No, per la Palestina e il Medio Oriente Trump non sarà peggio di Biden

Muhannad Ayyash – Professore di sociologia alla Mount Royal University di Calgary, Canada.

11 novembre 2024 – Al Jazeera

Perché l’amministrazione Biden ha semplicemente continuato la politica estera della prima amministrazione Trump nella regione.

All’indomani della vittoria elettorale dell’ex-presidente degli Stati Uniti Donald Trump, molti osservatori hanno previsto che la sua amministrazione sarebbe stata di gran lunga peggiore per la Palestina e il Medio Oriente. La sua retorica filo-israeliana e le sue minacce di bombardare l’Iran, dicono, sono indicative delle sue intenzioni in politica estera.

Ma un più attento esame della politica estera statunitense negli ultimi otto anni rivela che non cambierà niente di sostanziale per il popolo palestinese e per la regione nel suo insieme. L’amministrazione del presidente Joe Biden infatti ha di fatto continuato le politiche della prima presidenza Trump senza significativi cambiamenti. Certo, ci potrebbero essere sorprese e sviluppi imprevisti, ma la seconda amministrazione Trump continuerà nella stessa direzione che ha stabilito già nel 2017 e che Biden ha deciso di mantenere nel 2021.

Questa politica estera ha tre elementi principali. Il primo è la decisione di abbandonare ogni residua finzione circa il sostegno statunitense a favore di una “soluzione a due Stati”, in virtù della quale la Palestina godrebbe di piena autodeterminazione e sovranità all’interno dei confini del 1967 e avrebbe Gerusalemme Est come capitale.

La prima amministrazione Trump ha chiarito questo punto spostando l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, accettando l’annessione israeliana di territori palestinesi, incentivando l’espansione degli insediamenti coloniali illegali e sostenendo la creazione di una “entità palestinese” priva di sovranità.

Quello che l’amministrazione Trump ha offerto ai palestinesi è un po’ di sostegno economico in cambio della rinuncia ai loro diritti politici e aspirazioni di autodeterminazione.

Mentre l’amministrazione Biden ha sostenuto a parole la “soluzione a due Stati”, essa non ha fatto niente per promuoverne la realizzazione. Anzi, essa ha continuato le politiche avviate dall’amministrazione Trump che pregiudicano tale soluzione.

Biden non ha chiuso l’ambasciata statunitense a Gerusalemme e non ha fatto nulla per fermare l’espansione delle colonie o per contrastare gli sforzi israeliani tesi all’annessione di ampie porzioni della Cisgiordania occupata. Sebbene siano state applicate alcune sanzioni a coloni israeliani come singoli individui, si è trattato in gran parte di una mossa simbolica che non ha ostacolato il progredire degli insediamenti coloniali o l’espulsione dei palestinesi dalle loro case e dalle loro terre.

Inoltre l’amministrazione Biden ha accettato l’idea che qualsivoglia futuro Stato palestinese non avrà pieni diritti di autodeterminazione e sovranità.

Lo possiamo asserire perché l’amministrazione Biden sostiene che si può arrivare a uno Stato palestinese soltanto “attraverso negoziati diretti tra le parti”. Ma poiché Israele ha fatto capire sia a livello politico che legislativo che non accetterà mai uno Stato palestinese, la posizione dell’amministrazione Biden significa di fatto il rifiuto dell’autodeterminazione e della sovranità palestinesi.

Il secondo elemento della politica estera Trump-Biden è l’avanzamento della normalizzazione dei rapporti tra mondo arabo e Israele attraverso gli Accordi di Abramo. La prima amministrazione Trump ha avviato questo percorso con accordi di normalizzazione tra Israele e Marocco, Emirati Arabi Uniti e Bahrein. L’amministrazione Biden ha seguito con decisione questo percorso, profondendosi in sforzi considerevoli per normalizzare le relazioni tra Israele e Arabia Saudita. Non fosse per il genocidio in corso da un anno, ormai questo accordo di normalizzazione sarebbe già stato ottenuto.

Il percorso degli Accordi di Abramo comporta essenzialmente che gli Stati arabi riconoscano la piena sovranità di Israele sulla Palestina storica, mettendo fine alle rivendicazioni di restituzione e giustizia per il popolo palestinese. Esso negherebbe ai palestinesi il diritto al ritorno e abolirebbe lo status di rifugiato per i profughi palestinesi. Esso inoltre garantirebbe legittimazione e riconoscimento da parte del mondo arabo a un’entità palestinese creata su un territorio compreso tra il 5 e l’8 per cento della Palestina storica, dotata di limitata autonomia amministrativa e priva di ogni diritto all’autodeterminazione.

Il terzo elemento della politica Trump-Biden è il contenimento dell’Iran. L’amministrazione Trump ha notoriamente cancellato il Piano d’azione congiunto globale (JCPOA), che garantiva l’attenuazione delle sanzioni in cambio di limiti al programma nucleare iraniano. Essa ha inoltre imposto all’Iran sanzioni più severe e ha tentato di isolarlo politicamente ed economicamente. L’amministrazione Biden non ha ripristinato il JCPOA e ha mantenuto le stesse sanzioni contro l’Iran.

Per di più essa ha anche continuato a promuovere la strategia di Trump per l’instaurazione di un nuovo assetto economico e di sicurezza nella regione tra Israele e Stati arabi, tale da garantire gli interessi degli Stati Uniti e isolare l’Iran.

Se dovesse concretizzarsi, questo patto rafforzerebbe la capacità degli Stati Uniti di proiettare la propria potenza militare, garantirebbe loro l’accesso a risorse energetiche e rotte commerciali di primaria importanza e indebolirebbe la resistenza all’imperialismo statunitense, cosicché gli Stati Uniti si troverebbero in una posizione migliore per affrontare non solo l’Iran ma anche la Cina e altri avversari.

Così, in sintesi, nonostante le vuote dichiarazioni e il preteso impegno per i diritti umani, l’amministrazione Biden non ha fatto nulla di diverso dal suo predecessore. Entrambe le amministrazioni hanno lavorato negli ultimi otto anni per mettere fine alla lotta palestinese per l’autodeterminazione e la piena sovranità e creare un Medio Oriente in cui Israele gioca un ruolo economico e militare ancora più preminente nella difesa degli interessi imperiali statunitensi.

L’amministrazione Biden si è spinta ancora più in là, permettendo a Israele di trasformare il suo genocidio da lento in accelerato, laddove i palestinesi sono sterminati in numeri inimmaginabili e ampie porzioni di Gaza spopolate.

Sulla base dei proclami durante la campagna elettorale di Trump durante la campagna elettorale e dei consiglieri, finanziatori e sostenitori di cui si è circondato, ci sono tutte le ragioni per credere che la sua seconda amministrazione continuerà a spingersi in avanti lungo questo percorso bipartisan per eliminare la “Questione palestinese” una volta per tutte.

Possiamo aspettarci di vedere più sostegno incondizionato a Israele mentre annette ufficialmente la maggior parte della Cisgiordania, la colonizzazione israeliana permanente di parti della Striscia di Gaza, l’espulsione di masse di palestinesi con la scusa di perseguire “pace, sicurezza e prosperità” e l’avanzamento dell’integrazione economica e securitaria di Israele nella regione per indebolire l’Iran e i suoi alleati, Cina inclusa.

Coloro che intralciano questo piano sono il popolo palestinese con le sue aspirazioni nazionali di libertà ed emancipazione e autonomia così come altre nazioni nel mondo arabo che sono stanche di guerra, violenza politica, repressione e impoverimento.

L’amministrazione Trump tenterà di occuparsi di questa resistenza comprandola con incentivi economici e minacce di violenza e repressione. Ma questo approccio avrà – come ha sempre avuto – un impatto limitato.

La resistenza a questi piani continuerà perché i palestinesi e altri nella regione capiscono che rinunciare al proprio diritto alla giustizia significa rinunciare alla propria stessa identità di essere umano libero e provvisto di dignità. E le persone preferirebbero subire le minacce dell’impero piuttosto che rinunciare alla propria umanità.

Ciò significa che in ultima istanza non solo la resistenza continuerà, ma probabilmente crescerà e si intensificherà, portando il mondo più vicino a un periodo di grandi guerre – l’esatto opposto di ciò per cui gli americani hanno votato alle elezioni del 5 novembre.

I palestinesi, insieme ad altre nazioni nella regione e, in una certa misura, agli americani comuni, soffriranno le conseguenze di una politica estera bipartitica che ha messo gli Stati Uniti sulla via fondamentalmente essenzialmente distruttiva del genocidio e della guerra.

Le posizioni espresse in questo articolo sono quelle dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

(traduzione dall’inglese di Giacomo Coggiola)




Perché i democratici sono i collaboratori perfetti di Israele nel genocidio

Tariq Kenney-Shawa

29 ottobre 2024 – +972 Magazine

Occultando l’appoggio a Israele con vuoti gesti umanitari ed empatia verso i palestinesi Biden e Harris hanno indebolito la pressione per porre fine alla guerra

Nell’ultimo anno abbiamo assistito al fatto che il presidente Joe Biden ha elevato il “rapporto speciale” tra USA e Israele a nuovi livelli. Da rifornire le scorte di armi di Israele e difenderlo dal dover pagare le conseguenze delle sue azioni a livello internazionale a schierare risorse e personale statunitensi a difesa di Israele, l’amministrazione Biden ha fatto di tutto e di più per garantire che Israele non solo potesse sostenere il suo attacco senza precedenti contro Gaza, ma che non dovesse accollarsi l’intero costo della guerra.

Biden ha iniziato la sua campagna per la rielezione competendo con Donald Trump per il titolo di “miglior amico di Israele”, una corsa grottesca verso il basso che è diventata una tradizione durante il periodo elettorale statunitense. Così quando il presidente alla fine ha deciso di rinunciare, alcuni erano speranzosi che la vicepresidente Kamala Harris ci avrebbe liberati da questa spirale verso il basso. Sono rimasti presto delusi.

I mezzi di comunicazione hanno insistito con entusiasmo sul fatto che Harris sembrava dimostrare “una maggiore comprensione ed empatia verso i palestinesi,” e hanno ipotizzato che questa differenza potrebbe portare in prospettiva a un cambiamento di politica. Ma nei mesi successivi alla sua designazione alla testa della candidatura democratica Harris ha messo in chiaro di essere pronta e desiderosa di continuare con la disastrosa eredità di Biden per i prossimi 4 anni.

E mentre la stragrande maggioranza degli israeliani preferisce Trump a Harris e l’ex-presidente sicuramente rimane il candidato preferito tra i dirigenti più estremisti del Paese, essi potrebbero sbagliarsi. Perché se guardi oltre la posizione di parte, non solo Biden passerà alla storia come il più fedele alleato di Israele, ma la strategia che lui e i suoi sostenitori democratici hanno accolto, mascherando il loro supporto incondizionato a Israele dietro l’apparente preoccupazione per i diritti umani, ha giocato un ruolo cruciale nel consentire a Israele di cavarsela così a lungo nonostante il genocidio.

Biden, un convinto sionista

A dire il vero il “rapporto speciale” dell’America va molto oltre Biden. Ma quando l’appoggio incondizionato a Israele è diventato una minaccia per gli interessi regionali e statunitensi, i presidenti che l’hanno preceduto, da Harry Truman a Dwight D. Eisenhower, da Ronald Regan a George Bush Sr., hanno posto dei limiti reali.

A 81 anni Biden è il presidente più anziano della storia degli USA, con una carriera politica che dura da oltre mezzo secolo e che lui ha costruito con l’aiuto della lobby filo-israeliana. Una volta si è vantato di aver “creato più finanziatori per l’AIPAC [principale organizzazione della lobby filo-israeliana negli USA, ndt.] negli anni ’70 e inizio ’80… di chiunque altro,” e in cambio il presidente ha ricevuto più finanziamenti dalla lobby di Israele di qualunque altro politico statunitense dal 1990.

Con questo appoggio Biden ha imparato che, mentre la lobby israeliana può portare una carriera politica a livelli mai visti, può altrettanto facilmente distruggerla: persino la più moderata critica alla politica israeliana rischia di scatenare la collera degli influenti apologeti di Israele. I costi politici di qualunque cosa che sia meno di una fedeltà incondizionata a Israele sono particolarmente alti durante il periodo elettorale, e il 2024 non fa eccezione. Biden considera il “rapporto speciale” un pilastro fondamentale delle più generali priorità geostrategiche dell’America. Da agire come un alleato fondamentale durante la Guerra Fredda a fungere da base operativa avanzata per l’espansione della potenza americana, proteggere Israele ha a lungo occupato l’epicentro degli interessi USA in Medio Oriente.

Tuttavia, come egli ama ricordarci, l’appoggio di Biden a Israele è sempre stato guidato soprattutto da una dedizione ideologica al progetto sionista: “Non c’è bisogno di essere ebreo per essere sionista, e io sono un sionista,” Biden ha ripetutamente dichiarato. “Se non ci fosse stato Israele l’America avrebbe dovuto inventarlo.”

Biden è diventato maggiorenne durante l’ascesa di Israele, assorbendo una sfilza di miti a senso unico che giustificarono la fondazione dello Stato ad ogni costo. Al tavolo da pranzo di famiglia il padre di Biden, Joseph R. Biden Sr., parlava a suo figlio degli orrori della II Guerra Mondiale, insistendo sul fatto che l’unico modo per impedire un secondo Olocausto era soprattutto proteggere Israele.

Per Biden e la sua generazione Israele è stato una affascinante storia di redenzione in cui i palestinesi erano totalmente assenti. È per questo che nella visione di Biden gli israeliani uccisi il 7 ottobre sono stati “assassinati”, “massacrati” e “non solo uccisi, ma trucidati.” Ma quando descrive la strage di palestinesi Biden assume un tono diverso: “Non ho idea se i palestinesi stanno dicendo la verità su quante persone sono state uccise. Sono sicuro che siano stati uccisi innocenti, ed è il prezzo di intraprendere una guerra.”

Si metta a confronto la profonda ammirazione di Biden per Israele con il suo evidente disprezzo per i palestinesi e gli arabi ed ecco un’immagine chiara della visione del mondo che informa il modo in cui prende le sue decisioni politiche.

