mondiali hanno riservato elogi a Peres, compreso l’ex presidente americano Bill Clinton, che lo ha descritto come una “colomba della pace” per il suo ruolo negli accordi di Oslo del 1993 – le prime intese tra leader israeliani e palestinesi, che lo hanno portato a vincere il Nobel per la pace collettivo un anno dopo.

Tuttavia gli elogi non sono stati universali, con critiche che hanno sottolineato il suo ruolo nello sviluppo delle prime colonie israeliane e come primo ministro nel 1996, quando le truppe israeliane massacrarono 154 civili libanesi nella cosiddetta “Operazione Grappoli d’ira”.

Il primo ministro palestinese Mahmoud Abbas, del partito Fatah della Cisgiordania, ha osannato Peres come un “coraggioso”, mentre i suoi rivali di Hamas a Gaza lo hanno definito un “criminale”.

Nato Szymon Perski nel 1923, Peres nel 1934, all’età di 11 anni, si spostò con la sua famiglia dalla terra natale in Polonia verso quello che era allora il Mandato Britannico della Palestina. Dopo essere cresciuto in un kibbutz, Peres si unì al connazionale polacco e in seguito sodale politico David Ben-Gurion, che sarebbe poi diventato il primo premier di Israele.

Peres è stato spesso lodato come uomo che ha dedicato la sua vita a cercare la pace tra israeliani e palestinesi, rifiutando di rinunciare a concludere un accordo fin quando ha iniziato il suoi ultimi dieci anni di vita.

Durante un discorso nel 2014 al memoriale di Yitzhak Rabin – l’ex-primo ministro israeliano che fu assassinato nel 1995 per aver firmato gli accordi di Oslo – Peres incitò il popolo a non rinunciare alla pace.

“La pace è diventata una parola offensiva,” ha detto a migliaia di persone che si erano riunite a Tel Aviv. “Ci sono quelli che dicono che chi crede nella pace è un ingenuo, non è un patriota, un illuso. Ma io dico a voce alta che gli illusi sono quelli che rinunciano alla pace.”

Il tono poetico delle parole di Peres ha spesso guadagnato le prime pagine, valendogli un’immagine di voce della ragione in un conflitto apparentemente irrisolvibile. Tuttavia durante la sua lunga vita di dirigente politico l’eredità di Peres si è costruita attraverso il suo coinvolgimento in decisioni e progetti lontano dai riflettori delle riprese televisive.

Prima della fondazione di Israele a danno della Palestina nel 1948, Peres era un membro dell’Haganah – una milizia ebraica clandestina – e nonostante avesse solo 20 anni venne assegnato al ruolo fondamentale di comprare armamenti e munizioni per la guerra che alla fine portò alle uccisioni in massa e all’espulsione di più di 700.000 palestinesi.

La bomba di Israele

Dopo aver svolto egregiamente il suo ruolo nell’Haganah, nel 1953 fu nominato direttore generale del ministero della Difesa di Israele, dove avrebbe continuato a giocare un ruolo cruciale nello sviluppo di un reattore nucleare segreto nella città di Dimona, nel deserto meridionale del Negev.

Anche se un giorno sarebbe diventato il nono presidente di Israele, così come sarebbe stato per due volte primo ministro, il suo ruolo nello sviluppo delle armi nucleari di Israele, che furono testate per la prima volta negli anni ’60, ha consacrato Israele come una importante potenza militare al di fuori di ogni controllo internazionale.

Più tardi, come ministro della Difesa nel 1975, Peres si incontrò con il governo sudafricano dell’apartheid e offrì di vendergli testate nucleari. Desideroso di mantenere nascoste le proprie attività nucleari, nel 1986 Peres autorizzò la caccia ed il rapimento da parte dei servizi segreti israeliani della “gola profonda” Mordechai Vanunu [che rivelò al Sunday Times che Israele aveva la bomba atomica e per questo venne rapito a Roma, portato in Israele e condannato per tradimento e spionaggio . Ndtr.], che avrebbe passato 18 anni di prigione.

L’artefice della colonizzazione

Peres potrebbe un giorno essere visto come un patrimonio nazionale non solo in Israele, bensì anche a livello internazionale, ma ha giocato un ruolo cruciale nello sviluppo delle colonie illegali ebraiche israeliane sulla terra della Cisgiordania palestinese, avendo notoriamente adottato lo slogan “Colonie ovunque” quando era ministro della Difesa negli anni ’70.

Il suo ruolo nell’estensione del controllo israeliano sulla terra palestinese sarebbe continuato con gli accordi di Oslo, perché, benché fossero lodati come un passo verso la pace, la divisione della Cisgiordania in tre zone alla fine ha fornito la base per il controllo israeliano sulla maggior parte di quello che avrebbe dovuto essere lo Stato palestinese.

Gli accordi hanno portato alla divisione della Cisgiordania in tre zone -A, B e C – e si riteneva che sarebbero durati cinque anni. Ma queste zone continuano ad essere la base su cui la Cisgiordania è governata, con l’area C – sotto totale controllo israeliano – che costituisce poco più del 60% del totale della Cisgiordania.

Massacro di Qana

Da molti critici Peres sarà anche ricordato per il suo ruolo nel massacro di 154 civili libanesi in un attacco ad un villaggio durante l’operazione militare di Israele del 1996 contro Hezbollah [milizia sciita libanese. Ndtr.] nota come “Operazione Grappoli d’ira”.

Peres era il primo ministro di Israele quando il suo esercito attaccò il villaggio di Qana il 18 aprile 1996, bombardando un edificio delle Nazioni Unite in cui circa 800 civili si erano rifugiati per sfuggire ai bombardamenti israeliani

Quando gli fu chiesto dell’attacco contro Qana – che egli difese come un errore – Peres più tardi disse: “Tutto è stato fatto in base ad una chiara logica e in modo responsabile. Ho la coscienza a posto.”

E’ questa narrazione alternativa della vita e dell’eredità di Peres che comporta il fatto che egli non sarà elogiato dai palestinesi a da molti altri.

Reazioni arabe

Mentre i media in lingua inglese insistono con l’immagine di Peres come una colomba della pace, mercoledì i mezzi di informazione arabi hanno presentato un’altra immagine quando hanno informato della sua morte.

Sky News in arabo ha descritto Peres come un “padrino” del programma per la produzione delle armi nucleari di Israele e come il “fondatore delle colonie”. Al Jazeera in arabo lo ha etichettato come un “assassino di massa” che è stato “incoronato con il Premio Nobel”.

La dirigenza dell’Autorità Nazionale Palestinese – che Peres ha contribuito a creare – è stata più elogiativa a proposito del defunto leader israeliano: un importante consigliere del presidente Mahmoud Abbas lo ha descritto come un “uomo di pace”.

“Il suo decesso è sicuramente una grande perdita per l’umanità e per la regione,” ha detto al Jerusalem Post [giornale israeliano in lingua inglese. Ndtr.] Majdi al-Kahlidi, consigliere diplomatico di Abbas.

Tuttavia Awni Almashni, membro di Fatah, il partito di Abbas, ha detto a MEE che Peres era “un nemico del popolo palestinese.”

“Peres credeva nella pace, ma nel senso israeliano, che concede a Israele il potere e il controllo sulla terra,” ha affermato. “Non lo vediamo come un pacificatore.”

Il movimento Hamas di Gaza, fiero rivale di Abbas, ha descritto Peres come un “criminale” della cui morte è “molto contento”.

Il portavoce di Hamas Sami Abu Zuhri ha detto all’Associated Press [agenzia di stampa statunitense. Ndtr]: “Shimon Peres è stato l’ultima personalità importante israeliana rimasta ad aver dato vita all’occupazione, e la sua morte rappresenta la fine di un periodo nella storia di questa occupazione e l’inizio di una nuova fase di indebolimento.”

Il funerale di Peres avrà luogo venerdì nel cimitero nazionale israeliano sul monte Herzl a Gerusalemme, a cui si pensa parteciperanno dirigenti politici da tutto il mondo.

