Cosa vuol dire impadronirsi della Statua della Libertà

Centinaia di membri di Jewish Voice for Peace che chiedono un cessate il fuoco a Gaza hanno occupato il piedistallo della statua. Ecco come è successo.

Sophie Hurwitz

7 novembre 2023 – The Nation

Un traghetto pieno di turisti diretto alla Statua della Libertà si è fermato completamente alle 13:15 di lunedì. Le file di visitatori che speravano di entrare nella base della statua si sono bloccate. E’ stato detto loro che a Liberty Island si stava verificando un problema e che non avrebbero visitato la statua finché il problema non fosse stato risolto.

Sull’isola, a poche centinaia di metri di distanza, circa 400 manifestanti di Jewish Voice for Peace occupavano la base della statua. Hanno tenuto quello spazio per poco meno di un’ora e poi sono tornati indietro catturando l’attenzione di tutti sull’isola.

Jane Hirschmann, settantasette anni, era una delle manifestanti più anziane. Ha portato le sue due figlie adulte con lei ad appendere gli striscioni su Lady Liberty. La disobbedienza civile è diventata una sorta di nuova tradizione familiare, ha detto.

“Siamo stati arrestati nella rotonda [dell’edificio del Congresso] a Washington e nella Grand Central”, ha detto, riferendosi alle due azioni di disobbedienza civile di massa nelle ultime due settimane di ebrei che chiedevano la liberazione della Palestina. “A Grand Central avevo con me tutti i miei figli e tutti i miei nipoti. Eravamo un gruppo di 13. I nipoti se ne sono andati, non sono stati arrestati”. I suoi nipoti, alcuni di appena 1 anno, sono un po’ troppo piccoli.

La famiglia di Hirschmann non era certo l’unico gruppo intergenerazionale sull’isola. Intere famiglie si sono unite alla protesta perché, per molti, la loro storia familiare li obbligava a farlo. Hirschmann ha parlato di suo nonno, morto di infarto sulla barca diretta a Ellis Island mentre fuggiva dall’Olocausto. Ha visto la sua famiglia sparpagliata in giro per il mondo, costretta a lasciare le proprie case e, ha detto Hirschmann, “è morto di crepacuore”.

“Non ho mai avuto modo di incontrare quel nonno. Ma il suo ricordo è impresso nel mio cuore”, ha detto. Nello sfollamento di massa e nell’uccisione dei palestinesi, vede gli echi della storia di suo nonno. “Ha capito quando ha visto il fascismo che doveva proteggere la famiglia e fuggire. Ora stiamo andando verso il fascismo, in questo paese, e certamente in Israele. Questo genocidio deve finire”.

Portare centinaia di manifestanti in un pezzo di territorio federale fortemente sorvegliato non è un’impresa da poco. Le persone sono entrate in piccoli gruppi scaglionati in un periodo di diverse ore, giurando di mantenere il segreto assoluto su dove stavano andando. Alle 13:00 tutti e 400 erano riuniti sulla base di Lady Liberty e si sono tolte le giacche per mostrare le loro T-shirt con le scritte.

Alcuni manifestanti indossavano fasce con corona di Lady Liberty in schiuma verde, mentre altri interpretavano il ruolo di turisti in modo meno convincente. (Molti degli ebrei newyorkesi che partecipavano alla protesta hanno sottolineato di non essere stati alla Statua della Libertà da quando erano bambini in gita.)

Ogni giorno circa 10.000 persone attraversano il complesso della Statua della Libertà, rendendolo uno dei monumenti nazionali più frequentati del Paese, quindi ai manifestanti è stata garantita una grande folla di spettatori. Alcuni hanno manifestato la loro opposizione gridando contro il gruppo o mostrando il dito medio. Ma altri, come i visitatori scozzesi David e Sheila Miller, erano entusiasti.

La coppia ha deciso che scattare foto con i manifestanti sullo sfondo era più importante che cercare di inclinare la fotocamera per farsi un selfie con la parte superiore della torcia della statua.

“Penso che sia un ottimo messaggio che stanno inviando”, ha detto Miller. “È fantastico! Penso solo che sia bello essere qui a testimoniarlo. Quando siamo saliti sulla corona, pensavo che sarebbe stato il momento clou della giornata, ma invece è stato questo. Essere testimoni di questo evento in prima linea”.

Joe Biden ha appoggiato l’idea di una “pausa umanitaria” in cui le bombe israeliane smettono di cadere per un breve periodo non specificato per consentire agli aiuti umanitari di entrare a Gaza. Parlando con il primo ministro israeliano Netanyahu, le definisce “pause tattiche”. Biden, tuttavia, non ha sostenuto un cessate il fuoco totale. In caso di pausa umanitaria alla fine le bombe cadranno di nuovo.

Le proteste in tutto il mondo sono continuate quotidianamente dall’inizio dell’incursione israeliana a Gaza. Mentre gli attivisti di tutto il mondo sono stati accusati di antisemitismo per aver definito genocidio le azioni del governo israeliano, funzionari delle Nazioni Unite e studiosi dell’Olocausto hanno usato lo stesso termine per descrivere l’uccisione di massa e lo sfollamento di una popolazione civile imprigionata.

Le Nazioni Unite affermano che non è stato consentito l’ingresso di carburante a Gaza nel mese successivo agli attacchi di Hamas del 7 ottobre, il che significa che gli ospedali e altri servizi essenziali stanno lentamente chiudendo del tutto. In quel periodo sono stati uccisi oltre 10.000 palestinesi, tra cui più di 4.000 bambini.

La scrittrice Molly Crabapple faceva parte di un gruppo di artisti che hanno partecipato alla protesta vestiti in modo appariscente. Come molti operatori culturali ebrei di New York, è una firmataria della lettera aperta di Writers Against the War on Gaza. E per Crabapple, che ha lavorato a Gaza, questa guerra è anche un fatto personale.

“Ci sono persone a cui tengo che vivono a Gaza”, ha detto Crabapple. “Diecimila persone sono morte. Quattromila di loro sono bambini. Ogni giorno questo genocidio continua, altri bambini e altre brave persone stanno morendo. Questo genocidio deve finire adesso”.

Crabapple, la fotografa Nan Goldin e gli scrittori Raquel Willis e Tavi Gevinson erano tra gli artisti presenti. Si sono uniti alla protesta anche dei politici. Dopotutto la Statua della Libertà è stata teatro di clamorose azioni di disobbedienza civile sin dalla sua inaugurazione nel 1886. Zohran Mamdani membro del consiglio di quartiere dei Queens ha partecipato spesso alle manifestazioni pro-Palestina che si sono tenute in città dall’attacco di Hamas il 7 ottobre e si è unita al gruppo sul basamento della statua.

“Non posso votare sulla questione se debbano o meno essere stanziati altri 14 miliardi di dollari in finanziamenti militari. Ma io, come ogni altro politico locale, ho una piattaforma”, ha detto. “È con quella piattaforma che… ognuno di noi dovrebbe chiarire che non esiste un consenso di massa per l’uccisione di un bambino palestinese ogni 10 minuti. Gran parte della politica federale e della Casa Bianca in questo momento si basa sull’idea che gli americani, in massa, sostengano questo. Sappiamo che il 66% degli americani vuole un cessate il fuoco, la maggioranza di loro si oppone all’invio di ulteriori finanziamenti a Israele”. Ora, ha detto Mamdani, è tempo di fare in modo che la politica statunitense rifletta quella maggioranza.

L’occupazione della Statua della Libertà da parte della JVP è stata solo una delle numerose azioni contro la guerra nella giornata di lunedì. A St. Louis, 75 manifestanti contro la guerra del gruppo Dissenters hanno formato un cordone e bloccato gli ingressi ad uno stabilimento Boeing dove vengono costruite le bombe sganciate su Gaza. E a Tacoma, nello stato di Washington, i manifestanti hanno bloccato l’accesso al porto dove stava attraccando una nave da carico militare che si pensava fosse diretta in Israele. Alcuni attivisti sono addirittura saliti su canoe per fermare il movimento della nave.

Di ritorno a New York, le proteste si sono svolte su un diverso tipo di imbarcazione: un traghetto turistico.

Molti di quelli in fila hanno battuto le mani e scandito: “Cessate il fuoco adesso!” e “Non in nostro nome!”

Il gruppo è uscito lentamente dal complesso della Statua della Libertà verso le 14:30, una grande nuvola di persone in maglietta nera che scandivano: “Fine all’assedio di Gaza adesso!” lungo la via del ritorno su un traghetto. Una volta sulla barca, hanno riappeso i loro striscioni, salutando le persone che guardavano dalla riva. Hanno urlato e pestato i piedi così forte che la barca ha tremato per tutto il tragitto verso Manhattan.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Peter Beinart. “Un quarto degli ebrei americani considera Israele uno Stato di apartheid”

Sylvain Cypel – Sarra Grira – Peter Beinart

11 aprile 2022 – Orient XXI

In occasione del Forum di Doha (26-27 marzo 2022) abbiamo incontrato Peter Beinart, direttore della rivista progressista ebraica Jewish Currents per evocare con lui l’evoluzione dell’opinione negli Stati Uniti e di quella della comunità ebraica riguardo a Israele.

Il 15 marzo 2022 l’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC), la lobby ufficiale filoisraeliana nel Congresso americano, ha divulgato l’elenco dei beneficiari del suo sostegno finanziario per le elezioni della Camera dei Rappresentanti e di parte dei senatori del novembre 2022 negli Stati Uniti. Tra essi sono presenti 40 candidati repubblicani della frangia più estremista, che tuttora contestano l’elezione alla presidenza del democratico Joe Biden e soprattutto rifiutano di prendere le distanze dai rivoltosi fedeli a Trump che il 6 gennaio 2021 hanno invaso il Campidoglio nella speranza di impedire l’insediamento del nuovo presidente. Il sostegno finanziario fornito dalla lobby filoisraeliana a questi candidati ha suscitato reazioni indignate negli Stati Uniti, anche all’interno della comunità ebraica.

Richard Haass, un noto diplomatico oggi presidente del Consiglio per le Relazioni Estere, il principale gruppo di esperti specializzato nelle questioni internazionali, ha espresso l’opinione che il sostegno dell’AIPAC a politici che aprono all’idea di “minare la democrazia” segna la “sconfitta morale” della lobby. Abe Foxman, per lungo tempo presidente dell’Anti-Defamation League, la principale organizzazione americana di contrasto all’antisemitismo, ha affermato che l’organizzazione ha commesso “un deplorevole errore”. “Non è il momento per il movimento filoisraeliano di compiere una selezione tra i propri amici”, ha replicato la lobby. In altri termini, non se ne parla per Israele di privarsi del sostegno di persone motivate dalla preservazione della supremazia bianca, anche a costo di abbandonare la democrazia.

Sono queste le questioni che abbiamo affrontato con Peter Beinart, le cui considerazioni abbiamo raccolto qui di seguito sotto forma di editoriale.

