Al Jazeera porta l’uccisione di Shireen Abu Akleh alla Corte Penale Internazionale CPI

La rete afferma che le prove presentate ribaltano le affermazioni delle autorità israeliane secondo cui la giornalista palestinese sarebbe stata uccisa da un fuoco incrociato.

Annette Ekin

6 dicembre 2022 – Al Jazeera

L’Aia, Paesi Bassi Al Jazeera Media Network ha presentato una richiesta formale alla Corte Penale Internazionale (CPI) per indagare e perseguire i responsabili dell’uccisione dell’esperta giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh.

Abu Akleh, corrispondente televisiva di Al Jazeera per 25 anni, è stata uccisa dalle forze israeliane l’11 maggio mentre stava documentando un raid militare israeliano in un campo profughi a Jenin, nel nord della Cisgiordania occupata.

La 51enne nativa di Gerusalemme e cittadina statunitense era un nome familiare e una giornalista molto rispettata che ha dato voce ai palestinesi attraverso la sua copertura dell’occupazione israeliana.

Una strategia più ampia’

La richiesta include un dossier con un’indagine approfondita svolta nell’arco di sei mesi da Al Jazeera che raccoglie tutte le prove rese disponibili da testimoni oculari e riprese video, oltre a nuovo materiale sull’uccisione di Abu Akleh.

La richiesta è presentata alla CPI “nel contesto di un più ampio attacco contro Al Jazeera e i giornalisti in Palestina”, ha affermato Rodney Dixon KC, un avvocato di Al Jazeera, riferendosi ad episodi come il bombardamento degli uffici della rete a Gaza il 15 maggio 2021.

“Non è un incidente isolato, è un omicidio che fa parte di una strategia più ampia su cui l’accusa dovrebbe indagare per identificare e incriminare i responsabili dell’omicidio”, ha detto.

Il focus è su Shireen, e su questo particolare omicidio, questo vergognoso omicidio. Ma le prove che presentiamo prendono in esame tutte le azioni contro Al Jazeera perché essa è stata presa di mira come organizzazione mediatica internazionale.

“E le prove dimostrano che ciò che le autorità [israeliane] stanno cercando di fare è farla tacere”, afferma Dixon.

Al Jazeera spera che il procuratore della CPI “avvii effettivamente le indagini su questo caso” dopo la richiesta della rete, dice Dixon. La richiesta integra la denuncia presentata alla CPI dalla famiglia di Abu Akleh a settembre, sostenuta dal Sindacato della stampa palestinese e dalla Federazione internazionale dei giornalisti.

Un nuovo documentario su Fault Lines [programma televisivo americano di attualità e documentari trasmesso su Al Jazeera English, ndt.] di Al Jazeera mostra come Abu Akleh e altri giornalisti, indossando elmetti protettivi e giubbotti antiproiettile chiaramente contrassegnati con la parola “PRESS”, stavano camminando lungo una strada in vista delle forze israeliane quando sono finiti sotto il fuoco.

Abu Akleh è stata colpita alla testa mentre cercava di proteggersi dietro un albero di carrubo. Anche il produttore di Al Jazeera Ali al-Samoudi è stato colpito alla spalla.

Le nuove prove presentate da Al Jazeera mostrano che “Shireen e i suoi colleghi sono stati colpiti direttamente dalle forze di occupazione israeliane (IOF)”, ha dichiarato martedì Al Jazeera Media Network in un comunicato.

Il comunicato precisa che le prove ribaltano le affermazioni delle autorità israeliane secondo cui Shireen sarebbe stata uccisa in un fuoco incrociato e “conferma, senza alcun dubbio, che non ci sono stati spari nell’area in cui si trovava Shireen, a parte quelli delle IOF diretti contro di lei”.

“Le prove dimostrano che questa uccisione deliberata è stata parte di una campagna più ampia che ha lo scopo di prendere di mira e mettere a tacere Al Jazeera”, afferma la dichiarazione.

Le truppe delle forze di difesa israeliane (IDF) non saranno mai interrogate, ha dichiarato martedì il primo ministro israeliano Yair Lapid.

“Nessuno interrogherà i soldati dell’IDF e nessuno ci farà prediche sulla morale del combattimento, certamente non la rete Al Jazeera”, ha detto Lapid.

Il ministro della Difesa Benny Gantz ha espresso le sue condoglianze alla famiglia Abu Akleh e ha affermato che l’esercito israeliano opera secondo “gli standard più elevati”.

I prossimi passi

Parlando davanti all’ingresso della CPI nella mattinata nuvolosa e frizzante dopo che Al Jazeera ha presentato la sua richiesta, Lina Abu Akleh, che indossava un distintivo con il volto di sua zia, ha detto che la famiglia spera di vedere “presto risultati positivi”.

“Ci aspettiamo che il pubblico ministero cerchi verità e giustizia e ci aspettiamo che il tribunale si impegni a condurre in giudizio per l’uccisione di mia zia le istituzioni e gli individui responsabili di questo crimine”, ha detto.

Il fratello maggiore di Abu Akleh, Anton, ha affermato che la presentazione [della richiesta di indagine] da parte della rete è stata importante per la famiglia.

“Questo per noi è molto importante, non solo per Shireen – niente può riportare indietro Shireen – ma come garanzia che tali crimini vengano fermati e, si spera, la CPI sarà in grado di agire immediatamente per porre fine a questa impunità“.

Walid al-Omari, a capo dell’ufficio di Al Jazeera a Gerusalemme e amico e collega di Abu Akleh, ha affermato che è fondamentale mantenere vivo il caso tra l’opinione pubblica. “Non pensiamo che Israele dovrebbe sfuggire all’obbligo di rispondere giuridicamente”.

Una volta che la CPI avrà esaminato le prove deciderà se indagare sull’uccisione di Abu Akleh nell’ambito delle indagini in corso.

Portare a giudizio i responsabili’

Nel 2021 la CPI ha stabilito la propria giurisdizione sulla situazione nei territori palestinesi occupati. La presentazione di Al Jazeera richiede che l’uccisione di Abu Akleh diventi parte di questa indagine più ampia.

“Stiamo facendo una richiesta per un’indagine che porti alla presentazione di accuse e al perseguimento dei responsabili”, ha affermato Dixon.

Le indagini condotte dalle Nazioni Unite, dalle organizzazioni per i diritti umani palestinesi e israeliane e dagli organi di informazione internazionali hanno concluso che Abu Akleh è stata uccisa da un soldato israeliano.

La famiglia Abu Akleh ha chiesto un’ “indagine approfondita e trasparente” da parte dell’FBI e del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti per rivelare la catena di comando che ha portato alla morte di una cittadina statunitense.

“In breve, vorremmo che [il presidente degli Stati Uniti Joe] Biden facesse nel caso di Shireen ciò che la sua e le precedenti amministrazioni statunitensi non sono riuscite a fare quando altri cittadini americani sono stati uccisi da Israele: portare a giudizio gli assassini”, ha scritto Lina Abu Akleh su Al Jazeera nel mese di luglio.

A novembre gli Stati Uniti hanno annunciato un’indagine dell’FBI sull’uccisione di Abu Akleh, notizia accolta favorevolmente dalla sua famiglia.

Ma, ha ammonito Dixon, questa indagine non dovrebbe essere un motivo per cui la Corte penale internazionale non agisca.

“Possono, possono collaborare con… l’FBI, in modo che questo caso non scivoli tra le crepe e che i responsabili siano identificati e processati”.

Poco dopo la presentazione della richiesta alla Corte Penale Internazionale, gli Stati Uniti hanno dichiarato di respingere l’iniziativa.

“La CPI dovrebbe concentrarsi sulla sua missione principale”, ha detto ai giornalisti il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price. “E tale missione principale è servire come tribunale di ultima istanza per punire e scoraggiare i crimini atroci”.

Sfatare narrazioni mutevoli

Il documentario di Fault Lines esamina attentamente anche le mutevoli narrazioni di Israele.

Israele ha inizialmente incolpato per la morte di Abu Akleh dei palestinesi armati, ma a settembre ha affermato che c’era “un’alta probabilità” che un soldato israeliano avesse “colpito accidentalmente” la giornalista, ma che non avrebbe avviato un’indagine penale.

Hagai El-Ad, direttore dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, che ha rapidamente smentito la falsa affermazione di Israele secondo cui un uomo armato palestinese sarebbe stato responsabile della morte di Abu Akleh, ha detto a Fault Lines: Sono anche molto abituati a farla franca sia nell’arena pubblica che in quella legale nel mentire sull’uccisione di palestinesi”.

Il motivo per cui Al Jazeera ha fatto questa richiesta è perché le autorità israeliane non hanno fatto nulla per indagare sul caso. In realtà hanno detto che non indagheranno, che non c’è alcun sospetto di crimine”, afferma Dixon.

Al Jazeera Media Network definisce l’omicidio un “palese omicidio” e un “crimine atroce”.

“Al Jazeera ribadisce il suo impegno a ottenere giustizia per Shireen e ad esplorare tutte le strade per garantire che gli autori siano ritenuti responsabili e assicurati alla giustizia”, ha affermato la rete.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Indebolire il ‘legame indissolubile’: ecco perché l’indagine dell’FBI su Israele è importante

Ramzy Baroud

23 novembre 2022 – Palestine Chronicle

La recente decisione del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti di aprire un’inchiesta sull’omicidio, a maggio, della giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh non è una svolta epocale, ma tuttavia è importante e degno di riflessione.

