Ridisegnando l’UNRWA Washington distrugge le basi di una pace giusta in Palestina

Ramzy Baroud

3 maggio 2022 – Middle East Monitor

I palestinesi hanno tutte le ragioni di essere preoccupati perché il mandato dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati Palestinesi, UNRWA, potrebbe essere sul punto di terminare. La missione dell’UNRWA, in vigore dal 1949, ha fatto qualcosa in più del semplice aiuto e appoggio urgente a milioni di rifugiati. È stata anche una piattaforma politica che ha protetto e preservato i diritti di varie generazioni di palestinesi.

Benché non sia stata creata di per sé come una piattaforma politica o giuridica, il contesto del suo mandato è stato in larga misura politico, dato che i palestinesi si sono trasformati in rifugiati a seguito di avvenimenti militari e politici: la pulizia etnica del popolo palestinese da parte di Israele e il rifiuto di quest’ultimo di rispettare il diritto al ritorno dei palestinesi stabilito dalla risoluzione 194 (III) dell’ONU dell’11 dicembre 1948.

“L’UNRWA ha l’incarico umanitario e per lo sviluppo di fornire assistenza e protezione ai rifugiati palestinesi finché si trovi una soluzione giusta e duratura alla loro situazione,” affermava la Risoluzione 302 (IV) dell’Assemblea Generale dell’ONU dell’8 dicembre 1949.

Disgraziatamente non si è raggiunta né una “soluzione duratura” alla difficile situazione dei rifugiati, né una prospettiva politica. Invece di approfittare di questa constatazione per rivedere il fallimento della comunità internazionale nel dare giustizia alla Palestina e per chiamare in causa Israele e i suoi benefattori statunitensi, sono l’UNRWA, e per estensione i rifugiati, che vengono sanzionati.

Con un severo monito, il 24 aprile il capo della commissione politica del Consiglio Nazionale Palestinese (CNP) Saleh Nasser ha affermato che il mandato dell’UNRWA potrebbe essere arrivato alla fine. Nasser ha fatto riferimento a una recente dichiarazione del Commissario Generale dell’organizzazione dell’ONU, Philippe Lazzarini, riguardo al futuro dell’organismo.

La dichiarazione di Lazzarini, pubblicata il giorno precedente, si prestava a varie interpretazioni, anche se risultava chiaro che stava per cambiare qualcosa di fondamentale nello status, nel mandato e nel lavoro dell’UNRWA. “Possiamo ammettere che la situazione attuale è insostenibile e che inevitabilmente darà come risultato l’erosione della qualità dei servizi dell’UNRWA o, peggio ancora, la sua chiusura,” ha detto Lazzarini.

Commentando la dichiarazione Nasser ha detto che questo “è il preludio al fatto che i donatori smettano di finanziare l’UNRWA.”

Il tema del futuro dell’UNRWA è ora una priorità nel discorso politico palestinese, ma anche arabo. Qualunque tentativo di cancellare o ridefinire la missione dell’UNRWA rappresenta una sfida seria, per non dire senza precedenti, per i palestinesi. L’UNRWA fornisce appoggio educativo, sanitario e di altro genere a 5,6 milioni di palestinesi in Giordania, Libano, Siria, nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est. Con un bilancio annuale di 1.600 milioni di dollari questo appoggio e l’enorme rete che l’organizzazione ha creato non possono essere facilmente sostituiti.

Altrettanto importante è la natura politica dell’organizzazione. L’esistenza stessa dell’UNRWA rappresenta il fatto che c’è una questione politica che deve essere affrontata riguardo alla difficile situazione e al futuro dei rifugiati palestinesi. Di fatto quello che ha provocato l’attuale crisi non è stata una semplice mancanza di convinzione nel finanziamento dell’organizzazione. È qualcosa di più grande e molto più sinistro.

Nel giugno 2018 Jared Kushner, genero e consigliere dell’ex-presidente USA Donald Trump, ha visitato Amman (Giordania), dove, secondo la rivista statunitense Foreign Policy, ha cercato di convincere re Abdullah di Giordania a ritirare lo status di rifugiati a 2 milioni di palestinesi che vivono attualmente nel Paese.

Questo e altri tentativi sono falliti. Nel settembre 2018 Washington, sotto l’amministrazione di Trump, ha deciso di cessare di appoggiare finanziariamente l’UNRWA. In quanto principale finanziatore dell’organizzazione, la decisione statunitense è stata devastante, dato che circa il 30% dei soldi dell’UNRWA proviene dagli Stati Uniti. Tuttavia l’UNRWA ha continuato a tirare avanti a fatica aumentando la propria dipendenza dal settore privato e dalle donazioni individuali.

Benché i dirigenti palestinesi abbiano festeggiato la decisione dell’amministrazione Biden di riprendere i finanziamenti all’UNRWA il 7 aprile 2021, si è mantenuta segreta una piccola clausola della misura di Washington, che ha acconsentito di finanziare l’UNRWA solo dopo che questa avesse accettato di firmare un piano di due anni, noto come “Accordo-quadro di Collaborazione”. In sintesi, il piano ha di fatto trasformato l’UNRWA in una piattaforma per le politiche di Israele e degli Stati Uniti in Palestina, in base al quale l’organismo dell’ONU ha accettato le richieste degli Stati Uniti, e quindi di Israele, di garantire che nessun aiuto arrivi a rifugiati palestinesi che abbiano ricevuto un addestramento militare “come membri del cosiddetto Esercito di Liberazione della Palestina”, di altre organizzazioni o che “abbiano partecipato a qualunque azione terrorista.” Oltretutto L’accordo-quadro prevede che l’UNRWA controlli “il contenuto dei piani di studio [nelle scuole] palestinesi.”

Firmando l’accordo con il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti “l’UNRWA si è trasformata da agenzia umanitaria che fornisce assistenza e aiuto ai rifugiati palestinesi in un’agenzia della sicurezza che promuove il programma politico e della sicurezza degli Stati Uniti e, in ultima istanza, di Israele,” ha sottolineato il Centro di Risorse di BADIL per i Diritti dei Rifugiati Palestinesi.