Utilizzare l’umanitarismo come arma

Ma, al di là del personale impegno e dei pregiudizi di Biden, lui, Harris e i dirigenti democratici personificano una più ampia strategia liberale: l’ipocrita accoglimento delle leggi umanitarie internazionali e l’imposizione selettiva del cosiddetto ordine mondiale “basato sulle norme”.

Durante l’anno scorso abbiamo visto Biden e Harris utilizzare come arma questi affascinanti aspetti del liberalismo facendo leva su di essi per distrarre dal fatto che in realtà loro stessi stavano aiutando Israele a commettere un genocidio. Così facendo hanno effettivamente evitato una resistenza maggiore a queste politiche in patria e anche i tentativi internazionali per intervenire.

Un utile esempio delle conseguenze di ciò è l’ormai infame “molo umanitario” che l’amministrazione Biden ha promosso come soluzione per fare in modo che gli aiuti umanitari superassero il blocco israeliano. Il molo è stato un disastro tecnico, crollato nei marosi dopo aver fallito nel consegnare aiuti e costato ai contribuenti USA oltre 230 milioni di dollari. Ma quello che è riuscito a fare è stato distrarre temporaneamente l’attenzione dal rifiuto dell’amministrazione Biden di utilizzare la propria notevole influenza per imporre a Israele di smettere di limitare l’aiuto umanitario a Gaza. Così facendo ha concesso a Israele più tempo per affamare la Striscia.

Da parte sua la copertura dei principali media si è concentrata più sull’innocua retorica e presunta “frustrazione” di Biden con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che sull’appoggio della sua amministrazione allo sforzo bellico israeliano. In questo modo ha creato l’impressione che un [qualsiasi] cambiamento nella strategia israeliana sarebbe comunque consistito solo in un ulteriore netto rifiuto, ignorando l’evidente realtà della complicità USA.

Sebbene Harris potrebbe non nutrire lo stesso zelo sionista di Biden, ha ripetutamente promesso che continuerà con il lascito genocida di Biden. Quando non ha evitato le domande su perché i tentativi “incessanti” della sua amministrazione di garantire un cessate il fuoco siano finora falliti e come il suo approccio sarà differente da quello di Biden, Harris ha ripetuto il suo “impegno per la difesa di Israele e la sua possibilità di difendersi.”

Ciò potrebbe suonare come un vago slogan, privo di definizione politica. Ma l’intento è quanto più esplicito possibile: Harris continuerà a utilizzare il potere statunitense per proteggere Israele dall’ essere chiamato a rispondere del perseguimento della “difesa di Israele” e continuerà a far arrivare armi per garantire che Israele possa “difendersi”. La retorica empatica di Harris, che non si allontana molto da quella di Biden, sarà altrettanto vuota ed estraniante.

Un “male minore”?

Molti di quelli che si oppongono all’attuale appoggio incondizionato dell’attuale amministrazione a Israele hanno sostenuto che, con Trump come alternativa, Biden e Harris rappresentano comunque il “male minore”. Ma questo modo di ragionare ignora sia le conseguenze di questa retorica vuota e ingannevole sull’opposizione in patria e all’estero, sia il fatto che questa riproposta politica dell’amministrazione di Biden e Harris, anche molto prima del 7 ottobre, rispecchia da vicino quella del suo predecessore.

Fin dal primo giorno l’amministrazione Biden ha confermato le iniziative più controverse di Trump, lasciando l’ambasciata USA a Gerusalemme, riconoscendo la sovranità israeliana sulle Alture del Golan, non riaprendo la rappresentanza dell’OLP a Washington e cercando disperatamente accordi di normalizzazione tra Israele e i suoi vicini arabi che cancellino del tutto i palestinesi. Mentre Biden ha ripreso i finanziamenti all’UNRWA, la sua amministrazione li ha di nuovo rapidamente tagliati sotto la pressione di una campagna israeliana di calunnie.

L’unica differenza politica riconoscibile è stata la campagna di sanzioni largamente inefficace di Biden che ha preso di mira coloni israeliani che continuano ad attaccare i palestinesi in tutta la Cisgiordania. Nel contempo l’amministrazione Biden ha dato a Israele più assistenza finanziaria e militare di ogni precedente governo.

Al momento la principale differenza riguarda il discorso. Ma quando Trump dice che lascerebbe che Israele “finisca il lavoro” a Gaza almeno è onesto, rendendo impossibile ignorare la complicità degli USA. Il razzismo esplicito e scioccante di Trump, che per esempio usa “palestinese” come un insulto, crea un bersaglio chiaro. Invece Biden e Harris occultano il loro appoggio a Israele dietro un linguaggio di umanitarismo, cullando elettori e attivisti nella condiscendenza mentre consentono comunque a Israele di “finire il lavoro”.

Non ci sono dubbi che migliaia di palestinesi sarebbero morti comunque indipendentemente da chi avesse occupato la presidenza americana lo scorso anno. Ma, data la nota imprevedibilità di Trump, è difficile, se non inutile, sapere esattamente che caratteristiche avrebbe avuto il ruolo degli USA nel genocidio.

Anche un’amministrazione Trump “America first” [prima l’America] avrebbe speso più in aiuti militari a Israele di qualunque altra amministrazione o piuttosto si sarebbe concentrata su altre priorità di politica internazionale, come accentuare la competizione con la Cina? Dato che Trump non condivide l’impegno ideologico personale di Biden verso Israele, avrebbe consentito a Israele di estendere la sua guerra in tutta la regione se ciò avesse significato affossare le speranze dell’allargamento degli Accordi di Abramo per includere una normalizzazione tra l’Arabia Saudita e Israele?

Cosa ancora più importante, se Trump fosse stato presidente, gli attori nazionali e internazionali sarebbero stati spronati ad opporsi al genocidio israeliano e alla complicità statunitense con maggiore vigore attraverso appelli per l’embargo alle armi, sanzioni o disinvestimenti? Il movimento contrario al genocidio negli USA sarebbe stato così ampiamente calunniato o si sarebbe esteso per includere un’ampia coalizione di liberal e progressisti, uniti nell’opposizione all’estremismo di Trump?

È indubbio che la lealtà del Partito Democratico ha silenziato l’opposizione contro la complicità dell’amministrazione Biden nel genocidio. E si potrebbe sostenere che la comunità internazionale non ha sentito l’urgenza di controbilanciare l’indifferenza di Washington nei confronti delle leggi internazionali allo stesso modo in cui lo avrebbe fatto se le avesse violate Trump.

Tra l’estremismo esplicito e l’empatia performativa

Dopo più di un anno di genocidio mandato in onda in tutto il pianeta con raccapricciante dettaglio, ci dobbiamo chiedere cosa avrebbe ottenuto un più esteso, più politicamente variegato movimento contrario al genocidio sia negli USA che all’estero, motivato da interessi condivisi per destituire Trump. Perché tutto quello che l’amministrazione di Biden e Harris ha fatto è stato perpetrare lo stesso genocidio sotto un’apparenza di legittimità, diffondendo pressioni con frasi fatte sulla pace mentre accentuava la complicità statunitense.

Questo non è un appello per votare (o scoraggiare dal votare) qualcuno. I democratici non “impareranno la lezione” perdendo gli elettori contrari al genocidio; invece li incolperanno della vittoria di Trump e mineranno nei prossimi anni i tentativi di costruire un movimento più ampio ed efficace. Né dovremmo sottovalutare le conseguenze del fatto che Trump incoraggi Israele a “finire il lavoro” a Gaza, in Libano e in Iran, anche se ciò rappresenterebbe semplicemente una versione accelerata di quello che Israele sta già facendo con il tacito appoggio di Biden. Trump ha anche messo in chiaro che farà tutto quello che può per potenziare i tentativi bipartisan di reprimere tutte le organizzazioni filopalestinesi.

Ma dobbiamo riconoscere che c’è un pericolo non solo nell’esplicito estremismo, ma anche nell’empatia performativa che preserva attivamente lo status quo. Perché la verità è che non c’è un “male minore”. E mentre noi discutiamo di questo e siamo ossessionati dalle differenze tra amministrazioni che condividono gli stessi obiettivi genocidi ma utilizzano strategie diverse, la montagna di corpi palestinesi e libanesi non fa che crescere.

Tariq Kenney-Shawa è uno studioso di politica statunitense di Al-Shabaka, il gruppo di studio e rete politica palestinese. Ha conseguito un master in Affari Internazionali presso la Columbia University e un diploma di laurea in Scienze Politiche e Studi sul Medio Oriente all’università Rutgers. Le ricerche di Tariq sono concentrate su argomenti che vanno dal ruolo della narrazione nel perpetuare e resistere all’occupazione alle analisi sulle strategie palestinesi per la liberazione. Il suo lavoro è comparso tra gli altri su Foreign Policy, +972 Magazine, Newlines Magazine e the New Politics Journal.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




“Questa guerra è anche dell’America”: perché gli Stati Uniti non fermano l’attacco israeliano a Gaza

Meron Rapoport

2 settembre 2024 +972Mag

In seguito ai massacri di Hamas del 7 ottobre il presidente degli Stati Uniti Joe Biden si è recato in Israele per una visita di solidarietà. Ma pochi giorni prima del suo arrivo, mentre lo sforzo bellico si intensificava, aveva lanciato un brusco avvertimento: “Ho chiarito agli israeliani che ritengo sia un grosso errore per loro pensare di occupare Gaza e mantenere il controllo su Gaza”, ha detto ai giornalisti.

Da allora Biden ha ribadito che Israele deve prevenire una crisi umanitaria ed evitare di nuocere ai civili, esortando i suoi leader a non ripetere gli errori commessi dagli Stati Uniti in Iraq e Afghanistan. Se Israele avesse invaso la città meridionale di Rafah, aveva minacciato Biden a marzo, Washington avrebbe smesso di fornire armi offensive.

Israele ha ignorato tutti gli avvertimenti: ha occupato Gaza, ha invaso Rafah, ha provocato una devastazione incommensurabile e ha sabotato ogni accordo di cessate il fuoco insistendo che le sue forze armate sarebbero rimaste nella Striscia. E invece di imporre qualche sanzione, gli Stati Uniti hanno dislocato due volte le proprie forze armate nella regione per “metterci una pezza” dopo che il loro alleato aveva compiuto omicidi ad alto livello a Damasco, Beirut e Teheran.

Ma gli Stati Uniti non sono in grado o semplicemente non sono disposti a imporre le proprie richieste a Israele? Questa guerra dimostra forse che Israele è un peso piuttosto che una risorsa strategica, come molti a Washington sostengono da tempo? E data la crescente opposizione all’interno del Partito Democratico al sostegno incondizionato a Israele e il risentimento tra gli elettori democratici in vista delle elezioni di novembre, perché l’amministrazione Biden non ha cambiato rotta?

La risposta a queste domande è molto semplice, dice Daniel Levy, presidente del Progetto USA/Medio Oriente: Washington non ferma Israele perché questa è anche una sua guerra.

Ex consigliere della squadra negoziale israeliana durante il processo di pace di Oslo, e ora largamente riconosciuto come acuto critico di Israele, Levy ha parlato con +972 e Local Call [versione israeliana di +972, ndt.] della necessità di moderare le aspettative sui cambiamenti che si stanno verificando nella politica americana e nella società nei confronti di Israele. Invece di aspettare che Washington cambi le sue politiche, ha sottolineato, sia i palestinesi che la sinistra israeliana dovrebbero riconoscere le diverse realtà geopolitiche che li circondano e abbandonare la fantasia che l’America possa risolvere i loro problemi.

Questa conversazione è stata rivista per motivi di lunghezza e chiarezza.

Non ricordo nella politica americana che la questione palestinese abbia mai occupato una National Convention dei democratici, o che sia stata una questione così controversa com’è adesso. Israele ha sempre avuto un sostegno bipartisan: non c’è mai stato alcun dibattito. Mi sbaglio?

Hai completamente ragione. Dunque per me la domanda è: com’è che abbiamo avuto 10 mesi di guerra orribile? Con tutto ciò che sappiamo su Netanyahu, Smotrich e Ben Gvir, e con tutto ciò che sappiamo sull’opinione pubblica americana e sugli elettori democratici, come può essere che il Partito Democratico sia totalmente riluttante a imprimere un cambiamento significativo nella narrativa pubblica o nella politica di impunità? Permette letteralmente a Israele di farla franca qualsiasi cosa faccia.

Facciamo un passo indietro. Cosa è cambiato nell’opinione pubblica americana nei confronti di Israele-Palestina negli ultimi 10 mesi?

Ciò che è accaduto è l’accelerazione di una tendenza esistente da molto tempo [il declino del sostegno americano a Israele]. Una delle cose principali [che guidano questa tendenza] sono i cambiamenti [politici] in Israele, e negli Stati Uniti gli americani stanno unendo i puntini e vedono ora Israele-Palestina come una questione di giustizia razziale e intersezionalità [sovrapposizione (o “intersezione”) di diverse identità sociali e le relative possibili particolari discriminazioni, ndt.]

Avevamo un’espressione [per gli americani liberali ancora filo-israeliani]: “PEP” – Progressisti tranne che con la Palestina. Ma ora, dal lato progressista, si paga un prezzo se la propria politica su Palestina e Israele è decisamente fuori sincronia con il resto di quella politica.

Quindi ora è PEP – Progressista, soprattutto con la Palestina?

Non lo direi. Ma la cosa interagisce con i cambiamenti in Israele. Il più evidente è una leadership israeliana che non tenta nemmeno di mascherare la propria natura di apartheid o il proprio razzismo. In secondo luogo non c’è nessun parlamentare della sinistra sionista in Israele che possa rivolgersi non certo ai progressisti, ma anche al più rilevante “centro-sinistra” moderato con una certa credibilità, visto che le loro posizioni sono così spaventose, così poco progressiste, persino illiberali.

In questa equazione bisogna inserire anche il rafforzamento dell’alleanza tra la destra israeliana e quella americana, che ha iniziato a far sì che i democratici si chiedessero: “A che gioco giochiamo?”. Israele è una causa globale di destra, ma lo è soprattutto in America e in Israele; la quasi totalità del campo sionista ha abbracciato questo [fatto], anche quelli che dicono che si dovrebbe essere più bipartisan.

L’altra cosa [che ha scosso l’opinione pubblica] è il tempo: l’occupazione sembra essere eterna ed è evidente che Oslo è diventato un meccanismo per la bantustanizzazione.