In base alla lunga storia del sostegno militare e politico a Israele da parte degli USA e del loro continuo scudo offerto a Tel Aviv a protezione contro le responsabilità dell’occupazione illegale della Palestina, si può con certezza concludere con sicurezza che non ci sarà nessuna vera inchiesta.

Una vera e propria inchiesta sull’uccisione di Abu Akleh potrebbe aprire il vaso di Pandora di ulteriori scoperte concernenti molte altre pratiche israeliane illegali e violazioni di leggi internazionali, e persino di quelle statunitensi. Per esempio, gli investigatori americani dovrebbero esaminare l’uso israeliano di armi e munizioni USA che sono utilizzate quotidianamente per soffocare le proteste palestinesi, confiscare terre palestinesi, imporre assedi militari contro aree civili e così via. Una legge USA, la Leahy Law, proibisce specificamente al “governo USA di usare fondi per assistere unità di forze di sicurezza ove ci siano informazioni attendibili che implichino quell’unità nella perpetrazione di gravi violazioni di diritti umani.”

Inoltre un’indagine comporterebbe anche l’assunzione di responsabilità se concludesse che Abu Akleh, una cittadina statunitense, fosse stata deliberatamente uccisa da un soldato israeliano, come parecchie organizzazioni per i diritti umani hanno già concluso.

Anche questo è irrealistico. Infatti uno dei principali pilastri su cui si poggiano le relazioni USA-Israele è che, sul palcoscenico internazionale, il primo gioca il ruolo del protettore del secondo. Ogni tentativo palestinese, arabo o internazionale di indagare sui crimini israeliani ha totalmente fallito semplicemente perché Washington ha sistematicamente bloccato ogni possibile inchiesta con la scusa che Israele è in grado di investigare sé stesso, sostenendo a volte che ogni tentativo di ritenere Israele responsabile sia una caccia alle streghe e equivale all’antisemitismo.

Secondo Axios, [sito web americano fondato nel 2016 da Jim VandeHei, Mike Allen e Roy Schwartz, per un pubblico sinistra moderata, N.d.T.] questo era il senso della risposta ufficiale israeliana alla decisione USA di aprire un’indagine sull’assassinio della giornalista palestinese. “I nostri soldati non saranno sottoposti a indagini da parte dell’FBI o di qualsiasi altro Paese o organismo stranieri,” ha detto il primo ministro israeliano uscente Yair Lapid, aggiungendo: “Noi non abbandoneremo i nostri soldati nelle mani di indagini straniere.”

Sebbene quella di Lapid sia la tipica reazione israeliana, è piuttosto interessante, se non scioccante, vederla usata nel contesto di un’indagine americana. Storicamente tale linguaggio era riservato alle indagini del Consiglio per i Diritti umani delle Nazioni Unite e da giudici di diritto internazionale, come Richard Falk, Richard Goldstone e Michael Lynk. Ripetutamente tali indagini erano condotte o bloccate senza la cooperazione israeliana e sottoposte a intensa pressione americana.

Nel 2003, la portata dell’intransigenza israeliana e il cieco sostegno USA a Israele arrivarono fino al punto di far pressione sul governo belga perché riscrivesse le proprie leggi nazionali affinché archiviasse una causa per crimini di guerra contro Ariel Sharon, ex primo ministro israeliano.

Inoltre, nonostante i continui sforzi di molte organizzazioni per i diritti umani con sede negli USA perché venisse aperta un’indagine sull’omicidio di un’attivista americana, Rachel Corrie, gli USA rifiutarono persino di esaminare il caso, basandosi invece sui tribunali israeliani che scagionarono il soldato israeliano che nel 2003 era passato con un bulldozer sul corpo della ventitreenne Corrie che gli stava semplicemente chiedendo di non demolire una casa palestinese a Gaza.

Peggio ancora, nel 2020 il governo USA è arrivato al punto di sanzionare la procuratrice della Corte Penale Internazionale (ICC) Fatou Bensouda e altri funzionari senior della procura che erano impegnati nelle indagini su sospetti crimini di guerra USA e israeliani in Afghanistan e Palestina.

Tenendo presente tutto ciò ci si devono quindi porre domande sul tempismo e sui motivi delle inchieste degli USA.

Axios ha rivelato che la decisione di indagare sull’uccisione di Abu Akleh era “stata presa prima delle elezioni in Israele del primo novembre, ma il Dipartimento di Giustizia ha informato ufficialmente il governo israeliano tre giorni dopo le elezioni.” Infatti la notizia è stata rivelata ai media solo il 14 novembre, dopo le elezioni, sia in Israele che negli USA, rispettivamente il primo e il 7 novembre.

Funzionari a Washington erano desiderosi di sottolineare il fatto che la decisione non era politica, e che non era neppure legata a evitare di irritare la filoisraeliana lobby a Washington nei giorni precedenti le elezioni USA, né a influenzare i risultati di quelle israeliane. Se così fosse, allora perché gli USA hanno aspettato fino al 14 novembre per far trapelare la notizia? Il ritardo fa pensare a gravi retroscena politici e a una massiccia pressione israeliana per dissuadere gli USA dal renderla pubblica, rendendo quindi impossibile fare marcia indietro sulla decisione.

Sapendo che molto probabilmente non avrà luogo un’indagine seria, la decisione USA deve essere stata pensata in anticipo per essere meramente politica. Forse simbolica e in definitiva irrilevante, la decisione USA senza precedenti e calcolata si basa su solidi ragionamenti:

Primo, durante la sua vice-presidenza durante l’amministrazione Obama (2009-2017) il presidente USA Joe Biden ha avuto un’esperienza difficile nella gestione degli intrallazzi politici dell’allora primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Ora che Netanyahu è destinato a ritornare al timone della politica israeliana, l’amministrazione Biden ha un bisogno urgente di far leva politica su Tel Aviv, nella speranza di controllare le tendenze estremiste del leader israeliano e del suo governo.

Secondo, il fallimento della cosiddetta ‘Ondata rossa’ Repubblicana nel marginalizzare i Democratici quale forza politica e legislativa nel Congresso USA ha ulteriormente imbaldanzito l’amministrazione Biden, che ha poi finito con rendere pubblica la notizia dell’investigazione, se vogliamo credere che la decisione fosse veramente stata presa in anticipo.

Terzo, la forte presenza di candidati palestinesi e filopalestinesi nelle elezioni di metà mandato statunitensi, sia a livello nazionale che statale, ha ulteriormente rafforzato il programma progressista del partito Democratico. Persino una decisione simbolica di investigare l’omicidio di un cittadino americano rappresenta uno spartiacque per le relazioni fra l’establishment del partito Democratico e il suo elettorato più progressista dei movimenti di base. Infatti la congressista palestinese Rashida Tlaib, rieletta, ha subito reagito alla notizia dell’inchiesta descrivendola come “il primo passo verso una vera presa di responsabilità”.

Anche se l’investigazione americana sull’uccisione di Abu Akleh difficilmente darà come risultato una vera giustizia, è un momento molto importante nelle relazioni USA-Israele e USA-palestinesi. Significa semplicemente che, nonostante il consolidato e cieco sostegno USA a Israele, ci sono margini nella politica americana che possono ancora essere utilizzati, se non per ribaltare il sostegno USA a Israele, almeno per indebolire l’apparente ‘legame indissolubile’ fra i due Paesi.

– Ramzy Baroud è giornalista e direttore di The Palestine Chronicle.  È autore di sei libri, l’ultimo curato con Ilan Pappé, è “Our Vision for Liberation: Engaged Palestinian Leaders and Intellectuals Speak out” [La nostra visione per la liberazione: leader palestinesi e intellettuali impegnati fanno sentire la propria voce]. Baroud è ricercatore non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA).

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Una commissione delle Nazioni Unite dichiara che indagherà sulle accuse di “apartheid” contro Israele

Luke Tress

28 ottobre 2022 – The Times of Israel

Il rappresentante di Israele afferma che i membri della commissione “detestano” lo Stato ebraico.

I componenti della commissione d’inchiesta definiscono il termine “un paradigma appropriato“, respingono le accuse di antisemitismo come una “manovra diversiva” e le preoccupazioni sulla sicurezza come una “finzione” e sostengono che Gerusalemme potrebbe essere colpevole di crimini di guerra

NAZIONI UNITE – Giovedì la Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sulle violazioni dei diritti da parte di Israele e dei palestinesi ha dichiarato che indagherà sulle accuse di apartheid contro Israele, confermando i timori di Gerusalemme [Tel Aviv, capitale di Israele per il diritto internazionale, ndt.] che la controversa indagine conduca ad etichettarla con il termine infamante.

L’indagine delle Nazioni Unite in corso è stata avviata dal Consiglio per i diritti umani dopo gli 11 giorni di battaglia lo scorso anno tra Israele e i terroristi di Gaza, allo scopo di indagare le violazioni dei diritti in Israele, in Cisgiordania e a Gaza, ma si è concentrata quasi esclusivamente su Israele.

La Commissione ha pubblicato il suo secondo rapporto la scorsa settimana, chiedendo al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di porre fine all'”occupazione permanente” da parte di Israele e esortando gli Stati membri delle Nazioni Unite a perseguire i responsabili israeliani.