Tuttavia le proteste dei palestinesi non hanno cambiato la nuova situazione, che ha di fatto modificato tutto il mandato affidato all’UNRWA dalla comunità internazionale quasi 73 anni fa. Ancora peggio, i Paesi europei hanno seguito il suo esempio quando lo scorso mese di settembre il parlamento europeo ha presentato un emendamento che condiziona l’appoggio dell’UE all’UNRWA alla pubblicazione e riscrittura dei libri di testo scolastici palestinesi che [ora] “inciterebbero alla violenza” contro Israele.

Invece di concentrarsi unicamente sulla chiusura immediata dell’UNRWA gli Stati Uniti, Israele e i loro sostenitori stanno lavorando per cambiare la natura della missione dell’organizzazione e riscrivere totalmente il suo mandato originario. L’agenzia, che è stata creata per proteggere i diritti dei rifugiati, ora si prevede che protegga gli interessi israeliani, statunitensi e occidentali in Palestina.

Benché l’UNRWA non sia mai stata un’organizzazione ideale, è però riuscita nel corso degli anni ad aiutare milioni di palestinesi preservando nel contempo la natura politica della loro situazione.

Benché l’Autorità Nazionale Palestinese, varie fazioni politiche, governi arabi e altri abbiano protestato contro i disegni israelo-statunitensi contro l’UNRWA, è poco probabile che queste proteste cambino molto le cose, dato che la stessa UNRWA si sta arrendendo alle pressioni esterne. Mentre i palestinesi, gli arabi e i loro alleati devono continuare a lottare per la missione originaria dell’UNRWA, devono sviluppare urgentemente piani e piattaforme alternative che proteggano i rifugiati palestinesi e il loro diritto al ritorno perché non diventino qualcosa di marginale ed eventualmente dimenticato.

Se si eliminano i rifugiati palestinesi dalla lista delle priorità politiche relative al futuro di una pace giusta in Palestina non sarà possibile raggiungere né la giustizia né la pace.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e direttore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri sulla lotta dei palestinesi, tra cui “L’ultima terra: Una storia palestinese” (Pluto Press, Londra). Baroud ha conseguito un dottorato in Studi Palestinesi presso l’università di Exeter ed è docente non residente presso il Centro Orfalea di Studi Globali e Internazionali dell’Università della California a Santa Barbara.

(Traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La normalizzazione di Israele potrebbe portare alla divisione della moschea di Al-Aqsa

Mersiha Gadzo

14 settembre 2020 – Al Jazeera

Secondo alcuni analisti una clausola degli accordi Emirati -Bahrain e Israele spalanca la porta alle preghiere degli ebrei nel luogo sacro.

Una frase inserita negli accordi di normalizzazione fra Emirati Arabi Uniti (EAU), Bahrain e Israele, mediati dagli Stati Uniti, potrebbe portare alla divisione del complesso di Al-Aqsa perché viola lo status quo, dicono alcuni analisti.

Secondo un’inchiesta di Terrestrial Jerusalem (TJ) un’organizzazione non governativa israeliana, le affermazioni segnano un “cambiamento radicale dello status quo” e hanno ” conseguenze di vasta portata e potenzialmente esplosive”.

Secondo lo status quo stabilito nel 1967, solo i musulmani possono pregare sull’al-Haram al-Sharif [il Nobile Santuario in arabo, cioè la Spianata delle Moschee, ndtr.], Monte del Tempio, secondo gli ebrei, noto anche come complesso della moschea Al-Aqsa, un’area di 14oo mq.

I non-musulmani possono visitare il sito, ma non pregare. Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, aveva confermato questo status quo in una dichiarazione formale nel 2015.

Tuttavia una clausola inclusa nei recenti accordi fra Israele e gli Stati del Golfo Arabo indica che potrebbe non essere più così.

Secondo la dichiarazione congiunta fra USA, Israele e EAU rilasciata il 13 agosto dal presidente americano Donald Trump: “Come sancito nella Visione di Pace, tutti i musulmani che vengono in pace possono visitare e pregare nella moschea di Al-Aqsa e gli altri siti sacri a Gerusalemme devono restare aperti ai fedeli pacifici di tutte le fedi.”

Ma Israele definisce Al-Aqsa come ‘struttura di una moschea’, come nella dichiarazione, chiarifica la relazione di TJ.

“Secondo Israele (e apparentemente gli Stati Uniti), tutto quello che c’è sul Monte che non sia la struttura della moschea, è definito come ‘uno degli altri siti sacri di Gerusalemme’, aperto a tutti, ebrei inclusi, per pregare,” dice la dichiarazione.

“Questa scelta di terminologia non è né casuale né un passo falso e non può essere vista se non come un tentativo intenzionale, seppure furtivo, di lasciare la porta spalancata alla preghiera ebraica al Monte del Tempio, cambiando così radicalmente lo status quo.”

La stessa dichiarazione è stata ripetuta nell’accordo con il Bahrain, annunciato venerdì.

Khaled Zabarqa, un avvocato palestinese specializzato nelle questioni relative ad Al-Aqsa e Gerusalemme, ha detto ad Al Jazeera che si “dice molto chiaramente che la moschea non è sotto la sovranità musulmana”.

“Quando gli EAU hanno accettato tale clausola, si sono detti d’accordo e hanno dato il via libera alla sovranità di Israele sulla moschea di Al-Aqsa,” ha detto Zabarqa.

“È una chiara e significativa violazione dello status quo legale internazionale della moschea di Al-Aqsa (concepito) nel 1967 dopo l’occupazione di Gerusalemme e secondo cui tutto ciò che si trova all’interno delle mura è sotto la custodia giordana.

Non è un errore innocente’

I palestinesi sono preoccupati da tempo per i possibili tentativi di partizione della sacra moschea, come è successo con la moschea di Ibrahimi [la Tomba dei Patriarchi per gli ebrei, ndtr.] a Hebron.

Nel corso degli anni si è sviluppato un Movimento del Tempio, costituito in gran parte da ” di ebrei religiosi nazionalisti di estrema destra” che cercano di cambiare lo status quo, riferisce TJ.