Fine dell’orientamento bipartisan della lobby filoisraeliana

“Gli Stati Uniti sono una democrazia molto giovane. Fino agli anni ’60 questo Paese non era realmente tale, poiché vi dominava la segregazione razziale. In seguito questa è stata abolita, ma l’America continua a mantenere una grande quantità di norme sociali appartenenti al passato. Ora la popolazione diventa ogni giorno meno bianca e meno cristiana. Il dibattito che emerge in questo Paese è il seguente: è in grado di diventare una vera democrazia multirazziale? Sessant’ anni fa il movimento per i diritti civili aveva dato inizio a questo cambiamento. Fu favorita dal fatto che a partire dal 1965 nuove leggi sull’immigrazione hanno consentito che un grande numero di immigrati si stabilisse negli Stati Uniti1, di cui il 90% non era europeo. Ciò ha condotto alla vittoria di Barack Obama nel 2008. Ma in quel momento non si poteva immaginare la reazione che questo processo avrebbe suscitato. Essa ha seguito un percorso sempre più chiaramente accolto: se la democrazia deve comportare la perdita del dominio dei bianchi, allora si può fare a meno di una tale democrazia. Ciò ha condotto all’elezione di Donald Trump e questo movimento reazionario prosegue tuttora, forse ancor più potentemente.

“Per molto tempo gli Stati Uniti sono stati governati da due partiti che in fondo non erano profondamente diversi. Certo c’erano delle differenze, ma erano anche molto simili. Se si considera la rielezione di Bill Clinton contro il repubblicano Bob Dole nel 1996, la distanza tra loro non era poi troppo ampia. Ma nel corso di una generazione il partito democratico è diventato “il partito della diversità”, più aperto alle rivendicazioni delle donne, delle minoranze razziali e degli immigrati, mentre il partito repubblicano è diventato quello dei maschi bianchi cristiani. Trent’anni fa c’erano democratici contrari all’aborto e repubblicani che sostenevano la libertà delle donne di poter decidere. Oggi questo sarebbe impossibile. Abbiamo due partiti completamente polarizzati in uno scontro diretto radicale.

“Qual è il legame tra questa evoluzione e il rapporto con Israele? Se prendiamo il caso dell’AIPAC, storicamente questa lobby ha sempre agito allo scopo di mantenere un accordo bipartisan della classe politica nel sostenere Israele. Ma nel contesto che ormai prevale negli Stati Uniti è tale la divisione tra l’adesione senza riserve dei repubblicani alla destra e all’estrema destra israeliana e le critiche formali dei democratici nei confronti della politica israeliana di colonizzazione, che un sostegno bipartisan diventa sempre meno possibile. La decisione dell’AIPAC di sostenere dei parlamentari favorevoli ai rivoltosi del 6 gennaio 2020 è la conseguenza della crescente distanza tra i due campi. E questa distanza non si delinea solo a livello politico. Essa attraversa tutta la società americana. Quando ero ragazzo la differenza tra essere democratico e repubblicano non era questione di identità. Ormai ciascuno ha la sensazione che la posta in gioco sia esistenziale; ognuno percepisce il campo avverso come una minaccia alla propria identità e integrità.

“Il giorno in cui è stata ufficializzata la vittoria di Joe Biden, dopo tutti i riconteggi dei voti, è stata una follia: a New York, dove abito, la gente apriva le finestre e gridava di gioia. Non era altro che l’elezione di Biden, ma la si viveva come fosse una rivoluzione! L’incubo Trump era finito. Ma altrove i sostenitori repubblicani erano sia depressi che rabbiosi, convinti che le elezioni gli fossero state rubate. In breve, il centro della scacchiera politica è quasi scomparso. È per questo che la decisione dell’Aipac di sostenere i parlamentari che contestano il risultato delle elezioni presidenziali del 2020 e rifiutano di prendere le distanze dai rivoltosi è particolarmente importante. Significa che la sua linea “bipartisan” è finita. Ormai la lobby si allea con il campo che sostiene Israele in ogni circostanza e poco importa che questo schieramento conduca una battaglia contro la democrazia negli Stati Uniti. L’AIPAC lo sa e vi si unisce con piena cognizione di causa.

Americani ebrei piuttosto che ebrei americani

“Parallelamente si assiste ad una crescente polarizzazione nell’ambito dell’ebraismo americano. Negli anni ’50 nella comunità ebraica c’era un grande schieramento “centrista”. Era costituito dagli ebrei afferenti a due correnti religiose: quella chiamata “riformata” e quella detta “conservatrice”. Queste due tendenze non seguivano rigorosamente le regole religiose dell’ebraismo e speravano di inserirlo nella modernità. La maggior parte degli ebrei seguiva una di queste due tendenze. Che ne è oggi? L’affiliazione conservatrice è quasi scomparsa. Gli ebrei riformati restano maggioritari, ma l’obbedienza detta “ortodossa” (o “ultra-ortodossa”) da diversi decenni vive una formidabile crescita. Per la generazione che oggi ha meno di dieci anni essa sarà indubbiamente maggioritaria. Di contro, l’altra tendenza che cresce notevolmente tra gli ebrei è quella di svincolarsi da ogni corrente religiosa.

“Questo si avvicina molto a ciò che avviene in Israele, con una palese differenza: tra gli ebrei americani i non religiosi sono molto più di sinistra di quelli israeliani. Oggi nella comunità ebraica ultra-ortodossa non trovereste nessuno che abbia votato per Joe Biden. D’altro canto, la vera religione degli ebrei laici americani è il progressismo. Questo schieramento si allontana sempre più da Israele. E i giovani ebrei progressisti non si percepiscono come ebrei americani, bensì come americani ebrei. A differenza della generazione precedente, la loro identità americana è più forte di quella ebraica. Non è che detestino Israele, è che Israele non costituisce la loro principale preoccupazione.

“Detto ciò, anche tra i non religiosi si trovano giovani che ancora si identificano molto chiaramente come ebrei e che sono i più feroci critici di Israele, perché hanno una visione molto più universalista dell’ebraismo. Se ne trovano in J-Street (una piccola lobby progressista filoisraeliana), ma ancor di più in Jewish Voice for Peace (JVP)2. Se ne trovano anche molti tra i lettori di Jewish Currents [rivista ebraica laica americana progressista, ndtr.]. Il loro ruolo è crescente. Questa categoria di ebrei americani è sempre più inserita all’interno della sinistra radicale in senso ampio: è legata alle lotte a favore dei neri, degli immigrati e dei palestinesi.

Wes hall overcome” ad un posto di blocco

“Su quest’ultimo punto la differenza tra J-Street e JVP è molto grande. J-Street rappresenta coloro che affermano: “Noi siamo gli ebrei buoni che vogliono salvare Israele da sé stesso”. JVP ha una strategia che mi pare più sensata: per loro si tratta di essere alleati dei palestinesi, come i bianchi progressisti sono alleati dei neri. Sono anche più interessanti. Negli anni 2010 un gran numero di giovani ebrei passati per J-Street l’hanno lasciata per diventare più radicali aderendo a ‘If not Now’ [‘Se non ora’], un’associazione la cui ambizione è rappresentare gli ebrei che lottano contro l’occupazione della Palestina. Ma stanno cominciando ad andare in crisi. Perché, più semplicemente, non passare dalla parte dei palestinesi? Dato che questo movimento che ha il vento in poppa oggi non intende più esprimersi in nome dei “valori ebraici”, ma dei valori universali, dell’antirazzismo e dell’anticolonialismo.

“Questa svolta dei giovani ebrei si inserisce in un cambiamento più generale che si delinea negli Stati Uniti. Il movimento Black Lives Matter ha ripreso le fila della lotta antirazzista degli anni ’60. Negli anni tra il 1980 e il 2000 quella lotta si era parecchio indebolita. Ma le figure emergenti nella lotta dei neri sono più radicali. Il loro legame con i palestinesi è passato attraverso le immagini delle violenze delle forze di occupazione contro di loro, della brutalità quotidiana di questa occupazione. La serie di crimini compiuti dalla polizia negli Stati Uniti in questi ultimi anni, dall’uccisione di David Brown a Ferguson, a quella di Eric Garner3 a New York nel 2014, ha avuto un grande ruolo nello spingere i neri americani a stabilire un nesso con la situazione dei palestinesi. Ormai iniziano a percepire i palestinesi come vittime di un’identica sorte: noi abbiamo la nostra apartheid, loro hanno la loro. Ovviamente ciò fa impazzire i dirigenti delle organizzazioni ebraiche americane, che gridano all’insulto e denunciano l’ignoranza di questa analogia. Ma la loro posizione non passa, perché la sensazione è che i neri negli Stati Uniti siano tuttora discriminati e che i palestinesi lo siano in Palestina.

“L’AIPAC ad un certo punto ha investito molto per trovare alleati di Israele all’interno della comunità nera americana, del resto con un certo successo. Ma oggi, quando dei neri visitano Israele e si recano nei territori occupati, l’identificazione con la sorte riservata ai palestinesi è quasi immediata. Qualche anno fa delle deputate nere americane che erano in visita in Israele sono state condotte ad un posto di blocco. Sono rimaste talmente sconvolte che si sono messe a cantare “We shall overcome”, la più famosa canzone di protesta americana, cantata tra gli altri da Pete Seeger e Joan Baez. Queste persone, una volta rientrate negli Stati Uniti, sono spesso le più denigrate da parte dei sostenitori di Israele, perché testimoniano ciò che hanno visto e quanto ciò le abbia sconcertate. Per chi ha fatto questa esperienza il legame con la lotta dei palestinesi diventa molto forte.

Una nuova alleanza tra ultra-ortodossi e evangelici

“Dove porta tutto ciò? Io sono relativamente ottimista, ma molto dipenderà dall’evoluzione della società americana. Temo che la destra repubblicana abbia buone possibilità di vincere le elezioni legislative di novembre 2022. Ma i tempi lunghi non giocano a suo favore. Alle elezioni presidenziali i repubblicani non hanno più guadagnato un solo voto dal 2004. E l’evoluzione demografica non favorisce i bianchi. Lo stesso vale per la società ebraica negli Stati Uniti. Un recente sondaggio d’opinione mostra già ora che un quarto degli ebrei americani considera Israele “uno Stato di apartheid”4. Certamente il conflitto israelo-palestinese non fa più parte delle questioni principali negli Stati Uniti. Ed ogni volta che scoppia un conflitto armato tra Israele e Hamas si crea una mobilitazione in favore di Israele. Ma il fenomeno saliente è che la critica a Israele cresce molto di più.

“Se si verificheranno in Medio Oriente eventi così gravi da riempire i titoli dei principali giornali, se le immagini di Israele che bombarda edifici civili a Gaza si moltiplicheranno, il processo di divisione all’interno dei democratici si approfondirà. Durante gli ultimi scontri a Gaza nella primavera 2021 anche un incrollabile sostenitore di Israele come il senatore democratico di New York Chuck Schumer è stato costretto a prendere le distanze dai bombardamenti israeliani. Fate un giro all’AIPAC. Riscontrerete che tutte le persone di più di 60 anni sono laiche; il loro ebraismo si riduce al sionismo. Ma i loro figli non sono membri dell’AIPAC. Chi li ha sostituiti? Dei giovani “timorati di Dio” (altro termine che indica gli ebrei ultra-ortodossi) [sinonimo dei nazionalisti religiosi israeliani, ndtr.]. Andate a vedere la parata annuale a favore di Israele sulla quinta strada di New York e troverete una grande maggioranza di questi giovani. Non stupisce che l’Aipac sia diventata la sede di una nuova alleanza: quella tra gli ebrei ultra-ortodossi e gli evangelici [molte denominazioni degli evangelici si definiscono sioniste cristiane, ndtr.].