Giovedì, durante un briefing alle Nazioni Unite a New York, i tre membri della commissione hanno dichiarato che i prossimi rapporti riguarderanno le indagini sull’apartheid da parte di Israele. Hanno affermato che finora la ricerca si è concentrata sulle “cause profonde” del conflitto, da loro imputato alla presenza di Israele in Cisgiordania.

Navi Pillay, un’ex responsabile delle Nazioni Unite per i diritti umani che presiede la commissione, ha definito l’apartheid “una manifestazione dell’occupazione”.

“Ci stiamo concentrando sulla causa principale, rappresentata dall’occupazione, mentre l’apartheid fa parte dei suoi effetti”, dice Pillay. Ci arriveremo. Questo è il vantaggio del nostro mandato a tempo indefinito, ci consente una vasta libertà di indagine”.

Il membro della Commissione Miloon Kothari ha affermato inoltre che la natura a tempo indefinito dell’indagine permette di approfondire l’accusa di apartheid.

“Ci arriveremo perché abbiamo a disposizione molti anni e molti aspetti da approfondire”, dice.

“Pensiamo che sia necessario un approccio globale, quindi dobbiamo esaminare le questioni del colonialismo d’insediamento”, aggiunge Kothari. “L’apartheid è in sé un paradigma molto appropriato, quindi avremo un approccio leggermente diverso, ma ci arriveremo sicuramente”.

Israele ha rifiutato di collaborare con la commissione e non le ha concesso l’ingresso in Israele o nelle aree sotto controllo palestinese in Cisgiordania e Gaza. Ha respinto il rapporto della scorsa settimana, definendo la commissione non credibile né legittima. Giovedì, l’ambasciatore di Israele presso le Nazioni Unite ha affermato che i membri della commissione sono stati scelti in quanto “detestano” Israele.

I resoconti dell’inizio di quest’anno affermavano che il ministero degli Esteri stesse pianificando una campagna per sventare le accuse di apartheid da parte della commissione. Secondo quanto riferito, un cablogramma trapelato ha rivelato che i funzionari israeliani erano preoccupati per il danno che il primo rapporto della commissione avrebbe potuto causare se avesse fatto riferimento ad Israele come uno “Stato di apartheid”.

Il primo ministro Yair Lapid, che all’inizio dell‘anno ricopriva il ruolo di ministro degli Esteri, ha avvertito che quest’anno Israele avrebbe dovuto affrontare intense campagne rivolte ad etichettarlo come uno Stato di apartheid.

Nel corso degli ultimi due anni il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, Human Rights Watch, Amnesty International e altre [organizzazioni per i diritti umani] hanno accusato Israele di apartheid, prendendo in prestito il termine dal sistema sudafricano di discriminazione su base razziale.

Israele ha negato categoricamente le accuse di apartheid, affermando che la sua minoranza araba gode di pieni diritti civili, mentre la maggior parte dei palestinesi, che vivono al di fuori del territorio sovrano di Israele, sono soggetti al governo dell’Autorità Nazionale Palestinese sulla base degli accordi di Oslo.

Ha inoltre reagito con irritazione al termine “occupazione”, usato per descrivere le sue attività in Cisgiordania e a Gaza. Considera Gaza, dalla quale ha ritirato soldati e coloni nel 2005, come un’entità ostile governata dal gruppo terroristico islamico Hamas, e ritiene la Cisgiordania un territorio conteso soggetto a negoziati di pace interrotti da quasi dieci anni. I palestinesi rivendicano come futuro Stato indipendente la Cisgiordania, Gerusalemme Est e Gaza, territori conquistati da Israele nella guerra del 1967.

Giovedì la commissione ha presentato all’Assemblea generale delle Nazioni Unite il suo ultimo rapporto.

Il rapporto di 28 pagine accusa Israele di violare il diritto internazionale rendendo permanente il suo controllo sulla Cisgiordania e annettendo a Gerusalemme e in Cisgiordania territori rivendicati dai palestinesi e terra siriana sulle alture del Golan. Accusa inoltre Israele di politiche discriminatorie nei confronti dei cittadini arabi, di furto di risorse naturali e di violenza di genere contro le donne palestinesi.

Non menziona affatto Hamas, razzi o terrorismo, sebbene la commissione abbia ripetutamente precisato che presunti crimini palestinesi rientrano nell’ambito dell’indagine.

In passato i tre componenti della commissione sono stati aspramente critici nei confronti di Israele e Israele ha affermato che l’indagine è viziata da pregiudizi e antisemitismo.

Lapid ha definito il rapporto antisemita, “di parte, falso, istigatore e palesemente sbilanciato”.

Giovedì Pillay ha negato le accuse di aver definito in passato Israele uno Stato di apartheid. Il gruppo di monitoraggio di UN Watch [ONG internazionale la cui missione dichiarata è “monitorare le prestazioni delle Nazioni Unite sulla base della propria Carta”, ndt.] ha affermato di aver documentato più casi in cui fino al 2020 ella avrebbe accusato Israele di apartheid.

La Pillay ha anche affrontato critiche per la sua difesa di Kothari, che ha suscitato un putiferio all’inizio di quest’anno, quando ha affermato che i social media sarebbero “controllati in gran parte dalla lobby ebraica”, invocando tropi antisemiti sul potere ebraico. Ha anche chiesto perché Israele facesse parte delle Nazioni Unite.

Giovedì l’inviato israeliano alle Nazioni Unite, Gilad Erdan, ha condannato il rapporto insieme ai genitori di Ido Avigal, un bambino ucciso da Hamas durante il conflitto del 2021.

“[I commissari] sono stati scelti proprio in quanto detestano lo Stato ebraico”, ha detto Erdan.

I membri della commissione hanno affermato che le critiche di Israele non “smentiscono i risultati” del rapporto.

Anche gli Stati Uniti hanno ripetutamente condannato la commissione. Mercoledì durante un incontro con il presidente israeliano Isaac Herzog il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha denunciato l’indagine come di parte.

L’indagine “segue uno schema di vecchia data prendendo di mira Israele e non fa nulla per realizzare i presupposti per una pace”, ha affermato la Casa Bianca.

Giovedì Pillay ha respinto le accuse di antisemitismo, definendo le affermazioni “offensive” e “una manovra diversiva”.

Non siamo tutti e tre degli antisemiti. Consentitemi di chiarirlo e poi, come se non bastasse, hanno affermato che anche la relazione sarebbe antisemita. Non c’è una parola in questo rapporto che possa essere interpretata come antisemita”, ha detto. “Questa [accusa] viene sempre sollevata come diversivo.”

Siamo fortemente impegnati per la giustizia, lo stato di diritto e i diritti umani e non dovremmo essere costretti a subire tali insulti. Sono totalmente falsi, tutte falsità e bugie”, afferma.

Dice che Israele potrebbe essere colpevole di crimini internazionali, inclusi crimini di guerra, per il trasferimento di civili nei “territori occupati”, riferendosi agli insediamenti coloniali in Cisgiordania, dove vivono quasi 500.000 israeliani.

Kothari ha definito i coloni un “corpo paramilitare”.

“Possono fare quello che diavolo vogliono, possono fare irruzione nelle case, possono distruggere gli ulivi”, ha detto.

Pillay ha respinto, definendole “una finzione” dietro cui il Paese cerca di “nascondersi”, le preoccupazioni sulla sicurezza citate da Israele come giustificazione per il mantenimento di una presenza in Cisgiordania.

“Alcune delle politiche israeliane in Cisgiordania hanno solo lo scopo di giustificare in modo apparente problemi di sicurezza”, ha affermato.

La commissione ha chiesto a Israele di ritirarsi immediatamente dalla Cisgiordania, senza fare nessuna richiesta ai palestinesi.

Kothari respinge l’idea di un ritiro israeliano come parte di colloqui di pace verso una soluzione a due Stati, un processo sostenuto da gran parte della comunità internazionale.

“Come possiamo parlare di pace o negoziati senza che prima vengano prese delle misure da parte israeliana?” afferma Kotari.

Mentre la maggior parte degli israeliani sostiene una soluzione a due Stati, Israele ritiene che un ritiro unilaterale dalla Cisgiordania senza garanzie di sicurezza creerebbe uno Stato terroristico alle sue porte, indicando come esempio Gaza, dove ha condotto guerre ripetute per ostacolare gli attacchi missilistici di Hamas contro i civili. Israele giustifica anche il suo blocco sulla Striscia di Gaza, mantenuto insieme all’Egitto, come misura di sicurezza necessaria per fermare il terrorismo.

Il primo rapporto, pubblicato a maggio, faceva una breve menzione degli attacchi missilistici e del terrorismo palestinese, ma condannava la “persistente discriminazione contro i palestinesi” da parte di Israele come causa della violenza tra le due parti.

Giovedì la commissione ha affermato che “condanna qualsiasi forma di violenza”.

Il commissario Chris Sidoti ha detto che i rapporti futuri avranno “una copertura più completa” e che i dati su Israele sono limitati perché Israele non ha consentito l’ingresso ai commissari.

“Se ci sarà dato il permesso di entrare in Israele faremo queste domande ai funzionari competenti”, afferma Kothari. “Dateci la vostra versione delle cose perché vogliamo riportare i fatti con equità“.

I commissari non hanno accesso neppure a Gaza o in Cisgiordania.