Alcuni chiedono la preghiera per gli ebrei all’interno del complesso sacro, mentre altri mirano a costruire il Terzo Tempio sulle rovine della Cupola della Roccia che, secondo le profezie messianiche, annuncerebbe la venuta del messia.

Nel corso degli anni, l’ONG israeliana Ir Amim ha pubblicato numerose relazioni di questo gruppo, un tempo marginale, ma che oggi fa parte di una tendenza politica e religiosa dominante e gode di stretti legami con le autorità israeliane.

Questi attivisti credono che permettere agli ebrei di pregare nel complesso e dividere il sito sacro fra musulmani ed ebrei sia un passo verso la sovranità, per raggiungere un giorno il loro scopo finale, la costruzione del tempio.

In anni recenti, un numero crescente di visitatori ebrei hanno cercato di pregare in violazione dello status quo.

Daniel Seidemann, un avvocato israeliano specializzato nella geopolitica di Gerusalemme, ha detto ad Al Jazeera di essere “profondamente preoccupato per quello che sta succedendo “.

“Quello che stiamo vedendo a Gerusalemme è l’ascesa delle fazioni religiose che usano la religione come un’arma. Siamo su una strada che ci porterà a una conflagrazione.

Noi sappiamo che queste clausole, ogni singola parola, sono state elaborate insieme da un gruppo congiunto USA/ Israele. Il passaggio dal termine Haram al-Sharif a quello di moschea di Al-Aqsa non è un errore,” secondo Seidemann.

‘Scritto con astuzia’

Una dichiarazione più sfacciata è stata inclusa nell’ “accordo del secolo”, il piano per il Medio Oriente svelato alla fine di gennaio da Trump e Netanyahu alla Casa Bianca.

Jared Kushner, importante consigliere e genero di Trump, è stato la persona di maggior spicco che ha lavorato alla proposta, mentre a Ron Dermer, ambasciatore israeliano negli USA, è stata attribuita la formulazione dell’accordo.  

Il piano stipula che “lo status quo del Monte del Tempio/Haram al-Sharif dovrebbe rimanere inalterato”, ma nella frase successiva si dice anche che: “persone di ogni fede possono pregare sul Monte del Tempio/Haram al-Sharif.”

La clausola ha causato polemiche e ha spinto David Friedman, ambasciatore USA in Israele, a tornare sui suoi passi durante l’incontro con la stampa il 28 gennaio. “Non c’è nulla nel piano che imporrebbe modifiche dello status quo senza l’accordo fra tutte le parti,” ha detto.

Un alto funzionario americano, che conosce sia le parti in causa che i problemi, ha detto ad Al Jazeera che “non ha dubbi che il linguaggio nella dichiarazione Israele-EAU è stato scelto con malizia premeditata da parte di Israele, senza una chiara comprensione da parte degli Emirati e con la complicità di mediatori americani incompetenti.”

“La rapida ritrattazione di Friedman della frase contenuta nel piano di Trump attesta che probabilmente Dermer l’aveva inserita e che Kushner non l’aveva capita,” ha rivelato il funzionario in forma anonima.

“Il fatto che sia stato Friedman a ritrattare e non la Casa Bianca significa anche che il linguaggio del piano di Trump è ancora ufficiale e determinante quando si arriverà al dunque… Anche se gli idioti Kushner-Friedman hanno capito le conseguenze, è chiaro che se ne fregano.”

Eddie Vasquez, esperto consigliere e portavoce del Dipartimento di Stato americano, ha riferito in un’email ad Al Jazeera di una scheda informativa pubblicata dopo l’annuncio “dell’accordo del secolo” che dice che lo status quo non verrà modificato.

“Tutti i musulmani sono benvenuti a visitare in pace la moschea di Al-Aqsa,” dice uno dei punti. Ma non si chiarisce perché negli accordi con gli EAU e Bahrain sia stato usato il termine di moschea di Al-Aqsa e non Haram al-Sharif.

Sovranità israeliana su Al-Aqsa’

Gli accordi di normalizzazione arrivano dopo che, la scorsa settimana, le autorità israeliane hanno installato degli altoparlanti sui lati est e ovest del complesso di Al-Aqsa senza il permesso del Waqf, (istituzione islamica).

Il complesso sacro è amministrato dal Waqf islamico con sede in Giordania. Secondo lo status quo, Israele è responsabile solo della sicurezza fuori dai cancelli.

“La polizia israeliana dice che è per motivi di sicurezza, ma noi non riusciamo a vedere questi motivi,” dice Omar Kiswani, direttore del complesso di Al-Aqsa.

“Noi consideriamo questa azione un tentativo di imporre il controllo sulla moschea di Al-Aqsa e di indebolire il ruolo del Waqf nella moschea,” dice Kiswani.

Zabarqa afferma che la Giordania, custode del sito, “non ha alcun potere di trattare con le [autorità] di occupazione “.

“Credo che la Giordania debba cambiare e trovare nuovi alleati, come la Turchia. Dovrebbe usare le relazioni finanziarie e diplomatiche con Israele per far pressione, ma invece sembra così debole da mettersi al fianco degli americani,” aggiunge Zabarqa.

Nel suo rapporto TJ nota che nell’accordo non si parla del Waqf e del suo ruolo autonomo.

“Le rivendicazioni musulmane su Haram al-Sharif/Al-Aqsa sono state trasformate da quelle di proprietario a quelle di ‘ospite benvenuto’ con il diritto di visitare e pregare,” conclude.

Una bomba’

Zabarqa sostiene che la clausola è “rivoluzionaria nella narrazione israelo-americana ” e crede che gli ” EAU abbiano accettato di fare da apripista “.

Zabarqa rileva che nel 2014 gli EAU sono stati coinvolti nel trasferimento della proprietà di oltre 30 edifici a coloni israeliani illegali a Silwan, nella Gerusalemme est occupata.

“Questo ci mostra il ruolo evidente che gli Emirati giocano nel cambiare il termine di status quo con un altro che riconosca la sovranità israeliana su Al-Aqsa,” afferma Zabarqa.

