Loveday Morris e Sufian Taha
29 luglio 2024 – The Washington Post
Il Post ha parlato con ex prigionieri e avvocati palestinesi e ha esaminato i referti delle autopsie, rivelando la violenza e le privazioni incontrollate nel sistema carcerario israeliano.
Un detenuto palestinese è morto con la milza spappolata e una frattura delle costole dopo essere stato picchiato dalle guardie carcerarie israeliane.
Un altro è andato incontro ad una fine straziante in seguito ad una malattia cronica non curata.
Un terzo ha urlato chiedendo aiuto per ore prima di morire.
I dettagli della morte dei prigionieri sono stati raccontati da testimoni oculari e corroborati da medici di Physicians for Human Rights Israel [Medici per i diritti umani Israele], (PHRI) che hanno assistito alle autopsie, i cui risultati sono stati condivisi con le famiglie e ottenuti dal Washington Post. I tre uomini fanno parte degli almeno 13 palestinesi della Cisgiordania e di Israele morti nelle carceri israeliane dal 7 ottobre, secondo PHRI. Tra i morti anche un numero imprecisato di prigionieri provenienti dalla Striscia di Gaza.
Organizzazioni per i diritti umani affermano che dopo gli attacchi di Hamas a Israele le condizioni nelle sovraffollate prigioni israeliane sono gravemente peggiorate. Ex prigionieri palestinesi hanno descritto pestaggi di routine, spesso su intere celle o blocchi, solitamente con manganelli e talvolta con i cani. Hanno affermato che è stato negato loro cibo e cure mediche a sufficienza e di essere stati sottoposti ad abusi psicologici e fisici.
Il Post ha parlato con 11 ex prigionieri e una mezza dozzina di avvocati, ha esaminato i verbali dei tribunali e i referti delle autopsie, scoprendo violenze e deprivazioni incontrollate, a volte con esito mortale, da parte delle autorità carcerarie israeliane.
Mentre l’attenzione e la condanna internazionale si sono concentrate sulla difficile situazione dei detenuti di Gaza, in particolare nel famigerato sito militare di Sde Teiman, i sostenitori dei diritti affermano che nel sistema penale israeliano esiste una crisi sistemica più profonda.
“La violenza è pervasiva”, ha affermato Jessica Montell, direttrice esecutiva dell’organizzazione per i diritti israeliana HaMoked, che lavora da anni con i detenuti palestinesi. “Esiste un gran sovraffollamento. Tutti i prigionieri che abbiamo incontrato hanno perso circa 15 kg.”.
Tal Steiner, direttore esecutivo del Public Committee Against Torture in Israel [Comitato Pubblico Contro la Tortura in Israele], attribuisce gli abusi in parte ad un clima di vendetta in Israele dopo l’assalto di Hamas del 7 ottobre. “È una combinazione di sentimenti individuali molto negativi e violenti, di sostegno ai decisori politici e di mancanza di senso di responsabilità”, ha affermato.
A Sde Teiman il caos è scoppiato lunedì dopo che l’esercito israeliano ha arrestato nove riservisti per interrogarli per abusi nei confronti di un prigioniero. Almeno un membro della Knesset e manifestanti di estrema destra hanno fatto irruzione nella base per protestare contro la detenzione dei riservisti, provocando una condanna da parte dell’esercito israeliano.
Interrogati sui prigionieri morti dietro le sbarre dal 7 ottobre, così come sulle altre accuse dettagliate in questo articolo, il servizio carcerario israeliano ha dichiarato: “Non siamo a conoscenza di quanto da voi descritto e, per quanto ne sappiamo, non si sono verificati eventi del genere. Tuttavia, prigionieri e detenuti hanno il diritto di presentare una denuncia che sarà esaurientemente esaminata e indagata dalle autorità ufficiali”.
“Tutti i prigionieri sono detenuti nel rispetto della legge”, continua la dichiarazione. “Tutti i diritti fondamentali necessari sono pienamente applicati da guardie carcerarie professionalmente formate”.
La Corte Penale Internazionale sta valutando mandati di arresto per il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro della Difesa Yoav Gallant per la condotta di Israele a Gaza. Le condizioni nelle carceri del Paese potrebbero portare a ulteriori azioni legali internazionali, ha avvertito il capo dell’intelligence israeliana Ronen Bar in una lettera alle autorità carcerarie del 26 giugno.