La commissione è stata istituita l’anno scorso durante una sessione speciale del Consiglio per i diritti umani nel maggio 2021 a seguito dei combattimenti tra Israele e terroristi palestinesi nella Striscia di Gaza. L’UNHRC ha incaricato l’organismo di condurre un’indagine su “tutte le presunte violazioni del diritto umanitario internazionale e tutte le presunte violazioni e abusi delle leggi internazionali sui diritti umani” in Israele, Gerusalemme est, Cisgiordania e Gaza.

La commissione è stata la prima ad ottenere dall’organismo per i diritti umani delle Nazioni Unite un mandato a tempo indefinito – piuttosto che avere il compito di indagare su un crimine specifico – e i critici affermano che delle indagini così prolungate mostrino la presenza di pregiudizi anti-israeliani all’interno del consiglio dei 47 Stati membri. I fautori sostengono la commissione come una modalità per tenere gli occhi aperti sulle ingiustizie affrontate dai palestinesi durante decenni di dominio israeliano.

Sembrano accettare un’occupazione senza fine, ma si lamentano di questa commissione. Il mandato a tempo indeterminato ci consente di affrontare in profondità alcuni di questi problemi”, sostiene Pillay.

La commissione ha anche dichiarato di non aver avviato l’indagine – l’hanno fatto gli Stati membri – e ha detto di ritenere che le Nazioni Unite dovrebbero istituire più indagini a tempo indefinito.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Biden ha perso il contatto con la realtà

Odeh Bisharat

20 luglio 2022 – Haaretz

Nonostante le infinite dichiarazioni del presidente USA Joe Biden secondo cui la meta del suo viaggio era Israele e dopo aver incessantemente declamato quello che si pensava che avrebbe dichiarato durante la sua visita, sembra che qualcosa sia andato storto: la sua mente sveglia ha ritenuto di trovarsi sul suolo ucraino. Quando ha messo piede sulla pista dell’aeroporto internazionale Ben Gurion è diventato estremamente empatico con il Paese che sta lottando contro l’occupazione. Che errore imbarazzante.

Ma persino dopo che finalmente si è reso conto di essere in Medio Oriente e non in Ucraina è rimasto ossessionato dall’argomento dell’occupazione. Ha manifestato al proprio staff sorpresa riguardo al motivo per cui il primo ministro israeliano Yair Lapid non va in giro in uniforme come il presidente ucraino Vladimyr Zelenskyy, che sta combattendo contro i russi. Perché non sta infondendo nell’eroico popolo ebraico uno spirito combattivo. Dov’è lo spirito dei Maccabei [combattenti dell’insurrezione ebraica contro il re seleucide Antioco IV nel II secolo a.C., ndt.]?

Lo sfortunato entourage di Biden gli ha spiegato ancora una volta che qui la situazione è diversa e gli ha ricordato che Lapid nell’esercito ha fatto solo il giornalista. L’accorto Biden li ha corretti ed ha affermato che Lapid ha fatto il servizio militare nella Bamahane, e i suoi collaboratori sono stati ancora una volta costretti a spiegargli che Bamahane è il nome di un settimanale, non di una base militare.

Durante la sua visita Israele è sembrato a Biden un Paese che geme sotto l’occupazione palestinese, che lotta eroicamente per la sua libertà. I suoi occhi si sono riempiti di lacrime e ha giurato di proteggerne la sicurezza. Se c’è l’America, Israele può riposare in pace, ha promesso. L’ex-primo ministro Benjamin Netanyahu, comandante ancor prima di essere nato del Beitar, organizzazione clandestina pre-statale, che combatté contro i palestinesi e in precedenza contro i britannici, ha ottenuto la stima dell’accorto presidente. “Ti voglio bene,” gli ha detto, e così facendo ha cancellato una penosa vicenda di controversi rapporti tra il moderno Bar Kochba [condottiero ebreo che combatté contro i romani, ndtr.] e il partito Democratico USA.

La verità è che non è Biden ad essere rimbambito, è tutta l’America ad essere politicamente rimbambita (nel senso di perdere il contatto con la realtà), compresi i suoi scienziati, filosofi, politici, giornalisti, AIPAC [principale organizzazione della lobby filo-israeliana, ndt.] e organizzazioni per i diritti umani. In effetti tutta l’America è una fonte di assurdità. Tratta ancora Israele come un lattante che ha bisogno di altri miliardi per rafforzare la propria sicurezza e per altre cerimonie in cui giura “mai più”, mentre il suo esercito calpesta un intero popolo. “Mai più” e l’orrore sta invadendo le colline e le valli.

Mai più, e le armi americane stanno riempiendo gli arsenali, non per liberare gli ebrei dall’oppressione, ma per rafforzare l’assedio e l’occupazione del popolo palestinese da parte di Israele. Ogni anno l’America arriva in Israele con miliardi di dollari, e ai palestinesi, assediati e sottoposti all’occupazione, 200 milioni, metà dei quali sono soldi arabi degli Emirati, per gli ospedali palestinesi. Miliardi per l’occupante, spiccioli per l’occupato. Mai più. E lo stupendo Israele e i discendenti dei Maccabei stanno entrando ovunque in Paesi vicini e lontani, nella forma di armi vendute al miglior offerente, non importa quante vittime provocheranno.

E sullo stesso argomento Yaya (Yair) Fink [ex-dirigente del partito Laburista israeliano, ndt.] scrive su Twitter: “La prossima volta che il presidente degli Stati Uniti atterrerà qui potrebbe incontrarsi con (Bezalel) Smotrich [noto politico di estrema destra, ndt.] come ministro della Giustizia, (Itamar) Ben-Gvir [dirigente del partito di estrema destra razzista “Potere ebraico”, ndt.] come ministro della Pubblica Sicurezza e Avi Maoz [politico dell’estrema destra religiosa, ndt.] come ministro delle Questioni religiose. C’è qualcun altro che sta pensando di non andare a votare?”

E io, alla luce di questo orrido post, ho pensato: “E se questo terrificante scenario diventasse realtà?” Nel mezzo del mio sconforto ho avuto una rivelazione: forse questo terrificante scenario è la chiave della salvezza dei palestinesi. Il mondo intero accoglie i bellissimi carcerieri israeliani, che stanno tenendo imprigionati milioni di palestinesi. Forse se sostituiamo i guardiani graziosi con quelli orribili, il flusso di empatia finirà e inizieranno a comprendere che farebbero bene a lavarsi le mani di questo abominio.

Ogni pentola ha il suo coperchio, dicono gli arabi, e niente è più apppropriato alla pentola dell’occupazione di orrendi coperchi come Ben-Gvir e Smotrich. Non quelli bellissimi come Yair Lapid. Forse in questo modo libereremo dall’incantesimo il nostro Joe Biden, che si riprenderà e smetterà di inviare miliardi e anche di appoggiare la macchina dell’occupazione.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Sei mesi fa Israele ha etichettato come terroriste alcune associazioni palestinesi per i diritti umani. L’amministrazione Biden afferma di stare ancora esaminando le “prove”

Michael Arria

19 aprile 2022 – Mondoweiss

Sei mesi dopo l’amministrazione Biden non ha contestato in alcun modo la definizione israeliana di “istituzioni terroristiche” contro sei organizzazioni della società civile palestinese.

Sono passati sei mesi da quando il governo israeliano ha etichettato come “organizzazioni terroristiche” alcune associazioni della società civile palestinese ma, nonostante ripetute richieste di intervenire, il governo USA non ha ancora controbattuto in alcun modo a questa definizione.

Nell’ottobre 2021 il ministro della Difesa Benny Gantz ha annunciato che sei associazioni per i diritti umani (Addameer, Al-Haq, Defense for Children International – Palestine [Difesa Internazionale dei Minori-Palestina), il Bisan Centre for Research and Development [Centro Bisan per la Ricerca e lo Sviluppo], l’Union of Palestinian Women’s Committees [Unione dei Comitati delle Donne Palestinesi], e l’ Union of Agricultural Work Committees [Unione dei Comitati del Lavoro Agricolo]) hanno avuto rapporti con terroristi. Gantz ha affermato che queste organizzazioni “sono affiliate” al Fronte Popolare [per la Liberazione della Palestina] e che le loro “principali attività… sono la liberazione della Palestina e la distruzione di Israele.” Il governo israeliano non ha ancora fornito alcuna prova che metta in relazione queste associazioni con il terrorismo.

Israele non ha ancora fornito alcuna prova pubblica che metta in rapporto queste associazioni con il terrorismo e documenti riservati ottenuti da +972, Local Call [versione in ebraico di +972, ndtr.] e The Intercept [sito di controinformazione] rivelano che le accuse sono probabilmente discutibili.

L’iniziativa israeliana è stata ampiamente criticata. “Questa definizione è un attacco frontale contro il movimento palestinese per i diritti umani e contro i diritti umani ovunque,” ha dichiarato l’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani. “Far tacere queste voci non è ciò che dovrebbe fare una democrazia che rispetti i diritti umani e gli standard umanitari. Chiediamo alla comunità internazionale di difendere i difensori [dei diritti umani, ndtr.].”

“Questa decisione terribile e ingiusta è un attacco da parte del governo israeliano contro il movimento internazionale per i diritti umani,” afferma una dichiarazione comune di Human Rights Watch e Amnesty International.

“Da decenni le autorità israeliane hanno sistematicamente cercato di imbavagliare il monitoraggio dei diritti umani e di punire quanti criticano il suo dominio repressivo sui palestinesi. Mentre i membri del personale delle nostre organizzazioni hanno dovuto affrontare deportazioni e divieti di viaggio, i difensori palestinesi dei diritti umani hanno sempre sopportato il peso maggiore della repressione.”