Seidemann dice che martedì, quando gli emiratini e i rappresentanti del Bahrain prenderanno parte alla cerimonia tenuta da Trump alla Casa Bianca per firmare una “storica dichiarazione di pace” con Israele dovrebbero chiedere dei chiarimenti per assicurarsi che lo status quo resti immutato.

Ci sarebbe solo bisogno che Kushner e Netanyahu dicano: ‘Continuo a credere a quello che ho detto nel 2015.’ Nelle ultime due settimane gli è stato chiesto, ma non l’hanno ancora detto. Questa non è ingenuità,” commenta Seidemann.

“Questa è una bomba che le amministrazioni di Trump e Netanyahu lasciano alle successive, al prossimo governo israeliano. Stanno giocando con Haram al-Sharif/Al-Aqsa/ Monte del Tempio. Accenderà una miccia,” dice Seidemann.

“Forse è una miccia lunga, ci sarà un’esplosione, ma non è troppo tardi per evitare che scoppi.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




I palestinesi devono respingere e ignorare le false dichiarazioni degli USA e a livello internazionale

Ramona Wadi

3 settembre 2020 – Middle East Monitor

Come prevedibile, il consigliere esperto di Donald Trump, Jared Kushner, non ha dato mostra di alcuna sagacia storica quando ha giustificato la normalizzazione dei rapporti tra Israele e gli EAU e riguardo a quanto ciò influenzerà di diritti politici del popolo palestinese. I palestinesi, ha dichiarato, non dovrebbero “rimanere attaccati al passato”. Questa è stata un’affermazione generica, tipica non solo degli USA, ma anche della comunità internazionale e delle sue astrazioni riguardo a “pace” e “negoziati”, che hanno preso il sopravvento rispetto a chiamare l’espansione colonialista israeliana su terra palestinese esattamente per quello che è.

C’è una differenza tra gli sforzi diplomatici per raggiungere un accordo favorevole per entrambe le parti e la coercizione per obbligare una popolazione colonizzata ad accettare le richieste del colonizzatore e dei suoi alleati. Riguardo ai palestinesi, ha aggiunto Kushner, “devono venire al tavolo delle trattative. La pace sarà a loro disposizione, ci sarà un’opportunità pronta per loro appena saranno pronti a coglierla.”

Quello che Kushner dice non è altro se non che i palestinesi saranno obbligati ad accettare di essere colonizzati come parte di un accordo, oppure obbligati ad essere colonizzati senza di esso. Più o meno nello stesso modo in cui il compromesso dei due Stati garantiva la preservazione di Israele, che venisse o meno messo in pratica il paradigma.

La normalizzazione non è ciò che sembra, cioè, con le parole del primo ministro Benjamin Netanyahu, “pace in cambio di pace”. L’accordo tra Israele e gli EAU elimina i palestinesi dall’equazione, quindi non c’è pace, ma una metaforica e verbale eliminazione della popolazione indigena dall’attuale narrazione politica, per abbinarsi alla pulizia etnica che i paramilitari sionisti hanno operato prima, durante e dopo la Nakba del 1948.

A livello internazionale il discorso è simile. L’ONU e i leader internazionali stanno parlando dell’opportunità di riprendere i negoziati, quindi si schierano con gli USA benché il quadro di riferimento per la “pace” differisca. Kushner è semplicemente stato più esplicito nel travisare la lotta anticolonialista dei palestinesi come “rimasti attaccati al passato”, mentre la comunità internazionale ha utilizzato il passato del popolo palestinese, aiutata e sostenuta dall’interesse dell’ONU nel progetto coloniale sionista, per rinchiuderli all’interno dell’inganno diplomatico.

Quindi da una parte gli USA hanno totalmente rimosso la storia palestinese, mentre l’ONU la riconosce per i propri fini. Entrambi hanno manifestato, in modi diversi, il rifiuto palestinese di negoziati con termini che sono già compromessi. Tuttavia l’ONU rifiuta di ammettere il fatto di avere un alleato nell’Autorità Nazionale Palestinese, che continua nel suo doppio gioco di rifiutare il negoziato rimanendo legata al compromesso dei due Stati.

Dopotutto c’è un tacito accordo tra l’ONU e l’ANP. Persino in tempi in cui è necessaria un’alternativa, il leader dell’ANP Mahmoud Abbas non si allontana dall’avvertimento del segretario generale dell’ONU António Guterres, secondo cui “non c’è un piano B.”

Con una simile coesione internazionale contro i palestinesi, indubbiamente Kushner si sente appoggiato nelle sue affermazioni secondo cui essi sono “rimasti attaccati al passato”, non da ultimo perché anche l’ONU ha relegato i palestinesi a una questione per la quale il tempo è passato, rendendo irrilevante, attraverso il suo appoggio a un contesto che porta all’ingiustizia, il loro legittimo diritto al ritorno. Tuttavia le affermazioni riguardanti i palestinesi sono sbagliate ed essi devono respingere ed ignorare le false dichiarazioni internazionali sulla loro situazione.

Sappiamo per certo che vogliono continuare a vivere sulla loro terra, con l’autonomia e l’indipendenza che può venire solo dalla decolonizzazione. Quello che gli USA e la comunità internazionale rifiutano di ammettere e di accettare è che per i palestinesi non ci può essere un progresso senza la loro terra.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il Bahrein segue gli EAU e normalizza i rapporti con Israele

Al-Jazeera e agenzie

12 settembre 2020 – Al-Jazeera

La Palestina richiama l’inviato in Bahrein, denunciando l’ultimo accordo come “un’altra coltellata a tradimento contro la causa palestinese.”

Il Bahrein si è unito agli Emirati Arabi Uniti accettando di normalizzare i rapporti con Israele, con un accordo mediato dagli USA che i dirigenti palestinesi hanno denunciato come “un’altra coltellata a tradimento contro la causa palestinese”.

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato l’accordo venerdì su Twitter, dopo aver parlato per telefono con il re del Bahrain Hamad bin Isa Al Khalifa e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

È veramente un giorno storico,” ha detto Trump ai giornalisti nello Studio Ovale, affermando di credere che altri Paesi faranno altrettanto.