Quanto ha influito il 7 ottobre e quello che vi ha fatto seguito?

C’è stata la contrapposizione tra un’amministrazione che [quando si è trattato dell’invasione russa dell’Ucraina] ha affermato di essere “sostenitrice del diritto internazionale e dell’ordine internazionale basato sulle regole” – e poi ha totalmente messo da parte e scartato tutto ciò [dopo il 7 ottobre], con un presidente del tutto incapace ad accordare umanità ai palestinesi di fronte a una realtà tanto orrenda.

L’amministrazione Biden sta facendo esattamente il contrario di ciò che ha a lungo sostenuto sull’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, e questo ovviamente genera una controreazione. Tutte queste cose ribollivano sotto la superficie in attesa di emergere.

Nel suo discorso alla Convention democratica, Kamala Harris ha sottolineato il diritto di Israele a difendersi, ma ha anche parlato della sofferenza dei palestinesi a Gaza, promettendo di lavorare affinché “il popolo palestinese possa realizzare il proprio diritto alla dignità, alla sicurezza, alla libertà e all’autodeterminazione”. Il pubblico ha applaudito quella frase più di ogni altra dell’intero discorso.

Ho visto due analisi del discorso: per il sito di notizie israeliano Ynet, Nadav Eyal ha scritto che Israele ha ottenuto esattamente ciò che voleva da Harris; il sito di notizie progressista americano Vox, nel frattempo, ha scritto che Harris ha presentato un approccio al conflitto diverso da quello di Biden, più favorevole ai palestinesi. Come vedi il suo discorso?

Penso che abbia ottenuto ciò che voleva: che entrambi i generi del giornalismo potessero esprimersi e che potessero appoggiarlo sia l’AIPAC [American Israel Public Affairs Committee, potente gruppo di lobbying filo-israeliana, ndt.] che J Street [gruppo statunitense progressista di promozione dell’azione americana per porre fine al conflitto arabo-israeliano, ndt.] Ma se guardiamo al movimento per i diritti dei palestinesi o al Movimento Uncommitted [campagna di protesta affinché Joe Biden e Kamala Harris raggiungano un cessate il fuoco nella guerra Israele-Hamas e impongano un embargo sulle armi a Israele, ndt.] non sono affatto presi in considerazione. Il modo in cui la Convention ha trattato la questione dice tutto quello che serve sapere sui modi in cui le cose non stanno cambiando – per esempio, [il fatto che non ci fosse] nessun portavoce o punto di vista palestinese sul palco.

Harris può ben parlare delle cose brutte che sono accadute ai palestinesi, ma dalle sue parole non si capisce chi le ha causate: un disastro naturale? un terremoto? Quando Hamas fa qualcosa di brutto viene denunciato e svergognato; ma quando accadono cose brutte ai palestinesi, non si ammette mai che sono causate da Israele.

Le sfumature e le differenze tra Biden e Harris esistono, e contano, ma dobbiamo comunque approfondire. L’aspettativa che gli Stati Uniti risolveranno la questione è totalmente fuori luogo. Questo è un fallimento di almeno una parte del campo progressista israeliano che guarda all’America per salvare Israele da se stesso: è totlmente irrealistico, roba da paese delle fate. Questa è anche la guerra dell’America. Israele non avrebbe potuto farcela senza tutte le armi che l’America gli ha fornito. A meno che la politica americana e proprio la coscienza del suo interesse nazionale non cambino, non c’è motivo di pensare che qualcosa cambierà in modo significativo.

Questa può anche essere una guerra dell’America, ed è vero che nessuno del movimento Uncommitted ha parlato, ma la Palestina era ed è ancora oggi la questione più controversa nel Partito Democratico. Come vedi questi cambiamenti?

Sicuramente non sto dicendo che qui non ci sia storia. Ci sono segnali molto positivi e importanti che costruiranno qualcosa, non scompariranno. Ma non credo che siamo vicini a un punto di svolta.

Quando interpretiamo erroneamente la profondità e il ritmo del cambiamento in America si tratta di un autogol in due sensi. In primo luogo, gli stessi americani hanno l’impressione che basti che [i politici] mandino questi piccoli indizi – che Harris rappresenti uno spostamento in questo senso di tre gradi rispetto a Biden –per aver fatto abbastanza, e che questo abbia effettivamente un effetto concreto.

In secondo luogo, quando si monta questa aspettativa irrealistica, si aiuta [a rafforzare in Israele] la narrativa di “Bibi il Mago” – che in qualche modo, sebbene gli americani stessero davvero per punire Israele, questo non è accaduto. Non succede in primo luogo perché non sarebbe mai successo. Ma nella narrativa israeliana si tratta di un’altra vittoria per Netanyahu: il mago lo ha impedito.

Torniamo ai cambiamenti avvenuti negli Stati Uniti nei confronti di Israele. Si poteva parlare di questi temi nel Partito Democratico 20 anni fa?

No, ma dove eravamo 20 anni fa? Importanti organizzazioni per i diritti umani, comprese quelle israeliane, hanno ora espresso accuse di apartheid [per quanto riguarda Israele], insieme a molti Stati e [probabilmente] alla stessa Corte internazionale di giustizia. Ma è ancora proibito parlarne negli ambienti politici democratici – del fatto che è verosimilmente in corso un genocidio, e che è chiaro che Israele sta commettento crimini e azioni illegali. Israele ha in gran parte perso sul piano della narrazione, ma non bisogna sottovalutare quante cose possono ancora essere controllate dal peso schiacciante del denaro e delle forze filo-israeliane.

Quindi Israele ha perso la causa ma si salva col denaro?

Soldi, narrazioni sull’antisemitismo (un impegno concertato che ha avuto molto successo) e il fatto che l’establishment ebraico americano sia rimasto totalmente accanto a Israele. Non una delle principali organizzazioni di retaggio ebraico dissente. L’Anti-Defamation League [ONG internazionale ebraica con sede negli USA, sostenitrice della politica israeliana, ndt.] è molto efficace nell’usare l’antisemitismo come un’arma e strumentalizzarlo e criminalizzare la libertà di espressione palestinese.

Ciò include J Street?

J Street esprime una critica abbastanza morbida. È diventato progressivamente più importante all’interno del Partito Democratico, ma sempre meno incisivo e significativo. JStreet può contare sulla carta su più membri [del Congresso], ma il contenuto della sua critica è sostanzialmente ininfluente.

Non chiedono sanzioni o aiuti condizionati?

Debolmente. Non si tratta solo di Israele; nelle elezioni primarie il Partito Democratico ha consentito quelle che vengono chiamate “campagne di spesa indipendente”. Le primarie più costose nella storia del Congresso si sono svolte in questo ciclo per cacciare Jamaal Bowman e anche Cori Bush [potenti lobby ebraiche spesero rispettivamente 15 e 8,5 milioni per sconfiggerli alle primarie, ndt.] In fin dei conti, quelle primarie sono state decise dai soldi, che hanno un’enorme influenza; altri politici dicono: “Mi piacerebbe stare dalla loro parte, ma non voglio perdere il mio posto per questo problema.” L’establishment democratico non ha difeso Bowman o Bush, anche se l’hanno pagata col calo di entusiasmo e mobilitazione della base elettorale.

Così, mentre il movimento per i diritti dei palestinesi ha costruito un movimento di forza popolare, le forze filo-israeliane hanno raddoppiato il potere finanziario. Il Partito Democratico avrebbe potuto dire che non avrebbe consentito campagne di spesa indipendente perché sono una parodia e una vergogna per la democrazia, ma non l’ha fatto – e quindi l’ha consentito alle forze filo-israeliane.

Quello che sto dicendo è che questo è un movimento importante e crescerà, ma se lo stimi troppo ne ricavi un’analisi politica sbagliata.

Se dovessi valutare il peso di ciascuno dei molti elementi che impediscono il cambiamento nei confronti di Israele-Palestina, quale diresti sia il fattore più importante?

Vorrei tentare la seguente analogia: il controllo delle armi è diventato una questione [popolare] per gran parte dell’elettorato americano, molto più che per la Palestina. Sì, ci sono i diritti del Secondo Emendamento [di detenere e portare armi, ndt.] e una cultura intorno [al possesso di armi], ma ciò che tiene in pugno il controllo delle armi in termini di cambiamenti legislativi e politici è il potere finanziario della lobby delle armi. Senza soldi in politica le cose sarebbero diverse.

È anche importante sottolineare che è un mondo diverso. Negli anni ’90 vivevamo in un mondo unipolare: era il momento americano, post-Unione Sovietica, pre-11 settembre, pre-Cina. Oggi vediamo ancora il mondo attraverso l’America, ma una strategia intelligente partirebbe dal fatto che l’America è nemica, non amica della pace in Medio Oriente.

Una diversa geopolitica ci aiuta a riconoscere questa circostanza. I paesi del Sud del mondo, guidati dal Sud Africa, hanno sostenuto la mossa per l’accusa di genocidio alla Corte Internazionale. I paesi del Sud del mondo hanno guidato il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia riguardo a tutta l’occupazione, con deposizioni da parte di Indonesia, Namibia, Malesia e alcuni stati arabi [tra gli altri].

Non sto suggerendo che ci sia un’egemonia mondiale migliore in attesa di sostituire l’America. Ogni Stato è amico dei propri interessi, non necessariamente di una vaga nozione di pace. Ma viviamo in un mondo in cui l’America non può più far valere comunque i propri interessi. E quindi la domanda cruciale, soprattutto per i palestinesi, è: perché continuare a guardare esclusivamente all’America come leader? È un errore terribile da parte dei palestinesi, ed è un errore nel quale anche gli israeliani dovrebbero evitare di cadere.

Pensando a Israele, ci dovrà essere una combinazione di cambiamento dall’interno e pressioni dall’esterno. Forse dovremmo pensare la stessa cosa per l’America: è necessario spingere per un cambiamento dall’interno, ma ci devono essere anche dei costi dall’esterno se l’America continua su questa strada. L’America può farla franca perché non sta pagando molto, ma penso che la dinamica stia cambiando.

Dopo che Blinken ha fallito clamorosamente nella sua ultima visita in Israele e ha elogiato Netanyahu invece di fare pressioni su di lui, perfino l’establishment della sicurezza israeliano ha iniziato a rendersi conto che la salvezza non verrà dagli Stati Uniti, definendoli una condanna a morte per la possibilità di raggiungere un accordo, liberare gli ostaggi e porre fine alla guerra. Quindi anche in Israele stiamo assistendo a questo cambiamento.

Penso che Blinken abbia ricevuto un incarico dal suo capo che non consentiva alcun progresso, ma lui lo ha portato a un livello inedito di stupidità e dilettantismo. Sarebbe utile se la gente [in Israele] smettesse di aspettarsi che gli Stati Uniti risolvano tutti i loro problemi, allora effettivamente si potrebbe avere una vera opposizione.

Ma al momento non c’è niente. Liberman [leader di un partito conservatore ed ex Ministro della Difesa, ndt.] continua a salire nei sondaggi dicendo che dovremmo far morire di fame Gaza. Gantz dice che avremmo dovuto combattere una guerra più ampia con Hezbollah molto tempo fa. Lapid va in giro per il mondo dicendo che ogni protesta palestinese è antisemita e che il BDS è il più antisemita.

Quando è stato chiaro che Netanyahu aveva nuovamente rifiutato la richiesta americana di ritirare le truppe dal corridoio Philadelphi, ho visto un momento su Al Jazeera in cui il conduttore chiedeva al suo intervistato: “Come è possibile che Israele dica no al paese più forte del mondo e ne esca illeso?” Che impatto pensi che il rifiuto di Israele avrà sullo status degli Stati Uniti nella regione?

La scuola pragmatica del pensiero americano sulla sicurezza nazionale considera questo un disastro per gli interessi americani e profondamente dannoso per la reputazione dell’America – e che l’America possa essere coinvolta dal suo alleato in un’azione militare molto più estesa. Ciò ha generato un’altra ondata di rabbia globale contro l’America, perché questa è anche una guerra dell’America.

Israele deve anche chiedersi se ha interesse a contribuire all’indebolimento dell’America. Il fatto che Israele sia in grado di mostrare agli Stati Uniti chi è che comanda influisce concretamente sul modo in cui l’America viene percepita a livello globale. La narrazione di Bibi secondo cui “Ci difenderemo da soli, non abbiamo bisogno di nessuno” si è rivelata la più grande stronzata. Come può essere nell’interesse di Israele indebolire l’America proprio quando ne ha più bisogno? Ma in un momento in cui Israele appare militarmente più debole e la capacità dell’Asse della Resistenza è cresciuta, Israele sta minando l’America e allo stesso tempo ci fa più affidamento.

Non ho l’impressione che [i decisori israeliani stiano] discutendo di questo a porte chiuse. Forse lo fanno, ma sono sorpreso che non si palesi un’analisi strategica più chiara.

Penso che ci sia un riconoscimento tra i vertici israeliani che le cose non stanno andando nella giusta direzione, ma non hanno il coraggio o la capacità di cambiarle. Ma gli Stati Uniti non vedono questo processo? Non sono tutti stupidi. E perché Washington ha bisogno di Israele?

Sono sicuro che ci sia un analista israeliano da qualche parte al Pentagono che ha scritto un articolo proprio su quanto Israele sia in pericolo a causa di ciò che sta facendo. Pensiamo che questo riesca a risalire tutta la catena di comando? Ne dubito.

Ma sul pericolo per gli interessi degli Stati Uniti, penso che sia una di quelle cose per cui l’America dice: sì, ce lo dicono da secoli ma non succede. L’America pensa ancora di poter ammortizzare il costo che sta pagando.

Poi c’è il problema di come Israele interpreta il mondo e la regione, e quale sia l’alternativa da offrire a Netanyahu. L’opposizione sembra suggerire di poter fare causa comune con l’America e gli Stati arabi [alleati] contro l’Asse della Resistenza, ma per farlo devono dare qualcosa, anche molto poco, ai palestinesi.