Israele ha inviato una delegazione alla Casa Bianca per fornire all’amministrazione Biden quelle che sostengono siano prove “inequivocabili” contro le associazioni dei diritti umani. “Riceviamo dettagliate informazioni dal governo israeliano. Apprezziamo la collaborazione,” ha detto all’epoca ai giornalisti il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price. “Stiamo controllando le informazioni che loro (Israele) ci hanno fornito.”

Vari parlamentari hanno chiesto un’azione rapida da parte del presidente. La deputata Betty McCollum ha presentato una risoluzione che condanna la definizione. Chiede all’amministrazione Biden di denunciare l’iniziativa, di fare pressione sui politici israeliani perché revochino la decisione e di riconoscere pubblicamente l’importante lavoro delle associazioni palestinesi della società civile. Undici membri della Camera hanno promosso la proposta di legge, comprese le parlamentari Ilhan Omar, Rashida Tlaib, Alexandria Ocasio-Cortez e Cori Bush. Mondoweiss si è rivolto a vari co-firmatari della legge perché chiedano conto della mancanza di progressi di Biden, ma fino alla pubblicazione [di questo articolo] nessuno ha fatto commenti.

Nel novembre 2021 il parlamentare Jim McGovern ha inviato una lettera al segretario di Stato Tony Blinken perché chiedesse a Biden di prendere l’iniziativa. “Signor segretario di Stato, non è sufficiente aver manifestato inizialmente diffidenza riguardo alla decisione di Israele di definire terroriste queste sei organizzazioni,” vi si legge. “Ora è tempo di denunciare in modo fermo e senza ambiguità le azioni intraprese e di sollecitare il governo israeliano a revocare le sue decisioni.”

Sei mesi dopo Biden non ha ancora preso alcuna iniziativa. In effetti l’amministrazione sostiene di stare ancora verificando le prove che Israele ha presentato lo scorso anno. “Abbiamo ricevuto informazioni dettagliate su questa stessa questione dai nostri partner israeliani e c’è qualcosa che stiamo continuando a verificare,” ha affermato la scorsa settimana Ned Price durante una conferenza stampa del Dipartimento di Stato. “Noi stessi ce ne stiamo occupando in modo molto accurato.”

All’inizio del mese le sei associazioni palestinesi hanno rilasciato una dichiarazione comune chiedendo agli Stati Uniti, all’Unione Europea e a organizzazioni intergovernative di “prendere iniziative concrete contro la continua persecuzione da parte delle autorità dell’occupazione israeliana” e chiedere una “un annullamento totale della definizione.”

“La criminalizzazione da parte dell’occupazione israeliana delle sei organizzazioni palestinesi è esplicitamente intesa a ottenere conseguenze di secondo e terzo livello sulle possibilità da parte delle associazioni per i diritti umani e della società civile di continuare a fare il proprio lavoro fondamentale, soprattutto l’impegno per chiamare Israele a rendere conto dei suoi crimini e violazioni delle leggi internazionali commesse contro il popolo palestinese,” si legge nella dichiarazione.

Le organizzazioni notano che queste conseguenze si sono già fatte sentire. Nel gennaio 2022 il governo olandese ha tagliato i finanziamenti alla Union of Agricultural Work Committees (UAWC), la Commissione Europea ha sospeso un progetto di Al-Haq e un altro dell’UAWC e un tribunale militare nella Cisgiordania occupata ha condannato a 16 mesi di prigione la presidentessa di Union of Palestinian Women’s Committees, Khitam Sa’afin.

“La definizione da parte del governo israeliano del DCIP come organizzazione terroristica è un palese tentativo di mettere fuorilegge ed eliminare il nostro lavoro di documentazione delle violazioni dei diritti umani contro i minori palestinesi,” ha detto a Mondoweiss Miranda Cleland, di Defense for Children International – Palestine. “Proprio questa settimana il nostro gruppo di lavoro ha documentato tre casi in cui forze israeliane hanno sparato e ucciso minori palestinesi con proiettili veri. Lo scorso anno è stato il più letale dal 2014 per i minori palestinesi, e, nonostante il governo israeliano abbia preso di mira il nostro legittimo lavoro per i diritti umani, siamo impegnati a proteggere e difendere i diritti dei minori palestinesi indipendentemente da quanto ci metteranno gli USA a verificare le infondate accuse del governo israeliano che sono già state smentite da altri Stati e da esperti ONU.”

Ahmed Abofoul, responsabile per la ricerca e la difesa legale di Al-Haq, ha affrontato su Twitter la ricorrenza dei sei mesi. “Oggi sono sei mesi da quando in modo impudente e calunnioso il regime di apartheid israeliano, senza presentare agli Stati, per non dire alle organizzazioni, uno straccio di prova, ha definito ‘organizzazioni terroristiche’ sei associazioni palestinesi della società civile e per i diritti umani,” ha twittato Abofoul. “Questa definizione avrà un effetto dannoso durevole sulle associazioni e sul loro personale. Gli Stati dell’Occidente stanno ancora cercando ‘informazioni’, e Israele rifiuta di presentarle. Questi Stati non hanno ancora condannato questa iniziativa e continuano ad attendere indefinitamente!”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Peter Beinart. “Un quarto degli ebrei americani considera Israele uno Stato di apartheid”

Sylvain Cypel – Sarra Grira – Peter Beinart

11 aprile 2022 – Orient XXI

In occasione del Forum di Doha (26-27 marzo 2022) abbiamo incontrato Peter Beinart, direttore della rivista progressista ebraica Jewish Currents per evocare con lui l’evoluzione dell’opinione negli Stati Uniti e di quella della comunità ebraica riguardo a Israele.

Il 15 marzo 2022 l’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC), la lobby ufficiale filoisraeliana nel Congresso americano, ha divulgato l’elenco dei beneficiari del suo sostegno finanziario per le elezioni della Camera dei Rappresentanti e di parte dei senatori del novembre 2022 negli Stati Uniti. Tra essi sono presenti 40 candidati repubblicani della frangia più estremista, che tuttora contestano l’elezione alla presidenza del democratico Joe Biden e soprattutto rifiutano di prendere le distanze dai rivoltosi fedeli a Trump che il 6 gennaio 2021 hanno invaso il Campidoglio nella speranza di impedire l’insediamento del nuovo presidente. Il sostegno finanziario fornito dalla lobby filoisraeliana a questi candidati ha suscitato reazioni indignate negli Stati Uniti, anche all’interno della comunità ebraica.

Richard Haass, un noto diplomatico oggi presidente del Consiglio per le Relazioni Estere, il principale gruppo di esperti specializzato nelle questioni internazionali, ha espresso l’opinione che il sostegno dell’AIPAC a politici che aprono all’idea di “minare la democrazia” segna la “sconfitta morale” della lobby. Abe Foxman, per lungo tempo presidente dell’Anti-Defamation League, la principale organizzazione americana di contrasto all’antisemitismo, ha affermato che l’organizzazione ha commesso “un deplorevole errore”. “Non è il momento per il movimento filoisraeliano di compiere una selezione tra i propri amici”, ha replicato la lobby. In altri termini, non se ne parla per Israele di privarsi del sostegno di persone motivate dalla preservazione della supremazia bianca, anche a costo di abbandonare la democrazia.

Sono queste le questioni che abbiamo affrontato con Peter Beinart, le cui considerazioni abbiamo raccolto qui di seguito sotto forma di editoriale.

Fine dell’orientamento bipartisan della lobby filoisraeliana

“Gli Stati Uniti sono una democrazia molto giovane. Fino agli anni ’60 questo Paese non era realmente tale, poiché vi dominava la segregazione razziale. In seguito questa è stata abolita, ma l’America continua a mantenere una grande quantità di norme sociali appartenenti al passato. Ora la popolazione diventa ogni giorno meno bianca e meno cristiana. Il dibattito che emerge in questo Paese è il seguente: è in grado di diventare una vera democrazia multirazziale? Sessant’ anni fa il movimento per i diritti civili aveva dato inizio a questo cambiamento. Fu favorita dal fatto che a partire dal 1965 nuove leggi sull’immigrazione hanno consentito che un grande numero di immigrati si stabilisse negli Stati Uniti1, di cui il 90% non era europeo. Ciò ha condotto alla vittoria di Barack Obama nel 2008. Ma in quel momento non si poteva immaginare la reazione che questo processo avrebbe suscitato. Essa ha seguito un percorso sempre più chiaramente accolto: se la democrazia deve comportare la perdita del dominio dei bianchi, allora si può fare a meno di una tale democrazia. Ciò ha condotto all’elezione di Donald Trump e questo movimento reazionario prosegue tuttora, forse ancor più potentemente.

“Per molto tempo gli Stati Uniti sono stati governati da due partiti che in fondo non erano profondamente diversi. Certo c’erano delle differenze, ma erano anche molto simili. Se si considera la rielezione di Bill Clinton contro il repubblicano Bob Dole nel 1996, la distanza tra loro non era poi troppo ampia. Ma nel corso di una generazione il partito democratico è diventato “il partito della diversità”, più aperto alle rivendicazioni delle donne, delle minoranze razziali e degli immigrati, mentre il partito repubblicano è diventato quello dei maschi bianchi cristiani. Trent’anni fa c’erano democratici contrari all’aborto e repubblicani che sostenevano la libertà delle donne di poter decidere. Oggi questo sarebbe impossibile. Abbiamo due partiti completamente polarizzati in uno scontro diretto radicale.