Era impensabile che ciò potesse avvenire e così in fretta.”

Con un comunicato congiunto gli Stati Uniti, il Bahrein e Israele hanno detto che “aprire un dialogo e rapporti diretti tra queste due società dinamiche e le loro economie avanzate continuerà la trasformazione positiva del Medio Oriente e aumenterà la stabilità, la sicurezza e la prosperità nella regione.”

Un mese fa gli EAU hanno accettato di normalizzare i rapporti con Israele in base ad un accordo mediato dagli USA che dovrebbe essere firmato martedì durante una cerimonia alla Casa Bianca ospitata da Trump, che sta cercando di essere rieletto il 3 novembre.

Alla cerimonia parteciperanno Netanyahu e il ministro degli Esteri degli Emirati, lo sceicco Abdullah bin Zayed Al Nahyan. Il comunicato congiunto afferma che il ministro degli Esteri del Bahrein Abdullatif al-Zayani si aggiungerà a questa cerimonia e firmerà una “storica dichiarazione di pace” con Netanyahu.

La storia della normalizzazione tra arabi e israeliani

Come l’accordo degli EAU, quello di venerdì tra il Bahrain e Israele normalizzerà le relazioni diplomatiche, commerciali, per la sicurezza ed altro tra i due Paesi. Il Bahrein, insieme all’Arabia Saudita, ha già annullato il divieto di passaggio sul suo spazio aereo ai voli israeliani.

Il comunicato congiunto di venerdì menziona solo marginalmente i palestinesi, che temono che le iniziative del Bahrein e degli EAU indeboliscano la tradizionale posizione di tutti i Paesi arabi di chiedere il ritiro di Israele dai territori già illegalmente occupati e l’accettazione di uno Stato palestinese in cambio della normalizzazione dei rapporti con i Paesi arabi.

Il comunicato afferma che il Bahrain, Israele e gli USA continueranno nel tentativo di “raggiungere una soluzione giusta, esauriente e duratura del conflitto israelo-palestinese per consentire al popolo palestinese di realizzare appieno il suo potenziale.”

Grave danno”

Netanyahu ha accolto positivamente l’accordo ed ha ringraziato Trump.

Ci sono voluti 26 anni tra il secondo accordo di pace con un Paese arabo e il terzo, ma solo 29 giorni tra il terzo e il quarto, e ce ne saranno altri,” ha detto in riferimento al trattato di pace del 1994 con la Giordania e all’accordo più recente.

Secondo l’agenzia di stampa statale [del Bahrein] BNA, per parte sua il Bahrein ha affermato di appoggiare una pace “giusta ed esauriente” in Medio Oriente. Questa pace dovrebbe essere basata su una soluzione a due Stati per risolvere il conflitto israelo-palestinese, dice l’articolo citando re Hamad.

Il genero di Trump e importante consigliere alla Casa Bianca Jared Kushner ha salutato gli accordi come “il culmine di quattro anni di grande lavoro” da parte dell’amministrazione Trump.

Parlando al telefono con i giornalisti dalla Casa Bianca subito dopo l’annuncio di venerdì, Kushner ha detto che gli accordi degli EAU e del Bahrein “contribuiranno a ridurre le tensioni nel mondo musulmano e consentiranno al popolo di separare la questione palestinese dai propri interessi nazionali e dalla politica estera, che dovrebbe essere concentrata sulle priorità interne.”

Tuttavia la dirigenza palestinese ha condannato l’accordo come un tradimento della causa palestinese e ha richiamato per consultazioni l’ambasciatore palestinese in Bahrein.

In un comunicato l’Autorità Nazionale Palestinese ha dichiarato di “respingere la decisione presa dal regno del Bahrein e gli chiede di ritrattarlo immediatamente per il grave danno che causa agli inalienabili diritti nazionali del popolo palestinese e all’azione congiunta degli arabi.”

L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), con sede a Ramallah, in Cisgiordania, ha definito la normalizzazione “un’altra coltellata a tradimento alla causa palestinese.” E a Gaza il portavoce di Hamas Hazem Qassem ha affermato che la decisione del Bahrein di normalizzare i rapporti con Israele “rappresenta un grave danno per la causa palestinese e appoggia l’occupazione.”

Una decisione puramente saudita”

Khalil Jahshan, direttore esecutivo dell’Arab Center [Centro Arabo] di Washington, ha detto che il consenso saudita è stato fondamentale per la decisione del Bahrain.

È una decisione puramente saudita. Non potendo rispondere positivamente a Trump a causa di contrasti interni, la dirigenza dell’Arabia Saudita gli ha dato il Bahrein su un piatto d’argento.”

Il Bahrein, un piccolo Stato insulare, è sede del quartier generale regionale della flotta USA. Nel 2011 l’Arabia Saudita ha inviato truppe in Bahrein per contribuire a reprimere una rivolta, e nel 2018, insieme al Kuwait e agli EAU, ha offerto al Bahrein un salvataggio finanziario di 10 miliardi di dollari.

Nida Ibrahim, inviata di Al Jazeera a Ramallah, nella Cisgiordania occupata, concorda, affermando che fonti ufficiali palestinesi credono che gli accordi di Bahrein e EAU non ci sarebbero stati “senza un sostegno regionale.”

Il timore tra i palestinesi è che questi accordi rappresentino la luce verde perché altri Stati arabi normalizzino i rapporti con Israele,” dice. “E molti palestinesi che dicono di aver per anni visto gli USA come avvocati o partner di Israele, ora li vedono come i rappresentanti di Israele. Perché è Trump che annuncia gli accordi di normalizzazione.”

Da quando ha assunto il potere, l’amministrazione Trump ha perseguito politiche risolutamente filo-israeliane, compreso lo spostamento dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme, ordinando la chiusura dell’ufficio di rappresentanza dell’OLP a Washington e riconoscendo l’occupazione israeliana delle Alture del Golan siriane. Il presidente USA e i suoi consiglieri hanno promosso la proposta del cosiddetto “accordo del secolo” per risolvere il conflitto israelo-palestinese ed hanno corteggiato gli Stati arabi del Golfo per cercare di ottenere appoggio all’iniziativa.