“Israele sta incontrando difficoltà a respingere le accuse, almeno alcune delle quali sono ben fondate”, ha scritto in una lettera visionata dal Post e pubblicata per la prima volta da Ynet [maggior sito israeliano di informazione in inglese, ndt.].
Nella lettera si legge che il sistema carcerario, costruito per 14.500 detenuti, ne ospita 21.000, senza includere circa 2.500 prigionieri di Gaza, la maggior parte dei quali detenuti in strutture militari.
“La crisi carceraria crea minacce alla sicurezza nazionale di Israele, alle sue relazioni estere e alla capacità di realizzare gli obiettivi di guerra prefissati”, conclude Bar.
L’agenzia di intelligence interna di Israele, lo Shin Bet, non ha risposto alle richieste di commento sulla lettera di Bar.
Ma Itamar Ben Gvir, Ministro della Sicurezza Nazionale di estrema destra di Israele che supervisiona il sistema carcerario, non si è scusato per la sua “guerra” contro i detenuti palestinesi. In un post su X di questo mese in risposta a Bar, si è vantato di aver “ridotto fortemente” il tempo dedicato alla doccia e introdotto un “menù risicato“.
La soluzione più semplice al sovraffollamento delle carceri, ha detto, sarebbe la pena di morte.
L’ufficio di Ben Gvir non ha risposto a una richiesta di commento.
“Tora Bora”
Per Abdulrahman Bahash, 23 anni, la permanenza in prigione è diventata una condanna a morte.
La sua famiglia ha dichiarato che era un membro delle Brigate dei Martiri di al-Aqsa, considerate un gruppo terroristico da Israele e dagli Stati Uniti, ed è stato arrestato in relazione agli scontri armati con le forze israeliane nella città di Nablus, in Cisgiordania.
Il servizio carcerario israeliano ha affermato di non essere in grado di specificare quali accuse, se presenti, fossero state mosse nella vicenda contro Bahash o gli altri prigionieri.
Due dei compagni di cella di Bahash nella prigione di Megiddo, una struttura nel nord di Israele dove da ottobre sono morti almeno tre prigionieri, hanno collegato il suo omicidio a un pestaggio particolarmente violento nel loro blocco da parte delle guardie a dicembre. Entrambi hanno parlato a condizione di mantenere l’anonimato per paura di rappresaglie.
Secondo un prigioniero di 28 anni detenuto nella stessa sezione i militari hanno fatto irruzione in tutte le celle dell’ala e hanno ammanettato i detenuti prima di picchiarli. Ha detto che durante la sua prigionia tali pestaggi avevano luogo due volte a settimana.
Le guardie li hanno attaccati “in modo pazzesco”, racconta il prigioniero. “Hanno usato i manganelli, ci hanno preso a calci… su tutto il corpo”.
Dopo il pestaggio, afferma, Bahash e altri membri della sua cella sono stati portati in un’area di celle di isolamento soprannominata “Tora Bora”, dalla denominazione della rete di grotte afghane di al-Qaeda.
“Il chiasso delle urla riempiva tutto il blocco”, dice. Bahash è tornato con contusioni profonde, e si lamentava temendo di avere le costole rotte. Quando ha chiesto assistenza medica, il suo compagno di prigione dice che è stato rimandato indietro con l’Acemol, un semplice antidolorifico.
“Alla fine non era più in grado di stare in piedi”, ricorda. “Lo aiutavamo a camminare come si fa con un bambino”.
Circa tre settimane dopo, il 1° gennaio, Bahash è morto.
Un’autopsia “ha rivelato segni di lesioni traumatiche al torace destro e all’addome sinistro, che hanno causato fratture multiple alle costole e lesioni alla milza, presumibilmente il risultato di un’aggressione”, si legge in un rapporto di Daniel Solomon, un medico del PHRI a cui le autorità carcerarie hanno dato il permesso di assistere all’autopsia.
Sono state indicate come potenziali cause di morte lo shock settico e l’insufficienza respiratoria a seguito delle lesioni. I risultati ufficiali dell’autopsia così come il corpo di Bahash sono stati tenuti nascosti alla famiglia.