Ma uno che non ci sarà è il politico israeliano-palestinese Basil Ghattas, che ha provocato scandalo in Israele quando ha reagito all’ictus di Peres del 14 settembre scrivendo su Facebook che non sarebbe “corso a partecipare” a un ” festival di dolore e di lutto”.

“Peres era uno dei più poderosi pilastri dell’impresa del colonialismo d’insediamento sionista,” ha scritto il deputato della Knesset [il parlamento israeliano. Ndtr.]. “Uno dei più spietati, estremisti e dannosi per la nazione palestinese.”

“Peres è coperto dalla testa ai piedi del nostro sangue.”

Contattato mercoledì da MEE, Ghattas ha detto che non avrebbe potuto aggiungere niente a quello che aveva già detto su Facebook.

Diana Buttu, una ex-negoziatrice palestinese, ha detto a MEE che il torrente di elogi per Peres ignora la sua reale vita – e che le sue azioni rappresentano crimini di guerra.

“Non è abbastanza chiamare Peres un criminale di guerra perché gliela farebbe passare liscia – egli va oltre,” ha affermato. “Peres ha messo in atto tutta una serie di crimini di guerra da parte di Israele avvenuti senza che ne dovesse rispondere.”

“Quello per cui Peres dovrebbe essere ricordato non è solo il fatto di essere un criminale di guerra ma di aver svuotato di ogni significato la parola ‘pace’. Pace ora può significare pulizia etnica, appoggio all’espansione delle colonie, il bombardamento di un edificio dell’ONU e il possesso di un arsenale nucleare senza essere oggetto di alcuna ispezione internazionale.”

“Pace può significare contravvenire alle leggi internazionali – è per questo che Peres dovrebbe essere ricordato.”

La palestinese Nabila Espanioly, un’attivista femminista del partito Hadash, ha detto a MEE che Peres era “innanzitutto un leader sionista.”

“La sua eredità è rappresentata da massacri e discriminazione,” ha affermato. “Ha fatto un passo verso la pace ma non ha cambiato niente in concreto, tranne la confisca di sempre più terra palestinese.”

“Fino ai suoi ultimi giorni Peres ha affermato il suo impegno per la pace, ma ha sempre avuto chiaro in mente che il popolo ebraico era la sua priorità in ogni possibile accordo.”

Nel 2014 ha detto: “La principale priorità è preservare Israele come Stato ebraico. Questo è il nostro principale obiettivo, per il quale stiamo lottando.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Sette messaggi che l’accordo di aiuti USA-Israele manda al resto del mondo

di Zeina Azzam

Middle East Eye – 19 settembre 2016

Dietro alle dimensioni del pacchetto di aiuti di 38 miliardi di dollari ci sono decisioni politiche nascoste che il resto del mondo, e soprattutto i palestinesi, dovrebbero sentire forti e chiare.

Il sito web della Casa Bianca descrive il “Memorandum d’Intesa” (MOU) tra gli Stati Uniti ed Israele, firmato la scorsa settimana, come “il più grande impegno singolo di assistenza militare nella storia degli USA.”

L’impegno di fornire 38 miliardi di dollari in 10 anni (2019-2028) include 33 miliardi in finanziamento militare estero e 5 miliardi in assistenza nella difesa missilistica. Questa dotazione militare senza precedenti e straordinaria, concessa pochi mesi prima che il presidente lasci il suo mandato, sarà una parte significativa dell’eredità di Obama.

Gli obiettivi dichiarati sono il potenziamento della sicurezza di Israele aggiornando la sua flotta aerea, rafforzando la sua difesa missilistica e favorendo l’acquisizione di ulteriori capacità difensive.

Alcuni analisti hanno sottolineato che questo accordo rappresenta un cambiamento nelle relazioni tra Washington e Tel Aviv, o hanno sostenuto che ciò rafforza la sicurezza di Israele mentre contrasta le sue politiche.

Ciononostante l’ampiezza dell’accordo implica certe decisioni politiche ed ipotesi. Quali sono questi messaggi più nascosti – benché globali – per il resto del mondo, e soprattutto per i palestinesi, della generosità senza precedenti di Obama?

1. Forza uguale giustizia. Questa nozione sbagliata informa il pacchetto di aiuti militari che rafforza ulteriormente l’egemonia militare di Israele nella regione, e per molto tempo. Israele è già considerato la potenza militare più forte in Medio Oriente – concedendogli più potere si privilegia il punto di vista di Israele e, in certa misura, si rafforza l’idea fuorviante secondo cui maggiore forza significa maggiore moralità. Ciò rende ogni apertura per la pace, l’imparzialità, o la reale giustizia priva di valore.

2. Un incentivo per la corsa al riarmo del Medio Oriente. Con l’obiettivo dichiarato di garantire la sicurezza di Israele, Washington sta invece garantendo la prosecuzione della guerra nella regione, e soprattutto nei territori palestinesi, dove Israele utilizza armi e una potenza aerea sempre più sofisticate. E’ grottesco il fatto che, mentre l’accordo sul nucleare con l’Iran nel 2015 intendeva ridurre la potenza nucleare del Paese e verificare che il suo uso fosse esclusivamente pacifico, l’accordo con Israele rafforza la conflittualità e spinge tutti i vicini di Israele a spendere di più in armamenti.

3. Israele=Impunità. L’inosservanza da parte di Israele delle politiche sostenute dagli USA, soprattutto riguardo alla costruzione di colonie ed alla creazione dello Stato palestinese, non ha portato nessuna conseguenza concreta nelle relazioni tra Washington e Tel Aviv. Il trattamento sprezzante e disdegnoso del primo ministro Benjamin Netanyahu verso Obama è ora sorprendentemente concretizzato in questo massiccio pacchetto di aiuti militari. Oltretutto il brutale trattamento dei palestinesi in Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza è stato quasi sempre ignorato o giustificato nel consesso internazionale, in quanto gli USA hanno regolarmente posto il veto contro le risoluzioni delle Nazioni Unite che condannavano le azioni di Tel Aviv contro i palestinesi. Il nuovo pacchetto di aiuti è fondamentalmente un premio per Israele, senza che siano state prese in considerazione le sue abituali e massicce violazioni delle leggi internazionali.

4. Le vite dei palestinesi non valgono niente. All’indomani di questo accordo, come è possibile per un palestinese che vive a Hebron o a Gerusalemme est o a Gaza sentire che la propria vita vale qualcosa per il governo americano? L’estensione dell’aiuto militare degli Stati Uniti ad Israele, che continuerà per almeno altri dieci anni a questo livello elevato, non dà nessuna ragione ai palestinesi di pensare che le loro vite contino qualcosa o che i loro diritti nazionali, civili e umani siano importanti.

Oltretutto la militarizzazione di Israele in continuo aumento nega ai palestinesi ogni speranza di un cambiamento, alimentando ulteriore disperazione e marginalizzazione. Infatti un giornalista israeliano [Gideon Levy. Ndtr.] sostiene che questo accordo cementa il ruolo di Obama come “patrono dell’occupazione”. I palestinesi e la comunità internazionale sanno che gli USA sono l’unico attore che può esercitare una reale influenza su Israele; questo accordo, tuttavia, mostra chiaramente che Washington non è amico dei palestinesi e di fatto li vede come gli aggressori impotenti e Israele come vittima potentissima – un punto di vista a parti totalmente invertite.

5. Finanziare l’esercito di Israele è più importante che finanziare i programmi sociali americani. Gli USA hanno parecchie sfide interne urgenti da affrontare, come la fame e la mancanza di case e problemi nell’educazione e nel sistema sanitario. L’ hashtag emerso su Twitter dopo l’accordo, #38billiontoIsrael, elenca parecchie questioni importanti da finanziare al posto dell’aiuto militare a Israele, come ricerche e strategie contro il virus “zika”, l’acqua potabile e la risistemazione di ponti in tutto il Paese. Destinare miliardi di dollari all’aiuto militare a Israele dimostra un palese disinteresse nei confronti di urgenti necessità interne. Si potrebbe anche sostenere che pure l’aiuto ai rifugiati sia una priorità – nazionale e internazionale – che richiederebbe un urgente sostegno finanziario.