Per esempio nel giugno 2019 il Bahrein ha ospitato la conferenza organizzata dagli USA per rivelare gli aspetti economici della proposta, e all’epoca dirigenti emiratini e sauditi hanno espresso il loro appoggio a qualunque accordo economico che beneficiasse i palestinesi. Tuttavia i dirigenti palestinesi hanno boicottato quel summit, affermando che l’amministrazione Trump non era un mediatore imparziale per qualunque futuro negoziato con Israele.

Riferendo da Washington, Kimberly Halkett di Al Jazeera afferma che, mentre gli accordi tra Israele, il Bahrein e gli EAU non sono tra le principali priorità per molti elettori USA, gran parte dei sostenitori di Trump sono cristiani evangelici, favorevoli alle sue posizioni a favore di Israele.

Halkett dice che Trump sta cercando di dimostrare loro prima delle elezioni del 3 novembre che può ottenere l’“accordo del secolo” durante il suo secondo mandato.

Sta agendo come se questo fosse il quadro che porterà al cosiddetto “accordo del secolo”, afferma Halkett, nonostante il fatto che “finora il presidente e i rappresentanti della sua amministrazione non abbiano neppure parlato con i palestinesi.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Elogi prudenti, silenzio e rifiuto: i gruppi ebraici americani divisi sull’ “accordo del secolo”

Richard Silverstein

giovedì 6 febbraio 2020 – Middle East Eye

Le organizzazioni di destra hanno elogiato il piano di Trump per Israele e la Palestina, mentre quelle di sinistra e di centro l’hanno criticato

Mentre l’“accordo del secolo” del presidente americano Donald Trump è stato quasi universalmente criticato nei circoli politici al momento della sua presentazione pubblica la settimana scorsa, le reazioni delle organizzazioni di ebrei statunitensi sono state piuttosto contraddittorie e moderate.

Le dichiarazioni comprendono l’insieme dello spettro dei soliti noti, dalla destra alla sinistra. La lobby filo-israeliana AIPAC ha salutato il tentativo dell’amministrazione Trump di “lavorare di concerto con i dirigenti dei due principali partiti politici israeliani per presentare delle idee per risolvere il conflitto in modo da riconoscere le imperiose necessità in materia di sicurezza del nostro alleato” ed ha esortato i palestinesi a “unirsi agli israeliani al tavolo dei negoziati.”

È tipico di questa lobby individuare fino a che punto questo piano sia utile agli interessi di Israele omettendo al contempo ogni riferimento agli interessi palestinesi.

Strane reazioni

La Coalizione degli Ebrei Repubblicani, formata in gran parte da ricchi uomini d’affari e da miliardari di Wall Street filo-israeliani, ne ha fatto ossequiosamente le lodi, definendolo una “proposta coraggiosa ed equilibrata, profondamente ancorata ai valori fondamentali dell’America, che sono la libertà, le opportunità e la speranza nel futuro.”

Chi non ne sapesse abbastanza potrebbe pensare che il piano stilato dal genero di Trump, Jared Kushner, sia l’equivalente attuale della Dichiarazione d’Indipendenza e della Magna Carta messe insieme.

I deputati ebrei del Congresso, che sono in maggioranza democratici e stretti alleati della lobby israeliana, hanno avuto reazioni stranamente apatiche, moderando i loro elogi. Eliot Engel, presidente della commissione Affari Esteri della Camera dei Rappresentanti ha dichiarato: “Come mi piace dire, il diavolo sta nei dettagli. Abbiamo visto la proposta. Non l’ho studiata attentamente. Ci sono buone ragioni per sperare.”

Anche Ted Deutch, altro rappresentante ebreo vicino alla lobby, ha fatto commenti positivi, dichiarando che l’accordo di Trump “sembra garantire la possibilità di una soluzione a due Stati…Penso e spero che il dialogo continui e porti a negoziati tra le parti.”

Il capo della minoranza democratica al Senato, Chuck Schumer, nelle sue considerazioni al riguardo stranamente non ha espresso nessun parere sul piano di Trump. Si è limitato a ripetere il proprio sostegno a una soluzione a due Stati, senza pronunciarsi nel merito dell’accordo. È una dichiarazione senza esserlo.

Rispondere alla lobby filoisraeliana

Ciò che è curioso riguardo a queste reazioni è che, nel momento stesso in cui i democratici sono nel pieno della procedura per la destituzione del presidente, i democratici ebrei si pronunciano a favore di un piano che quasi tutti, dai candidati democratici alle elezioni presidenziali al principale giornale progressista israeliano, Haaretz, hanno universalmente condannato.

È possibile che questi politici non si preoccupino di quello che la comunità ebraica americana pensa di questo piano. Un sondaggio condotto l’anno scorso da J Street [associazione di ebrei americani moderatamente critici con l’occupazione, ndtr.] presso potenziali elettori alle primarie democratiche ha rilevato che solo il 12% di chi ha risposto aveva una buona opinione del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, mentre un altro sondaggio della Commissione Ebraica Americana che ha interpellato americani di religione ebraica ha concluso che il 59% di loro disapprova la gestione dei rapporti israelo-americani da parte di Trump.

Tuttavia i democratici filoisraeliani non rispondono all’elettorato ebraico medio, ma piuttosto alla lobby filoisraeliana e ai suoi ricchi donatori, che finanziano le loro campagne elettorali. Non ci sono altre spiegazioni logiche al fatto che manifestino un sostegno, pur se modesto, a una proposta così mal formulata da parte di un presidente repubblicano in disgrazia.

L’Unione per la Riforma dell’Ebraismo da parte sua ha pubblicato questo timido comunicato: “Salutiamo ogni tentativo per riportare la pace e pensiamo fermamente che un Israele sicuro da una costa all’altra con uno Stato palestinese vitale sia nell’interesse della politica estera americana e, ovviamente, del futuro di Israele in quanto Stato democratico ed ebraico.”