“Nel loro sostegno incondizionato ad Israele i repubblicani sono molto più sinceri dei democratici. È per questo che l’AIPAC non punta più su una politica di sostegno “bipartisan” ad Israele. Di fatto molti dei rappresentanti democratici esprimerebbero opinioni molto diverse da quelle che sostengono oggi se ritenessero che la loro posizione nei confronti di Israele non costasse loro cara in termini politici. Questo fenomeno è ancor più vero per una parte dei dirigenti della comunità ebraica americana. Quando nel 2020 ho scritto i miei articoli su Jewish Currents e sul New York Times auspicando la creazione di un solo Stato comune per ebrei e palestinesi5 mi sono imbattuto in reazioni piuttosto inquietanti. Ma erano imparagonabili a quelle che si erano scatenate contro (lo storico anglo-americano) Tony Judt quando nel 2003 aveva pubblicato il suo famoso articolo che invocava per la prima volta la formazione di un solo Stato che riunisse palestinesi ed israeliani6. Allora Judt è stato quasi escluso dal dibattito accettabile. Non è stato quello che è successo a me. Ciò dimostra l’evoluzione che è avvenuta nella società americana riguardo ad Israele. Vent’anni fa non erano i conservatori ad affossare Judt ed il suo testo, ma gli ebrei progressisti! All’epoca erano le figure di punta nel sostegno ad Israele.

“Oggi il loro peso è considerevolmente diminuito. Le principali voci di sostegno ad Israele sono ormai quelle dei conservatori. A questo fenomeno si aggiunge la nota evoluzione dei grandi media. Oggi quando guardate MSNBC [canale televisivo statunitense, ndtr.] o quando leggete il New York Times, The New Republic o il Washington Post, quando andate su Slate [rivista in rete liberale statunitense, ndtr.], i palestinesi vengono ormai presentati sotto una luce molto più favorevole. Di modo che quando ho pubblicato i miei articoli le cose erano cambiate. Molti possono essere in disaccordo con me, ma le mie parole non sono illegittime. In fin dei conti Tony Judt era ebreo7, ma parlava in nome di una filosofia universalista, in difesa dei diritti umani, non in nome di una visione specificamente ebraica. Quanto a me, rivendico il mio legame con l’ebraismo e con una forma di etica ebraica. Forse per questo sono più accettabile.”

Sylvain Cypel

E’ stato membro della redazione di Le Monde e precedentemente direttore di redazione del Courrier International.

Sarra Grira

Giornalista, laureata in letteratura francese. Responsabile delle pagine in arabo di Orient XXI.

Peter Beinart

Scrittore, direttore della rivista progressista ebraica Jewish Currents.

Note

1 Tra il 1965 e il 2015 60 milioni di stranieri si sono stanziati negli Stati Uniti e da allora il ritmo è rimasto più o meno uguale.

2Organizzazione ebraica antisionista che sostiene il movimento internazionale per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) contro Israele. I membri della direzione di JVP includono figure note come il linguista Noam Chomsky, il drammaturgo e sceneggiatore Tony Kushner, la filosofa Judith Butler, la saggista Naomi Klein, la scrittrice Sarah Schulman, l’attore e sceneggiatore Wallace Shawn e altri.

3 E’ stato il primo, nel 2014, a ripetere, sottoposto alla violenza dei poliziotti, “non posso più respirare” prima di morire, come ha fatto in seguito George Floyd nel 2020 a Minneapolis.

4 Studio realizzato dal Jewish Electorate Institute [Istituto dell’Elettorato Ebraico]. Lo stesso sondaggio mostrava che il 34% degli ebrei americani riteneva che il trattamento riservato da Israele ai palestinesi sia simile al razzismo esistente negli Stati Uniti.

5 Peter Beinart, « Yavneh : A Jewish case for equality in Israel-Palestine » [Yavneh: una causa ebraica per l’uguaglianza in Israele-Palestina], Jewish Currents, 7 luglio 2020, e « I no longer believe in a Jewish State » [Non credo più nello Stato ebraico], The News York Times, 8 luglio 2020.

6 Tony Judt : « Israel, the Alternative »[Israele, l’alternativa], The New York Review of Books, 23 ottobre 2003

7 É morto nel 2010.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Non possiamo utilizzare l’essere stati vittime per giustificare il fatto di trasformare gli altri in vittime: un’intervista con Alice Rothchild su come affrontare il razzismo israeliano in Palestina

Nihan Duran

5 luglio 2021 – Politics Today

L’idea secondo cui in quanto vittima posso fare qualunque cosa per sopravvivere, anche se ciò significa rendere vittime gli altri, è eticamente e politicamente problematico. Finché la comunità ebraica non supererà questo particolare modo di affrontare i traumi dell’Olocausto, non supereremo mai questa psicopatologia culturale.

Mentre in tutto il mondo continuano gli echi della reazione globale alle recenti violazioni dei diritti umani a Sheikh Jarrah [quartiere arabo di Gerusalemme in cui famiglie palestinese sono a rischio di espulsione, ndtr.] e a Gaza [operazione militare israeliana “Guardiano delle mura” nel maggio 2021, ndtr.], la giornalista di Politics Today Nihan Duran ha intervistato la prestigiosa scrittrice, medico e attivista per i diritti umani Alice Rothchild su come comprendere il passaggio da oppresso a oppressore e le sfide per definire, discutere e raccontare il colonialismo di insediamento in Palestina e i modi per procedere alla promozione di una vera pace e della solidarietà.

Q. In quanto scrittrice ebrea americana, attivista per i diritti umani e medico lei svolge numerose attività in cui riflette sulla realtà concreta in Israele e Palestina. Possiamo sapere con le sue parole chi è lei e come è iniziato il suo impegno sulla situazione israelo-palestinese?

I miei nonni erano ebrei ortodossi immigrati negli USA. Sono cresciuta in una famiglia ebraica molto tradizionale, ma piuttosto laica. Sono andata in una scuola ebraica, ho celebrato il mio bat mitzvah [festa rituale ebraica, che per le femmine si festeggia a 12 anni e 1 giorno, ndtr.] e a 14 anni sono andata in Israele. Ho ancora il diario di allora, quindi so come mi sono sentita riguardo al viaggio in quel luogo magico.

Sono anche figlia degli anni Sessanta, per cui ero al college durante la guerra del Vietnam, quando ho iniziato a sentir parlare di colonialismo, razzismo e islamofobia. Quindi diventai una persona molto più consapevole dal punto di vista politico ed iniziai a vedere il mondo in un modo più politico e meno tribale, ebraico.

Fu allora che iniziai anche a inquadrare le cose che avvenivano in Israele e Palestina in termini di colonialismo e imperialismo. Nel corso degli anni ci sono state varie organizzazioni di base che i miei amici ed io abbiamo formato e a cui abbiamo partecipato. Ora sono impegnata in Jewish Voice for Peace [Voce Ebraica per la Pace, principale gruppo ebraico USA antisionista, ndtr.] come mia associazione di riferimento, e sono molto contenta di farne parte.

Ho interpretato il mio ruolo come chi incoraggia le voci che sono sono presenti, ma che spesso non vengono ascoltate, per cui ho sentito la narrazione palestinese e cercato di approfondire la loro esperienza di perdita e occupazione. Poi ho usato la mia posizione privilegiata in quanto donna ebrea bianca per rendere più visibili tutte le storie che la gente mi ha raccontato. Sì, capisco e ho chiari in mente l’antisemitismo, l’oppressione degli ebrei in Europa e l’Olocausto. Ma penso anche che in ultima analisi i principi su cui è stato fondato Israele siano indifendibili.

Q. Quindi come ebrea americana, non solo ben consapevole del trauma dell’Olocausto, ma anche come scrittrice e medico che ha direttamente fatto esperienza della situazione materiale in Palestina, come valuta il passaggio da perseguitato a persecutore, o da oppresso a oppressore in questa vicenda?

Beh, non si tratta di una trasformazione inusuale se ci si guarda attorno nel mondo, ma è un esempio di quella trasformazione. La preoccupazione specifica è che persone che hanno vissuto qualcosa di orribile o hanno subito terribili perdite sono vittime. Ma una volta che le persone adottano l’essere vittime come una costituente fondamentale della propria identità, questo senso di vittimizzazione consente loro di fare qualunque cosa necessaria per sopravvivere. E ciò è quanto è avvenuto nella comunità ebraica.

L’idea che, in quanto vittima, io possa fare qualunque cosa per sopravvivere, anche se questo significa rendere vittima un altro popolo, è moralmente e politicamente problematico. Non possiamo utilizzare il fatto di essere stati vittime per giustificare simili comportamenti. Vedere l’Olocausto e dire “mai più a me” ma non dire “mai più a nessuno” è ingiustificabile. Inoltre questo atteggiamento non ci rende più sicuri.

Quindi, finché la comunità ebraica non supererà questo particolare modo di fare i conti con i traumi dell’Olocausto, non usciremo mai da questa psicopatologia. Dobbiamo riconoscere che non siamo più vittime.

Q. A questo punto le devo chiedere riguardo al fatto che nei discorsi dei politici in Israele oggi c’è quella che si potrebbe persino definire una terminologia “genocidaria”, che sembra anche in sintonia con una parte rilevante della popolazione israeliana. Cosa ne pensa? Da dove viene il problema?

La questione di quello che Ilan Pappé [noto storico isrealiano, ndtr.] ha chiamato il lento genocidio di Gaza non è nulla di nuovo. Se guardiamo dal punto di vista storico vediamo che il principale problema è che quando gli ebrei giunsero in Palestina non dissero “abbiamo bisogno di un posto sicuro, condividiamolo”, ma dissero “questa terra è mia; dio mi ha dato questa terra e me la prenderò comprandola, occupandola, in ogni modo possibile.”

Per come le cose si sono sviluppate, la politica regionale portò allo sviluppo dello Stato di Israele e all’opinione che gli ebrei avessero diritti su quella terra, in modo che potessero cacciare o spogliare un altro popolo. Sfortunatamente questo divenne il principio sottinteso dello Stato di Israele.

Q. Quindi lei intende dire che il colonialismo di insediamento è il principio implicito dello Stato di Israele e lo guida fino ad oggi.

Sì, se guardi al progetto di colonizzazione in Cisgiordania, esso è solo la continuazione della Nakba [la Catastrofe, cioè l’espulsione dei palestinesi, ndtr.] nel 1948. E questo è ciò che è il colonialismo di insediamento. È quello che abbiamo fatto negli Stati Uniti, in Australia, in Nuova Zelanda, in Sudafrica, ed è straziante per gli ebrei scoprirlo, perché si supponeva che Israele sarebbe stato diverso. Si pensava che sarebbe stato la “luce tra le Nazioni”.

Lo Stato incarna i principi colonialisti su cui è stato costruito, e purtroppo c’è una percentuale molto ridotta della popolazione ebraica che si oppone a questa idea. In Israele persino la maggior parte della gente di sinistra non è antisionista, credono ancora che ci dovesse essere uno Stato in cui gli ebrei si trovassero in una situazione privilegiata rispetto ai palestinesi. Non puoi essere una democrazia e privilegiare un gruppo su un altro.

Q. Lei ha anche posto l’accento sulla mancata messa in discussione delle politiche israeliane da parte della maggioranza della comunità ebraica negli USA. Alla luce della reazione globale a quanto è successo recentemente a Sheikh Jarrah e a Gaza, può parlare di un cambiamento nei confronti delle politiche di Israele in Palestina?