“Qual è il legame tra questa evoluzione e il rapporto con Israele? Se prendiamo il caso dell’AIPAC, storicamente questa lobby ha sempre agito allo scopo di mantenere un accordo bipartisan della classe politica nel sostenere Israele. Ma nel contesto che ormai prevale negli Stati Uniti è tale la divisione tra l’adesione senza riserve dei repubblicani alla destra e all’estrema destra israeliana e le critiche formali dei democratici nei confronti della politica israeliana di colonizzazione, che un sostegno bipartisan diventa sempre meno possibile. La decisione dell’AIPAC di sostenere dei parlamentari favorevoli ai rivoltosi del 6 gennaio 2020 è la conseguenza della crescente distanza tra i due campi. E questa distanza non si delinea solo a livello politico. Essa attraversa tutta la società americana. Quando ero ragazzo la differenza tra essere democratico e repubblicano non era questione di identità. Ormai ciascuno ha la sensazione che la posta in gioco sia esistenziale; ognuno percepisce il campo avverso come una minaccia alla propria identità e integrità.

“Il giorno in cui è stata ufficializzata la vittoria di Joe Biden, dopo tutti i riconteggi dei voti, è stata una follia: a New York, dove abito, la gente apriva le finestre e gridava di gioia. Non era altro che l’elezione di Biden, ma la si viveva come fosse una rivoluzione! L’incubo Trump era finito. Ma altrove i sostenitori repubblicani erano sia depressi che rabbiosi, convinti che le elezioni gli fossero state rubate. In breve, il centro della scacchiera politica è quasi scomparso. È per questo che la decisione dell’Aipac di sostenere i parlamentari che contestano il risultato delle elezioni presidenziali del 2020 e rifiutano di prendere le distanze dai rivoltosi è particolarmente importante. Significa che la sua linea “bipartisan” è finita. Ormai la lobby si allea con il campo che sostiene Israele in ogni circostanza e poco importa che questo schieramento conduca una battaglia contro la democrazia negli Stati Uniti. L’AIPAC lo sa e vi si unisce con piena cognizione di causa.

Americani ebrei piuttosto che ebrei americani

“Parallelamente si assiste ad una crescente polarizzazione nell’ambito dell’ebraismo americano. Negli anni ’50 nella comunità ebraica c’era un grande schieramento “centrista”. Era costituito dagli ebrei afferenti a due correnti religiose: quella chiamata “riformata” e quella detta “conservatrice”. Queste due tendenze non seguivano rigorosamente le regole religiose dell’ebraismo e speravano di inserirlo nella modernità. La maggior parte degli ebrei seguiva una di queste due tendenze. Che ne è oggi? L’affiliazione conservatrice è quasi scomparsa. Gli ebrei riformati restano maggioritari, ma l’obbedienza detta “ortodossa” (o “ultra-ortodossa”) da diversi decenni vive una formidabile crescita. Per la generazione che oggi ha meno di dieci anni essa sarà indubbiamente maggioritaria. Di contro, l’altra tendenza che cresce notevolmente tra gli ebrei è quella di svincolarsi da ogni corrente religiosa.

“Questo si avvicina molto a ciò che avviene in Israele, con una palese differenza: tra gli ebrei americani i non religiosi sono molto più di sinistra di quelli israeliani. Oggi nella comunità ebraica ultra-ortodossa non trovereste nessuno che abbia votato per Joe Biden. D’altro canto, la vera religione degli ebrei laici americani è il progressismo. Questo schieramento si allontana sempre più da Israele. E i giovani ebrei progressisti non si percepiscono come ebrei americani, bensì come americani ebrei. A differenza della generazione precedente, la loro identità americana è più forte di quella ebraica. Non è che detestino Israele, è che Israele non costituisce la loro principale preoccupazione.

“Detto ciò, anche tra i non religiosi si trovano giovani che ancora si identificano molto chiaramente come ebrei e che sono i più feroci critici di Israele, perché hanno una visione molto più universalista dell’ebraismo. Se ne trovano in J-Street (una piccola lobby progressista filoisraeliana), ma ancor di più in Jewish Voice for Peace (JVP)2. Se ne trovano anche molti tra i lettori di Jewish Currents [rivista ebraica laica americana progressista, ndtr.]. Il loro ruolo è crescente. Questa categoria di ebrei americani è sempre più inserita all’interno della sinistra radicale in senso ampio: è legata alle lotte a favore dei neri, degli immigrati e dei palestinesi.

Wes hall overcome” ad un posto di blocco

“Su quest’ultimo punto la differenza tra J-Street e JVP è molto grande. J-Street rappresenta coloro che affermano: “Noi siamo gli ebrei buoni che vogliono salvare Israele da sé stesso”. JVP ha una strategia che mi pare più sensata: per loro si tratta di essere alleati dei palestinesi, come i bianchi progressisti sono alleati dei neri. Sono anche più interessanti. Negli anni 2010 un gran numero di giovani ebrei passati per J-Street l’hanno lasciata per diventare più radicali aderendo a ‘If not Now’ [‘Se non ora’], un’associazione la cui ambizione è rappresentare gli ebrei che lottano contro l’occupazione della Palestina. Ma stanno cominciando ad andare in crisi. Perché, più semplicemente, non passare dalla parte dei palestinesi? Dato che questo movimento che ha il vento in poppa oggi non intende più esprimersi in nome dei “valori ebraici”, ma dei valori universali, dell’antirazzismo e dell’anticolonialismo.

“Questa svolta dei giovani ebrei si inserisce in un cambiamento più generale che si delinea negli Stati Uniti. Il movimento Black Lives Matter ha ripreso le fila della lotta antirazzista degli anni ’60. Negli anni tra il 1980 e il 2000 quella lotta si era parecchio indebolita. Ma le figure emergenti nella lotta dei neri sono più radicali. Il loro legame con i palestinesi è passato attraverso le immagini delle violenze delle forze di occupazione contro di loro, della brutalità quotidiana di questa occupazione. La serie di crimini compiuti dalla polizia negli Stati Uniti in questi ultimi anni, dall’uccisione di David Brown a Ferguson, a quella di Eric Garner3 a New York nel 2014, ha avuto un grande ruolo nello spingere i neri americani a stabilire un nesso con la situazione dei palestinesi. Ormai iniziano a percepire i palestinesi come vittime di un’identica sorte: noi abbiamo la nostra apartheid, loro hanno la loro. Ovviamente ciò fa impazzire i dirigenti delle organizzazioni ebraiche americane, che gridano all’insulto e denunciano l’ignoranza di questa analogia. Ma la loro posizione non passa, perché la sensazione è che i neri negli Stati Uniti siano tuttora discriminati e che i palestinesi lo siano in Palestina.

“L’AIPAC ad un certo punto ha investito molto per trovare alleati di Israele all’interno della comunità nera americana, del resto con un certo successo. Ma oggi, quando dei neri visitano Israele e si recano nei territori occupati, l’identificazione con la sorte riservata ai palestinesi è quasi immediata. Qualche anno fa delle deputate nere americane che erano in visita in Israele sono state condotte ad un posto di blocco. Sono rimaste talmente sconvolte che si sono messe a cantare “We shall overcome”, la più famosa canzone di protesta americana, cantata tra gli altri da Pete Seeger e Joan Baez. Queste persone, una volta rientrate negli Stati Uniti, sono spesso le più denigrate da parte dei sostenitori di Israele, perché testimoniano ciò che hanno visto e quanto ciò le abbia sconcertate. Per chi ha fatto questa esperienza il legame con la lotta dei palestinesi diventa molto forte.

Una nuova alleanza tra ultra-ortodossi e evangelici

“Dove porta tutto ciò? Io sono relativamente ottimista, ma molto dipenderà dall’evoluzione della società americana. Temo che la destra repubblicana abbia buone possibilità di vincere le elezioni legislative di novembre 2022. Ma i tempi lunghi non giocano a suo favore. Alle elezioni presidenziali i repubblicani non hanno più guadagnato un solo voto dal 2004. E l’evoluzione demografica non favorisce i bianchi. Lo stesso vale per la società ebraica negli Stati Uniti. Un recente sondaggio d’opinione mostra già ora che un quarto degli ebrei americani considera Israele “uno Stato di apartheid”4. Certamente il conflitto israelo-palestinese non fa più parte delle questioni principali negli Stati Uniti. Ed ogni volta che scoppia un conflitto armato tra Israele e Hamas si crea una mobilitazione in favore di Israele. Ma il fenomeno saliente è che la critica a Israele cresce molto di più.

“Se si verificheranno in Medio Oriente eventi così gravi da riempire i titoli dei principali giornali, se le immagini di Israele che bombarda edifici civili a Gaza si moltiplicheranno, il processo di divisione all’interno dei democratici si approfondirà. Durante gli ultimi scontri a Gaza nella primavera 2021 anche un incrollabile sostenitore di Israele come il senatore democratico di New York Chuck Schumer è stato costretto a prendere le distanze dai bombardamenti israeliani. Fate un giro all’AIPAC. Riscontrerete che tutte le persone di più di 60 anni sono laiche; il loro ebraismo si riduce al sionismo. Ma i loro figli non sono membri dell’AIPAC. Chi li ha sostituiti? Dei giovani “timorati di Dio” (altro termine che indica gli ebrei ultra-ortodossi) [sinonimo dei nazionalisti religiosi israeliani, ndtr.]. Andate a vedere la parata annuale a favore di Israele sulla quinta strada di New York e troverete una grande maggioranza di questi giovani. Non stupisce che l’Aipac sia diventata la sede di una nuova alleanza: quella tra gli ebrei ultra-ortodossi e gli evangelici [molte denominazioni degli evangelici si definiscono sioniste cristiane, ndtr.].