Continua esprimendo delle “preoccupazioni” relative alla promessa di Netanyahu di “imporre, unilateralmente, il diritto degli ebrei su tutte le colonie della Cisgiordania e della Valle del Giordano proposte per lo status finale in base al piano di Trump”, definendo l’iniziativa “pericolosa per l’avvenire di Israele e per la stabilità e la pace nella regione.”

Al contempo diversi gruppi dal centro alla sinistra hanno unanimemente criticato l’accordo. I sionisti liberal di J Street, rigorosamente schierati con il partito Democratico, l’hanno definito l’“apogeo logico delle ripetute misure in malafede che questa amministrazione ha preso per confermare il programma della destra israeliana, per impedire la realizzazione di una soluzione dei due Stati praticabile e negoziata e per assicurarsi che l’illegale occupazione dei territori palestinesi in Cisgiordania da parte di Israele diventi permanente.”

Hanno cercato di utilizzare l’annuncio a proprio vantaggio, come uno strumento dell’organizzazione per rafforzare la propria base di appoggio. Hanno persino lanciato su Twitter l’hashtag #peacesham (pace truffa).

Piano dell’apartheid”

Jewish Voice for Peace [Voce Ebraica per la Pace], la più grande organizzazione progressista del Paese, ha condannato il piano in modo ancora più deciso, definendolo “piano dell’apartheid” e “un diversivo di due guerrafondai che danno la priorità alle proprie campagne elettorali personali su qualunque parvenza di capacità politica.”

Il candidato ebreo alla presidenza, Bernie Sanders, è parso esitare a inserire la sua risposta nella sua campagna elettorale, che è in pieno svolgimento con le primarie in Iowa. Il suo ufficio al Senato ha pubblicato il seguente comunicato: “Ogni accordo di pace accettabile deve corrispondere al diritto internazionale e alle molteplici risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Deve porre fine all’occupazione israeliana iniziata nel 1967 e permettere l’autodeterminazione dei palestinesi nel loro Stato indipendente, democratico ed economicamente sostenibile accanto a uno Stato israeliano sicuro e democratico. Il cosiddetto ‘accordo di pace’ di Trump è ben lontano da ciò e non farà altro che perpetuare il conflitto.”

Paragonata alle sue veementi denunce contro le “élite imprenditoriali miliardarie”, questa risposta è stranamente moderata per Sanders. Ciò potrebbe riflettere la sua convinzione che un atteggiamento realmente progressista verso Israele e la Palestina non sarebbe altrettanto ascoltato dall’elettorato che un’analisi economica di classe. Ma almeno è più consistente [di quella] di Chuck Schumer.

– Richard Silverstein è l’autore del blog « Tikum Olam » che mette in evidenza gli eccessi della politica della sicurezza nazionale israeliana. Il suo lavoro è stato pubblicato da “Haaretz”, “Forward”, “Seattle Times” e “Los Angeles Times”. Ha collaborato alla raccolta di saggi dedicati alla guerra del Libano del 2006 “A Time to speak out” [Il momento di parlare forte] (Verso) ed è l’autore di un altro saggio di una futura raccolta: “Israel and Palestine: Alternate Perspectives on Statehood” [Israele e Palestina: prospettive alternative di statualità] (Rowman & Littlefield).

Le opinioni espresse in questo articolo non impegnano che il suo autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




L’ “accordo del secolo” di Jared Kushner è stato ideato per fallire fin dall’inizio

Bill Law

6 giugno 2019 – Middle East Eye

Al di là delle critiche, Kushner sta giocando un’importante partita sulla questione israelo-palestinese

Il genero del presidente USA Donald Trump e negoziatore per il Medio Oriente, Jared Kushner, non rilascia molte interviste – perciò quando lo fa, gli organi di informazione non sono solo attenti, ma ci si buttano a capofitto. E alcuni settori dei media statunitensi lo hanno fatto, dopo l’intervista a Kushner di Axios della [emittente televisiva americana via cavo, ndr.] HBO del 2 giugno.

Slate’ [rivista americana in rete, ndtr.] ha pubblicato un articolo dal titolo: “Le più imbarazzanti risposte dell’intervista di Jared Kushner ad Axios”. ‘Vanity Fair’ ha commentato: “In un’intervista comicamente disastrosa, il ‘primo genero’ ha imbastito risposte su nazionalismo, rifugiati, Arabia Saudita e sul suo piano di pace per il Medio Oriente.” La CNN è stata più gentile, optando per una disamina selettiva punto per punto delle “29 righe più assurde” dell’intervista.

L’ipotesi di queste ed altre apprezzate pubblicazioni nell’establishment dei media progressisti, che a Trump piace odiare, è che Kushner è al massimo un perfetto idiota, che si aggira beatamente in un paesaggio complicato senza avere idea dei pericoli in agguato – che è un ragazzino ricco e privilegiato con una storia fatta di automobili e di affari immobiliari ed una moglie che è la figlia preferita del presidente, e che è troppo complicato per lui.

Vincere perdendo

Queste convinzioni sono errate. Fin dal momento in cui a Kushner è stato assegnato l’incarico sul Medio Oriente, ha giocato una partita subdola, e quindi molto efficace, a favore sia del movimento dei coloni in Cisgiordania che dell’amico di famiglia Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano.

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Kushner, la cui fondazione di famiglia ha finanziato generosamente i progetti dei coloni, ha costruito un’attenta strategia atta a vincere perdendo.

L’ “accordo” non è mai stato pensato perché funzionasse.

Piuttosto, il suo modus operandi consiste nel costringere i palestinesi in un angolo da cui non c’è via di fuga e in cui l’unica risposta all’accordo di pace è “no”.

Kushner ha imparato questo trucco nel periodo in cui pare abbia acquistato proprietà con affitto bloccato, scacciando gli inquilini, ristrutturando gli appartamenti e poi rimettendoli sul mercato come proprietà di lusso.

É un gioco al massacro: una combinazione di cancellazione di servizi e di offerta di qualche compensazione finanziaria, ben impacchettata all’interno di minacce velate e non tanto velate, sulla linea di “accettate questo o le cose andranno solo peggio”. Kushner ha accuratamente applicato all’ “accordo del secolo” in Medio Oriente le lezioni apprese a Manhattan.