Penso che dobbiamo essere realistici in termini di rapporti di potere. Sia a livello federale che locale c’è parecchio di quello che definirei pensiero reazionario. La potente parte maggioritaria della comunità ebraica (e di quella cristiana evangelica) è ancora ferma allo stesso punto. Molte norme e leggi a livello locale e federale affermano che criticare Israele è antisemita e fino ad ora se dici qualcosa di sinistra o solidale con i palestinesi subisci gravi conseguenze.

Ma ci sono anche molte e influenti organizzazioni progressiste che vi si oppongono, come Jewish Voice for Peace. Nel Congresso USA ora ci sono anche parlamentari progressisti, palestinesi o musulmani. Che ci siano alcune voci nel Congresso è un fatto rivoluzionario, perché 20 anni fa avremmo potuto solo sognare una cosa del genere. Il movimento Black Lives Matter [contro la violenza della polizia nei confronti della violenza della polizia contro le minoranze, ndtr.] ha adottato una posizione solidale con i palestinesi. C’è un dibattito molto più aperto sulle reti sociali. Anche a livello locale vediamo dei cambiamenti. Per esempio, recentemente in California il sindacato dei docenti ha votato l’appoggio al boicottaggio di Israele, e anche questo è rivoluzionario.

Piccole vittorie come questa sono veramente importanti, perché nessuno cede il potere volontariamente, né lo farà la macchina politica israeliana. Dal loro punto di vista hanno avuto un grande successo, come piccolo Paese prospero con un enorme bilancio militare, e l’appoggio degli Stati Uniti. Perché rinunciarvi? Quindi dobbiamo comprendere che la politica estera USA è parte di quanto aiuta Israele a fare quello che fa e comprendere che anche noi siamo responsabili. Ci sono modi per far pressione sul Congresso e dobbiamo conquistarlo.

Q. Grazie ai nuovi mezzi di comunicazione, e principalmente alle reti sociali, l’oppressione delle minoranze è diventata sempre più visibile, ma, d’altra parte, ci sono troppi doppi standard, come quelli applicati per esempio durante la recente aggressione israeliana contro Gaza ad alcuni palestinesi sia da parte delle reti sociali che dei mezzi di comunicazione più importanti. Qual è la sua opinione a questo proposito?

Penso che il doppio standard sia in parte relativo al fatto che c’è un’industria multimilionaria che si dedica a seguire le reti sociali e ad attaccare le persone con opinioni di sinistra. Il messaggio è molto chiaro e la punizione per aver trasgredito è molto pesante; ci sono state carriere professionali distrutte, docenti che hanno perso la loro posizione accademica, insegnanti che hanno perso il lavoro. C’è un costo, e l’avversario cerca di renderlo il più pesante possibile.

Sì, il controllo dei messaggi è ferreo ed è ben finanziato, ma la buona notizia è che la gente che prima era invisibile ora può esprimersi, e quindi questa guerra nei media viene combattuta. Ma, come ho detto in precedenza, benché noi vediamo l’inizio delle crepe nel muro, le redini del potere non sono ancora state abbandonate. Quindi dobbiamo ascoltare quello che il popolo palestinese sta dicendo, dobbiamo onorarlo, dobbiamo evidenziarlo ed essere solidali. Penso che questo sia un ruolo molto importante per noi, che ho cercato di intraprendere attraverso l’Health Advisory Council of Jewish Voice for Peace [Consiglio Consultivo sulla Salute di Jewish Voice for Peace, rete di militanti di JVP che si occupano di salute fisica e mentale, ndtr.].

Q. Ora che tutto il mondo sta guardando quello che avviene nella regione, lei crede che la narrazione più comune abbia perso la sua legittimità?

Penso che sicuramente sia stata messa in discussione e che lei abbia ragione: ha perso parte della sua legittimazione. Ma, di nuovo, non penso che dobbiamo sottostimare il potere delle persone che stanno difendendo questa legittimazione. Sono molto ben finanziate a livello internazionale. Ma penso che sia stata danneggiata. Però dobbiamo ancora lavorare duramente perché niente è ancora finito.

Dobbiamo appoggiare i movimenti per il boicottaggio. Dobbiamo partecipare alle manifestazioni politiche. Dobbiamo esigere informazioni sui giornali, nelle radio e sulle reti sociali. Dobbiamo continuare a documentare la situazione e porre domande serie, in modo che la gente possa conoscere le conseguenze dell’aggressione a Gaza per 11 giorni, della chiusura totale del programma di vaccinazione e del danneggiamento dell’unica clinica che fa i test [per il COVID, ndtr.]. Dobbiamo chiedere in che modo privare i gazawi dei vaccini COVID 19 renda Israele più sicuro.

Q. Ci sono notevoli tentativi all’interno della comunità ebraica: c’è chi interpreta la vicenda stessa dell’Olocausto per comprendere la difficile situazione dei palestinesi oggi e chiede la pace e l’uguaglianza. Come pensa che queste voci, come forte alternativa politica, saranno ascoltatate in modo più attento in modo da renderne l’impatto più sentito.

Penso che finalmente ci siamo resi conto che dobbiamo lavorare in solidarietà con le persone oppresse e che non dobbiamo essere gli oppressori. Abbiamo anche bisogno di essere consapevoli del nostro stesso razzismo. Questo è razzismo. Dobbiamo dirlo e poi dobbiamo affrontarlo. Una volta che inizi a pensare in questo modo, poi ci sono nuove possibilità. Penso che organizzazioni come Jewish Voice for Peace siano estremamente importanti in questo senso, ma abbiamo ancora molto lavoro da fare. Dobbiamo anche lavorare in modo intesezionale con i nostri fratelli e sorelle e amici musulmani e cristiani per creare un cambiamento politico in modo positivo.

Penso anche che i tempi stiano cambiando. C’è una crescente consapevolezza riguardo al colonialismo di insediamento e la gente ha iniziato ad applicarlo a Israele. Penso anche che le opinioni del popolo ebraico riguardo a Israele e al colonialismo d’insediamento  varino a seconda delle generazioni. Tra i più giovani troviamo sempre più persone che mettono in discussione l’intero progetto e dicono “aspetta in momento, se il razzismo è cattivo negli USA, allora come possiamo appoggiare il razzismo in Israele?” Sta avvenendo una grande frattura generazionale. Quindi penso che ci siano speranze, ma che abbiamo ancora molto lavoro da fare.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




I portuali di Oakland rifiutano di scaricare una nave mercantile Israeliana

Nora Barrows-Friedman

5-giugno-2021 The Electronic Intifada

Centinaia di attivisti e portuali hanno risposto a un appello internazionale e venerdì sono riusciti a bloccare le operazioni di scarico di una nave israeliana nel porto californiano di Oakland.

Alle 18 circa la Volans, una nave da carico gestita e posseduta dalla compagnia di navigazione ZIM, è uscita dal porto con tutto il suo carico ancora a bordo

Secondo una tabella su internet, sembra fosse diretta a Los Angeles.

Per più di due settimane dalla data prevista per il suo arrivo, le persone che protestavano hanno impedito alla nave di attraccare a Oakland.

Con ogni probabilità la nave ha tentato di evitare i picchetti dei dimostranti.

Rifiutandosi di scaricare un cargo israeliano i lavoratori di Oakland hanno gettato un cuneo negli ingranaggi dell’economia israeliana e ostacolato concretamente la politica israeliana di apartheid,” ha twittato Jewish Voice for Peace [associazione di ebrei americani antisionisti, ndtr.].

Questa organizzazione ha aggiunto: “Ogni giorno senza poter scaricare la nave della ZIM costa milioni di dollari alla più grande compagnia di navigazione israeliana.”

Lara Kiswani, direttrice esecutiva del Arab Resource and Organizing Center [Centro Arabo per le Risorse e l’Organizzazione, associazione di base della comunità araba negli USA, ndtr.] ha affermato: “stiamo inviando un chiaro e forte messaggio che chi trae profitti dalle politiche di apartheid di Israele e dalle continue violenze contro i palestinesi non sarà benvenuto nella Bay Area.

La sua organizzazione ha guidato la campagna della coalizione globale #BlokTheBoat che coordina le azioni tese ad impedire alle navi israeliane di scaricare.

All’alba almeno 500 attivisti hanno formato picchetti a sei diversi cancelli per essere sicuri che la nave non potesse depositare a terra i suoi container.

Mohamed Shekh del Arab Resource and Organizing Center ha dichiarato a The Electronic Intifada: “Abbiamo appena dichiarato vittoria perché abbiamo bloccato lavoratori del turno del mattino: questi ultimi hanno accettato le indicazioni dei nostri picchetti e non hanno scaricato una nave della ZIM al porto di Oakland”

Più tardi gli attivisti hanno ripreso i picchetti all’arrivo del nuovo turno dei portuali.

I lavoratori di 10 sezioni locali della International Longshore and Warehouse Union (ILWU) [principale sindacato dei portuali sulla costa ovest degli USA, ndtr.] nel nord della California hanno rilasciato dichiarazioni di solidarietà ai sindacalisti palestinesi in occasione dello sciopero generale dei palestinesi il 25 maggio, condannando nel contempo gli attacchi israeliani a Gaza e l’espulsione in corso di palestinesi dalle loro case di Gerusalemme.

La ILWU ha sostenuto con forza i diritti dei palestinesi e impedito alle navi della ZIM di attraccare nel 2010 e nuovamente nel 2014, l’ultima volta che una nave della ZIM ha potuto usare il porto di Oakland.

Da allora le navi della ZIM non hanno più tentato di attraccare al porto di Oakland – sino al mese appena trascorso.

Il membro del sindacato Jimmy Salameh ha affermato: “Gli iscritti di base della sezione 10 della ILWU sono contro le politiche di apartheid di Israele e con i nostri fratelli e sorelle in Palestina”.

Shekh ha dichiarato a The Electronic Intifada che gli attivisti sociali hanno lavorato assieme con i membri della ILWU per continuare la protesta.

Ha poi aggiunto: “La base degli iscritti al sindacato ha fatto la cosa giusta: è stata al fianco dei picchetti e ha affermato che non avrebbe tentato di superarli, mostrando così la loro effettiva solidarietà con i lavoratori della Palestina.”

In altri porti della costa orientale degli Stati Uniti e del Canada sono state pianificate azioni simili, come pure sulle banchine degli Stati di New York e New Jersey e a Huston, in Texas.

Gli attivisti affermano che sono pronti a continuare le azioni di picchettaggio sin quando necessario per impedire l’attracco e lo scarico della nave della ZIM.

Sheikh afferma: “Continueremo sino quando sarà chiaro alla ZIM che non potrà scaricare e che dovrà andarsene.”

Sostegno alle azioni di picchettaggio pro Palestina.

La ILWU ha una lunga storia di sostegno alle azioni di picchettaggio.

Nel 1978 e 1980 la ILWU si rifiutò di caricare materiale militare diretto rispettivamente in Cile e nel Salvador. Nel 1984 si rifiutò di scaricare una nave sudafricana per 11 giorni consecutivi.

Ma lavoratori portuali di tutte le parti del mondo hanno sostenuto l’appello al boicottaggio dei sindacalisti palestinesi per più di un decennio.

Nel 2009 la South African Transport and Allied Workers Union di Durban rifiutò di scaricare una nave di proprietà israeliana.

I portuali di Durban hanno compito la stessa azione il mese scorso per protestare contro i crimini di Israele a Gaza.

All’inizio di maggio, mentre i raid israeliani martellavano Gaza, i portuali di Livorno hanno dichiarato che si rifiutavano di caricare una spedizione di armamenti diretti in Israele.