Anche se è vero che la maggior parte degli Stati arabi non sono sostenitori dell’Iran, non vogliono una guerra. L’Arabia Saudita e l’Iran hanno raggiunto un’intesa sotto l’ombrello diplomatico cinese. L’Arabia Saudita vuole per lo meno evitare rischi con l’Iran. Gli Emirati Arabi Uniti hanno relazioni economiche molto forti con l’Iran. L’Iran è ora molto più legato alla cooperazione con Cina e Russia, come si vede nell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai. L’Iran si sta ora unendo ai BRICS. La geopolitica è davvero cambiata, quindi dobbiamo pensare a come raggiungere una riduzione globale della tensione, e l’Iran dovrà parteciparvi.

Questo è il vero cambiamento: le dinamiche geopolitiche nella regione e l’indebolimento degli Stati Uniti.

Sì, esattamente.

E pensi che abbia già avuto un effetto?

Penso di sì. L’Iran ha meno bisogno dell’Occidente, poiché l’asse alternativo sta diventando sempre più forte. Le élite arabe sono piuttosto radicate nel loro orientamento e lusso occidentale, ma le realtà dell’economia globale – le catene globali di approvvigionamento e le materie prime, l’iniziativa [cinese] Belt and Road – sono realtà strutturali e tangibili, e significano che il centro di gravità si sta spostando.

Poco prima del 7 ottobre, a margine della riunione del G20 a Delhi, c’è stato l’annuncio della creazione di un corridoio India-Medio Oriente-Europa, compresa Israele, come concorrente della Belt and Road Initiative. Non ne verrà fuori nulla. La Belt and Road Initiative è reale; questo IMEC, un treno da Delhi a Tel Aviv, è un bel sogno.

Se oggi dovessi progettare un nuovo sforzo per la pace, farei di tutto per rompere il monopolio americano. Ciò significa che i palestinesi devono fondamentalmente spostare i loro pensieri da un presunto primato statunitense o occidentale e devono usare la geopolitica a proprio vantaggio.

Concordo ed è mia convinzione che l’elemento più significativo del sostegno statunitense a Israele non consista nelle armi che invia, ma nella copertura politica che fornisce: un veto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite contro le risoluzioni anti-israeliane, comprese quelle che possono arrivare dalla Corte Internazionale di Giustizia. Delle pressioni sull’America possono influenzare proprio questo.

Sono d’accordo con te. E c’è un’altra cosa: forse da parte americana c’è molto cinismo in alcune parti del ragionamento. Considerano Israele militarmente potente e in grado di fare una parte di ciò di cui l’America ha bisogno per prevenire un egemone regionale ostile [l’Iran] – quindi, sotto questo aspetto, pensano che Israele sia eccezionale. E se gli israeliani si autodistruggono, Washington troverà un’altra soluzione.

Questo è il problema. Guarda l’America con l’Ucraina: sono felici di combattere la Russia fino all’ultimo ucraino. Perciò l’America non agisce così per profondo amore, ma perché Israele è utile: combatti Hamas e Hezbollah, e se per te le cose finiscono in modo disastroso, troveremo un altro modo di constrastarli.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




“Non possiamo restare in silenzio su ciò che abbiamo visto”. I medici americani volontari a Gaza chiedono il cessate il fuoco in una lettera alla Casa Bianca.

Sahar Akbarzai

26 luglio 2024 CNN


Un gruppo di 45 medici e infermieri americani che hanno fatto volontariato negli ospedali di Gaza hanno inviato una lettera aperta al presidente degli Stati Uniti Joe Biden e alla vicepresidente Kamala Harris raccontando le loro esperienze e chiedendo un cessate il fuoco immediato e un embargo sulle armi.

I firmatari hanno descritto all’unanimità di aver curato bambini che avevano subito ferite che, secondo loro, erano state inflitte deliberatamente. “In particolare, ognuno di noi ha curato quotidianamente bambini non ancora adolescenti che erano stati colpiti alla testa e al petto”, hanno scritto.

“Vorremmo che poteste vedere gli incubi che tormentano molti di noi da quando siamo tornati: sogni di bambini storpiati e mutilati dalle nostre armi e le loro madri inconsolabili che ci supplicano di salvarli. Vorremmo che poteste sentire i pianti e le urla che le nostre coscienze non ci lasceranno dimenticare”.

Molti membri del gruppo hanno esperienze di volontariato in altre zone di conflitto come l’Ucraina e l’Iraq, riporta la lettera. “Riteniamo di essere nella giusta posizione per rilasciare una dichiarazione sull’enorme tributo umano dell’attacco di Israele a Gaza, in particolare il tributo che ha imposto a donne e bambini”, si legge nella lettera pubblicata su X giovedì dal dott. Feroze Sidwa, che ha condotto la stesura della lettera insieme agli altri medici. La lettera dei medici e infermieri chiede all’amministrazione Biden di partecipare a un embargo sulle armi sia per Israele che per tutti i gruppi armati palestinesi e di sospendere il sostegno militare, diplomatico ed economico a Israele fino a quando non verrà raggiunto un cessate il fuoco permanente e immediato. La CNN ha contattato la Casa Bianca per un commento.

La lettera arriva in un momento critico per la Casa Bianca, che sta esortando gli israeliani ad accettare un accordo di cessate il fuoco. Giovedì Biden ha incontrato il primo ministro Benjamin Netanyahu, un giorno dopo che il leader israeliano ha parlato al Congresso degli Stati Uniti in merito al conflitto. Delle fonti hanno detto alla CNN che ci si aspettava che il presidente fosse molto più autorevole nello spingere Netanyahu ad accettare un accordo. “Riteniamo che il nostro governo sia obbligato a farlo, sia in base alla legge americana che al diritto umanitario internazionale, e che sia la cosa giusta da fare”, si legge nella lettera.

Gli “unici osservatori indipendenti” a Gaza

Il dott. Adam Hamawy, chirurgo plastico statunitense ed ex chirurgo traumatologico dell’esercito statunitense, ha dichiarato alla CNN giovedì: “Non c’è nessuno che abbia resoconti di prima mano a parte i medici. Ci sentiamo in dovere di parlare perché … siamo testimoni di tutto questo. A Gaza non c’è un osservatore indipendente”, ha detto. “Se non volete credere ai palestinesi, allora dovete credere a 50 dottori che sono andati lì in momenti e luoghi diversi”.

A parte i giornalisti palestinesi che vivono a Gaza, non c’è stato alcun accesso dei media all’enclave dal 7 ottobre, con alcune eccezioni di ingresso sotto scorta ufficiale.

Hamawy ha firmato la lettera per raccontare ciò che ha visto con i suoi occhi. “Abbiamo tutti assistito alla completa devastazione di una società, delle vite delle persone, della struttura sanitaria”, ha detto.

Hamawy ha lavorato come chirurgo a Sarajevo, a New York City l’11 settembre e in Iraq, dove aveva eseguito un intervento chirurgico salvavita sulla senatrice statunitense Tammy Duckworth nel 2004 dopo che il suo elicottero era stato colpito da un RPG, un’arma che lancia razzi dotati di testata esplosiva. Ma ha detto che quelle esperienze in altre zone di conflitto non sono paragonabili a ciò a cui ha assistito a Gaza, aggiungendo che il 90% di coloro che vi ha visto uccidere erano donne e bambini. Hamawy ha lavorato all’ospedale europeo di Gaza nella città meridionale di Khan Younis a maggio di quest’anno, dove ha eseguito circa 115 interventi di chirurgia ricostruttiva e curato principalmente bambini di età inferiore ai 14 anni. Ha detto di aver operato su amputazioni, ustioni e ferite da arma da fuoco al viso.

Il chirurgo afferma che una ferita da arma da fuoco sul volto di uno dei suoi pazienti, un ragazzo adolescente, proveniva molto probabilmente da un mitra d’assalto o da un cecchino perché la ferita aveva un foro di entrata piccolo. La CNN ha contattato le Forze di difesa israeliane (IDF) per un commento su questa accusa. Un altro paziente era un ragazzino che aveva preso quella che pensava fosse una scatoletta di tonno per portarla alla sua famiglia a Rafah, ha ricordato Hamawy. Ma, dice Hamawy, l’oggetto di metallo era in realtà una bomba a grappolo inesplosa, e ha raccontato che dopo averla aperta di fronte alla sua famiglia il bambino ha perso il braccio sinistro, entrambe le gambe e tre dita del braccio destro.

“Nessun bambino viene colpito due volte per errore da un cecchino”

Il dott. Mark Perlmutter, chirurgo ortopedico della mano ebreo americano della Carolina del Nord e presidente della World Surgical Association, ha detto alla CNN di aver deciso di andare a Gaza dopo aver ricevuto le fotografie della radiografia di un intervento chirurgico mal eseguito nell’enclave martoriata. Le foto gli erano state inviate da un medico tirocinante del primo anno che era stato costretto a eseguire l’operazione e aveva chiesto il parere di Perlmutter. Quando Perlmutter gli ha chiesto perché non avessero eseguito l’operazione dei chirurghi esperti, il tirocinante ha spiegato che erano stati uccisi in un bombardamento. Perlmutter ha detto alla CNN che durante il suo soggiorno ha visto l’elevata violenza inflitta sui bambini, che rappresentavano circa il 90% di coloro che arrivavano al pronto soccorso quando lavorava all’European Gaza Hospital. Descrivendo l’ospedale strapieno, Perlmutter ha detto che dopo ogni bombardamento c’erano bambini feriti stesi sul pavimento, con i loro cari in preda al panico e in lacrime.

“Alcuni sono morti, altri moriranno davanti a te e altri ancora puoi salvarli. Cerchi di salvare quelli che puoi salvare”, ha detto Perlmutter.

Ha ricordato due pazienti di circa sei anni che avevano ricevuto colpi di arma da fuoco alla testa e al petto, ferite che, ha detto, suggerivano fossero stati presi di mira deliberatamente.

“Nessun bambino viene colpito due volte da un cecchino per errore”, ha detto Perlmutter, aggiungendo che i colpi erano “mirati per uccidere” al petto.

La CNN ha contattato l’IDF per un commento su queste accuse.

Mentre Perlmutter cercava di curare i bambini con ferite alla testa, ha detto, i loro “cervelli fuoriuscivano” nelle sue mani, in quello che ha descritto come un momento per lui particolarmente traumatico.

Nel firmare la lettera, Perlmutter ha detto alla CNN che spera che “l’americano medio possa sentire il dolore che proviamo quotidianamente. Non vedranno mai quello che abbiamo visto, ma dovrebbero capire quello che abbiamo visto”.

Tutti a Gaza sono malati, feriti o entrambe le cose”

Lanciata in risposta agli attacchi terroristici guidati da Hamas in Israele il 7 ottobre, che hanno ucciso almeno 1.200 persone, l’offensiva militare di Israele a Gaza che dura da mesi ha causato la morte di oltre 39.000 palestinesi secondo il Ministero della Salute di Gaza. I firmatari della lettera stimano che il vero bilancio della guerra potrebbe essere di oltre 92.000, se si includono le morti per fame o malattie e i corpi ancora sepolti sotto le macerie. La scorsa settimana l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha affermato che in campioni di liquami era stato trovato il virus della poliomielite, mettendo migliaia di palestinesi a rischio di contrarre una malattia che può causare la paralisi. Secondo le Nazioni Unite e i precedenti reportage della CNN, da mesi il sistema sanitario di Gaza è collassato sotto gli incessanti attacchi aerei israeliani, le interruzioni di corrente e la carenza di forniture mediche.

In queste condizioni gli operatori sanitari americani hanno segnalato che le epidemie potrebbero portare alla morte di altre decine di migliaia di bambini. Lo spostamento di persone in aree senza acqua corrente o servizi igienici “è praticamente certo che provocherà molte morti per malattie diarroiche virali e batteriche e polmoniti, in particolare nei bambini di età inferiore ai cinque anni”, si legge nella lettera. “Tutti a Gaza sono malati, feriti o entrambe le cose” con poche eccezioni, si legge nella lettera. “Non siamo politici. Non pretendiamo di avere tutte le risposte. Siamo semplicemente medici e infermieri che non possono rimanere in silenzio su ciò che abbiamo visto a Gaza”, si dice nella lettera.

Con il contributo di Tala Alrajjal, Sam Fossum ed Eugenia Ugrinovich.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Funzionari dell’amministrazione Biden che si sono dimessi a causa di Gaza affermano che gli USA hanno distrutto il diritto internazionale e hanno messo in pericolo gli americani

Philip Weiss

23 luglio 2024 – Mondoweiss

L’amministrazione Biden sopprime l’ampio dissenso al suo interno riguardo alla sua politica su Gaza, imponendo una “cultura del silenzio”, affermano alcuni di coloro che si sono dimessi.

Joe Biden ha ottenuto un’infinità di consensi dai democratici per il suo record di successi realizzati durante un solo mandato.

Ma il record di Biden sarà per sempre offuscato dal suo appoggio all’aggressione israeliana a Gaza che attraverso l’utilizzo di munizioni americane ha distrutto città e ucciso decine di migliaia di civili.

Con un notevole gesto di resistenza, 12 funzionari dell’amministrazione Biden hanno pubblicamente rassegnato le dimissioni piuttosto di portare avanti la sua politica. Il 4 luglio hanno pubblicato una lettera di “dissenso dal servizio” che definiva la politica USA “moralmente riprovevole” e “un fallimento”.

La lettera – che ha ottenuto scarsa attenzione dai media – affermava che le scelte di Biden “mettono a rischio gli interessi USA in tutta la regione.” Si riferiva agli interessi politici e economici ed anche al danno per la “credibilità” degli USA.

La scorsa settimana nove dei firmatari sono intervenuti in un webinar del gruppo di esperti DAWN sul Medio Oriente. Riassumerò i punti principali.

Alexander Smith, un ex funzionario di USAID (Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale) che si è dimesso a maggio, ha detto che, difendendo il comportamento israeliano, gli USA hanno distrutto “il sistema della legislazione sui diritti umani” creato dopo la seconda guerra mondiale.

E’ sconvolgente e davvero desolante vedere gli USA prendere ora la decisione di distruggere sostanzialmente il sistema internazionale dei diritti umani che è stato costruito dopo la seconda guerra mondiale”, ha detto.

Gli USA non sono mai stati parte attiva del diritto internazionale, ha detto Smith. “Ma non abbiamo cercato attivamente di distruggere quel sistema e di ostacolarlo. Non abbiamo cercato di affermare in modo formale che queste persone sono persone e queste altre non sono persone, fino ad ora.”