Ha colto la sua opportunità quando Trump ha sorpreso il mondo vincendo le presidenziali del novembre 2016. Nel dicembre di quell’anno Trump ha annunciato che l’avvocato fallimentarista David Friedman veniva nominato ambasciatore USA in Israele.

Nel marzo 2017 Friedman, che ha alle spalle una lunga storia di sostegno all’illegale movimento dei coloni in Cisgiordania, è stato debitamente confermato dal Senato. A Kushner è stato affidato il portafoglio del Medio Oriente, mentre un altro avvocato di Trump e strenuo difensore dei coloni, Jason Greenblatt, lo ha affiancato in qualità di inviato.

Uccidere la soluzione di due Stati

Kushner ha convinto il presidente che il suo primo viaggio oltreoceano avrebbe dovuto essere in Arabia Saudita nel maggio 2017. In quel momento Kushner aveva già instaurato uno stretto rapporto di lavoro con il vice principe ereditario Mohammed Bin Salman, che in seguito è diventato il principe ereditario. Un elemento centrale della strategia di Kushner è stato allontanare i sauditi dall’iniziativa araba di pace proposta nel 2002 dall’ex re saudita Abdullah, che all’epoca era principe ereditario.

Il piano di Abdullah includeva il riconoscimento di un credibile Stato palestinese a fianco di Israele. Quando l’ Arabia Saudita ed altri Stati del Golfo, in particolare gli Emirati Arabi Uniti, si sono avvicinati ad Israele, Kushner sembrava, almeno in privato, essere riuscito a distruggere la soluzione di due Stati di Abdullah.

Nel dicembre 2017 il presidente ha annunciato che l’ambasciata USA sarebbe stata spostata a Gerusalemme. Gli esperti erano sconcertati e Trump è stato attaccato perché concedeva qualcosa senza ottenere niente in cambio. Ma Kushner non mirava a nulla: voleva semplicemente fare una dichiarazione forte di fronte ai palestinesi. Lo ha fatto e gli USA l’hanno spuntata: il 14 maggio 2018, nel settantesimo anniversario della fondazione di Israele, l’ambasciata è stata aperta a Gerusalemme, mentre a circa 90 chilometri di distanza i palestinesi venivano abbattuti a fucilate sul confine di Gaza.

In quel momento il presidente ha annunciato che gli USA stavano abbandonando la soluzione dei due Stati. Mettendo sale sulla ferita, Washington ha tagliato più della metà del previsto finanziamento (65 milioni di dollari dei 125 milioni di aiuti complessivi) all’UNRWA, l’agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi che assiste oltre cinque milioni di rifugiati registrati. Lentamente ed inesorabilmente stava avvenendo un giro di vite.

Cadono colpi di maglio

Ad agosto 2018 gli USA hanno tagliato più di 200 milioni di dollari di aiuti economici, e poi hanno proseguito cancellando il resto dei finanziamenti all’UNRWA. A settembre è stato chiuso uno dei pochi programmi di aiuti rimasti, 25 milioni di dollari per i palestinesi negli ospedali di Gerusalemme est. Poi è stato chiuso l’ufficio di Washington dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, il contatto diplomatico formale con i palestinesi.

Mentre i colpi di maglio continuavano a cadere, i governi occidentali non hanno detto niente. Kushner ha capito, al di là di ogni dubbio, che stava vincendo.

La mossa successiva sono state le Alture del Golan, annesse da Israele con il pieno appoggio ed approvazione dell’amministrazione Trump a marzo. La vittoria di Netanyahu nelle elezioni israeliane di aprile doveva essere la ciliegina sulla torta per poi procedere con l’annessione delle colonie della Cisgiordania nel grande Israele.

Purtroppo per Netanyahu e Kushner, è intervenuto il destino, sotto forma di Avigdor Lieberman. L’ex Ministro della Difesa e acerrimo rivale di Netanyahu ha rifiutato di entrare nella coalizione, mandando tutto all’aria e costringendo a nuove elezioni a settembre.

Trump non è stato contento. Il suo piano, che guardava al 2020 e alla speranza della rielezione, era di lasciare la sua impronta avvantaggiando Israele e mettendo i palestinesi al loro posto. “Israele è proprio messo male con le elezioni”, ha detto. “Bibi (Netanyahu) è stato eletto, adesso all’improvviso dovranno passare di nuovo per un processo elettorale, fino a settembre? É ridicolo. Perciò noi non siamo contenti di questo.”

Incrollabile fiducia

Intanto gli Stati arabi del Golfo hanno frenato l’entusiasmo per l’accordo di Kushner. Il padre di Bin Salman, il re Salman, ha criticato il sostegno di suo figlio a Israele, riabilitando pubblicamente la soluzione di due Stati. L’accordo che non doveva essere un accordo si sta allontanando e Kushner sta per vedere il suo lavoro completamente cancellato.

Kushner non ha una buona faccia da poker. La sua arroganza e la certezza di essere vincente trapelano in ogni cosa dica e faccia. Ma i suoi critici sbagliano a sottovalutarlo.

Kushner finora ha giocato una significativa partita. La sua fiducia di vincere a favore del movimento dei coloni e di un Israele più grande, di Netanyahu o di chiunque gli succederà, e di suo suocero il presidente, resta assolutamente incrollabile.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Bill Law

Bill Law è un giornalista vincitore del premio Sony. É entrato alla BBC nel 1995 e dal 2002 è stato corrispondente dal Medio Oriente. Si è recato molte volte in Arabia Saudita. Nel 2003 è stato uno dei primi giornalisti a informare sull’inizio della rivolta che ha travolto l’Iraq. Il suo documentario ‘Il Golfo: armato e pericoloso’, che è stato trasmesso alla fine del 2010, ha anticipato le rivoluzioni che sono diventate la Primavera Araba. In seguito ha lavorato sulle rivolte in Egitto, Libia e Bahrein. É stato anche corrispondente dall’Afghanistan e dal Pakistan. Prima di lasciare la BBC nel 2014, Law è stato il suo analista esperto del Golfo. Adesso lavora come giornalista indipendente che si occupa del Golfo.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)