Membri dell’Unione Sindacale di Base hanno affermato: “Il porto di Livorno non sarà complice del massacro del popolo palestinese.”

Secondo la JTA [Jewish Telegraphic Agency, agenzia internazionale che si rivolge a un pubblico ebraico, ndtr.] il sindacato più grande di Israele, l’Histadrut [storico sindacato sionista legato al partito Laburista israeliano, ndtr.] “ha ordinato, come ritorsione, ai lavoratori dei porti di Ashdod e Haifa di rifiutarsi di prestare i loro servizi alle navi dirette in Italia.”

Anche l’ambasciata d’Italia in Israele ha fatto pressione sui portuali italiani affinché interrompessero lo sciopero.

Anche i lavoratori del porto italiano di Ravenna avevano programmato uno sciopero per il 3 giugno dichiarando che “si rifiutano di caricare armi, esplosivi e altro materiale bellico destinato a Israele.”

Lo sciopero è stato revocato dopo che il proprietario della nave ha deciso di cancellare la spedizione – una vittoria per i lavoratori.

L’ Arab Resource and Organizing Center ha affermato che la vittoria al porto di Oakaland “è una vittoria del movimento internazionale per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni [BDS] contro Israele in quanto Stato basato sull’apartheid.”

Un grande ringraziamento a tutte le organizzazioni sindacali che dimostrano solidarietà nelle azioni per una giusta causa.

Finalmente il vento sta cambiando in Medio Oriente. La lotta non è finita ed ora è importante raddoppiare i nostri sforzi per raggiungere infine una pace giusta e duratura per la Palestina. I crimini stanno venendo alla luce ed iniziano ad essere riconosciuti come tali.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




Mettere a tacere le persone non condurrà alla pace

Shahd Safi

1 aprile 2021 We Are Not Numbers

Questo contributo è stato scritto nell’ambito della collaborazione con Jewish Voice for Peace per protestare contro la censura da parte di Facebook delle voci dei palestinesi e dei loro sostenitori

Tre guerre. Aggressioni e invasioni troppo numerose per tenerne il conto. Tentativi di proteste spente nel sangue. Acqua che non si può bere. Niente lavoro. E come se questo non bastasse, violenza fra le mura domestiche.

Una persona come affronta tutto ciò? Col passar del tempo io ho letteralmente cominciato ad aver paura di tutto: ricordare il passato, pensare al futuro, conoscere gente nuova, provare ad amare. Spesso avevo persino paura di uscire di casa, e quando incontravo gente nuova, mi tremavano mani e gambe.

La tutela della salute mentale è complicata a Gaza; molti qui sono riluttanti a chiedere aiuto, io no. Il problema è che non potevo permettermelo. Un tempo avevo paura di parlare apertamente del mio conflitto interiore, ma adesso lo sto affrontando. We Are Not Numbers [Non Siamo Numeri, piattaforma fondata nel 2015 per ospitare le storie personali dei palestinesi che vivono sotto occupazione israeliana o in campi profughi, ndtr] collabora con USA Palestine Mental Health Network [Rete USA per la Salute Mentale in Palestina, formata da operatori professionisti, ndtr] per fornire “interlocutori” ed io sono molto grata di poter contare finalmente su un ascolto professionale.

Non c’è modo di sfuggire alla cause delle mie angosce mentali -che, come ho imparato, consistono essenzialmente nell’esperienza di essere cresciuta e rinchiusa a Gaza. Che la mia stessa identità di profuga palestinese abitante a Gaza rappresenti in sé una specie di disturbo mentale è profondamente doloroso.

Ora mi rendo conto che anche la violenza domestica a cui ho assistito da giovane è in qualche modo collegata al nostro trauma culturale. I miei genitori sono stati troppo duri con me ed i miei fratelli, ma sono arrivata a comprendere il dolore, la paura, l’instabilità tramandati attraverso le generazioni dai miei nonni, sradicati durante la Nakba, fino ai miei genitori per arrivare infine a me. I traumi non curati possono alimentare una sorta di narcisismo, così ora riesco quasi a simpatizzare con i miei genitori. E riesco anche a perdonarli.

Oggi io vivo nella stessa paura ed instabilità. E’ quasi impossibile spiegare quanto sia spaventosa la situazione economica a Gaza. Non siamo autorizzati ad esportare quasi niente, le merci che siamo obbligati ad importare (perché non possiamo produrle qui) sono carissime, spesso di pessima qualità. In generale la gente è così povera che i consumi non sono in grado di sostenere un vero e proprio mercato interno.

Per quanto mi riguarda, è difficile per la mia famiglia pagare le mie tasse universitarie; altri due miei fratelli vanno all’università. Sono sempre stata una studentessa creativa ma ultimamente sto perdendo l’entusiasmo perché è davvero difficile concentrarmi sulle lezioni quando vedo la sofferenza nelle persone che amo.

E intanto è dall’infanzia che sogno di viaggiare. E’ il mio più grande desiderio. La mia anima anela a viaggiare. Voglio vivere quell’esperienza ma a causa del blocco di Israele sembra proprio che non riuscirò a realizzare il mio sogno. Ho vissuto in tante zone di quel “paesone” che è Gaza ed i miei occhi hanno necessità di godersi qualche posto nuovo. Voglio sentire aria nuova, fresca, pulita.

Voglio amare la vita. Ho paura di vivere, ma non voglio che siano le mie paure ad avere il controllo. Sto facendo del mio meglio per comprendere i miei timori in modo da gestirli in maniera sana. Ma è una lotta. Sono arrivata ora ad essere in sovrappeso di quasi dieci chili. In parte ciò è dovuto a “fame nervosa”, ma ho anche capito che molto di ciò che mangiamo non è salutare e la causa di questo è la povertà. E’ più facile trovare fast food e farinacei che alternative fresche e salutari.

Condividere dettagli così personali è difficile ma è parte del mio percorso di guarigione, così come lo sono progetti quali We Are Not Numbers e la sua cooperazione con Jewish Voice for Peace [Voce Ebraica per la Pace, organizzazione statunitense antisionista che cerca di cambiare la politica degli USA al fine di raggiungere pace e giustizia in Israele e Palestina, ndtr].

Non otterremo mai giustizia se ebrei e palestinesi non si comprenderanno a vicenda. Ma come farlo se Facebook ed altri social media ci bloccano quando ci trovano “offensivi”? C’è bisogno di PIU’ comunicazione, non di meno! Questo è vitale per la mia salute personale – e anche per una comunità internazionale che bene o male deve vivere in pace.

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)




“Facebook, dobbiamo parlarne”: sulla distinzione tra antisemitismo e antisionismo negli spazi pubblici

Benay Blend

22 febbraio 2021 – Palestine Chronicle

Nel gennaio 2021 Jewish Voice for Peace [Voce Ebraica per la Pace, associazione di ebrei antisionisti, ndtr.] (JVP) ha annunciato la campagna internazionale “Facebook, we need to talk” [Facebook, dobbiamo parlarne] sull’indagine del gigante delle reti sociali per stabilire se le critiche contro il movimento sionista “rientrino all’interno della categoria ‘discorsi d’odio’ in base agli standard della comunità di Facebook.”

Nella sua forma corrente la discussione riguarda il fatto di obbligare università, piattaforme delle reti sociali e altri spazi pubblici ad adottare le norme dell’International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, a cui aderiscono 31 Paesi, ndtr.] (IHRA), che definisce l’odierno antisemitismo includendo “la negazione del diritto del popolo ebraico all’autodeterminazione, ad esempio affermando che l’esistenza di uno Stato di Israele sia un comportamento razzista” e “applicando un doppio standard” nei confronti di Israele, nel complesso una definizione che in pratica bloccherebbe qualunque critica dello Stato sionista.

Secondo Lara Friedman l’obiettivo delle organizzazioni sioniste che hanno fatto pressioni per questa iniziativa “non è quello di fare sì che Facebook escluda dalla piattaforma l’antisemitismo, ma le critiche a Israele.”

In risposta, centinaia di attivisti, intellettuali ed artisti di tutto il mondo hanno lanciato una petizione per evitare che Facebook non includa nella sua politica riguardante i discorsi di odio “sionista” come categoria protetta, cioè tratti “sionista” come un equivalente di “ebreo o ebraico”. Nelle prime 24 ore la lettera aperta ha raccolto oltre 14.500 firme, tra cui quelle di personalità come Hanan Ashrawi [nota politica palestinese, ndtr.], Norita Cortiñas [cofondatrice delle Madres de Plaza de Mayo in Argentina, ndtr.], Wallace Shawn [attore e commediografo statunitense, ndtr.] e Peter Gabriel [famoso cantante rock inglese, ndtr.].

La petizione sottolinea che “collaborare con la richiesta del governo israeliano danneggerebbe i tentativi di sradicare l’antisemitismo, priverebbe i palestinesi di uno spazio fondamentale per esporre al mondo il proprio punto di vista politico e contribuirebbe ad impedire che il governo israeliano debba rendere conto delle sue violazioni dei diritti dei palestinesi.”

Questi punti sono particolarmente importanti in quanto la Corte Penale Internazionale sta avviando un’indagine su Israele per crimini di guerra, e quindi ogni notizia su questa inchiesta sarebbe definita antisemita. Oltretutto il tentativo di utilizzare il termine “sionista” come sinonimo di popolo ebraico implicherebbe che ogni ebreo pensi allo stesso modo, il che di per sé è un’affermazione razzista, indipendentemente dal gruppo a cui si fa riferimento nell’argomentazione.

Affermazioni come “tutti i neri sono…,” “tutte le donne sono…” e via di seguito sono considerate ragionamenti che non consentono il libero arbitrio e in genere riducono la popolazione presa di mira ai peggiori luoghi comuni. Ciò banalizza l’antisemitismo reale, per cui quando viene evidenziata questa forma di fanatismo la risposta potrebbe essere il rifiuto di credere a una accusa simile.

Pertanto confondere il sionismo con l’ebraismo non contribuisce per niente a fa sì che il popolo ebraico sia più sicuro contro affermazioni razziste. Anzi, come sostiene la petizione,

quanti alimentano l’antisemitismo in rete continueranno a farlo, con o senza la parola “sionista”. Di fatto molti antisemiti, soprattutto tra i suprematisti bianchi e i cristiano-sionisti evangelici appoggiano esplicitamente il sionismo e Israele, impegnandosi nel contempo in discorsi e azioni che disumanizzano, insultano e isolano il popolo ebraico.”

Cosa altrettanto grave, opporsi all’iniziativa di Facebook solo sulla base della libertà di parola mette al centro i valori occidentali, mentre sono in effetti i palestinesi che sono privati dei loro diritti sotto l’occupazione [israeliana].

Ovviamente la libertà di sostenere la causa palestinese senza timore di intimidazioni da parte di organizzazioni sioniste o di rappresaglie da parte del governo è una questione importante. Nel passato il fatto di essersi concentrati sulla libertà di parola è stata una tattica da parte di gruppi progressisti che volevano coinvolgere un pubblico più ampio. Tuttavia ciò pone al centro preoccupazioni dei gruppi dominanti dei Paesi centrali, il nostro diritto alla libertà di parola, mentre ai palestinesi vengono negati nella loro vita quotidiana diritti molto più significativi.