6. La distruzione prevale sulla costruzione. Chiunque conosca il conflitto israelo-palestinese si deve chiedere: perché gli USA stanno potenziando un esercito già poderoso invece di destinare più fondi per aiutare Gaza a ricostruire le sue case, scuole, ospedali, fabbriche e sistemi idrici ed igienici che sono stati distrutti dall’attacco israeliano del 2014? Washington ha chiaramente scelto di investire in armi di distruzione invece che in materiale da costruzione e in forze aeree letali piuttosto che nell’attenuazione delle sofferenze umane.

7. L’opinione pubblica degli USA non conta. Un recente sondaggio del 2015 ha rilevato che una sostanziale maggioranza di americani – il 66% – pensa che gli USA non dovrebbero ” propendere per nessuna delle due parti” nel conflitto israelo-palestinese. Questo numero totale comprende democratici, repubblicani e indipendenti. Quando i dati vengono disaggregati, è interessante notare che il 75% dei democratici e l’80% degli indipendenti appoggiano l’imparzialità degli USA, mentre è d’accordo il 45% dei repubblicani. Queste cifre indicano che la politica di Washington verso Israele, che ne fa il Paese più armato e potente in Medio Oriente, non riflette le opinioni e i desideri del popolo americano.

Quanto a un così grande ammontare di aiuti militari per Israele, una ricerca del maggio 2016 ha rilevato che il 40% dei repubblicani, il 57% dei democratici e il 59% degli indipendenti pensava che l’offerta iniziale di aiuti fatta da Obama (40 miliardi di dollari – 2 miliardi in più della cifra finale) fosse “troppo, o decisamente troppo.”

Quest’accordo “favorisce Israele e i venditori di armamenti ma non il contribuente USA e non i palestinesi. Sono loro che ci rimettono,” ha scritto l’analista politico Vijay Prashad [intellettuale marxista di origini indiane che insegna negli USA. Ndtr.]

In effetti bisognerebbe scavare più in profondità nel discorso sulla sicurezza di Israele e nell’ vantaggio qualitativo militare per capire veramente gli sconfortanti messaggi che il pacchetto di aiuti militari USA ad Israele comporta per i palestinesi, per i cittadini americani e per la comunità internazionale.

– Zeina Azzam è direttore esecutivo della “Fondazione Gerusalemme” [associazione non profit statunitense che si occupa di programmi di solidarietà con il popolo palestinese. Ndtr.] e del suo programma educativo, il “Centro Palestina”, che si trova a Washington. Le opinioni espresse sono esclusivamente sue.

Le opinioni espresse in quest’articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Non ci sarà pace finché Israele non accetterà le proprie responsabilità per la Nakba

 

di Gideon Levy – 22 settembre 2016

Haaretz

Non ci sarà pace finché gli israeliani non sapranno e non capiranno come tutto questo è iniziato.

Il governo di Israele lo ha confermato ancora una volta: furono commessi crimini di guerra nel 1947-48; ci furono massacri, espulsioni, ci fu pulizia etnica – ci fu una Nakba, una Catastrofe, come i palestinesi chiamano la loro esperienza in quegli anni. Come lo sappiamo?

Il governo sta per prolungare la secretazione di uno dei documenti più importanti dell’archivio delle Forze di Difesa Israeliane [IDF, l’esercito israeliano. Ndtr.] che riguarda la creazione del problema dei rifugiati palestinesi. Sessantotto anni sono passati e Israele sta occultando a se stesso la verità degli archivi – ci potrebbe essere una prova più chiara che c’è qualcosa da nascondere? Un alto funzionario ha spiegato al corrispondente diplomatico di Haaretz Barak Ravid (“Commissione guidata da Shaked probabilmente intende mantenere riservato il “Nakba file” nell’archivio dell’IDF”, 20 settembre): “Quando ci sarà la pace, sarà possibile aprire questi materiali alla visione del pubblico.”

La pace non ci sarà finché gli israeliani non sapranno e non capiranno come tutto questo è iniziato. La pace non ci sarà finché Israele non ne accetterà la responsabilità, non chiederà perdono e non offrirà compensazioni. Non c’è pace senza questo. Forse ci potrebbero essere commissioni per la verità e la riconciliazione come in Sud Africa o una genuflessione e riparazioni come in Germania. Ciò potrebbe essere il modo per esprimere pentimento al popolo palestinese, ritorno parziale e parziale compensazione per le proprietà sottratte nel 1948 e da allora in poi. Solo non la negazione e il sottrarsi alle proprie responsabilità.

La pace non sarà ostacolata perché i palestinesi stanno insistendo sul diritto al ritorno. Sarà principalmente impedita perché Israele non è pronto a interiorizzare il punto di partenza storico: un popolo senza un Paese è arrivato in un Paese con un popolo e questo popolo ha vissuto una terribile tragedia che continua fino ad oggi.

Quel popolo non dimentica. E Israele non sarà in grado di farglielo dimenticare. Israele odia i negazionisti dell’Olocausto – e giustamente. In molti Paesi è un reato penale. In Israele la gente è arrabbiata con la Polonia, che ha proibito per legge di far riferimento alla sua partecipazione allo sradicamento dei suoi ebrei. Anche l’Austria, che non ha mai fatto i conti in modo adeguato con il suo passato, è meritevole di condanna.

E Israele ha fatto i conti con il suo passato? Mai. Il mondo ebraico chiede compensazioni per le proprietà che ha lasciato dietro di sé nell’Europa orientale e nei Paesi arabi. Agli ebrei è consentito tornare alle proprietà ebraiche in Cisgiordania e a Gerusalemme est. Fare i conti con il nostro passato non è esattamente quello che facciamo. Per noi valgono leggi diverse, leggi del popolo eletto e il doppio standard. Distogliamo lo sguardo dalla gobba sulla nostra schiena – quella nascosta negli archivi e che sorge alta da ogni campo profughi e da ogni villaggio in rovina – noi guardiamo da un’altra parte.

E’ possibile fin da subito fare a meno dell’ira per il paragone con l’Olocausto: non c’è paragone. Ma ci sono disastri nazionali che non sono un olocausto e tuttavia sono disastri. Un terribile disastro è avvenuto al popolo palestinese e Israele nega questo disastro e le sue responsabilità in merito. La sua portata è lontana da quella dell’Olocausto, ma è un terribile disastro. Le negazioni sono confrontabili: la negazione della Nakba batte la negazione dell’Olocausto.

Quello che è successo al popolo palestinese nel 1948 ed è continuato dopo la nascita dello Stato [di Israele] non può essere rimosso per sempre. Se Israele è certo che ciò sia giusto, apra gli archivi e lo provi. Infatti, uno dei documenti che Israele ha secretato è uno studio che David Ben Gurion [il padre della patria di Israele. Ndtr.] commissionò con l’intento di provare che gli arabi scapparono. Se tutto è stato morale, giusto e legale, perché non lo stanno rendendo pubblico?

E’ sufficiente vedere la fotografia che accompagna il reportage nella versione in ebraico di Haaretz per confutare la propaganda sionista: due arabi spingono una carretta piena di cianfrusaglie, tappeti e beni di famiglia, un vecchio con una canna arranca dietro di loro e tre uomini dell’Haganah [milizia armata sionista. Ndtr.] li accompagnano con i fucili spianati. Haifa, 12 maggio 1948. Così appare la “fuga volontaria” che gli arabi sono accusati di aver scelto. E questa naturalmente non è l’immagine più scioccante dell’espulsione.