Il servizio carcerario israeliano non ha risposto alle domande sul perché il corpo non sia stato restituito ai parenti.
Saeb Erekat, suo cognato, ha affermato che prima della prigionia il giovane era in ottima forma fisica. Ha descritto Megiddo come un “cimitero”.
L’autopsia di Bahash è stata una delle cinque a cui i medici del PHRI hanno potuto assistere per conto delle famiglie dei prigionieri dopo aver richiesto il permesso ai tribunali.
Abdul Rahman al-Maari, 33 anni, è morto a Megiddo il 13 novembre. Falegname e padre di quattro figli, secondo suo fratello Ibrahim Maari si trovava in prigione da febbraio 2023, dopo essere stato arrestato a un posto di blocco temporaneo e accusato di affiliazione ad Hamas e possesso di un’arma da fuoco.
I parenti hanno perso i contatti con lui dopo il 7 ottobre, quando le visite dei familiari sono state interrotte. Stanno ancora cercando di ricostruire i dettagli della sua morte.
Un rapporto sulla sua autopsia del medico del PHRI Danny Rosin ha rilevato che “sono stati osservati lividi sul torace sinistro, con fratture alle costole e alla parte inferiore dello sterno. … Sono stati osservati lividi anche sulla schiena, sui glutei, sul braccio e sulla coscia sinistri e sul lato destro della testa e del collo”.
Khairy Hamad, 32 anni, detenuto nello stesso blocco, ha detto che Maari è stato gettato giù ammanettato da una rampa di circa 15 scalini di metallo, una punizione per aver fatto delle osservazioni alle guardie mentre i detenuti venivano spogliati e picchiati nel corso di una perquisizione della cella.
Hamad riferisce che lui e i suoi compagni di cella erano stati portati al piano terra e Maari è piombato a terra a circa cinque metri di distanza da lui. Era cosciente, dice, ma sanguinava dalla testa. Anche Maari è stato trasferito in isolamento a Tora Bora. Dalla cella accanto l’avvocato 53enne Sariy Khourieh lo ha sentito lamentarsi per ore a causa del dolore.
“Ha urlato tutto il giorno e la notte”, afferma Khourieh. “Ho bisogno di un dottore”, ricorda che urlava, ripetutamente.
Alla fine, alle 4 del mattino, è rimasto in silenzio.
Al mattino Khourieh ha sentito le guardie scoprire il corpo senza vita e chiamare un medico. Ha sentito che cercavano di rianimare Maari con un defibrillatore, poi ha visto che lo portavano fuori in un sacco per cadaveri.
“In una società moderna non dovrebbero succedere cose del genere”, ha detto suo fratello.
Sovraffollamento e negligenza
I resoconti di assistenza medica negata sono onnipresenti nelle testimonianze degli ex prigionieri. Secondo Rosin del PHRI, che ha assistito all’autopsia, la morte di Muhammed al-Sabbar, 21 anni, il 28 febbraio avrebbe potuto essere evitata se la sua condizione cronica fosse stata curata correttamente.
La famiglia di Sabbar ha affermato che è stato arrestato per istigazione in relazione a dei post pubblicati online. Soffriva fin dall’infanzia della malattia di Hirschsprung, una condizione che causa gravi e dolorose ostruzioni intestinali. Aveva bisogno di una dieta speciale e di farmaci.
Lo stomaco di Sabbar ha iniziato a gonfiarsi a ottobre dopo che gli sono stati negati i farmaci, ha affermato Atef Awawda, 54 anni, uno dei suoi compagni di cella. Un medico della prigione gli aveva fatto una singola iniezione all’inizio di quel mese, ricorda Awawda, ma aveva detto a Sabbar di non dirlo a nessuno. “Quella è stata l’ultima volta che abbiamo ricevuto medicine”, dice.
“La morte di Mohammed avrebbe potuto essere evitata con una più rigorosa aderenza alle sue esigenze mediche”, si legge nella lettera di Rosin alla sua famiglia, in cui descrive il suo colon come dilatato e pieno di una grande quantità di materia fecale.