Smith ha detto che la condotta degli USA è agli antipodi delle loro azioni in Ucraina. USAID ha dei video molto eclatanti relativi al suo lavoro di aiuto agli ucraini. Quando i russi hanno bombardato un ospedale gli USA hanno espresso sdegno. Ma Israele ha bombardato 36 ospedali a Gaza col pieno sostegno degli USA.

Stacy Gilbert, una funzionaria di lungo corso del Dipartimento di Stato, ha dato le dimissioni dopo che l’amministrazione a maggio ha pubblicato un rapporto del Dipartimento di Stato/Dipartimento della Difesa (un NSM-20) che affermava che Israele non stava bloccando gli aiuti umanitari, anche se Gaza stava affrontando la carestia.

Pensavo che questa amministrazione non avrebbe falsificato i fatti”, ha detto Gilbert. “Vedere scritto in una relazione congiunta al Congresso un fatto così ovviamente dimostrabile come falso mi ha sconvolta. Quando il rapporto è uscito il 10 maggio è stato il momento in cui ho comunicato che mi sarei dimessa.”

Gilbert ha detto che lei “era in una posizione unica avendo elaborato quel rapporto per poter dire ‘Non è vero, tutti sanno che non è vero,’”

Così tanti funzionari di Biden sono contrari alla politica su Gaza che ora vi è una “cultura del silenzio” all’interno dell’amministrazione, ha detto Maryam Hassanein, un’ex collaboratrice del Dipartimento degli Interni che si è dimessa all’inizio di questo mese:

Una delle questioni principali è la cultura pervasiva del silenzio nel momento di una grave crisi – specificamente, il genocidio che sta avvenendo. Almeno all’interno del mio ente, ci si aspettava che la crisi, indotta dalle azioni israeliane e dal finanziamento e dal consenso USA, non dovesse essere materia di esplicita discussione.”

Lily Greenberg Call, un’ex funzionaria degli Interni, ha ribadito questo aspetto. “C’era una vasta cultura del silenzio e una paura di menzionare queste cose perché non erano, cito, ‘rilevanti per il nostro lavoro’”, ha detto.

Hassanein ha detto che lo scorso anno l’amministrazione ha tenuto “sessioni di ascolto” per dar voce alle preoccupazioni del personale, ma esse hanno dato a molte persone l’impressione di essere ignorate.

Hassanein ha aggiunto che vi è “una significativa quota di dissenso nell’amministrazione”. Molte persone hanno silenziosamente lasciato l’amministrazione. Altre stanno lavorando all’interno per organizzare interruzioni del lavoro e azioni di protesta.

Smith ha detto di essersi dimesso la scorsa primavera dopo che il suo previsto intervento sugli effetti della carestia sulla salute di mamme e bambini a Gaza è stato improvvisamente cancellato. Non si trattava di un discorso politico, ma di un intervento che constatava “i fatti” relativi agli effetti sulle donne incinte e sui bambini di “quando si affama una popolazione”.

Quell’intervento è stato improvvisamente cancellato dalla programmazione della conferenza…proprio all’ultimo momento”, ha detto Smith. “E’ stato davvero desolante” assistere a questo mentre l’amministrazione Biden si esprime apertamente sulle condizioni in Ucraina. “Per me i diritti umani sono universali”.

Il Dipartimento di Stato sta vanificando gli sforzi per avvertire i funzionari americani che potrebbero essere perseguiti per il loro ruolo in un genocidio, ha detto Josh Paul, un ex alto funzionario di Stato.

Paul ha detto che quando gli USA hanno fornito armi per l’attacco saudita allo Yemen “è stata inviata alle alte sfere una nota legale e non è stata approvata”, che avvertiva della responsabilità giuridica delle singole persone in conseguenza alla loro complicità in quegli attacchi. Ciò è accaduto solo perché “un avvocato molto coraggioso” ha redatto la nota.

Quella persona non lavora più per il Dipartimento di Stato in parte per quel motivo”, ha detto Paul. Nel caso della guerra di Gaza nessun individuo di quel tipo sta scrivendo simili avvertimenti.

A nessuno è consentito neppure di discutere i danni per l’interesse nazionale USA, dice Annelle Sheline, ex funzionaria del Dipartimento di Stato.

Non so se c’è un modo per noi di riguadagnare credibilità come difensori dello stato di diritto e dei diritti umani”, dice Sheline.

C’è urgente necessità di discutere un cambio di politica, ma il governo non lo permetterà, dice. “Per anni ogni seria discussione su un ripensamento della politica USA è stata attivamente negata o sottoposta ad autocensura, sia all’interno che all’esterno del governo. E’ qualcosa che ho osservato al (Dipartimento di) Stato prima del 7 ottobre.”

L’amministrazione Biden non solo avalla attivamente il genocidio, ma sta procurando un danno irreparabile alla sicurezza nazionale”, dice Sheline.

Per esempio, “il perseguimento della competizione tra grandi potenze era davvero un obbiettivo strategico” per la Casa Bianca – per superare Cina e Russia a livello mondiale. Ma quell’obbiettivo è stato messo da parte quando si è trattato di sostenere Israele.

Gli esperti hanno elencato molte leggi USA che l’amministrazione Biden sta infrangendo.

Tariq Habash ha detto di aver dovuto lasciare il Dipartimento dell’Educazione a causa della “quasi quotidiana disumanizzazione delle vite dei palestinesi e nel vedere le nostre armi fornite incondizionatamente provocare la morte e la distruzione di così tante persone e infrastrutture civili.”

Quella è stata la linea rossa di Habash perché lui è palestinese, ma ha detto di avere punti di intesa con altri impiegati federali. Vedono che la politica USA ha “minato lo status dell’America in tutto il mondo e….in realtà ha reso meno sicuri gli americani qui a casa loro.”

Harrison Mann, un ex funzionario dell’intelligence della Difesa, ha ribadito il concetto che la politica di Biden reca danno agli americani.

Abbiamo rivoltato l’opinione mondiale, e specialmente quella regionale, contro gli Stati Uniti in un modo tale che non avevamo visto forse dall’invasione dell’Iraq. Questo alimenta l’odio che indubbiamente provocherà il terrorismo in futuro. Penso sia solo questione di tempo perché raccogliamo ciò che abbiamo seminato laggiù.”

Il mondo sa che Israele non potrebbe sostenere l’intensità e la portata del suo attacco senza “l’inesauribile flusso” di armi dagli Stati Uniti, e la guerra ha fatto stare tutti peggio. Mann ha detto:

Israele ha fatto di sé stesso un paria mondiale ed ha trascinato con sé gli USA. Penso che gli Stati Uniti abbiano definitivamente perso la capacità di usare un ragionamento basato sui valori per mobilitare gli alleati mondiali.

Philip Weiss

Philip Weiss è caporedattore di Mondoweiss.net ed ha creato il sito nel 2005-2006.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Riaccendere una vecchia storia d’amore: Trump può salvare Netanyahu?

Ramzy Baroud

8 luglio 2024, Middle East Monitor

Molti analisti politici ritengono che il Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, stia guadagnando tempo a Gaza e in Libano con la speranza che Donald Trump torni alla Casa Bianca dopo le prossime elezioni di novembre.

Che sia così o meno, è improbabile che Trump questa volta possa influenzare gli esiti della guerra o modificare il destino di Israele.

La politica estera degli Stati Uniti sembra essere governata da due prospettive diverse, una dedicata al mondo intero e l’altra solo a Israele. La prima è guidata dalla famosa e spesso ripetuta citazione dell’ex Segretario di Stato americano, Henry Kissinger, secondo cui “l’America non ha amici o nemici permanenti, ma solo interessi”.

Israele, tuttavia, rimane un’eccezione e la guerra israeliana in corso contro Gaza ha dimostrato ancora una volta la veridicità di tale affermazione.

Sebbene Washington condivida pienamente gli obiettivi bellici di Israele, non è fondamentalmente d’accordo con la concezione di una guerra lunga e di una “vittoria totale” sostenuta da Netanyahu.

Le due lunghe guerre statunitensi in Afghanistan e in Iraq hanno insegnato agli americani che né la longevità delle guerre né le aspettative eccessive e irrealistiche modificano gli esiti inevitabili.

In effetti, molti funzionari statunitensi, generali militari e influenti analisti hanno cercato di mettere in guardia Netanyahu, senza successo.

Destabilizzare il Medio Oriente in questa specifica congiuntura storica è semplicemente negativo per gli Stati Uniti. Arriva in un momento in cui l’Ucraina sta soffrendo una grave carenza di armi, con conseguenti perdite territoriali, e in cui gli alleati USA-Europa stanno lottando sotto il peso delle crisi economiche e politiche.

Poiché le relazioni tra Stati Uniti e Israele sono regolate da un unico schema di politica estera, l’amministrazione Biden continua a sostenere Israele in tutti i modi possibili affinché possa continuare una guerra perdente.

La guerra si sta svolgendo ovviamente a spese di oltre 125 mila palestinesi che, finora, sono stati uccisi e feriti a causa degli attacchi israeliani, dei bombardamenti e delle esecuzioni di massa. Quelli che muoiono di fame o di malattie sono un numero diverso, che non è ancora stato completamente calcolato.

Washington non è preoccupata dal genocidio a Gaza in sé, ma dall’esito della guerra sui suoi piani in Medio Oriente e sul futuro delle sue basi militari, in particolare in Iraq e in Siria. È anche preoccupata per la sua influenza geostrategica nella regione a causa dell’instabilità senza precedenti del Mar Rosso.

Eppure, Joe Biden continua ad armare Israele e a fornire una rete di sicurezza alla sua economia in calo. Il 20 aprile la Camera ha approvato una legge che prevede 26,3 miliardi di dollari di assistenza a Israele. Inoltre, massicce spedizioni di armi continuano a fluire senza ostacoli verso Israele.

Queste bombe non solo stanno distruggendo l’intera Gaza, ma anche qualsiasi possibilità che gli Stati Uniti possano riacquistare un minimo di credibilità in Medio Oriente. Peggio ancora, il sostegno cieco degli Stati Uniti a Israele ha fatto vacillare anche la posizione di Washington a livello internazionale.

Quindi, cosa potrebbe fare Trump che Biden non ha fatto?

La politica di Trump è smaccatamente machiavellica. Durante il suo unico mandato, tra il 2017 e il 2021, ha svolto il ruolo di genio americano, esaudendo ogni desiderio di Israele, sebbene tutte quelle richieste fossero flagranti violazioni del diritto internazionale.

Le politiche pro-Israele di Trump hanno incluso, accanto ad altre, il riconoscimento di tutta Gerusalemme come capitale di Israele, l’annessione delle alture del Golan e il riconoscimento di tutti gli insediamenti ebraici israeliani illegali in Cisgiordania.

Ma anche Netanyahu è un seguace di Macchiavelli, un fatto che ha irritato Trump dopo la sua umiliante uscita dalla Casa Bianca.

“Non gli ho più parlato”, ha detto Trump in un’intervista con Barak Ravid di Axios nel dicembre 2021, in riferimento al leader israeliano. “Fan**lo”, ha detto.

Ma ora entrambe le parti stanno cercando di riaccendere la vecchia storia d’amore. Il candidato repubblicano alla presidenza deve essere soddisfatto delle critiche pubbliche di Netanyahu all’amministrazione Biden. In cambio, Trump è pronto a “finire il lavoro”, come ha dichiarato nel primo dibattito presidenziale del 27 giugno.

Tuttavia, il ritorno di Trump non cambierà in alcun modo le sventure di Israele dal 7 ottobre, perché i problemi di Israele non hanno origine a Washington. La crisi di Israele è multiforme. Non è in grado di vincere la guerra a Gaza, nonostante la tragedia e la distruzione di massa che vi ha creato. Non riesce nemmeno a cambiare le regole di ingaggio in Libano a causa della forza dei suoi nemici e del fatto che le sue forze armate non sono in grado di combattere e vincere su più fronti – nemmeno su uno.

Un’altra dimensione della crisi israeliana è interna: le profonde divisioni nella società, nell’apparato di sicurezza e fra i politici israeliani. Nemmeno Trump potrebbe colmare il divario o porre fine alla polarizzazione, che probabilmente si aggraverà in futuro.

Anche sul fronte internazionale, è probabile che Trump si dimostri altrettanto inefficace, ancora una volta, semplicemente perché l’amministrazione Biden ha sfidato il consenso internazionale su Israele fin dall’inizio della guerra. L’attuale Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti si è spinta fino ad approvare una legge per sanzionare la Corte Penale Internazionale (CPI) dopo che il suo procuratore ha richiesto mandati di arresto contro funzionari israeliani.

Se Netanyahu pensa che Trump gli offrirà un accordo migliore di quello di Biden, si sbaglia. Biden si è dimostrato il più grande sostenitore americano di Israele nei suoi 76 anni di storia.

Ironia della sorte, il sostegno indiscusso degli Stati Uniti a Israele potrebbe essere un fattore che contribuisce alla sua caduta.

“Essere un nemico dell’America può essere pericoloso, ma esserne amico è letale”, ha anche detto Kissinger. Non si sbaglia.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Carlo Tagliacozzo)




Le lamentele di Netanyahu non hanno nulla a che fare con i ritardi nella fornitura di armi: perché Israele si è rivoltato contro Biden

Rick Zand

1 luglio 2024 – Middle East Monitor

Non è un segreto che il primo ministro Benjamin Netanyahu auspichi il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. L’appoggio un tempo affidabile della base del Partito Democratico ad Israele si è inaridito, soprattutto nella componente progressista, a causa della devastante campagna di pulizia etnica a Gaza che è costata circa 38.000 vite, compresi 15.000 bambini, senza contare tutti coloro che sono scomparsi, presumibilmente morti, sepolti sotto le macerie delle loro case distrutte dallo Stato occupante.

Netanyahu ha abbandonato il suo alleato di lunga data e presunto amico presidente Joe Biden e il suo partito democratico, ma non per i motivi a cui vorrebbe che noi credessimo.

Il 18 giugno Netanyahu ha diffuso un video su X che ha sorpreso la Casa Bianca: accusava l’amministrazione Biden di trattenere le armi e di compromettere la sicurezza di Israele. La sferzante risposta dell’amministrazione ha colto alla sprovvista un tormentato segretario di Stato USA Antony Blinken, che si è recato in Israele e nei Paesi del Golfo diverse volte negli ultimi otto mesi.