Il senso di colpa è molto pesante. Non si allevierà. Per l’espulsione, ed ancora di più per aver impedito un ritorno alle loro case quando i combattimenti sono cessati. La giustizia totale non prevarrà qui e la condanna non ricade solo sulle spalle di Israele. Ma la negazione deve finire. Convinti della nostra rettitudine e forti nel nostro Stato, è arrivato il momento di guardare in faccia la verità e arrivare all’ovvia conclusione: Israele ha sovraccaricato il calderone delle sofferenze che ha causato al popolo palestinese da molto tempo. Da molto tempo.

(traduzione Amedeo Rossi)




Non è tutto tranquillo sul fronte del Golan: l’equazione israelo-siriana cambia

Middle East Eye Yossi Melman

20 settembre 2016

La Siria ha dato l’annuncio di un cambio di politica quando ha lanciato delle rappresaglie contro l’esercito israeliano nel Golan la settimana scorsa ?

Gli avvenimenti dell’ultima settimana sembrano indicare che l’equazione israeliano-siriana sta per cambiare per la prima volta dopo lo scoppio della sanguinosa guerra civile in Siria cinque anni e mezzo fa.

Così almeno sembrava nelle ore precedenti l’alba di martedì scorso.

Con un’azione inusuale, una batteria antiaerea siriana ha lanciato due missili S-200 terra-aria contro dei combattenti e dei droni israeliani. Li hanno mancati. Il servizio stampa dell’esercito israeliano ha smentito l’affermazione del portavoce dell’esercito siriano secondo cui i missili avevano abbattuto un aereo ed un drone israeliani ed ha dichiarato che i missili non avevano neanche sfiorato gli aerei dell’ aviazione israeliana.

I responsabili del governo israeliano e gli ufficiali dell’esercito cercano di stabilire se il lancio di missili stia a significare un cambio di politica da parte di Assad, o se si tratti di una dimostrazione di forza simbolica.

Gli aerei israeliani hanno bombardato delle postazioni di artiglieria dell’esercito siriano. Dal punto di vista israeliano, si trattava di una missione di routine e dal 2012 circa un centinaio di missioni di questo genere sono state effettuate. Questi bombardamenti fanno parte della politica israeliana di rappresaglia per le granate e i razzi che cadono sul suo lato delle alture del Golan.

Questa prassi non fa differenza tra i proiettili dovuti a tiri accidentali o intenzionali, benché si tratti soprattutto di “sforamenti” accidentali della guerra tra l’esercito ed i gruppi ribelli siriani concentrati lungo il confine israeliano.

Ogni volta che le granate cadono in Israele, fatto accaduto più volte dall’inizio della guerra, sia che provengano da armi dell’esercito o dei ribelli siriani, Israele considera il governo di Assad responsabile in quanto regime sovrano sul proprio territorio.

Non è un caso

Tutti questi incidenti, fino a domenica 11 settembre, sono rimasti senza reazione da parte del regime siriano – almeno per quanto ne sa l’opinione pubblica. Oggi i responsabili del governo israeliano e gli ufficiali dell’esercito cercano di stabilire se il lancio di missili S-200 significhi un cambio di politica da parte di Assad o sia solo una dimostrazione di forza simbolica.

Tuttavia una cosa è chiara fin d’ora: il lancio di missili nella regione di Quneitra non era un caso. L’esercito siriano ha diffuso un comunicato ufficiale riguardo all’incidente.

Si tratta del secondo caso conosciuto di rappresaglia dell’esercito di Assad contro l’attività militare israeliana in territorio siriano, ma è il primo incidente di questo genere ad essere reso pubblico. Il primo caso, sette mesi fa, non era stato segnalato da Israele o dal governo siriano.

Sabato scorso due altri missili hanno oltrepassato i confini della guerra in Siria, ma questa volta sono stati intercettati dal sistema di difesa anti-missile israeliano, la cosiddetta “Cupola di ferro” [Iron Dome, ndt].

Da parecchi anni, come ha ammesso il primo ministro Benjamin Netanyahu alcune settimane fa, l’esercito israeliano agisce a suo piacimento nello spazio aereo siriano in violazione della sovranità della Siria e dell’accordo di disimpegno del marzo 1974, firmato dai due paesi dopo la guerra del Kippur (guerra d’ottobre) del 1973.

Voi siete sovrani”

Anche se Israele non ha mai reso pubbliche le sue incursioni, i media esteri hanno più volte segnalato che l’esercito israeliano ha utilizzato aerei da caccia e droni per missioni di ricognizione. Per oltre dieci volte ha attaccato obbiettivi dell’esercito siriano, alcuni dei quali alla periferia di Damasco: depositi, fabbriche e convogli per il trasferimento di armi sofisticate (missili terra-terra di precisione, missili antiaerei, radar e missili antinave) a Hezbollah in Libano.

Di fronte a tutti questi attacchi l’esercito di Assad ha messo da parte la propria dignità e non ha reagito. Non ha reagito nemmeno quando Israele ha abbattuto un aereo da combattimento Sukhoi siriano vicino al suo confine qualche anno fa.

Secondo dei rapporti esteri, Israele ha anche portato a termine, in diverse altre occasioni, degli omicidi di ufficiali superiori di Hezbollah con attacchi aerei. Tra questi obbiettivi vi erano Jihad Moughniyeh, figlio di Imad Moughniyeh, un alto responsabile di Hezbollah ucciso in un attentato con un’autobomba nel 2008; un generale dei Guardiani della rivoluzione islamica iraniana; nel dicembre 2015, nel suo covo di Damasco, il terrorista druso libanese Samir Kuntar, che aveva trascorso 26 anni in una prigione israeliana per l’uccisione di una famiglia israeliana.

Lebanese Hezbollah supporters carry the coffin of militant Jihad Mughniyeh during his funeral in a southern Beirut suburb on January 19, 2015. Iran confirmed today that a general of its elite Revolutionary Guards died in an Israeli strike on Syria that also killed six members of Lebanese militant group Hezbollah. AFP PHOTO /JOSEPH EID / AFP PHOTO / JOSEPH EID

Questi incidenti sono avvenuti in un contesto di tentativi da parte di Hezbollah e del comandante della Forza al-Qods dei Guardiani della rivoluzione, il generale iraniano Qassem Suleimani, di installare delle infrastrutture militari sulle alture del Golan e, con l’avallo di Assad, di sferrare attacchi contro Israele. Gli attacchi israeliani hanno sventato questo piano dell’asse Hezbollah-Iran-Siria.

Inoltre l’esercito israeliano ha risposto con tiri di artiglieria, missili e attacchi aerei simbolici contro gli avamposti dell’esercito siriano quasi ogni volta che dei proiettili provenienti da combattimenti tra l’esercito siriano ed i gruppi ribelli vicino al confine hanno “sforato” e sono caduti in territorio israeliano.

Le reazioni dell’esercito israeliano sono state misurate e principalmente mirate ad inviare un messaggio al regime: per noi, siete sovrani.

Crescente fiducia

L’ultimo incidente testimonia la crescente fiducia dell’esercito di Assad, che è riuscito, soprattutto grazie all’aiuto dei russi, ad estendere il proprio controllo in Siria (che copre ancora solo il 30% del territorio) ed a consolidare il regime mentre l’opposizione si indebolisce e lo Stato Islamico sta arrivando all’inizio della sua fine.

La maggioranza delle parti in gioco – Israele, il regime di Assad, la Russia ed alcuni dei gruppi ribelli – non ha alcun interesse a peggiorare la situazione al confine ed a provocare uno scontro militare.

Man mano che l’esercito del regime siriano intensifica i suoi attacchi contro i ribelli, soprattutto quelli non lontani dal confine con Israele, le possibilità che colpi accidentali cadano in territorio israeliano aumentano.

Così, anche la probabilità di un’escalation delle tensioni e di un avanzare delle violenze fino al livello di quello che finora era il confine relativamente tranquillo delle alture del Golan aumenta, nonostante il fatto che la maggioranza delle parti in gioco non abbia alcun interesse a peggiorare la situazione al confine ed a provocare uno scontro militare.