Questo tentativo di soffocare l’antisionismo è parte di un modello emergente da parte di Israele e dei suoi sostenitori, ma finora ciò è stato limitato a censurare discussioni riguardo al movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) sulla base dell’effettivo successo della campagna. Tuttavia pare che i tentativi di criminalizzare il discorso si siano estesi fino ad includere qualunque critica alle pratiche sioniste.

Secondo la petizione di JVP, questi tentativi “proibirebbero ai palestinesi di condividere con il resto del mondo le proprie esperienze e storie quotidiane, che sia una foto con le chiavi della casa persa dai loro nonni quando vennero attaccati da milizie sioniste nel 1948 o siano immagini in diretta di coloni sionisti che vandalizzano i loro ulivi nel 2021. E ciò impedirebbe agli utenti ebrei di discutere del proprio rapporto con l’ideologia politica sionista.”

Il fatto che Facebook ceda o meno alle pressioni,” nota Friedman, dipenderà da “se l’opinione pubblica, ebrea e non, finalmente riconoscerà che timori riguardo all’ antisemitismo sono sfruttati per favorire una ristretta agenda politica e ideologica mettendo a rischio la libertà di parola su Israele/Palestina e, di conseguenza, il discorso politico in generale.”

In base alla definizione di Steven Salaita [docente universitario statunitense licenziato per i suoi tweet contro sionismo e Israele, ndtr.], l’antisionismo è “una politica e un discorso, a volte una vocazione, al suo massimo anche una sensibilità, in sintonia con il disordine e la sovversione. È un impegno per possibilità inimmaginabili, cioè realizzare quello che agli arbitri di buon senso piace definire ‘impossibile.’”

Rimproverando quanti equiparano l’antisemitismo all’antisionismo, Salaita afferma che “(l’antisionismo) si oppone ad ogni forma di razzismo, compreso l’antisemitismo. Questo principio di per sé condanna il sionismo.”

Se più persone abbandonassero la politica del “possibile” a favore dell’appello di Salaita, se più persone non solo firmassero la petizione di JVP ma organizzassero anche proteste davanti alle sedi locali di Amazon, sarebbe possibile far sentire la loro voce.

Oltretutto rovesciare la situazione utilizzando lo stesso mezzo di comunicazione che minaccia di censurare l’antisionismo per rendere edotta l’opinione pubblica della situazione dell’occupazione potrebbe portare proprio a ciò che i sionisti temono di più: uno Stato laico con diritti uguali per tutti.

Benay Blend ha ottenuto il dottorato in Studi Americani presso l’università del Nuovo Messico. Il suo lavoro di studiosa include: ‘Situated Knowledge’ in the Works of Palestinian and Native American Writers” [‘Saperi contestualizzati’ nel lavoro di scrittori palestinesi e nativi americani] (2017) in “’Neither Homeland Nor Exile are Words’” [Nè Patria né Esilio sono parole], curato da Douglas Vakoch e Sam Mickey.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’omicidio di George Floyd evidenzia il problema dell’addestramento della polizia americana in Israele

Philip Weiss

4 giugno 2020 – Mondoweiss

L’uccisione di George Floyd da parte della polizia di Minneapolis il 25 maggio ha spinto alcuni a paragonare i metodi della polizia americana a quelli della polizia di occupazione israeliana e a rilevare che molti agenti di polizia statunitensi hanno ricevuto una formazione da parte di ufficiali israeliani con la sponsorizzazione delle organizzazioni delle lobby israeliane.

Ad esempio, il Morning Star [giornale britannico di sinistra, ndtr.] ha pubblicato un articolo in cui si afferma che in un’occasione le forze di polizia di Minneapolis hanno ricevuto una formazione dagli israeliani. L’addestramento si è svolto otto anni fa e non ci sono prove che gli agenti che hanno ucciso Floyd abbiano partecipato alla formazione.

Almeno 100 agenti di polizia del Minnesota hanno partecipato a un convegno presso il consolato israeliano a Chicago nel 2012, la seconda volta in cui si è tenuto un simile evento.

In tale occasione hanno appreso le tecniche violente utilizzate dalle forze israeliane nel diffondere il terrore nei territori palestinesi occupati con il pretesto di operazioni di sicurezza.

Il cosiddetto convegno di formazione all’antiterrorismo a Minneapolis è stato ospitato congiuntamente dall’FBI.

La questione è stata a lungo all’esame dei gruppi solidali con i palestinesi. Lo scorso dicembre trenta organizzazioni per i diritti umani e la giustizia razziale della Georgia hanno manifestato la loro opposizione a un programma sponsorizzato da ferventi sostenitori di Israele, in base al quale le autorità statali preposte all’ordine devono inviare, a fini formativi, degli agenti in Israele. Durham, in Nord Carolina, ha vietato tali scambi due anni fa.[vedi l’articolo su zeitun.info  ndt]

Jewish Voice for Peace [gruppo di ebrei USA antisionista, ndtr.] ha condotto per diversi anni la campagna “Scambio Letale” che denuncia gli addestramenti. Come ha scritto il responsabile di Pittsburgh di JVP dopo aver appreso che il capo della polizia si è recato nel 2018 in Israele per l’addestramento:

Gli interscambi tra la polizia americana e l’esercito israeliano promuovono la brutalità dell’occupazione militare come modello positivo per le attività di polizia nella comunità. Sotto la bandiera della formazione sull’ “antiterrorismo”, Israele presenta le lezioni apprese da 50 anni di occupazione militare illegale su una popolazione palestinese privata dei diritti umani e civili …

Il tracciamento razziale, la repressione violenta della protesta, la sorveglianza di massa, la militarizzazione della sicurezza scolastica e il continuo allontanamento delle persone dalle loro case non sono lezioni che le forze dell’ordine statunitensi o i sindaci statunitensi dovrebbero applicare in patria.

Nel 2017 Intercept ha riferito che migliaia di agenti delle forze dell’ordine statunitensi hanno trascorso un periodo di formazione in Israele. Alice Speri ha scritto che varie organizzazioni filo-israeliane hanno sponsorizzato i programmi.

Migliaia di agenti delle forze dell’ordine statunitensi viaggiano spesso per l’addestramento in uno dei pochi Paesi in cui la polizia e il militarismo sono ancora più profondamente intrecciati di quanto non siano qui: Israele.

All’indomani dell’11 settembre, Israele ha sfruttato la sua esperienza pluridecennale in quanto forza occupante per affermarsi come leader mondiale nella lotta al terrorismo. Le forze dell’ordine statunitensi hanno acquisito le competenze dallo Stato ebraico attraverso la loro esperienza, con la partecipazione a programmi di scambio sponsorizzati da una serie di gruppi filo-israeliani, come l’ American Israel Public Affairs Committee [commissione per gli affari pubblici israeliano americani, ndtr.], il Jewish Institute for National Security Affairs [Istituto ebraico per gli affari di sicurezza nazionale, ndtr.] e la Anti-Defamation League [Lega anti-diffamazione, ndtr.]. Nel corso degli ultimi quindici anni decine di alti funzionari della polizia federale, statale e locale di decine di dipartimenti di tutti gli Stati Uniti si sono recati in Israele per apprendere le sue politiche incentrate sul terrorismo.

Gran parte delle critiche si concentra su un seminario annuale antiterrorismo in Israele che sembra essere una visita ufficiale della polizia, pagata dalla Anti-Defamation League, che ha addestrato centinaia di agenti delle forze dell’ordine statunitensi.

Lincoln Anthony Blades ha scritto sull’addestramento dell’ADL su Teen Vogue nel 2018, sulla scia dell’uccisione di Mike Brown a Ferguson nel 2014 e della repressione contro i manifestanti.

Tre anni prima delle proteste di Ferguson Tim Fitch – il comandante dello stesso dipartimento di polizia della contea di St. Louis responsabile del lancio di candelotti lacrimogeni contro attivisti e cittadini impauriti – era volato in Israele per frequentare un corso di formazione di una settimana sul terrorismo da parte della polizia, dei servizi segreti e dei militari israeliani.

Tale addestramento è stato organizzato dall’Anti-Defamation League (ADL), che conduce il suo seminario nazionale antiterrorismo in Israele dal 2004. Il seminario, che si concentra sulla repressione delle proteste, la contro-insurrezione e l’antiterrorismo, attira numerosi partecipanti, tra cui polizie locali, agenzie di controllo dell’immigrazione e persino guardie giurate dei campus.

Il ruolo della Anti-Diffamation League è di particolare interesse perché ha recentemente descritto l’uccisione di George Floyd come un “omicidio” e ha invitato gli americani a lottare contro un sistema “razzista”. “Ingiustizia e disuguaglianza richiedono un cambiamento sistemico”, scrive il suo direttore, Jonathan Greenblatt. “Adesso.”

Ma l’ADL ha detto ben poco sulle violazioni israeliane dei diritti umani, tra cui l’uccisione da parte della polizia, il 27 maggio a Gerusalemme, di un uomo disarmato fuori dalla sua scuola.

L’Università di Tufts è stata criticata per aver permesso al suo capo della polizia di partecipare all’addestramento in Israele nel 2017. Sempre nel 2017, un membro del consiglio comunale di Washington, DC, ha dichiarato di essere “turbato” dal fatto che la città avesse inviato un comandante di polizia in Israele per l’addestramento organizzato dall’ADL. David Grosso ha dichiarato che il dipartimento di polizia metropolitana incoraggia la “militarizzazione” della polizia piuttosto che una politica improntata ad una polizia di comunità. Ha riferito ad Intercept che l’agente avrebbe “imparato da persone che sono più inclini ad un approccio violento alla risoluzione dei conflitti”.

Nel 2018, sia la Polizia di Stato del Vermont che il dipartimento di polizia di Northampton, Massachusetts, si sono ritirati dall’addestramento antiterrorismo dell’ADL in Israele dopo che gli attivisti locali hanno reso pubblico l’interscambio. “Questo è il primo caso di ritiro dal programma nei suoi 20 anni di storia”, ha scritto Joseph Levine di JVP.

Il responsabile di JVP a Seattle ha ottenuto un opuscolo dell’ADL per il programma del 2015 che citava diversi comandanti di polizia e un funzionario federale dell’ICE [United States Immigration and Customs Enforcement, agenzia federale responsabile del controllo della sicurezza delle frontiere e dell’immigrazione, ndtr.] sul perché non vedessero l’ora di andare in Israele:

“Per scoprire come la Nazione più minacciata del mondo si mantenga sicura e protegga i propri cittadini … “(J.D. Patterson Jr., allora direttore del dipartimento di polizia di Miami Dade, in seguito andato in pensione)

Viste le minacce che stiamo attualmente affrontando, impariamo dai dirigenti che hanno affrontato problemi simili per un lungo periodo di tempo … ” (Vince Talucci, direttore dell’Associazione internazionale dei comandanti di polizia)

“Non vedo l’ora di vedere come il popolo israeliano affronti la continua minaccia del terrorismo “. (Eddie Johnson, allora vicedirettore del dipartimento di polizia di Chicago, ora ex sovrintendente)

“Sono interessato a saperne di più su come l’insieme delle forze dell’ordine gestiscano livelli di minaccia perenni ed elevati, sia dall’interno che da parte dei Paesi vicini, se e quanto siano efficaci e come tali tecniche possano essere applicate in modo più esteso.” (Peter Edge, ex funzionario delle indagini sulla sicurezza dell’ICE)

Ora che i critici stanno collegando le pratiche israeliane all’omicidio di George Floyd, le organizzazioni ebraiche respingono tale legame. Un funzionario israeliano afferma che sarebbe antisemita stabilire una connessione.