“Nel loro sostegno incondizionato ad Israele i repubblicani sono molto più sinceri dei democratici. È per questo che l’AIPAC non punta più su una politica di sostegno “bipartisan” ad Israele. Di fatto molti dei rappresentanti democratici esprimerebbero opinioni molto diverse da quelle che sostengono oggi se ritenessero che la loro posizione nei confronti di Israele non costasse loro cara in termini politici. Questo fenomeno è ancor più vero per una parte dei dirigenti della comunità ebraica americana. Quando nel 2020 ho scritto i miei articoli su Jewish Currents e sul New York Times auspicando la creazione di un solo Stato comune per ebrei e palestinesi5 mi sono imbattuto in reazioni piuttosto inquietanti. Ma erano imparagonabili a quelle che si erano scatenate contro (lo storico anglo-americano) Tony Judt quando nel 2003 aveva pubblicato il suo famoso articolo che invocava per la prima volta la formazione di un solo Stato che riunisse palestinesi ed israeliani6. Allora Judt è stato quasi escluso dal dibattito accettabile. Non è stato quello che è successo a me. Ciò dimostra l’evoluzione che è avvenuta nella società americana riguardo ad Israele. Vent’anni fa non erano i conservatori ad affossare Judt ed il suo testo, ma gli ebrei progressisti! All’epoca erano le figure di punta nel sostegno ad Israele.

“Oggi il loro peso è considerevolmente diminuito. Le principali voci di sostegno ad Israele sono ormai quelle dei conservatori. A questo fenomeno si aggiunge la nota evoluzione dei grandi media. Oggi quando guardate MSNBC [canale televisivo statunitense, ndtr.] o quando leggete il New York Times, The New Republic o il Washington Post, quando andate su Slate [rivista in rete liberale statunitense, ndtr.], i palestinesi vengono ormai presentati sotto una luce molto più favorevole. Di modo che quando ho pubblicato i miei articoli le cose erano cambiate. Molti possono essere in disaccordo con me, ma le mie parole non sono illegittime. In fin dei conti Tony Judt era ebreo7, ma parlava in nome di una filosofia universalista, in difesa dei diritti umani, non in nome di una visione specificamente ebraica. Quanto a me, rivendico il mio legame con l’ebraismo e con una forma di etica ebraica. Forse per questo sono più accettabile.”

Sylvain Cypel

E’ stato membro della redazione di Le Monde e precedentemente direttore di redazione del Courrier International.

Sarra Grira

Giornalista, laureata in letteratura francese. Responsabile delle pagine in arabo di Orient XXI.

Peter Beinart

Scrittore, direttore della rivista progressista ebraica Jewish Currents.

Note

1 Tra il 1965 e il 2015 60 milioni di stranieri si sono stanziati negli Stati Uniti e da allora il ritmo è rimasto più o meno uguale.

2Organizzazione ebraica antisionista che sostiene il movimento internazionale per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) contro Israele. I membri della direzione di JVP includono figure note come il linguista Noam Chomsky, il drammaturgo e sceneggiatore Tony Kushner, la filosofa Judith Butler, la saggista Naomi Klein, la scrittrice Sarah Schulman, l’attore e sceneggiatore Wallace Shawn e altri.

3 E’ stato il primo, nel 2014, a ripetere, sottoposto alla violenza dei poliziotti, “non posso più respirare” prima di morire, come ha fatto in seguito George Floyd nel 2020 a Minneapolis.

4 Studio realizzato dal Jewish Electorate Institute [Istituto dell’Elettorato Ebraico]. Lo stesso sondaggio mostrava che il 34% degli ebrei americani riteneva che il trattamento riservato da Israele ai palestinesi sia simile al razzismo esistente negli Stati Uniti.

5 Peter Beinart, « Yavneh : A Jewish case for equality in Israel-Palestine » [Yavneh: una causa ebraica per l’uguaglianza in Israele-Palestina], Jewish Currents, 7 luglio 2020, e « I no longer believe in a Jewish State » [Non credo più nello Stato ebraico], The News York Times, 8 luglio 2020.

6 Tony Judt : « Israel, the Alternative »[Israele, l’alternativa], The New York Review of Books, 23 ottobre 2003

7 É morto nel 2010.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




C’è anche il partito di sinistra israeliano Meretz – nei plateali crimini di guerra coloniali nel Golan

Jonathan Ofir

28 dicembre 2021 Mondoweiss

Israele ha appena approvato un piano per raddoppiare il numero dei circa 25.000 coloni sulle alture del Golan siriano occupate, perché Joe Biden si è rifiutato di annullare la decisione di Trump sui territori acquisiti illegalmente e perché anche il partito di sinistra Meretz si è accodato, dicendo che la questione era “complicata”.

Israele ha appena approvato un piano per raddoppiare il numero dei circa 25.000 coloni sulle alture del Golan siriano occupate. L’annessione del territorio da parte di Israele nel 1981, che se n’era impossessata con la forza nel 1967, è “nulla” ai sensi del diritto internazionale (risoluzione 497 dell’UNSC). Il trasferimento di popolazioni in territori annessi illegalmente è un crimine di guerra. L’amministrazione Trump, tuttavia, in spregio del diritto internazionale, ha riconosciuto il Golan come territorio israeliano, primo e unico Paese a farlo. La solidarietà disfunzionale dei maschi Netanyahu-Trump ha ragggiunto il culmine con una cerimonia di battesimo nel 2019 di un nuovo insediamento del Golan: “Alture Trump”.

La debole amministrazione Biden non si spingerà al punto di annullare questa decisione. Il segretario di Stato Antony Blinken ha affermato che ci sono questioni legali riguardanti quella decisione, ma… per il prossimo futuro non si prevede un cambio di rotta.

Così, ancora una volta, e come con il trasferimento dell’ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme, l’establishment politico degli Stati Uniti ha mostrato un consenso bipartisan. Trump poteva essere oltraggioso quanto voleva, ma quando si trattava di Israele, in realtà le decisioni le ha prese , e Biden che ama Israele non è intenzionato ad opporvisi.

Questo consenso ha incoraggiato il primo ministro leader dei coloni israeliani Naftali Bennett a dire:

Le alture del Golan sono israeliane. Questo è evidente… Conta anche il fatto che l’amministrazione Trump lo abbia riconosciuto e che l’amministrazione Biden abbia chiarito come questa politica non sia affatto cambiata.

Una gran cosa il consenso, non è ovvio?

E cosa c’è di meglio che rispecchiare tale consenso con un governo in Israele di coloni che promuovono le annessioni, dove persino Meretz, il più a sinistra fra i partiti sionisti, sostiene non solo l’annessione illegale ma anche l’espansione degli insediamenti e l’aumento del numero dei coloni?

Così domenica scorsa il governo israeliano, compresi due ministri Meretz (Tamar Zandberg e Nitzan Horowitz), ha tenuto una riunione su quei territori fittamente abitati per lanciare un massiccio piano di espansione delle colonie, che prevede l’apporto di un miliardo di shekel (circa 317 milioni di dollari) con l’obiettivo di raddoppiare la popolazione dei coloni ebrei-israeliani entro il 2030.

L’incontro ricorda la prima riunione del gabinetto di Netanyahu sul Golan occupato nel 2016, quando promise che il Golan sarebbe rimasto per sempre parte di Israele.

Complicato”

Zandberg di Meretz ha affermato che la decisione è stata “complicata”. “Sosteniamo la pace e speriamo che un giorno accada”, ha aggiunto. Attuare e sostenere spudorati crimini di guerra e sperare che un giorno la pace si realizzi…

La speranza non è mai stata così a buon mercato!

L’incontro illegale è stato un po’ eccessivo per il ministro palestinese di Meretz Issawi Freij, che ha deciso di non partecipare, come i membri del partito islamista conservatore Ra’am, un altro partito nel nuovo governo di coalizione. I palestinesi sanno che esiste qualcosa chiamato colonialismo ed espansionismo, e per quanto desiderino essere rilevanti nella politica dello Stato ebraico, partecipare a tali violazioni sfacciate può essere dannoso per la propria credibilità morale.

Ma niente paura, la decisione è stata approvata ai voti e Meretz spera ancora nella pace.

Ciò che molte persone oggi non sanno, è che le alture del Golan furono ripulite etnicamente nel 1967. Circa 124.000 dei 130.000 abitanti siriani furono espulsi con la forza nel 1967 e circa 200 villaggi vennero distrutti. Israele ha permesso a circa 6.000 drusi di rimanere, dal momento che i drusi sono tradizionalmente accondiscendenti nei confronti dell’espansione di Israele e sono alleati dello Stato ebraico dal 1948, e hanno ricoperto molte cariche nella sicurezza.

Quindi l’occupazione israeliana del Golan non fa granché notizia, semplicemente perché lì non c’è resistenza, a differenza dei territori occupati palestinesi della Cisgiordania, di Gerusalemme est e di Gaza. In questo senso il Golan siriano è diventato una specie di terra di sogno per i progetti di espansione coloniale di Israele: “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, come recita il fittizio mito sionista.