Di fatto, l’ipotesi che emerge dalle fonti militari israeliane, dopo uno scambio di messaggi con la Russia, è che una guerra tra Israele e la Siria non sia all’orizzonte, malgrado le recenti tensioni.

Non è certamente interesse di Assad trascinare nel conflitto le potenti forze israeliane.

Yossi Melman è un opinionista specializzato nella sicurezza e nell’informazione israeliana. E’ co-autore di ‘Spies against Armageddon’.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono solo all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Traduzione di Cristiana Cavagna




I soldati israeliani uccisero dozzine di prigionieri nel corso di una delle guerre combattute dall’esercito israeliano (IDF) nei primi decenni dell’esistenza dello Stato di Israele.

di Aluf Benn,

Haaretz ,16 settembre 2016

Secondo una testimonianza ottenuta da Haaretz, ai prigionieri fu ordinato di mettersi in fila e voltarsi, prima di essere colpiti alla schiena. L’ufficiale che diede l’ordine venne rilasciato dopo aver scontato sette mesi di prigione, mentre il suo comandante fu promosso ad un alto grado.

I soldati israeliani uccisero dozzine di prigionieri durante una delle guerre combattute dall’IDF nei primi decenni di esistenza dello stato di Israele. L’ufficiale che aveva dato l’ordine di uccidere i prigionieri subì un processo, ma se la cavò con una condanna ridicolmente mite. Il suo comandante fu promosso ad grado molto superiore e l’intera vicenda venne insabbiata.

Le dozzine di prigionieri erano soldati degli eserciti nemici. Si erano arresi dopo la battaglia ed avevano deposto le loro armi. Alcuni di loro erano gravemente feriti.

I soldati israeliani che presero inizialmente il controllo del luogo dove loro si erano arresi li radunarono in un cortile interno circondato da un muro, diedero loro del cibo e parlarono con loro delle loro vite e del servizio militare.

Alcune ore dopo questi soldati vennero assegnati ad un’altra missione ed altre forze militari israeliane vennero inviate a sostituirli nel luogo in cui erano tenuti i prigionieri. Questo cambio della guardia pose il problema tra gli ufficiali preposti su che cosa fare dei soldati nemici catturati, poiché i nuovi militari si rifiutarono di assumersene la responsabilità, mentre quelli in partenza non avevano mezzi per il trasporto dei prigionieri.

Il comandante della compagnia che era l’ufficiale responsabile del posto ordinò allora ai suoi soldati di uccidere i prigionieri. Secondo la testimonianza rilasciata ad Haaretz, ai prigionieri venne ordinato di mettersi in fila e di voltarsi, quindi furono fucilati alla schiena. Un ufficiale nemico che era stato utilizzato come traduttore fuggì, ma fu colpito a morte da soldati del nuovo contingente, che erano in una jeep. Dopo il massacro un bulldozer dell’esercito ammucchiò i corpi in una fossa improvvisata.

Due testimonianze oculari del massacro dei prigionieri furono rilasciate al reporter di Haaretz molti anni fa. Secondo una di esse, da parte di un uomo che disse di essersi rifiutato di ubbidire all’ordine, il comandante gli ordinò di scendere ed uccidere i prigionieri feriti. Lui rifiutò perché prima i prigionieri gli avevano chiesto se sarebbero stati uccisi e lui aveva risposto di no.

Il comandante lo minacciò di inviarlo alla corte marziale per disobbedienza ad un ordine, ma lui continuò a rifiutarsi. Allora un altro uomo – il secondo testimone – saltò in piedi e si offrì volontario per eseguire l’ordine.

La testimonianza della seconda persona, che confessò di aver partecipato all’uccisione dei prigionieri insieme a tre suoi commilitoni, concorda a grandi linee con quella del primo testimone, benché essi non fossero in contatto e nessuno dei due conoscesse il contenuto della conversazione svoltasi con l’altro. Una differenza era che il secondo uomo sosteneva di aver anch’egli inizialmente rifiutato di ubbidire all’ordine, ma quando il comandante aveva insistito, lui aveva accettato di eseguirlo. Aggiunse che, dopo aver ucciso i prigionieri, si avvicinò e li colpì nuovamente da soli cinque metri di distanza, per assicurarsi che fossero tutti morti.

L’esercito israeliano avviò un’indagine della polizia militare sull’incidente, che si concluse con un processo per omicidio nei confronti del comandante della compagnia. Fu condannato a tre anni di prigione e rilasciato dopo soli sette mesi.

Il comandante sostenne che gli venne ordinato di uccidere i prigionieri dal suo superiore, che in seguito ottenne un’alta carica nell’esercito. Non è chiaro se l’ufficiale superiore sia mai stato indagato, ma sicuramente non subì mai un processo. Il comandante della compagnia lavorò come guida turistica dopo aver lasciato l’esercito, e quando anni dopo fu intervistato sull’argomento da un giornalista di Haaretz, rispose che “l’argomento è riservato” e gli suggerì di rivolgere le domande “ai servizi di sicurezza”.

Questo assassinio di dozzine di prigionieri fu uno dei più gravi crimini nella storia dell’IDF, ma l’esercito lo nascose e lo insabbiò. Portare alla luce i fatti è importante anche oggi, per comprendere la storia delle regole morali di combattimento dell’IDF ed imparare lezioni di leadership, di educazione e di comando per il futuro.

Traduzione di Cristiana Cavagna




La “S” di BDS: Lezioni da trarre dalla campagna contro la Elbit Systems (III parte)

Da: Al-Shabaka

09 Settembre 2016

In questo editoriale politico di Al-Shbaka Maren Mantovani e Jamal Juma analizzano alcuni sviluppi che il complesso militare industriale di Israele deve affrontare, con una particolare attenzione alla campagna contro Elbit Systems. L’editoriale analizza i momenti difficili che l’industria si trova di fronte, il mito della superiorità tecnologica di Israele, i cambiamenti locali e globali dell’industria e le alleanze emerse per opporsi alla militarizzazione ed alle tendenze sicuritarie nelle varie società. In base a questa analisi delineano indicazioni preziose ed identificano percorsi da seguire per il movimento globale di solidarietà con la Palestina.

Fare causa comune contro la militarizzazione

L’appello per un totale embargo militare verso Israele non si basa soltanto sulla richiesta palestinese di porre termine all’impunità di Israele e alla complicità di tutto il mondo con il suo regime di apartheid. Fa anche parte di una lotta globale contro le guerre e la repressione e contro la militarizzazione e gestione sicuritaria della società. C’è una crescente consapevolezza delle modalità attraverso cui le esportazioni israeliane militari e “per la sicurezza interna” contribuiscono a queste prassi con nuove tecnologie e metodologie sviluppate nel processo di occupazione militare, apartheid e pulizia etnica del popolo palestinese. A loro volta, la militarizzazione e la gestione sicuritaria contribuiscono a sostenere l’industria militare israeliana e le politiche contro i palestinesi.

Parallelamente al crescente ruolo di Israele in questa militarizzazione, i movimenti in tutto il mondo stanno facendo causa comune con il movimento BDS contro la repressione e la discriminazione da parte delle forze militari e di polizia. La campagna contro la compagnia israeliana “di sicurezza interna” International Security and Defense Systems (ISDS) ne è un importante esempio. La ISDS è stata fondata nel 1982 da ex-agenti del Mossad. Giornalisti di inchiesta e ex-membri di giunte militari riferiscono che ISDS ha addestrato gli squadroni della morte in Guatemala, El Salvador, Honduras e Nicaragua ed ha preso parte a golpe e a tentativi di colpo di stato in Honduras e Venezuela.

Attualmente ISDS addestra la famigerata forza di polizia militare BOPE a Rio de Janeiro, ammettendo con orgoglio che la polizia nelle favelas utilizza le stesse tecniche che Israele usa a Gaza. ISDS ha anche ottenuto un contratto che le ha fatto molta pubblicità con i Giochi Olimpici di Rio del 2016. Movimenti palestinesi come Stop the Wall (Fermare il Muro, ndt) e il Comitato Nazionale del BDS (BNC) hanno unito le loro forze a quelle dei movimenti popolari di Rio che lavorano per i diritti umani nelle favelas, in una campagna denominata “Giochi Olimpici senza apartheid”, per ottenere la cancellazione del contratto.