L’ADL sembra stare sulla difesa riguardo il suo programma. Il suo sito web ha solo informazioni vecchie di sei anni sui seminari in Israele, pur affermando di condurli “ogni anno”. L’ADL è riuscita a convincere Teen Vogue a pubblicare la propria risposta all’articolo di Blades del 2018, affermando che il programma addestrerebbe le forze dell’ordine statunitensi alla “lotta all’estremismo” e che il seminario sull’antiterrorismo promuoverebbe la “responsabilità” degli agenti di polizia.

Il nostro programma è progettato per costruire relazioni con i dirigenti delle forze dell’ordine americane e aiutare questi funzionari a prevenire e rispondere alle minacce e alla violenza estremiste e terroristiche negli Stati Uniti. Sfortunatamente, gli israeliani hanno una notevole esperienza su come scoraggiare e interrompere gli episodi di terrorismo e rafforzare la resilienza della comunità a seguito di atti terroristici.

Il vero scopo del programma è evidentemente quello di costruire solide relazioni tra professionisti della sicurezza americani e funzionari israeliani, in modo che gli Stati Uniti continuino a sostenere Israele.

Blades ha scritto su Teen Vogue che l’addestramento procede in entrambi i modi: nel 2016 Israele ha adottato la politica di “stop and frisk” [ferma e perquisisci] in evidente emulazione della screditata politica di New York [la politica dello Stop and Frisk è stata adottata dall’ex sindaco di New York Bloomberg, ndtr.].

La campagna di JVP sostiene che anche l’oppressione segue entrambe le modalità:

Una delle posizioni più pericolose su cui convergono i regimi di Trump e Netanyahu è rappresentata dai programmi di interscambio che coinvolgono polizia, ICE, pattuglie di frontiera e FBI statunitensi insieme a soldati, polizia, agenti di frontiera, ecc. israeliani. In questi programmi sono condivise le “peggiori pratiche” atte a promuovere ed estendere le prassi di polizia discriminatorie e repressive già presenti in entrambi i Paesi, tra cui esecuzioni extragiudiziarie, politiche che autorizzano a sparare per uccidere, omicidi di polizia, tracciamento razziale, massicce pratiche di spionaggio e sorveglianza, espulsioni e detenzioni, aggressioni contro difensori dei diritti umani.

Grazie a Abdeen Jabara e Adam Horowitz e ad una coppia di amici che rimarranno anonimi.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)




Gli ebrei USA stanno dalla parte di Black Lives. Perché non facciamo altrettanto con i palestinesi?

Oren Kroll-Zeldin

4 giugno 2020 – +972

Non denunciando apertamente l’uccisione di palestinesi come Iyad al-Allaq le associazioni di ebrei americani stanno svalutando la nostra presa di posizione contro la violenza di Stato in patria.

George Floyd e Iyad al-Hallaq non si sono mai incontrati. Vivevano a circa 6.000 km di distanza uno dall’altro in mondi completamente diversi. Ma un unico tragico destino, determinato dalla violenza dello Stato, unisce per sempre questi due uomini: Floyd, un nero disarmato, è stato ucciso dalla polizia a Minneapolis e la stessa settimana Hallaq, un palestinese disarmato affetto da autismo, è stato ucciso dalla polizia israeliana a Gerusalemme.

Una settimana dopo la sua uccisione, che ha provocato massicce proteste in tutti gli USA e nel resto del mondo a favore della giustizia razziale e per la fine delle brutalità della polizia, George Floyd è diventato famoso. Egli si è aggiunto a una lista troppo lunga di nomi che includono Breonna Taylor, Ahmaud Arbery, Michael Brown, Eric Garner, Tamir Rice, Philando Castile, Oscar Grant e un numero infinito di neri americani, donne e uomini, uccisi dalla polizia.

Durante la scorsa settimana ho visto appelli di molte associazioni e dirigenti ebrei americani che chiedono alla propria comunità di familiarizzare con quei nomi e di unirsi alla lotta per la giustizia razziale. Queste azioni sono lodevoli e necessarie – in quanto ebrei dobbiamo partecipare attivamente a questi movimenti sociali sempre importanti e opportuni.

Eppure c’è un problema eclatante nel modo in cui molte importanti organizzazioni di ebrei americani stanno rispondendo a questo momento cruciale: non hanno applicato lo stesso approccio basato sui valori ai diritti dei palestinesi e alla violenza di Stato israeliana come fanno con la violenza poliziesca negli USA. A causa di questa incoerenza le risposte di molte associazioni ebraiche agli attuali avvenimenti negli USA sembrano nella migliore delle ipotesi vuote, nel peggiore opportuniste.

Non lo dico per sminuire l’appoggio ebraico al Movimento per la Vita dei Neri o per screditare la partecipazione degli ebrei alle attuali proteste. Non sto neppure mettendo sullo stesso piano la situazione dei neri negli Stati Uniti con quella dei palestinesi che vivono sotto l’occupazione israeliana: sono contesti diversi dal punto di vista storico, politico, giuridico e culturale.

Tuttavia, date le loro terribili somiglianze e dato che la comunità ebraica americana è profondamente coinvolta in entrambi i Paesi, il silenzio delle organizzazioni ebraiche nei confronti della violenza di Stato israeliana parla da sé. Non schierandoci in modo inequivocabile a favore dei diritti dei palestinesi quando sono sottoposti a tali uccisioni extragiudiziarie stiamo svilendo la posizione della nostra comunità contro simili atti di violenza negli Stati Uniti.

Perché non c’è stata nessuna indignazione da parte dei dirigenti della comunità ebraica dopo che la polizia israeliana ha ucciso Iyad al-Hallaq? Perché nel 2016 i dirigenti della comunità ebraica non hanno alzato la voce dopo che Abdel Fattah al-Shafir, inerme dopo aver tentato di accoltellare un soldato israeliano, è stato giustiziato a bruciapelo da Elor Azaria, nonostante al-Shafir non rappresentasse una minaccia per i soldati? Perché è più probabile che ricordino il nome del soldato e non quello dell’uomo che ha ucciso?

E qual è stata la risposta due anni fa quando un cecchino dell’esercito israeliano ha colpito e ucciso Razan al-Najjar, l’infermiera volontaria palestinese di 21 anni assassinata durante la Grande Marcia del Ritorno di Gaza mentre stava curando un manifestante ferito? Perché la comunità ebraica ha risposto con indignazione quando la piattaforma politica del Movement for Black Lives [Movimento per le Vite dei Neri] ha incluso parole di solidarietà nei confronti dei palestinesi?

Quel silenzio di molte organizzazioni ebraiche americane è ora più che mai assordante. Per molti questa dissonanza rende più difficile prendere sul serio l’impegno degli ebrei per una giustizia razziale negli USA, mentre lo stesso gruppo lavora strenuamente per sostenere sistemi di oppressione simili in Palestina-Israele.

Il fatto che molti dipartimenti di polizia degli USA si addestrino con poliziotti israeliani rende ancora più sconvolgente il rifiuto di denunciare gli abusi nei confronti dei palestinesi. Secondo Amnesty International organizzazioni ebraiche come l’ Anti-Defamation League [Lega contro la Diffamazione, una delle principali organizzazioni della lobby filo-israeliana negli USA, ndtr.], l’American Jewish Committee [Comitato Ebraico Americano, una delle più antiche organizzazioni di difesa degli ebrei negli USA, ndtr.] e il Jewish Institute for National Security Affairs [gruppo di studio filo-israeliano con sede a Washington, ndtr.] hanno persino finanziato questi corsi di addestramento.

Quando la polizia negli USA e in Israele uccide persone disarmate nella stessa settimana dovremmo sentire le comunità e associazioni ebraiche esprimere lo stesso sdegno a favore della giustizia in entrambi i luoghi. Ma la triste verità è che non lo fanno.

Quindi sfido gli ebrei americani a chiedersi: come vi sentite riguardo al personale israeliano che addestra poliziotti americani? Se a questo riguardo qualcosa vi irrita, come si spiega ciò? Ne sapete qualcosa della campagna “Scambio letale” che intende porre fine alla collaborazione tra polizie degli USA e di Israele? La campagna vi scandalizza perché fa parte di Jewish Voice for Peace [organizzazione antisionista degli ebrei USA, ndtr.], che appoggia apertamente il BDS? Fin dove arriva il vostro impegno per la giustizia?

In definitiva essere un alleato si basa sull’impegno politico condiviso e sul rifiuto risoluto di accettare l’ingiustizia in ogni contesto. Ai dirigenti della comunità ebraica piace citare Martin Luther King, che com’è noto scrisse nella sua “Lettera dalla prigione di Birmingham” che “l’ingiustizia ovunque è una minaccia alla giustizia ovunque”. Per essere sinceri alleati nella lotta contro la disuguaglianza razziale noi ebrei dobbiamo portare avanti questa lotta sia negli Stati Uniti che in Israele e far leva sulla nostra influenza e sul nostro privilegio in entrambi i luoghi.

Il silenzio cui assistiamo oggi non è solo complicità, ma anche un tradimento dei valori ebraici e della ricca tradizione della partecipazione degli ebrei ai movimenti sociali. Dobbiamo unirci al Movimento per le Vite dei Neri e ad altri gruppi guidati dai neri e appoggiare attivamente le proteste nelle nostre strade. Ed è fondamentale che ci esprimiamo con lo stesso zelo e con la stessa giusta indignazione contro la violenza dello Stato israeliano e a favore della giustizia per i palestinesi.

Gli assassinii di George Floyd e di Iyad al-Hallaq dovrebbero essere di monito perché la natura interconnessa delle loro morti la raffiguri come la nostra lotta. Se siamo impegnati nella giustizia per tutti, allora dobbiamo rifiutare di sostenere i sistemi razzisti e disuguali che le rendono possibili.

Oren Kroll-Zeldin è il vicedirettore del Swig Program in Jewish Studies and Social Justice [Programma Swig per gli Studi Ebraici e la Giustizia Sociale] all’ università di San Francisco, dove è anche assistente nel dipartimento di Teologia e Studi religiosi.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




‘Una grandissima e tempestiva vittoria per il BDS: Microsoft disinveste da AnyVision, l’azienda israeliana di riconoscimento facciale

Michael Arria 

30 marzo 2020  Mondoweiss

Microsoft ha annunciato che sta disinvestendo la propria quota in AnyVision, la società israeliana di riconoscimento facciale. La decisione fa seguito a un controllo imposto da una campagna del BDS [Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, ndtr.] che l‘aveva presa di mira. Gli attivisti dicono che la tecnologia di riconoscimento facciale di AnyVisionè usata per sorvegliare i palestinesi in Cisgiordania.

Dopo che il giugno scorso Microsoft aveva investito nell’azienda, NBC News [canale televisivo USA di notizie, ndtr.] aveva riferito che AnyVision “gestiva un progetto segreto di sorveglianza militare” in Palestina. “Il riconoscimento facciale è probabilmente il mezzo migliore per un completo controllo governativo degli spazi pubblici e quindi dobbiamo trattarlo con estrema cautela” aveva detto all’epoca Shankar Narayan di ACLU [American Civil Liberties Union, Ong per la difesa dei diritti civili e delle libertà individuali negli Stati Uniti, ndtr.]. Quando NBC ha contattato Eylon Etshtein, l’AD di AnyVision, per il servizio, ha negato di essere a conoscenza del progetto, sottolineando che la Cisgiordania non è occupata e insinuando che il reportage fosse finanziato da un gruppo di attivisti palestinesi.