Benché stiano rivalutando una spedizione di bombe da 2.000 libbre, a causa delle preoccupazioni per le vittime civili se venissero usate nell’attacco a Rafah, Blinken ci ha assicurato, “Tutto si sta svolgendo come dovrebbe e sempre nella prospettiva di garantire che Israele abbia ciò che necessita per difendersi contro questa quantità di minacce.”

Secondo l’addetta stampa della Casa Bianca Karine Jean-Pierre, “Sinceramente non sappiamo di che cosa lui (Netanyahu) stia parlando.” Dopo aver menzionato la spedizione di bombe di 2.000 libbre, ha aggiunto: “Non vi sono altre interruzioni.”

Inoltre la Casa Bianca ha annullato un incontro con dirigenti israeliani riguardante l’Iran. Secondo Axios (sito web americano di informazione politica, ndtr.) un funzionario USA ha affermato: “Questa decisione chiarisce che aver tirato in ballo tali sciocchezze porta a delle conseguenze”.

Senza dubbio Biden è stato irritato dal video, specialmente quando Netanyahu si è paragonato a Winston Churchill dicendo: “Durante la seconda guerra mondiale Churchill disse agli Stati Uniti: ‘dateci gli strumenti, noi faremo il lavoro’. Ed io dico: ‘dateci gli strumenti e noi finiremo il lavoro molto più velocemente’.”

Israele ha armi sufficienti per devastare Gaza ancora molte volte. La sola India ha fornito a Israele 900 droni e altre armi fabbricate a Hyderabad. Quella fabbrica è una joint- venture tra la Elbit Systems israeliana e il consorzio del miliardario indiano Gautam Adani.

L’India fornisce armi ad Israele fin dall’inizio della guerra.

Comunque, secondo l’Istituto Internazionale di Ricerca di Stoccolma (SIPRI), tra il 2019 e il 2023 gli USA hanno fornito il 69% delle armi convenzionali importate da Israele. Nel 2016 Obama ha aumentato gli aiuti a Israele da 30 a 38 miliardi di dollari per 10 anni, il più grande pacchetto di aiuti nella storia degli Stati Uniti. Questi fondi hanno finanziato jet da combattimento, forze di terra, sistemi di armi e di difesa aerea. Inoltre Israele è il nono maggior esportatore di armi, il che dimostra che ha ampie forniture per uso proprio.

Il SIPRI colloca la Germania al secondo posto tra i maggiori fornitori di armi a Israele, fornendo circa il 30% delle sue importazioni di armamenti. Sia gli USA che la Germania hanno votato contro una risoluzione non vincolante del Consiglio ONU per i Diritti Umani (UNHRC), che chiede la fine di tutte le vendite o spedizioni di equipaggiamento militare e armi ad Israele, per motivi umanitari.

A maggio Biden ha minacciato di sospendere le spedizioni di armi di fabbricazione USA a Israele, se esso avesse invaso Rafah. “Continueremo a garantire la sicurezza di Israele in termini di Iron Dome e della capacità di rispondere agli attacchi condotti recentemente in Medio Oriente”, ha affermato Biden all’epoca. “Ma ciò [l’invasione di Gaza, ndt] è decisamente sbagliato. Non forniremo armi e proiettili d’artiglieria.”

Eppure dal 7 ottobre dello scorso anno gli USA hanno fornito ulteriori 6,5 miliardi di dollari a Israele. Questi si aggiungono ai 3,8 miliardi di dollari che Israele ha ricevuto in base all’accordo del 2016. Armi e denaro continuano a fluire anche se l’invasione israeliana di Rafah ha provocato l’uccisione di 45 palestinesi e il ferimento di altri 200 dopo che le forze di occupazione hanno incendiato un campo profughi dove i civili avevano trovato rifugio.

Con il denaro e le importazioni di armi che Israele ha ricevuto da quando è iniziato l’attacco a Gaza, è difficile immaginare che le forze di occupazione manchino di sufficienti forniture di armamenti.

La vuota minaccia di Biden non è riuscita ad avere un impatto sulla determinazione di Netanyahu ad invadere Rafah.

E neppure hanno agevolato gli sforzi gli appelli di Biden a consentire l’ingresso di aiuti umanitari a Gaza. Gli aiuti arrivano poco a poco, quando non arrivano del tutto. Nel frattempo il cibo si deteriora nei camion di aiuti in attesa, mentre a pochi chilometri di distanza i palestinesi muoiono di fame.

Il primo (e probabilmente unico) dibattito tra Biden e Trump ha solo sfiorato la crisi a Gaza, ma molto è stato detto in poche parole. Biden si è attenuto al suo piano di pace presumibilmente sostenuto da Netanyahu. Il piano di Trump è molto meno complicato: “Bisogna lasciarli andare e lasciargli finire il lavoro”, ha detto ai moderatori della CNN, facendo eco alla richiesta di Netanyahu che gli lascino “finire il lavoro al più presto”.

Nel suo commento sul giornale ebraico americano The Forward Rob Eshman ha suggerito che nel dibattito Trump stesse parlando ad un pubblico di una sola persona: la vedova di Sheldon Adelson, l’ottava donna più ricca del mondo, Dr.ssa Miriam Adelson. Lei ha garantito 90 milioni di dollari ad un super PAC [le Political Action Committee sono organizzazioni fondate in USA con lo scopo di raccogliere fondi per sostenere uno specifico candidato, ndt.] pro Trump e deve ancora consegnarne la maggior parte.

Eshman probabilmente ha ragione, dato che Netanyahu non ha bisogno di sentire da Trump ciò che già sa. Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale ufficiale di Israele e vi ha spostato l’ambasciata statunitense da Tel Aviv. L’ex presidente USA ha anche concesso a Israele le Alture del Golan per svilupparle, anche se non è chiaro con quale autorità. Quale segnale migliore per Netanyahu e il suo partito di estrema destra Likud che hanno carta bianca da Trump per impadronirsi della terra, comprese tutte le parti di Gaza e la Cisgiordania?

Nonostante la loro decennale amicizia, Netanyahu ha lasciato prontamente Biden per Trump. Il consenso a Biden si è incrinato dopo la sua penosa performance durante il dibattito. La lacerazione dei progressisti aveva già provocato una divisione a causa degli otto mesi di crimini di guerra israeliani commessi a Gaza, inclusi l’inedia di massa, la pulizia etnica e il genocidio.

La maggioranza dei democratici sostiene ancora le azioni di Israele, come dimostra il recente disegno di legge del Senato, approvato con supporto bipartisan, che vieta ad ogni istituzione con finanziamenti pubblici in Pennsylvania di disinvestire da imprese e organizzazioni israeliane.

Tuttavia vi sono parecchi dubbi tra coloro che nel partito democratico vedono l’intenzione finale di Israele nel proseguire l’occupazione e stabilire insediamenti illegali. La settimana scorsa il gabinetto di sicurezza di Israele ha approvato cinque nuovi insediamenti in Cisgiordania insieme ad una lista di sanzioni contro l’Autorità Nazionale Palestinese già definanziata.

Tuttavia Trump e i repubblicani sono rimasti saldi nel loro incondizionato appoggio all’apartheid di Israele. “Date a Israele le bombe di cui ha bisogno per finire la guerra”, ha detto (il senatore USA conservatore) Lindsay Graham a NBC News. “Non possono perdere”. Ha anche paragonato il genocidio israeliano a Gaza allo sgancio delle bombe atomiche da parte degli USA su Hiroshima e Nagasaki durante la seconda guerra mondiale, aggiungendo: “E’ stata la decisione giusta.” Durante la sua visita a Israele in maggio l’ex ambasciatrice all’ONU e al tempo candidata alle primarie presidenziali per i repubblicani Nikki Hayley ha scritto su un proiettile destinato a Gaza “Finiscili tutti!”

Se il messaggio proveniente da Biden è l’apatia, il segnale dal campo di Trump è assumere il fanatismo di destra di Israele e concedere pieno appoggio all’ampliamento del colonialismo di insediamento nei territori occupati.

Netanyahu e il suo partito Likud faranno il possibile per indebolire Biden e riportare in carica Trump.

Se Biden farà un passo indietro dopo la sua disastrosa performance nel dibattito, la destra israeliana avrà un altro candidato democratico da debellare con molto meno tempo per farlo prima delle elezioni. Ma Biden non ha mostrato intenzione di arrendersi e molti democratici sostengono ancora la sua corsa alla rielezione.

Netanyahu capisce che i suoi obbiettivi e quelli di Trump coincidono. Forse Trump ha motivi molto diversi per sostenere Israele data la sua leale appartenenza al nazionalismo bianco cristiano. Tuttavia gli obbiettivi sono gli stessi: un solo Israele, dal fiume al mare. Mentre Biden tergiversa tra la diplomazia e l’impotenza, Trump ha già cementato il suo appoggio.

Se la comunità internazionale non imporrà sanzioni a Israele e ad ogni Paese che finanzia la pulizia etnica a Gaza e in Cisgiordania, il genocidio e la crisi umanitaria continueranno senza sosta.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Il massacro di Nuseirat: per i media razzisti coloniali occidentali i palestinesi massacrati non esistono

Linah Alsaafin

10 giugno 2024 – Middle East Eye

Biden e Netanyahu stanno precipitando verso il baratro, e gli effetti del prolungamento di questo genocidio si ritorceranno prima o poi contro i loro interessi.

I particolari delloperazione militare congiunta USA-Israele che sabato ha ucciso e ferito quasi 1.000 palestinesi nel campo profughi di Nuseirat non evidenziano affatto leroismo tanto celebrato o la precisione che i titoli dei media occidentali hanno sbandierato in prima pagina.

Ma in un mondo distopico in cui luccisione di almeno 50.000 uomini, donne e bambini nellarco di otto mesi non fa batter ciglio ai vertici dellordine globale a guida occidentale, può essere giustificato ritenere che qualsiasi missione che distrugge centinaia di vite civili per recuperare quattro ostaggi sia motivo di festeggiamenti.

E’ ancora peggio quando i 274 palestinesi uccisi e i 698 feriti nel massacro del campo profughi di Nuseirat vengono deliberatamente eliminati dalla copertura giornalistica, o appena citati come un dettaglio insignificante in un titolo o di sfuggita in un sottotitolo.

La copertina domenicale del New York Times, un giornale che ha volontariamente distrutto le sue ultime vestigia di credibilità per agire come sfacciato stenografo della propaganda israeliana, mostrava con orgoglio il titolo “In una missione a Gaza l’esercito israeliano libera 4 ostaggi”.

La copertina era correlata da una foto di un ostaggio israeliano sorridente rilasciato (citato per nome) e circondato da soldati trionfanti. I palestinesi uccisi sono relegati in una nota a piè di pagina.

La BBC e la Reuters seguono una linea simile, scegliendo di aprire rispettivamente con “Quattro ostaggi israeliani liberati in un raid nel centro di Gaza” e “Secondo l’esercito le forze israeliane salvano quattro ostaggi vivi a Gaza”.

La CNN ha scelto di concentrarsi sulla logistica anziché sulle vittime della strage: “L’operazione israeliana per salvare 4 ostaggi ha richiesto settimane di preparazione”, ha scritto diligentemente.

Più schietto il tono del Washington Post: “Una rara giornata di gioia nel mezzo di un massacro con il salvataggio di 4 ostaggi”. Un secondo titolo iniziava ancora con “Recuperati quattro ostaggi israeliani vivi” e aggiungeva come post scriptum il numero provvisorio dei palestinesi uccisi: “Secondo dichiarazioni ufficiali almeno 210 persone uccise a Gaza”.

E poi c’è il Sunday Times, inequivocabile e sfacciato nei toni, scritto con una sorta di stile mozzafiato, come se descrivesse la trama ridondante di un film d’azione di Hollywood.

“Audace raid libera a Gaza la prigioniera della motocicletta” [Noa Argamani catturata il 7 ottobre da Hamas mentre si trovava sul sedile posteriore di una moto], esordiva il titolo, per poi proseguire nella pagina successiva con: “Un attacco chirurgico, un feroce scontro a fuoco e i festeggiamenti hanno rotto il silenzio del sabato”.

La carneficina che questo attacco chirurgico” ha lasciato dietro di sé, i corpi mutilati dei palestinesi che giacciono di traverso sulle strade del mercato, le decine di edifici e case distrutte vengono completamente omessi.

Dilagante disumanizzazione

C’è un che di macabro nel fatto che anche quando vengono menzionati i palestinesi ciò avviene in quella forma inerte che ormai siamo abituati ad aspettarci da questi mezzi di informazione, senza un contesto e senza alcun riferimento a chi sta facendo loro cosa.

Il Guardian spicca per il suo singolare modo di raccontare latroce assalto di sabato: Israele salva quattro ostaggi mentre degli attacchi nelle vicinanze uccidono 93 palestinesi”.

Il lettore rimane stupito di fronte all’evidente dissociazione e all’enorme buco nella trama. Quali attacchi? Condotti da chi? Cos’è importante da sapere riguardo a “nelle vicinanze”?

In fin dei conti questi titoli non sorprendono e sono il prodotto di decenni di dilagante disumanizzazione. La dichiarazione del Dipartimento di Stato americano sulloperazione non fa alcuna menzione dei palestinesi uccisi, perché i corpi neri e di pelle olivastra semplicemente non contano per gli interessi imperialisti.

Il fatto che loperazione di salvataggio di quattro israeliani sia avvenuta a scapito di alcune centinaia di palestinesi è, come afferma Maya Mikdashi, accademica e redattrice di Jadaliyya [rivista online indipendente dell’Arab Studies Institute, ndt.], puro razzismo coloniale”.

Non c’è motivo di gioire per il fatto che 274 palestinesi hanno dovuto essere brutalmente uccisi affinché questi quattro prigionieri israeliani – sani e in buona forma rispetto alle figure distrutte, malconce e scheletriche dei palestinesi liberati dalle carceri israeliane – possano tornare alle loro famiglie.

In ogni caso nessuno doveva essere ucciso, dato che Hamas lo scorso ottobre si era offerto di liberare i prigionieri civili in cambio del fatto che lesercito israeliano non invadesse la Striscia di Gaza.