Analoghi rapporti sono stati instaurati tra il movimento di solidarietà palestinese e gli attivisti neri negli USA, che nel 2015 hanno emesso una dichiarazione di solidarietà sostenuta da oltre 1000 attivisti ed intellettuali neri, che afferma che “l’uso massiccio da parte di Israele della detenzione e dell’arresto dei palestinesi evoca l’incarcerazione di massa del popolo nero negli USA, inclusa la detenzione politica dei nostri rivoluzionari” e fa appello alla lotta comune contro la compagnia di sicurezza G4S. Inoltre nell’agosto 2016 il movimento “Black Lives Matter” (la vita dei neri è importante, ndt) ha appoggiato il movimento BDS.

Il muro al confine tra USA e Messico è un altro luogo che vede la lotta comune tra attivisti della solidarietà palestinesi e il popolo indigeno colpito dalla messa in pratica delle metodologie e tecnologie israeliane nella loro terra, in cui la Elbit Systems ricopre un ruolo centrale.

La campagna nell’UE per sospendere i finanziamenti alla Elbit Systems e ad altre compagnie militari israeliane riguarda un maggiore coinvolgimento per ogni cittadino europeo. Con un budget di 80 miliardi di euro (circa 88 miliardi di dollari al tasso di cambio di fine 2015), l’attuale programma di finanziamento dell’UE per la ricerca e lo sviluppo Horizon 2020 è tra i maggiori progetti di finanziamento al mondo. Ridistribuisce il denaro dei contribuenti soprattutto a istituzioni aziendali ed accademiche che sviluppano ricerche al servizio di grandi business, compresa la cooperazione con le imprese militari israeliane. I progetti di ricerca con le imprese militari israeliane spesso sviluppano tecnologie a doppio uso (sia militare che civile) in aperta violazione delle norme dell’UE e contribuiscono alla militarizzazione ed alla deriva sicuritaria delle società europee. La maggioranza degli europei, se sapesse come è stato usato il suo denaro, probabilmente concorderebbe sul fatto che l’UE nuoce non solo ai palestinesi, ma anche ai suoi stessi cittadini spendendo denaro in guerre che creano nuovi rifugiati ed in tecnologie che controllano, discriminano per razza ed opprimono gli europei invece di andare incontro alle loro necessità.

Prendere di mira i punti deboli delle forze armate israeliane

La nota informativa ha cercato di fornire una panoramica del complesso militare industriale di Israele e di identificare delle possibilità d’azione che permettano di ridurre i profitti industriali e poi portino ad un embargo delle armi finché non vengano ottenuti i diritti dei palestinesi. Si tratta indubbiamente di un impegno importante: il complesso industriale militare comprende imprese potenti, propaganda e sistemi di promozione e vendita spudorati, impianti di difesa globale che spesso sono lontani dal discorso e dalla portata degli attivisti della solidarietà. Eppure non è solo un’esigenza etica per i paesi quella di interrompere le relazioni militari con Israele finché esso non rispetti il diritto internazionale; è anche una campagna che può essere vinta. Sicuramente, sulla base dell’esperienza fino ad ora e alla luce della precedente analisi, ci sono diverse possibilità da prendere in considerazione per gli attivisti.

Al livello più basilare, sono indispensabili l’educazione dell’opinione pubblica e la mobilitazione. La maggior parte delle persone comprende intuitivamente che i rispettivi governi non dovrebbero mantenere relazioni militari con una potenza di occupazione che sferra sistematici attacchi militari contro la Striscia di Gaza sotto assedio ed altri paesi vicini, così come compie incursioni, raid, demolizioni di case ed altre violazioni di diritti umani contro la Cisgiordania e Gerusalemme est occupate – soprattutto poiché questi atti non soltanto infrangono il loro codice morale, ma anche le leggi dei loro paesi e le leggi internazionali. Il numero dei difensori dei diritti umani che si impegnano nel boicottaggio e disinvestimento è in aumento; è solo questione di tempo perché il numero di coloro che spingono per le sanzioni, e soprattutto per le sanzioni militari, cresca fino a raggiungere una massa critica.

La solidarietà con la Palestina da parte di comunità anch’esse colpite dalla militarizzazione e messa in sicurezza ha una lunga storia, soprattutto in America Latina, dove Israele ed i suoi agenti privati per decenni hanno appoggiato ed addestrato gli squadroni della morte e le dittature. La consolidata collaborazione tra i neri americani, i latini e i popoli indigeni negli USA, a fronte della militarizzazione esponenziale delle metropoli europee, significa che una vasta ed organizzata rete di attivisti ha il potenziale per svilupparsi anche in occidente. Nel caso della UE, una pressione dell’opinione pubblica potrebbe essere utilizzata per sostenere le argomentazioni tecniche per contestare il finanziamento di Horizon 2020 alle forze armate israeliane – e ad altri enti – complici dell’occupazione.

Nelle loro campagne gli attivisti dovrebbero anche evidenziare che la tecnologia militare israeliana non è né così efficace né così scevra da problemi come pretende la propaganda. I gravi problemi con la produzione di droni israeliani e le questioni relative a Iron Dome (sistema di difesa antimissile, ndt) sono solo due esempi. Ancor più convincente è il fatto che Israele sta minando la capacità dei paesi di gestire la propria difesa, sottraendo loro la capacità industriale a favore di Israele ed usando i suoi sistemi di sicurezza per fare spionaggio nei confronti dei paesi clienti, con l’effettivo risultato della perdita della loro sovranità ed indipendenza nazionale.

La Elbit Systems, grande com’è, è particolarmente vulnerabile alle azioni degli attivisti.

E’ l’unica impresa militare privata israeliana di queste dimensioni ed è perciò più vulnerabile alle crisi, ai rischi di speculazione finanziaria e alla ristrutturazione economica. La Elbit Systems è gravemente indebitata ed ha bisogno di garantirsi un continuo flusso di liquidità per onorare il debito. La sua presenza sempre più globale rende più facile agli attivisti in diversi paesi attaccare la Elbit o le sue filiali. Inoltre anche la crescente dipendenza dell’industria militare dagli aiuti del bilancio statale israeliano la rende vulnerabile, accrescendo anche la vulnerabilità dello stato.

Gli attivisti dovrebbero anche trarre lezione dall’esperienza: Israele si mette sempre in grado di trarre vantaggio quando arrivano al potere nuovi governi o si implementano nuove politiche nazionali. Anche gli attivisti dovrebbero mettersi in grado di sviluppare programmi adeguati alla situazione del momento per affrontare i cambiamenti di governo. E’ la chiave per garantirsi, dove possibile, impegni o leggi da parte di governi amici contro il commercio militare con Israele o per trarre vantaggio da circostanze in cui governi ostili applicano politiche contrarie agli interessi di Israele. Fare leva sulle dinamiche interne in tali circostanze è un fattore essenziale di successo.

Se si vogliono attuare sanzioni militari contro Israele, la società civile palestinese e gli attivisti dovranno lavorare sodo per fare pressione sull’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e sull’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) perché usino i loro contatti diplomatici e qualunque potere di persuasione di cui dispongano sia nei confronti di singoli stati che delle Nazioni Unite. In particolare, dovrebbero assicurarsi che OLP/ANP usino ogni mezzo possibile per impedire e contrastare il commercio di armi tra gli stati del Golfo ed Israele.