Quando è stato portato d’urgenza al pronto soccorso, “le sue condizioni erano già tali che le possibilità di salvarlo erano scarse”, conclude il rapporto.
Secondo Addamer, un’organizzazione per i diritti dei prigionieri palestinesi, a maggio è stata trattenuta nelle prigioni israeliane una quantità record di 9.700 prigionieri palestinesi. Circa 3.380 erano detenuti amministrativi, afferma l’organizzazione, trattenuti senza accusa o processo. I numeri non includono i prigionieri di Gaza; le autorità israeliane non riveleranno quanti esattamente sono stati imprigionati o dove sono detenuti.
Ex detenuti hanno affermato che le celle per sei persone a volte ne contenevano il doppio, con materassi posizionati sul pavimento.
Alcuni hanno riferito che in inverno venivano rimosse le imposte dalle finestre delle celle per esporre al freddo i detenuti. Altri hanno detto che veniva suonato incessantemente a volume alto l’inno nazionale israeliano; le luci venivano lasciate accese di notte per disturbare il sonno.
A novembre, secondo il suo avvocato e i verbali del tribunale esaminati dal Post, un prigioniero palestinese è stato picchiato a cospetto di un giudice mentre si apprestava a seguire un’udienza tramite collegamento video.
“Ora possiamo sentire in sottofondo le grida delle persone che vengono picchiate”, si legge nei verbali del tribunale. Le grida si sono interrotte quando è intervenuto il giudice.
“Ho il naso rotto”, ha detto l’imputato, il cui nome è stato censurato nei verbali del tribunale. “Chiedo che l’udienza non finisca senza che promettano di non picchiarmi”.
“Politica della fame”
Violenza e negligenza medica erano accompagnate dalla privazione del cibo, raccontano gli ex prigionieri. Ognuno ha detto di aver perso molto peso in prigione, tra 13 e 22 kg.
Il giornalista Moath Amarneh, 37 anni, imprigionato per sei mesi a Megiddo per aver filmato delle dimostrazioni in Cisgiordania, ha detto che durante la sua permanenza la sua cella per sei persone è arrivata ad ospitarne 15.
I detenuti condividevano per colazione un piatto di verdure e yogurt. Per pranzo, ogni prigioniero riceveva mezza tazza di riso e la cella, indipendentemente dal numero di uomini che vi erano dentro, divideva un piatto di pomodori o cavolo a fette. Nei giorni buoni potevano esserci salsicce o fagioli. La cena consisteva in un uovo e un po’ di verdure, dice.
“È appena il sufficiente per sopravvivere”, ha detto l’avvocato Aya al-Haj Odeh, che ha riferito che alcuni clienti hanno raccontato di aver ricevuto appena tre fette di pane al giorno o qualche cucchiaio di riso e di avere avuto un accesso limitato all’acqua potabile.
Ad aprile l’Associazione per i Diritti Civili in Israele ha presentato una petizione alla Corte Suprema per quella che ha definito una “politica della fame”. Ben Gvir ha scritto all’organizzazione prendendosi il merito di tale politica, dicendo che stava lavorando per “peggiorare le condizioni” dei prigionieri in modo da “creare deterrenza”, ha affermato l’ACRI.
Muazzaz Obayat, 37 anni, quando la scorsa settimana ha lasciato Ktzi’ot, nel sud di Israele, riusciva a malapena a camminare. È stato arrestato dopo il 7 ottobre con l’accusa di legami con Hamas, ma non è mai stato incriminato.
I suoi capelli neri ricci e la barba erano incolti; gli zigomi sporgevano e gli occhi erano infossati.
In una clinica nella città di Beit Jala, in Cisgiordania, dove stava ricevendo cure mediche, ha detto che non sapeva bene quanti anni avesse o quanti ne avessero i suoi cinque figli.
“Non so niente se non della prigionia”, ha detto.
Un tempo culturista dilettante, ha detto di aver perso più di 45 kg. in nove mesi.
Ha descritto bisbigliando come una guardia lo avesse violentato con una scopa. I medici hanno detto che soffriva di stress post-traumatico e malnutrizione.
“È Guantánamo”, ha detto.
Hanno contribuito a questo articolo Hajar Harb da Londra e Lior Soroka da Tel Aviv.
(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)