Secondo il portavoce dell’ala militare di Hamas, Abu Obeida, l’operazione, che ha definito un “molteplice crimine di guerra”, ha ucciso anche altri prigionieri israeliani, ma non ha specificato le circostanze né il numero. “Il nemico è riuscito a recuperare alcuni ostaggi commettendo un terribile massacro, ma nel farlo ne ha uccisi alcuni altri”, ha detto.

Non c’è dubbio che luso della forza militare letale non sia la strada più efficace per liberare i prigionieri israeliani. Il rilascio della maggior parte degli ostaggi israeliani, 105, è avvenuto lo scorso novembre attraverso una tregua temporanea che ha visto anche la liberazione dei prigionieri palestinesi.

Gli attacchi israeliani sulla Striscia di Gaza hanno ucciso un numero imprecisato di ostaggi israeliani, e quelli salvati” a febbraio sono stati solo due, a scapito della morte di 74 palestinesi.

Ma il primo ministro Benjamin Netanyahu, il fiero esecutore di questo genocidio, e i membri altrettanto violenti ed estremisti che compongono il suo governo, sono sempre stati franchi riguardo alle loro intenzioni. Non c’è mai stato un impegno per la liberazione dei prigionieri israeliani né per la sicurezza di Israele.

Devastare Gaza

L’importante è sempre stato devastare la Striscia di Gaza, ridurre la sua popolazione e sfollare con la forza i restanti palestinesi, in linea con la visione di una colonia di insediamento espansionista.

I dettagli su come questa presunta missione di salvataggio sia andata a buon fine, con il pieno sostegno e la partecipazione degli Stati Uniti, sono oltremodo ignobili.

I soldati hanno deciso di nascondersi all’interno di due veicoli, tra cui un camion di aiuti umanitari, un crimine contro i diritti umani e un palese atto di perfidia che l’Occidente ha ripetutamente accusato Hamas di aver compiuto senza presentare alcuna prova credibile.

Abdullah Jouda, uno studente di farmacia di 23 anni che è stato sfollato quattro volte, racconta come dopo aver sentito un trambusto in strada ha aperto la porta e si è trovato davanti il camion. Ha anche incrociato lo sguardo con un agente delle forze speciali.

“Sono uscite dal camion persone vestite di nero con fasce dei [miliziani delle brigate] Qassam avvolte intorno alla testa”, ha scritto su X. “Per un momento, mi sono sentito come se fossi in un film americano.”

Jouda ha chiuso la porta ed è corso di sopra dove si trovava la sua famiglia.

“Sembrava letteralmente che fossero iniziati gli orrori del giorno del giudizio”, afferma. La famiglia si è riparata in un angolo della casa mentre i proiettili piovevano intorno a loro ininterrottamente per 30 minuti. Il camion è rimasto al suo posto, prima che il fuoco di copertura lo colpisse con un missile lanciato da un F-16, mandando in frantumi le finestre di vetro della casa e ferendoli tutti.

“Poi siamo scesi in strada e siamo scappati. Quando siamo arrivati ​​alla fine della strada, hanno distrutto l’intero isolato, compresa la casa in cui ci trovavamo. Non dimenticherò mai i particolari di questo giorno cruciale“, conclude. “La cosa più importante è che siamo ancora vivi.”

Neppure la tempistica di questa operazione è stata casuale. Come a voler dimostrare lassoluta arroganza nel causare intenzionalmente il massimo delle vittime civili, per aprire la strada, una volta scoperte, alle forze israelo-americane gli aerei da guerra hanno colpito il mercato affollato durante il giorno.

Inoltre il camion degli aiuti era partito dal cosiddetto molo galleggiante degli aiuti americano, simbolo di un’occupazione non tanto abilmente camuffata, che sabato si è rivelata essere una struttura militare in collegamento con Israele, dando alla fine ragione agli scettici.

Tutto ciò non sorprende e conferma il fatto che, nonostante Israele abbia portato avanti questa brutale aggressione contro i palestinesi, esso rappresenta semplicemente la fanteria di quello che è sempre stato un genocidio rifornito, sostenuto e pagato dagli Stati Uniti.

Prolungare il genocidio

Il presidente Joe Biden, un sincero e ardente sionista, potrebbe porre fine a questo incubo per i 2,3 milioni di palestinesi della Striscia di Gaza con una semplice telefonata.

Ma negli ultimi otto mesi si è rifiutato di imporre alcuna conseguenza [per le proprie azioni] al governo israeliano. Al contrario, incoraggia attivamente la continuazione del genocidio, impiegando allo stesso tempo il doppio linguaggio degli appelli e delle proposte di cessate il fuoco. Ma la presenza stessa e il ruolo di Israele come risorsa imperiale valgono più di qualsiasi vita palestinese, se non di tutte.

Come ha affermato lex funzionario del Dipartimento di Stato Aaron David Miller, non c’è dubbio” che Biden non nutra per i palestinesi la stessa profondità di sentimenti ed empatia che riserva agli israeliani.

È per questo che le immagini raccapriccianti del cervello esposto di un ragazzo, il cui corpo inerte prende improvvisamente vita, non provoca nessuna commozione in coloro che stanno dietro il genocidio di Gaza.

È per questo che le strazianti testimonianze del massacro di Nuseirat da parte dei sopravvissuti che hanno visto le forze israelo-americane fare irruzione nelle loro case per giustiziare i loro familiari a sangue freddo si percepiscono a malapena nellapproccio degli Stati Uniti al proprio sistema di violenza e brutalità.

Ma questi continui omicidi e questa barbarie mai vista sono solo una vile facciata che nasconde ciò che è palesemente ovvio: Biden e Netanyahu stanno precipitando verso labisso, e gli effetti del protrarsi di questo genocidio si ritorceranno prima o poi contro i loro interessi.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Linah Alsaafin è una giornalista palestinese che ha scritto per Al Jazeera, The Times Literary Supplement, Al Monitor, The News Internationalist, Open Democracy e Middle East Eye.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Capire la proposta di Biden per un cessate il fuoco a Gaza

Michel Plitnik

1 giugno 2024 Mondoweiss

I dettagli della proposta di Joe Biden per un cessate il fuoco a Gaza rimangono vaghi, ma un esito dello scontro è certo: Israele e gli Stati Uniti hanno perso.

Venerdì il presidente degli Stati Uniti Joe Biden si è avvicinato al microfono e ha controllato l’orologio prima di iniziare il suo discorso, scherzando sul fatto che voleva assicurarsi che fosse pomeriggio. Dato che era in ritardo di quasi un’ora, qualcuno avrebbe potuto suggerirgli da dietro le quinte di aspettare fino all’inizio di Shabbat in Israele. In questo modo i ministri di estrema destra e osservanti del sabato come Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir avrebbero dovuto aspettare un giorno per rispondere a un discorso che certamente non avrebbero voluto sentire.

Del discorso di Biden nemmeno il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu avrebbe potuto essere molto soddisfatto, anche se doveva sapere da tempo che sarebbe avvenuto.

Biden ha usato gran parte del suo discorso per presentare quella che ha definito “una nuova proposta israeliana” per porre fine al massacro di Gaza. Da un lato il piano da lui presentato era incredibilmente simile a quello respinto da Israele all’inizio di maggio, sostenendo successivamente che Hamas, dopo averlo accettato, lo avesse “modificato”.

Questo solleva la questione del perché Israele lo dovrebbe improvvisamente adesso accettare. Parte della risposta è arrivata poco dopo il discorso di Biden, quando entrambe le camere del Congresso e l’intera leadership bipartisan hanno inviato a Netanyahu l’invito formale a parlare in una sessione congiunta del Congresso, probabilmente alla fine di agosto o all’inizio di settembre.

La politica che concerne tutto ciò è cinica, ma non ci sono dubbi sul fatto che le manifestazioni di massa negli Stati Uniti e in Europa, in tutto il mondo arabo e persino in Israele abbiano spinto tutte le parti coinvolte nei colloqui a mettere almeno un’offerta concreta sul tavolo. Tuttavia questa stessa politica potrebbe significare che nonostante tutto l’attacco di Israele continuerà.

Cosa sappiamo della proposta

Come l’accordo ipotizzato qualche settimana fa la proposta avanzata da Biden è divisa in tre fasi.

Nella Fase Uno ci sarebbe un cessate il fuoco completo per sei settimane. Israele si ritirerebbe da “tutte le aree popolate di Gaza”; Hamas e gli altri gruppi militanti rilascerebbero alcuni ostaggi tra cui donne, anziani e feriti in cambio del rilascio di “centinaia” di prigionieri palestinesi; i civili palestinesi potrebbero ovunque tornare nelle loro case a Gaza e ogni giorno entrerebbero a Gaza almeno 600 camion di aiuti umanitari.

Alcuni dettagli cruciali rimangono poco chiari. Forse il più importante è cosa significhi il ritiro di Israele da “tutte le aree popolate di Gaza”. Se Israele non si impegnerà in alcuna operazione militare, la presenza delle truppe apparirà una cosa di routine. E se i palestinesi possono tornare ovunque a Gaza, ciò lascia poca preziosa terra “spopolata” nella piccola e sovraffollata Striscia.

La Fase Due è in qualche modo aperta e i dettagli dovrebbero essere elaborati durante la Fase Uno. Biden ha affermato esplicitamente che se i negoziati non fossero completati entro sei settimane, il cessate il fuoco verrebbe prolungato fino al loro completamento.

La seconda fase vedrebbe un accordo sulla fine permanente delle ostilità, il rilascio di tutti gli ostaggi viventi detenuti a Gaza e il completo ritiro israeliano da Gaza. Dato che non sembra esserci un quadro normativo per una cessazione definitiva, la prospettiva di successo in un periodo di tempo così breve è dubbia.

La terza fase vedrebbe poi la restituzione dei corpi di tutti gli ostaggi morti e l’inizio di un massiccio sforzo di ricostruzione a Gaza da parte della comunità internazionale.

Cosa manca

Il piano così com’è stato presentato è chiaramente incompleto e solleva la domanda se ci siano ulteriori dettagli importanti da elaborare o se quei punti, alcuni dei quali molto significativi, non siano stati omessi dall’annuncio per ragioni politiche.

Forse il punto più importante che manca nella presentazione di Biden è la governance. È un mistero se Israele o gli Stati Uniti siano disposti a tollerare un governo di Hamas. L’Autorità Palestinese potrebbe avere più facilità a subentrare se Hamas accettasse questa offerta e la presentasse come una vittoria per il popolo palestinese. Ma Israele sarebbe davvero d’accordo su questo? Il popolo di Gaza sarebbe disposto ad accettare una sorta di coalizione internazionale per il controllo temporaneo di Gaza? Anche questo sembra improbabile, anche se potrebbe essere un prezzo che vale la pena pagare per porre fine alla tragedia.

Restano aperte le questioni relative ai crimini di guerra, al caso davanti alla Corte Penale Internazionale e ai suoi potenziali mandati di arresto. Se le gravi violenze a Gaza finissero è del tutto possibile che quei casi possano sparire e con essi la speranza di riconoscere la responsabilità di Stati potenti e dei loro leader che commettono crimini di guerra. Ancora una volta, è difficile immaginare che Israele metta fine al massacro per poi affrontare quelle accuse, ed è difficile immaginare che gli Stati Uniti starebbero a guardare.

C’è anche un ovvio problema di implementazione. Biden ha affermato che se Hamas violasse i termini di questa proposta dopo che fosse stata accettata, Israele potrebbe riprendere la sua campagna genocida. Questa è una minaccia che Israele avrà sempre a disposizione. 

Ma cosa succederebbe se fosse Israele a non rispettare la sua parte nell’accordo? Biden sembra aver semplicemente dato per scontato che, se Israele lo accetterà, rispetterà l’accordo. Le lezioni di Oslo non valgono nulla per il Presidente, e di nuovo manca la consapevolezza che solo la pressione esterna – che deve includere gli Stati Uniti, anche se non è necessario che siano l’unico Stato ad applicarla – può garantire che Israele ottemperi agli accordi. È una storia con un finale molto brutto che abbiamo visto ripetersi molte volte nel corso degli anni.

La politica dell’offerta

La tempistica di questa offerta suggerisce il motivo per cui sia arrivata proprio ora. Visto che Donald Trump era stato condannato per 34 reati a New York proprio il giorno prima, Biden ha fatto di tutto per trarre vantaggio dalla giornata nera di Trump anche perché, almeno inizialmente, le condanne di Trump non sembrano avergli dato una gran spinta.

Naturalmente, visto quanto è costato a Biden il sostegno al genocidio di Gaza, ogni momento è buono per concludere un accordo. La vera domanda è perché Israele all’improvviso abbia accettato la proposta.

In primo luogo è importante comprendere la prassi di Israele. La sua squadra negoziale ha lavorato con Egitto, Qatar e Stati Uniti su questo accordo, ma è improbabile che si tratti di una proposta che venga da Israele, come l’ha presentata Biden. Netanyahu ha dovuto approvare che gli Stati Uniti facessero la proposta a nome di Israele, ma ciò non significa che Israele l’abbia ufficialmente accettata. Netanyahu ha l’ultima parola e se i partiti di estrema destra minacciassero di lasciare il governo potrebbe fare marcia indietro. 

Inoltre Netanyahu non ha avuto bisogno di premere molto per respingere il cessate il fuoco che porterebbe al rilascio degli ostaggi detenuti a Gaza, come ha ripetutamente fatto sin dall’inizio. Anche se il suo governo non dovesse cadere immediatamente, correrebbe comunque un serio rischio nei processi per corruzione in corso. Continuare la carneficina a Gaza impedisce che questo accada.

L’invito del Congresso è probabilmente parte del pacchetto che Biden ha offerto a Netanyahu per portare avanti questa proposta almeno provvisoriamente. Potrebbero esserci altri incentivi che devono ancora concretizzarsi affinché Netanyahu possa aumentare la sua popolarità in Israele o perché altri partiti, come Yesh Atid [partito israeliano sionista di centro e laico, ndt.] di Yair Lapid, accettino di salvare il suo governo se i partiti di estrema destra se ne vanno. Ma Biden ha un disperato bisogno di trarre qualcosa di positivo dalla débâcle di Gaza e se trova il modo di salvare Netanyahu e far sì che ciò accada lo farà sicuramente.