Non c’è modo di prevedere quando il vento cambierà. Ma le lotte popolari contro la repressione, la guerra e l’apartheid, rafforzate da una crescente percezione negativa del complesso industriale militare israeliano, potrebbero colpire al cuore un’industria che da un lato sostiene l’aggressione israeliana e dall’altro prospera grazie ad essa. Il mito della tecnologia militare israeliana si sta lentamente sgretolando e un’industria militare israeliana più privatizzata è altrettanto esposta ai rischi del mercato globale quanto lo sono altre imprese. L’appello per sanzioni militari può iniziare a far presa anche prima che i governi siano pronti ad attuare un embargo a pieno titolo.

Fonte: Ma’an News Agency

Al- Shabaka è un’organizzazione no profit indipendente la cui finalità è educare e rafforzare la discussione pubblica sui diritti umani e l’autodeterminazione dei palestinesi nel quadro delle leggi internazionali.

Traduzione di Cristiana Cavagna per BDS Italia




Il veterano della lotta contro l’apartheid Ronnie Kasrils dice di resistere agli sforzi di mettere fuorilegge il BDS

Article 1 Collective

8 giugno, 2016

Door Adri Nieuwhof

Il veterano della lotta contro l’apartheid Ronnie Kasrils ritiene che i tentativi per mettere fuorilegge il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) contro Israele siano “assolutamente assurdi” e che i militanti dovrebbero opporsi a tali tentativi.

Lo scorso mese ho intervistato Kasrils sulle sue opinioni in merito al BDS e all’apartheid durante la sua visita ad Amsterdam.

Per decenni Kasrils ha lottato contro l’apartheid come membro dell’African National Congress (ANC) [il partito sudafricano di Nelson Mandela. Ndtr.] e del Partito Comunista. Ha partecipato ad operazioni dell’ala militare dell’ANC, Umkhonto we Sizwe [letteralmente “Lancia della Nazione. ndtr.]. Dopo la caduta dell’apartheid, è stato deputato e vice-ministro in molti governi.

Kasrils è nato a Johannesburg nel 1938, nipote di ebrei lituani e lettoni immigrati in Sudafrica alla fine del XIX° secolo per sfuggire ai pogrom zaristi.

Il BDS ha contribuito al cambiamento

“Ha funzionato a meraviglia,” risponde subito Kasrils alla mia domanda se il BDS contro l’apartheid sudafricano sia stato efficace.

“Il BDS ha fatto arrabbiare moltissimo i bianchi in Sudafrica. Ma con il BDS li avete sfiancati. Si è arrivati al punto che non ne potevano più e allora hanno desiderato un cambiamento.”

Un membro del Partito Nazionale [sudafricano, partito nazionalista di destra sostenitore dell’apartheid. Ndtr.] al governo disse a Kasrils che la decisione di Barclays [grande banca britannica. Ndtr.] di lasciare il Sudafrica nel 1988, dopo una presenza di oltre 150 anni, “è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.” Ricorda che l’attivismo internazionale del BDS cominciò con un boicottaggio di frutta sudafricana come le arance Outspan, l’uva e le mele da parte dei consumatori. Negli anni ’70 Peter Hain in Gran Bretagna iniziò a interrompere manifestazioni sportive. Con un gruppo scese sul campo di tennis a Bristol e bloccò la squadra sudafricana. “Si è diffuso a macchia d’olio ed ha raggiunto altri Paesi.” Il boicottaggio era aperto a interpretazioni creative e diventò un modo importante di comunicare e di coinvolgere la gente.

Allora fondi pensione delle chiese e dei sindacati in tutto il mondo iniziarono a disinvestire dalle imprese sudafricane o da quelle che investivano in Sudafrica. Ciò ebbe un grande effetto.

Nel 1985 in America i lavoratori della Kodak si resero conto fino a che punto i sudafricani neri stessero soffrendo. Gli afro-americani divennero determinanti nella mobilitazione anti-apartheid. Attraverso i loro senatori e deputati al Congresso, la lobby nera iniziò ad esercitare pesanti pressioni contro imprese e banche. La Chase Manhattan fu la prima banca a interrompere i rapporti con il Sudafrica.

Proibire il BDS è assurdo

Kasrils afferma di sostenere al cento per cento l’attivismo BDS contro Israele. Aggiunge che bisogna resistere ai tentativi di metterlo fuorilegge negli Stati Uniti, in Canada, in Francia e nel Regno Unito.

“E’ totalmente assurdo che i governi utilizzino la legge per negare il diritto di parola della gente che crede che il BDS sia un mezzo pacifico per fornire appoggio e solidarietà al popolo palestinese.”

“Quei governi dovrebbero appoggiare l’intero processo. Allora ci sarebbe una grande tranquillità e pace per il popolo in Palestina, in Israele e in tutto il Medio oriente. Israele è una potenza nucleare con un numero considerevole di bombe nucleari e con estremisti di destra al potere. La popolazione sta chiedendo sangue, non solo quello palestinese ma anche dei popoli della regione e di persone come Omar Barghouti, che sta semplicemente parlando del diritto al BDS.”

“Israele è un Paese che sta mostrando le peggiori forme di ingiustizia, di massacri che abbiamo visto da molto tempo. Paesi che, detto per inciso, sono spesso definiti fascisti.”

Peggio dell’apartheid

Kasrils ha visitato Israele e Palestina varie volte. Quando gli ho chiesto delle sue esperienze, mi ha risposto: “Ci sono sicuramente delle somiglianze.” Nel 1984 il Consiglio di Sicurezza appoggiò la definizione adottata dall’Assemblea Generale nel 1966, secondo cui l’apartheid è un crimine contro l’umanità. La “Convenzione sull’Apartheid” non parla di “apartheid sudafricano”, è più ampia, osserva Kasrils.

La definizione di apartheid parla di azioni inumane commesse con lo scopo di stabilire e mantenere il dominio di un gruppo razziale su un altro e di opprimerlo sistematicamente. Si deve applicare quella definizione per stabilire se Israele sta praticando l’apartheid.

Qualunque sudafricano che sia stato coinvolto nella lotta per la libertà e che abbia visitato Palestina e Israele dice: “Questo è proprio come l’apartheid,” continua Kasrils. “La separazione delle persone, le misure applicate, quelle code ai checkpoint, l’umiliazione, sono come l’apartheid.”

L’arcivescovo Desmond Tutu e molte altre persone dicono che è addirittura peggio dell’apartheid.

“Raramente abbiamo visto l’apartheid lanciare bombe sulla gente o entrare nelle township [i ghetti per i sudafricani neri. Ndtr.] con carri armati e sparare con artiglieria pesante come a Gaza. In Sudafrica abbiamo visto massacri atroci e ci sono state occasioni in cui è stato dichiarato lo stato d’emergenza, il movimento dei neri controllato, lo stato d’assedio in township come Soweto. Durava qualche settimana. Non per anni come in Cisgiordania o a Gaza,” ricorda Kasrils.

Ci sarà un cambiamento

Molti dubitano che Israele cambierà e che rispetterà i diritti del popolo palestinese.

Tuttavia Kasrils è sicuro che questo cambierà: “Israele è un esempio di ultimo Stato coloniale, ha portato via la terra al popolo palestinese, lo ha spogliato di terra e diritti, ha utilizzato i metodi più terribili durante tutta la sua storia. Noi sudafricani abbiamo attraversato un processo agonizzante sotto l’apartheid. Capiamo quello che sta succedendo al popolo palestinese. Noi siamo totalmente solidali e chiediamo ai governi di rispettare le risoluzioni dell’ONU. Ciò significa: la fine dell’occupazione, la fine dell’assedio di Gaza, il diritto al ritorno dei rifugiati. L’unico modo in cui gli ebrei di Israele possono avere la garanzia di vivere in sicurezza è riconoscendo i diritti degli altri esseri umani, il popolo palestinese.”

C’è stato un tempo in cui la gente sentiva che non ci sarebbe stata una fine dell’apartheid in Sudafrica, prosegue Kasrils. Lo Stato dei bianchi era molto forte. Aveva molte risorse ed era appoggiato dall’Occidente, compresi gli stessi Paesi che oggi stanno appoggiando Israele.