Durante l’estate del 2019, Jewish Voice for Peace [Voce Ebraica per la Pace, associazione ebraica USA contraria antisionista, ndtr.] ha lanciato la campagna #DropAnyVision, chiedendo a Microsoft di abbandonare l’azienda. Quest’anno si sono uniti i gruppi MPower Change [organizzazione in rete di musulmani statunitensi, ndtr.] e SumofUs [Ong USA che promuove campagne di sensibilizzazione e responsabilizzazione su vari temi, ndtr.] per lanciare una petizione. Oltre 75.000 persone l’hanno firmata ed è stata consegnata nella sede dell’azienda da militanti e dipendenti della Microsoft.

A novembre 2019, Microsoft aveva assunto Eric Holder, l’ex Procuratore Generale degli Stati Uniti (e il suo team dello studio legale internazionale Covington & Burling) per condurre un’indagine indipendente sulla AnyVision per determinare se le pratiche della ditta fossero in linea con i principi etici di Microsoft. Si era concluso che la tecnologia era usata nei posti di blocco dei varchi di frontiera, ma che la compagnia “al momento non gestiva quel programma di sorveglianza di massa in Cisgiordania di cui si parlava nei reportage dei media.”

Ciononostante, Microsoft ha deciso di separarsi da AnyVision. “Dopo un’attenta analisi, Microsoft e AnyVision hanno deciso che è nell’interesse di entrambe che Microsoft disinvesta la propria quota in AnyVision”, ha affermato in un comunicato. “L’audit ha confermato la difficoltà per Microsoft di essere un investitore di minoranza in una ditta che vende tecnologia sensibile, dato che tali investimenti generalmente non permettono il livello di supervisione o controllo che Microsoft esercita sull’uso delle proprie tecnologie.”

La decisione di Microsoft di lasciare AnyVision è un bruttissimo colpo per questa startup israeliana profondamente implicata [nella repressione israeliana] e un successo per la grandiosa campagna del BDS guidata da Jewish Voice for Peace” ha detto in un comunicato Omar Barghouti, il co-fondatore di BDS. “Grazie alla complicità di molte corporazioni come AnyVision e nonostante la minaccia del coronavirus, i crimini di guerra di Israele contro i palestinesi continuano e quindi non possono che continuare anche la nostra resistenza e la nostra lotta per libertà, giustizia e uguaglianza.”

La decisione di Microsoft di accogliere la richiesta della campagna e abbandonare AnyVision, l’azienda israeliana di sorveglianza, è una grandissima e tempestiva vittoria per il BDS” ha twittato l’account ufficiale del Comitato Nazionale del BDS palestinese (BNC).

La decisione di Microsoft di disinvestire da AnyVision è una vittoria importante dei militanti per la giustizia tecnologica e per la comunità internazionale solidale con i palestinesi.”, ha detto Lau Barrios, manager della campagna MPower Change. Questa decisione di Microsoft, leader globale del settore del software, rafforza la nostra convinzione che non ci si possa fidare di governo, polizia e forze armate e del loro uso della sorveglianza tecnologica come quella del riconoscimento facciale che è sempre di più utilizzata negli USA e in tutto il mondo per monitorare, sorvegliare e criminalizzare ulteriormente neri, immigrati, palestinesi e comunità musulmane.”

Michael Arria

Michael Arria è il corrispondente di Mondoweiss dagli Stati Uniti.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Elogi prudenti, silenzio e rifiuto: i gruppi ebraici americani divisi sull’ “accordo del secolo”

Richard Silverstein

giovedì 6 febbraio 2020 – Middle East Eye

Le organizzazioni di destra hanno elogiato il piano di Trump per Israele e la Palestina, mentre quelle di sinistra e di centro l’hanno criticato

Mentre l’“accordo del secolo” del presidente americano Donald Trump è stato quasi universalmente criticato nei circoli politici al momento della sua presentazione pubblica la settimana scorsa, le reazioni delle organizzazioni di ebrei statunitensi sono state piuttosto contraddittorie e moderate.

Le dichiarazioni comprendono l’insieme dello spettro dei soliti noti, dalla destra alla sinistra. La lobby filo-israeliana AIPAC ha salutato il tentativo dell’amministrazione Trump di “lavorare di concerto con i dirigenti dei due principali partiti politici israeliani per presentare delle idee per risolvere il conflitto in modo da riconoscere le imperiose necessità in materia di sicurezza del nostro alleato” ed ha esortato i palestinesi a “unirsi agli israeliani al tavolo dei negoziati.”

È tipico di questa lobby individuare fino a che punto questo piano sia utile agli interessi di Israele omettendo al contempo ogni riferimento agli interessi palestinesi.

Strane reazioni

La Coalizione degli Ebrei Repubblicani, formata in gran parte da ricchi uomini d’affari e da miliardari di Wall Street filo-israeliani, ne ha fatto ossequiosamente le lodi, definendolo una “proposta coraggiosa ed equilibrata, profondamente ancorata ai valori fondamentali dell’America, che sono la libertà, le opportunità e la speranza nel futuro.”

Chi non ne sapesse abbastanza potrebbe pensare che il piano stilato dal genero di Trump, Jared Kushner, sia l’equivalente attuale della Dichiarazione d’Indipendenza e della Magna Carta messe insieme.

I deputati ebrei del Congresso, che sono in maggioranza democratici e stretti alleati della lobby israeliana, hanno avuto reazioni stranamente apatiche, moderando i loro elogi. Eliot Engel, presidente della commissione Affari Esteri della Camera dei Rappresentanti ha dichiarato: “Come mi piace dire, il diavolo sta nei dettagli. Abbiamo visto la proposta. Non l’ho studiata attentamente. Ci sono buone ragioni per sperare.”

Anche Ted Deutch, altro rappresentante ebreo vicino alla lobby, ha fatto commenti positivi, dichiarando che l’accordo di Trump “sembra garantire la possibilità di una soluzione a due Stati…Penso e spero che il dialogo continui e porti a negoziati tra le parti.”

Il capo della minoranza democratica al Senato, Chuck Schumer, nelle sue considerazioni al riguardo stranamente non ha espresso nessun parere sul piano di Trump. Si è limitato a ripetere il proprio sostegno a una soluzione a due Stati, senza pronunciarsi nel merito dell’accordo. È una dichiarazione senza esserlo.

Rispondere alla lobby filoisraeliana

Ciò che è curioso riguardo a queste reazioni è che, nel momento stesso in cui i democratici sono nel pieno della procedura per la destituzione del presidente, i democratici ebrei si pronunciano a favore di un piano che quasi tutti, dai candidati democratici alle elezioni presidenziali al principale giornale progressista israeliano, Haaretz, hanno universalmente condannato.

È possibile che questi politici non si preoccupino di quello che la comunità ebraica americana pensa di questo piano. Un sondaggio condotto l’anno scorso da J Street [associazione di ebrei americani moderatamente critici con l’occupazione, ndtr.] presso potenziali elettori alle primarie democratiche ha rilevato che solo il 12% di chi ha risposto aveva una buona opinione del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, mentre un altro sondaggio della Commissione Ebraica Americana che ha interpellato americani di religione ebraica ha concluso che il 59% di loro disapprova la gestione dei rapporti israelo-americani da parte di Trump.

Tuttavia i democratici filoisraeliani non rispondono all’elettorato ebraico medio, ma piuttosto alla lobby filoisraeliana e ai suoi ricchi donatori, che finanziano le loro campagne elettorali. Non ci sono altre spiegazioni logiche al fatto che manifestino un sostegno, pur se modesto, a una proposta così mal formulata da parte di un presidente repubblicano in disgrazia.

L’Unione per la Riforma dell’Ebraismo da parte sua ha pubblicato questo timido comunicato: “Salutiamo ogni tentativo per riportare la pace e pensiamo fermamente che un Israele sicuro da una costa all’altra con uno Stato palestinese vitale sia nell’interesse della politica estera americana e, ovviamente, del futuro di Israele in quanto Stato democratico ed ebraico.”

Continua esprimendo delle “preoccupazioni” relative alla promessa di Netanyahu di “imporre, unilateralmente, il diritto degli ebrei su tutte le colonie della Cisgiordania e della Valle del Giordano proposte per lo status finale in base al piano di Trump”, definendo l’iniziativa “pericolosa per l’avvenire di Israele e per la stabilità e la pace nella regione.”

Al contempo diversi gruppi dal centro alla sinistra hanno unanimemente criticato l’accordo. I sionisti liberal di J Street, rigorosamente schierati con il partito Democratico, l’hanno definito l’“apogeo logico delle ripetute misure in malafede che questa amministrazione ha preso per confermare il programma della destra israeliana, per impedire la realizzazione di una soluzione dei due Stati praticabile e negoziata e per assicurarsi che l’illegale occupazione dei territori palestinesi in Cisgiordania da parte di Israele diventi permanente.”

Hanno cercato di utilizzare l’annuncio a proprio vantaggio, come uno strumento dell’organizzazione per rafforzare la propria base di appoggio. Hanno persino lanciato su Twitter l’hashtag #peacesham (pace truffa).

Piano dell’apartheid”

Jewish Voice for Peace [Voce Ebraica per la Pace], la più grande organizzazione progressista del Paese, ha condannato il piano in modo ancora più deciso, definendolo “piano dell’apartheid” e “un diversivo di due guerrafondai che danno la priorità alle proprie campagne elettorali personali su qualunque parvenza di capacità politica.”

Il candidato ebreo alla presidenza, Bernie Sanders, è parso esitare a inserire la sua risposta nella sua campagna elettorale, che è in pieno svolgimento con le primarie in Iowa. Il suo ufficio al Senato ha pubblicato il seguente comunicato: “Ogni accordo di pace accettabile deve corrispondere al diritto internazionale e alle molteplici risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Deve porre fine all’occupazione israeliana iniziata nel 1967 e permettere l’autodeterminazione dei palestinesi nel loro Stato indipendente, democratico ed economicamente sostenibile accanto a uno Stato israeliano sicuro e democratico. Il cosiddetto ‘accordo di pace’ di Trump è ben lontano da ciò e non farà altro che perpetuare il conflitto.”

Paragonata alle sue veementi denunce contro le “élite imprenditoriali miliardarie”, questa risposta è stranamente moderata per Sanders. Ciò potrebbe riflettere la sua convinzione che un atteggiamento realmente progressista verso Israele e la Palestina non sarebbe altrettanto ascoltato dall’elettorato che un’analisi economica di classe. Ma almeno è più consistente [di quella] di Chuck Schumer.

– Richard Silverstein è l’autore del blog « Tikum Olam » che mette in evidenza gli eccessi della politica della sicurezza nazionale israeliana. Il suo lavoro è stato pubblicato da “Haaretz”, “Forward”, “Seattle Times” e “Los Angeles Times”. Ha collaborato alla raccolta di saggi dedicati alla guerra del Libano del 2006 “A Time to speak out” [Il momento di parlare forte] (Verso) ed è l’autore di un altro saggio di una futura raccolta: “Israel and Palestine: Alternate Perspectives on Statehood” [Israele e Palestina: prospettive alternative di statualità] (Rowman & Littlefield).

Le opinioni espresse in questo articolo non impegnano che il suo autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)