Nel suo discorso Biden ha aperto la porta a Netanyahu dicendo che negli ultimi otto mesi sono stati uccisi così tanti combattenti di Hamas che non sarebbe possibile organizzare di nuovo un attacco pesante come quello del 7 ottobre. Stava chiaramente lastricando la strada che Netanyahu avrebbe potuto percorrere per rivendicare la vittoria accettando questo accordo, suggerendo che l’intenzione di Netanyahu di sconfiggere completamente Hamas sia stata soddisfatta per quanto realisticamente possibile.

Le reazioni

Eppure sia Netanyahu che Hamas sono stati cautamente positivi nelle loro risposte. Hamas ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma: “Hamas conferma la sua disponibilità ad affrontare positivamente e in modo costruttivo qualsiasi proposta basata sul cessate il fuoco permanente e sul completo ritiro [delle forze israeliane] dalla Striscia di Gaza, sulla ricostruzione [di Gaza], e il ritorno degli sfollati ai loro luoghi, insieme alla realizzazione di un vero accordo di scambio di prigionieri se l’occupazione annuncia chiaramente l’impegno a tale accordo”.

È una risposta intelligente. Esprime il fatto che stiano ancora analizzando i dettagli, alcuni dei quali non sono ancora stati resi pubblici e che non si impegneranno pubblicamente nell’accordo finché Israele non dichiarerà il suo appoggio. Il fatto è che questa proposta soddisfa in gran parte le richieste che Hamas ha ripetuto negli ultimi mesi: cessate il fuoco completo, fine delle ostilità, ritiro completo israeliano e completa libertà dei palestinesi di tornare ovunque siano stati cacciati da Gaza.

Tutte queste cose non accadrebbero necessariamente il primo giorno, ma è improbabile che Hamas trovi un accordo migliore di questo ed è certamente un accordo che gli permette di affermare realisticamente di aver resistito a tutti gli attacchi di Israele, e che loro e il popolo di Gaza sono rimasti in piedi. Israele avrà la propria narrazione e i sostenitori di ciascuna parte abbracceranno le varie versioni, ma questo è un argomento realistico che Hamas può sostenere.

Biden ha fatto allusione all’idea che questa proposta in qualche modo rimetta in pista l’idea di una soluzione a due Stati, il che è una totale assurdità. Non avrà alcun effetto su quel miraggio, metterà semplicemente fine al massacro.

Biden ha anche lasciato intendere che la cosa potrebbe portare all’accordo di normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele. Anche questo è improbabile. Non è impossibile, ma richiederà una serie di altre cose per essere realizzato, inclusa l’approvazione del Senato sull’accordo e l’impegno di Israele per uno Stato palestinese, cosa che è altamente improbabile Netanyahu faccia.

In effetti se quell’accordo ne facesse in qualche modo parte sarebbe una ricetta per un disastro. Non solo perché l’idea della normalizzazione è una politica terribile per gli Stati Uniti, i palestinesi e l’intera regione, ma anche perché minaccia di suscitare la stessa disperazione che è stata un fattore significativo nella decisione di Hamas di lanciare l’attacco del 7 ottobre.

Biden non sarebbe saggio nel perseguire questa strada, anche se ne sarebbe tentato data la sua ossessione per l’idea di normalizzazione israelo-saudita e il suo desiderio di una grande vittoria in politica estera. La proposta, anche se accettata, difficilmente sarà quel genere di vittoria.

Ciò è dovuto soprattutto al fatto che l’intera proposta chiarisce come Israele e gli Stati Uniti abbiano perso. La tregua che potrebbe prendere piede è sul tavolo dallo scorso anno, in una forma o nell’altra. Molte vite palestinesi, così come alcune vite israeliane, avrebbero potuto essere salvate.

Israele ha insistito sul fatto che solo la forza delle armi avrebbe potuto liberare gli ostaggi, nonostante il fatto che non ci sia riuscito, mentre un precedente cessate il fuoco prevedeva la liberazione di quasi metà degli ostaggi. Hamas continua ad esistere e continuerà ad esistere indipendentemente dal fatto che questa proposta venga accettata o meno. La popolazione di Gaza è rimasta a Gaza, nonostante la massiccia perdita di vite umane.

Tutto ciò che Israele è riuscito a fare sono stati massacri e distruzioni, che hanno danneggiato gravemente e permanentemente la sua posizione nel mondo, non solo tra milioni e milioni di persone ma anche tra molti governi.

Tutto questo avrebbe potuto essere evitato e non ci vogliono piani complicati per farlo. Concedere semplicemente ai palestinesi i diritti e le libertà che tutti ci aspettiamo. In un mondo simile non ci sarebbe bisogno del 7 ottobre, né di odio, paura e insicurezza. Il discorso di Biden e la sua proposta non contengono alcun indizio che adesso capisca la situazione meglio di quanto la capisse il 6 ottobre.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Criticare Israele? I media no profit potrebbero perdere l’esenzione dalle tasse senza un procedimento corretto

Seth Stern

10 maggio 2024 – The Intercept

Una nuova legge antiterrorismo consentirebbe al governo di togliere esenzioni fiscali vitali per i mezzi di comunicazione no profit.

Di questi tempi non ci vuole molto per essere accusati di sostenere il terrorismo, e ciò non riguarda solo gli studenti che si mobilitano. Negli ultimi mesi decine di parlamentari e funzionari pubblici hanno insinuato, senza prove, che i mezzi di comunicazione statunitensi forniscono appoggio concreto ad Hamas. Alcuni hanno persino espresso minacce appena velate di perseguire testate giornalistiche in base a queste false accuse.

Le loro lettere erano bravate politiche. I pubblici ministeri non sarebbero mai stati in grado di affrontare l’onere della prova in base alle leggi antiterrorismo e tutti i politici acquiescenti che hanno firmato le lettere lo sapevano. Ma la prossima volta potrebbe essere diverso, soprattutto se mezzi di informazione no profit, come The Intercept, arrivassero a infastidire il governo.

Ciò è dovuto al fatto che una legge, approvata in aprile dalla Camera dei Rappresentanti con ampio sostegno bipartisan dopodiché una legge simile è stata immediatamente presentata al Senato consentirebbe al ministero del Tesoro di revocare lo status di no profit a qualunque organizzazione considerata “fiancheggiatrice del terrorismo”. Questa settimana il primo firmatario del disegno di legge al Senato, il repubblicano del Texas John Cornyn, l’ha presentata come emendamento alla legge che va obbligatoriamente approvata per il rinnovo delle autorità dell’Amministrazione Federale dell’Aviazione. Benché non sia passata (il Senato non ha votato neppure uno delle decine di emendamenti proposti), è probabile che presto prosegua il suo iter nell’aula del Senato sotto altra forma.

Finanziare il terrorismo è già illegale, ma la nuova legge consentirebbe al governo di evitare le lungaggini burocratiche richieste per le azioni penali o la designazione ufficiale di terrorista.

Si potrebbe pensare che l’appoggio al terrorismo perseguibile sia limitato a contributi intenzionali e diretti a gruppi terroristici. Sarebbe sbagliato. Le leggi esistenti sul sostegno materiale al terrorismo sono state a lungo criticate perché vanno oltre lo scopo e lasciano spazio ad abusi non solo contro la libertà di parola, ma anche contro operatori umanitari. Una recente lettera di 135 organizzazioni per i diritti umani che si oppongono alla legge ha evidenziato i tentativi di revocare lo status di esenzione fiscale di, oppure di rappresaglie contro, gruppi studenteschi filo-palestinesi.

Non c’è alcuna ragione di credere che la stampa sia esentata dagli abusi. Nelle loro recenti lettere alcuni politici hanno chiesto che vengano indagati per terrorismo New York Times, Reuters, CNN e Associated Press sulla base di accuse secondo cui questi mezzi di informazione avrebbero comprato fotografie da freelance palestinesi che hanno informato sugli attacchi di Hamas il 7 ottobre.

Il finto scandalo è stato originato da una falsa accusa da parte di un’organizzazione ironicamente autodenominatasi HonestReporting [Informazione corretta], secondo cui quelle immagini evidenziano che i fotografi che le hanno scattate sapevano in anticipo del massacro. Altrimenti come (oltre che, diciamo, dalle TV o da Internet) avrebbero saputo dove andare?

Quindi HonestReporting ha argomentato che anche i mezzi di comunicazione che hanno comprato le immagini avrebbero potuto essere pure loro complici, perché, ovviamente, quando un gigante internazionale dell’informazione compra una foto da qualcuno del suo vasto elenco di freelance, è ragionevole imputare i presunti peccati del freelance lungo tutta la catena.

Alla fine HonestReporting ha ritrattato questa contorta teoria, ammettendo di non avere prove e di aver semplicemente fatto delle domande. Dopo aver obbligato i mezzi di informazione a negare pubblicamente di avere legami con Hamas, HonestReporting ha affermato di credere a loro.

Ma ciò non ha dissuaso i politici statunitensi dal supporre che il fatto che alcuni freelance palestinesi a Gaza abbiano avuto contatti con politici di Hamas il che non dovrebbe sorprendere, dato che Hamas è stata l’autorità al governo nell’enclave assediata ha reso finanziatore del terrorismo chiunque li abbia assunti.

Ma c’è persino di peggio. Una delle lettere, firmata da oltre una decina di procuratori generali statali, ha ventilato la teoria secondo cui le notizie dei mezzi di informazione potrebbero essere in sé una prova del sostegno ad Hamas. Come afferma l’U.S. Press Freedom Tracker (un altro sito web no profit, gestito dalla Freedom of the Press Foundation [Fondazione per la Libertà di Stampa] dove io lavoro):

La lettera evidenzia anche che “materiale di supporto” per i gruppi terroristici – un crimine sia federale che statale – può includere “scrivere e distribuire pubblicazioni in appoggio all’organizzazione”. Non entra nei dettagli su quello che sarebbe da considerare appoggio, bloccando potenzialmente ogni informazione che non condanni inequivocabilmente Hamas o non appoggi unilateralmente Israele.”

Poi i procuratori generali mettono in guardia i mezzi di informazione che “continueremo a seguire il modo in cui date le notizie per garantire che le vostre organizzazioni non violino alcuna legge federale o statale fornendo sostegno materiale a terroristi all’estero.” I firmatari proseguono: “Ora le vostre organizzazioni sono avvertite. Rispettate la legge.”

Recentemente molti di quei procuratori generali hanno affermato che “le libertà di parola e di associazione del Primo emendamento non proteggono persone che forniscono aiuto materiale” al terrorismo. Non hanno citato lo scetticismo della Corte Suprema secondo cui “istanze presentate in base alla legge sull’appoggio materiale a discorsi o difesa supererebbero il severo controllo del Primo emendamento… persino nel caso in cui il governo dimostrasse che tali discorsi favoriscono organizzazioni terroristiche straniere.”

Alcuni membri del Congresso hanno messo gli occhi anche sui mezzi di informazione. Il senatore Tom Cotton, repubblicano dell’Arkansas, ha ripetuto la disinformazione di HonestReporting in molteplici lettere, mentre 15 parlamentari del Congresso hanno chiesto che i media forniscano informazioni riguardanti i freelance, includendo potenzialmente identità e comunicazioni delle fonti, minacciando di emettere citazioni di comparizione.

Se ci fossero dubbi sulle intenzioni dei sostenitori della legge sulle no profit, si prenda in considerazione che cinque dei suoi promotori alla Camera dei Rappresentanti hanno anche firmato una lettera all’Internal Revenue Service [Agenzia delle Entrate federale, ndt.] chiedendo come definisce l’antisemitismo e insinuando che l’IRS dovrebbe negare l’esenzione fiscale alle no profit che “promuovano un comportamento contrario alle politiche ufficiali,” anche se non sono affatto accusate di appoggiare il terrorismo.

I mezzi di informazione no profit stanno già lottando per sopravvivere anche senza le persecuzioni del governo, ma la revoca del loro status di esenzione fiscale sarebbe la campana a morto per quelli che fanno il tipo di giornalismo investigativo approfondito che di questi tempi non è quasi mai remunerativo. La semplice prospettiva bloccherebbe l’informazione, non solo su Israele ma più in generale anche sulla politica estera USA. Per non parlare della minaccia alle organizzazioni della stampa libera no profit, i cui giornalisti dipendono dalla protezione dei loro diritti (incluso quello di non essere uccisi a Gaza).

Sfortunatamente questo è solo l’ultimo esempio delle sconsiderate e inutili leggi sulla “sicurezza nazionale” che mette in pericolo la stampa. Lo scorso mese il presidente Joe Biden ha ignorato i sostenitori delle libertà civili ed ha firmato una legge che consentirebbe alle agenzie di intelligence di assoldare qualunque “fornitore di servizi” per aiutare gli USA a spiare stranieri.

Come ha spiegato il senatore democratico dell’Oregon Ron Wyder, la legge potrebbe “spingere un dipendente a inserire una chiavetta USB nel server di un ufficio che egli pulisce o vigila di notte.” E quell’ufficio potrebbe facilmente essere una redazione di giornale, in cui spesso i giornalisti parlano a stranieri le cui comunicazioni potrebbero interessare le agenzie di intelligence USA.

Il governo sta per iniziare immediatamente ad arruolare giornalisti per sorvegliare le proprie fonti o sta per chiudere mezzi di comunicazione no profit che si allontanano dalla narrazione dell’esercito israeliano? Probabilmente no, ma la storia insegna che una volta che ai politici viene dato il potere di rappresaglia contro i giornalisti che non gli piacciono inevitabilmente lo faranno. Anche la prospettiva che le leggi sullo spionaggio e su frode e abuso dei computer venissero utilizzate come arma contro il giornalismo una volta era solo ipotetica, finché non è stata più tale.

E non si dimentichi che il presumibile candidato repubblicano alle presidenziali ha pubblicamente fantasticato di incarcerare i giornalisti o vendicarsi in altro modo contro di loro.

Quanti sostengono che un secondo mandato di Donald Trump segnerebbero la fine della democrazia devono smettere di approvare nuove leggi eccessive e inutili che conferiscono a lui e a futuri personalità autoritarie nuove possibilità per perseguitare e silenziare i giornalisti che non si mettono in riga.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)