E’ stato sconfitto, perché la gente in Sudafrica era decisa. Per ottenere un cambiamento ci vogliono unità, determinazione, buoni dirigenti, la strategia corretta, una visione per il futuro. Alla fine, l’esito per una giusta causa è certo, non importa quanto tempo ci vorrà. Il Sudafrica lo dimostra.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




Israele si impossessa dell’ONU per un raduno studentesco contro il BDS

Alex Kane, 1 giugno 2016 – Mondoweiss

Le Nazioni Unite sono in genere un contesto critico nei confronti delle violazioni dei diritti umani da parte di Israele.

Ma il 31 maggio, la delegazione israeliana all’ONU si è impossessata dell’Assemblea generale per un incontro a favore di Israele durato tutto il giorno, a cui hanno partecipato circa 1.500 persone – molte delle quali studenti universitari – che hanno ascoltato una schiera di oratori contro il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) che prende di mira Israele.

I partecipanti radunati all’ONU per ascoltare i soliti discorsi a favore di Israele, hanno inveito contro l’ONU perché critica Israele, hanno agitato bandiere israeliane, hanno cantato l’inno israeliano e quello statunitense e ascoltato Matisyahu, la star del reggae ebreo-americano. L’obiettivo dell’incontro “Ambasciatori contro il BDS” è stato il movimento internazionale di boicottaggio contro Israele, e gli oratori hanno criticato il BDS, per supposto antisemitismo e sostenendo che diffonde “bugie” su Israele. La conferenza era organizzata dalla delegazione di Israele all’ONU e co-sponsorizzata da una serie di gruppi filo-israeliani.

L’incontro ha riflesso la crescente attenzione del governo israeliano contro il movimento BDS. Negli scorsi mesi i sostenitori di Israele, con il contributo delle organizzazioni USA, come StandWithUs, a favore di Israele, hanno organizzato conferenze negli USA e in Israele per discutere del movimento. A marzo il giornale israeliano Yedioth Ahronoth ha tenuto a Gerusalemme una conferenza contro il BDS che ha ospitato membri del governo israeliano. Il convegno ha fatto notizia e si è attirato critiche, dopo che un ufficiale dell’intelligence ha detto che Israele si dovrebbe impegnare “all’eliminazione mirata di civili” sostenitori del BDS, e dopo che Aryeh Deri, ministro degli Interni di Israele, ha detto che Israele dovrebbe revocare lo status di residente nello Stato all’attivista del BDS Omar Barghouti. In effetti lo scorso mese le autorità israeliane hanno imposto un divieto di viaggio a Barghouti, dopo che non gli hanno rinnovato i documenti che gli consentono di viaggiare fuori dal Paese.

Com’era prevedibile, la giornata all’ONU è iniziata con funzionari israeliani e sostenitori di Israele che si sono avvicendati sul podio dell’assemblea generale per inveire contro il movimento BDS. Danny Danon, l’ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite, ha definito l’incontro “storico” e ha detto: “Il BDS è il nuovo volto dell’antisemitismo.” Danon ha giurato di sconfiggere il movimento BDS “una volta per tutte”, ma ha detto che il movimento rappresenta una nuova minaccia perché “non possiamo fermarlo con le armi.”

Ronald Lauder, il presidente del Congresso Ebraico Mondiale, ha affermato che “l’era dell’ebreo tranquillo, timido, dell’ebreo del ghetto” è finita, e che ora il movimento sionista sa come lottare contro gente come i sostenitori del BDS. Ha affermato che “Studenti per la Giustizia in Palestina” è stato fondato dalla Fratellanza musulmana, un’accusa infondata, ed ha promesso di pubblicare annunci sui maggiori quotidiani per incoraggiare gli studenti a informare il Congresso Ebraico Mondiale delle attività antisemite e del BDS. “Se la vostra scuola, il vostro professore sostengono pubblicamente il BDS, contattateci,” ha detto Lauder, prima di invitare gli ex-studenti a non fare più donazioni alle loro scuole finché queste non bloccheranno il movimento BDS nei campus.

La forte presenza del movimento BDS nelle università è stata un particolare motivo di preoccupazione per molti partecipanti. Andrea Bhatti, una studentessa del “College of Staten Island” che era presente alla riunione, mi ha detto di essere “molestata” e “presa di mira” da “Studenti per la Giustizia in Palestina” dopo aver scritto una petizione che chiedeva di vietare il SJP. Melissa Sherman, una studentessa della Brooklyn Lawn School, ha detto di sperare che l’incontro le avrebbe insegnato “ad essere più brava a parlare di Israele.

La prima metà della giornata è stata piena dei tipici comizi. Invece un dibattito sulle università e il BDS è stato più equilibrato. David Sable, amministratore delegato della compagnia pubblicitaria Y & R, ha esposto un messaggio sorprendente per i partecipanti: il vostro discorso filo-israeliano non funziona. “Non tutti quelli che criticano Israele sono antisemiti,” ha detto Sable, che ha ammonito i sostenitori di Israele a “smetterla di essere autoreferenziali” e di parlare piuttosto ad altre persone che non sono ancora convinte delle ragioni di Israele. Ha anche sostenuto che Israele sta perdendo la guerra delle reti sociali. “Nei blog siamo stati fatti fuori,” ha detto, mentre mostrava diapositive di contenuti filo-palestinesi visivamente convincenti sui siti web.

Sable aveva partecipato al dibattito dei democratici a Brooklyn tra Bernie Sanders e Hillary Clinton e ha detto di essere rimasto sorpreso del fatto che persone che ha descritto come l’ “elite nera” di Harlem abbiano applaudito il discorso di Sanders su Israele/Palestina.

Il famoso consulente politico e sondaggista repubblicano Frank Luntz ha fatto un discorso simile ai presenti all’incontro. Ha mostrato diapositive che riassumevano il risultato di un recente sondaggio realizzato su studenti universitari. Ha detto che il 22% è più filo-palestinese che filo-israeliano, e il 44% crede che Israele stia praticando l’apartheid. “Le scuole in tutto il Paese stanno affrontando un’enorme sfida,” ha detto Luntz. “Stiamo perdendo gente che una volta era moderatamente filo-israeliana.” Luntz ha affermato che i sostenitori di Israele devono parlare “da giovani” e “fare discorsi di sinistra.”

Tuttavia pare che questo messaggio non sia stato raccolto dagli oratori che hanno chiuso la giornata. Shoham Nicolet, presidente dell’ “Israeli-American Council”, ha denunciato il BDS come “movimento dell’odio, violento, razzista.” Daniel Birnbaum, amministratore delegato della “SodaStream”, impresa attaccata dal BDS, ha affermato che la Cisgiordania “non è giuridicamente occupata”, che si tratta di un territorio “conteso”. Birnbaum ha incoraggiato i presenti a lottare contro il movimento BDS ma anche a raggiungere le persone con un messaggio più positivo. La sua idea di un messaggio positivo? “Ci sono palestinesi buoni. Non sono tutti terroristi.” Ha invitato i presenti a farsi amici palestinesi e ad inviare auguri a palestinesi per il Ramadan la settimana successiva.

Ma in uno dei momenti più stravaganti della conferenza, Birnbaum ha detto che un soldato israeliano “vuole tornare a casa dalla sua famiglia, vuole andare alla spiaggia e viaggiare dopo il servizio militare. Non è motivato dalle 72 vergini”, un riferimento alla convinzione di alcuni attentatori suicidi che sarebbero stati ricompensati dopo la loro morte.

Il movimento BDS non dà segni di fermarsi finché il controllo israeliano sui palestinesi proseguirà. E anche se alcuni oratori della conferenza hanno giurato che Israele vincerà la battaglia contro il movimento, è chiaro che probabilmente nei prossimi anni si terranno altri incontri contro il BDS. Radunare le proprie truppe è uno dei mezzi favoriti dei sostenitori di Israele, ma finora non sono riusciti a scalfire la crescita del movimento per il boicottaggio di Israele.

(traduzione di Amedeo Rossi)