E se non c’é quasi nessuno oltre agli eletti, allora beh’ , che problema c’é, giusto? Solo aree vuote in attesa di essere colonizzate, è la classica idea di “terra nullius” dei britannici nei confronti dell’Australia: nessun popolo, nessun problema.

Ma proprio come l’incontro di Netanyahu sul Golan è stato un precedente per quello di Bennett, l’attuale mossa espansionistica di Israele sul Golan prelude una maggiore normalizzazione di altre colonie. Può essere che i leader di Meretz lo giudichino solo come un consenso limitato su una questione non controversa come l’annessione della Cisgiordania, semplicemente perché non fa quasi mai notizia (né resistenza) nella società israeliana. Ma per Bennett e i suoi pari questa mossa è solo parte di un piano più grande. Nella visione del mondo di Bennett, non c’è alcuna differenza significativa tra il Golan e la Cisgiordania, è tutto “eretz Israel”, “terra di Israele”, e per lui è evidente perché è scritto da qualche parte nella Bibbia. L’annessione dell’Area C della Cisgiordania, che è qualcosa che Bennett desidera da tempo, è un po’ troppo da ingoiare attualmente per l’amministrazione Biden, così come per Meretz, e creerà ripercussioni, quindi perché non passare dalla porta sul retro e lavorare con il consenso?

Ancora una volta, la semplice verità è arrivata dal legislatore palestinese Ahmed Tibi del partito Joint List, che rappresenta i palestinesi. Ecco il suo tweet:  

Non importa quante riunioni di gabinetto si tengano sul Golan, è territorio siriano occupato,

Tibi ha anche sottolineato la responsabilità della sinistra:

Tutti i membri della coalizione sono responsabili delle decisioni prese durante questa riunione di gabinetto. Così come per l’aumento degli insediamenti in Cisgiordania e la violenza dei coloni.

L’asino del Messia

L’espansione sionista è sempre stata questione di ottenere un ampio consenso per cementare la successiva conquista espansionistica. Nella terminologia popolare dei coloni religiosi, c’è un termine chiamato “asino del Messia”. Fu coniato dal rabbino Avraham Isaac Kook, e l’idea era che gli ebrei sionisti laici fossero l’asino, necessari per trasportare gli ebrei religiosi ortodossi al fine di creare uno Stato ebraico che avrebbe accelerato la venuta del Messia. Il figlio di Kook, Zvi Yehuda, ha continuato l’ideologia di suo padre ed è considerato il padre ideologico del movimento coloniale religioso sionista in Cisgiordania.

Naftali Bennett è certamente un discepolo di questa ideologia. E questa ideologia messianica ha bisogno di un asino. Meretz è lieto di fornire non solo uno, ma molti asini.

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




I tre regali di Washington a Naftali Bennett

Edo Konrad

26 settembre 2021, +972

La scorsa settimana è stata una buona settimana per Naftali Bennett, forse una delle migliori da quando più di tre mesi fa è diventato primo ministro. Bennett – che ha dato il colpo finale alla soluzione dei due Stati come pilastro della sua politica – ha probabilmente sfoderato un largo sorriso quando ha visto che, nel giro di pochi giorni, sia la Casa Bianca che il Congresso gli hanno regalato una serie di vittorie politiche.

La settimana è iniziata con il discorso del presidente Joe Biden all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, in cui ha affermato che, sebbene la sua amministrazione sostenga ancora la soluzione a due Stati, questa sia ancora “lontana” dal diventare realtà. Con queste parole, Biden ha in effetti dichiarato che la Casa Bianca non investirà capitale politico per portare Israele e i palestinesi al tavolo dei negoziati. Sembra che Bennett abbia detto che nel suo discorso all’Assemblea Generale di domenica non dedicherà nessuna attenzione alla questione palestinese.

La dichiarazione di Biden è stata rafforzata dall’udienza alla Commissione per gli Affari Esteri del Senato di Thomas Nides, ex amministratore delegato e vicepresidente di Morgan Stanley, scelto dal presidente come ambasciatore in Israele. Nides ha condotto l’udienza (non è ancora stato confermato ufficialmente) ricevendo elogi bipartisan per aver annunciato, tra altre questioni, che avrebbe rafforzato la sicurezza israeliana, ampliato le relazioni economiche tra i due paesi e sostenuto gli accordi di Abraham. Sebbene Nides abbia sottoscritto a parole la promessa di usare “accordi esistenti e futuri per apportare miglioramenti tangibili al popolo palestinese”, è estremamente improbabile che ciò comporti un cambiamento significativo sul campo per i palestinesi che vivono sotto il dominio militare israeliano.

E poi è arrivato il disegno di legge Iron Dome alla Camera dei Rappresentanti. Dopo che i progressisti del Partito Democratico sono riusciti a bloccare la proposta di inviare a Israele 1 miliardo di dollari per finanziamenti al suo sistema di difesa missilistica – oltre ai 3,8 miliardi di dollari l’anno di aiuti militari – come parte di un più ampio disegno di legge di finanziamento al governo provvisorio, i Democratici moderati hanno proposto all’esame della Camera un secondo disegno di legge che manterrebbe quel miliardo di dollari. Quando si è passati al secondo voto, e in seguito alle forti critiche sia da parte dei repubblicani che dei democratici moderati, l’ala progressista si è divisa. Solo nove dei 435 rappresentanti hanno votato contro il “rimpinguare” la capacità dell’Iron Dome di Israele, con la rappresentante Alexandria Ocasio-Cortez – che aveva definito Israele uno “Stato di apartheid” – che alla fine ha cambiato il suo voto da “no” a “presente”, facendo arrabbiare molti che l’avevano vista come un’alleata della causa palestinese.

Il discorso delle Nazioni Unite, l’udienza di conferma di Nides e la debacle dei Democratici sull’Iron Dome sono notizie fantastiche per il primo ministro israeliano. Bennett – ex capo del Consiglio Yesha, il gruppo di organizzazioni che rappresenta gli interessi del movimento degli insediamenti – ha condotto tutta la sua carriera opponendosi alla creazione di uno Stato palestinese e ha recentemente dichiarato che intende mantenere l’occupazione perseguendo una strategia di “riduzione del conflitto”. In altre parole, il piano di Bennett è di rafforzare il cosiddetto status quo – e quindi le politiche di apartheid di Israele.

Rivelatore è stato vedere quanto credito abbia ricevuto il primo ministro nei circoli dell’élite, che tanto avevano disprezzato il suo predecessore Benjamin Netanyahu, nonostante le sue franche dichiarazioni sul mantenimento della dittatura militare di mezzo secolo di Israele sui palestinesi. Il fatto che né la Casa Bianca né il Congresso stiano condizionando alcun aiuto a Israele ad un processo che cerchi di porre fine all’occupazione è una testimonianza di quanta noncuranza i leader americani dimostrino rispetto alle intenzioni israeliane o alle vite palestinesi.

Forse più di ogni altra cosa, quest’ultima settimana ha dato un chiaro segnale di come, che si tratti di Trump o Biden, o che si tratti di Bibi o Bennett, non c’è quasi nessuno con un minimo di potere che si alzerà e dirà basta alla progressiva e infinita occupazione del governo militare di Israele. Per ora, Washington rimane impegnata a garantire che il tempo sia dalla parte dell’apartheid.

Edo Konrad è caporedattore di +972 Magazine. Vive a Tel Aviv, e in precedenza ha lavorato come redattore di Haaretz.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Opinione: il primo ministro israeliano non cerca un cambiamento. Vuole solo maggiore copertura per l’apartheid e la colonizzazione.

Noura Erakat

26 agosto 2021 – Washington Post

Questa settimana il primo ministro israeliano Naftali Bennett ha fatto una serie di incontri a Washington, incontrandosi con funzionari dell’amministrazione Biden (un colloquio alla Casa Bianca è stato rinviato a causa degli attacchi all’aeroporto di Kabul). Entrambe le parti sperano di ristabilire i rapporti tra gli USA e Israele dopo quattro anni in cui l’ex-presidente Trump ha sfacciatamente promosso gli interessi espansionistici di Israele senza la parvenza progressista delle passate amministrazioni USA. La sinergia tra Trump e il primo ministro Benjamin Netanyahu ha evidenziato la natura farsesca del processo di pace e rafforzato una crescente divisione di parte tra i democratici e i repubblicani riguardo a Israele.

Tuttavia, nonostante il loro massimo impegno per nascondere la realtà – la colonizzazione israeliana di insediamento sulla terra palestinese e il regime di apartheid imposto per consolidare queste appropriazioni di territorio e rafforzare la supremazia ebraica – nessuna operazione di pubbliche relazioni o manipolazione della realtà può cambiare quanto avviene sul terreno o le tendenze che stanno allontanando gli americani da Israele a favore del sostegno alla libertà dei palestinesi.

In politica niente è cambiato. Nei suoi primi otto mesi in carica Biden ha approvato la maggior parte delle iniziative più discutibili di Trump, compresi lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, l’opposizione all’inchiesta della Corte Penale Internazionale sulle azioni di Israele e l’adozione dell’estremamente problematica definizione di antisemitismo che confonde le critiche contro Israele con il fanatismo antiebraico.

Biden si è categoricamente opposto a qualunque condizionamento dell’aiuto militare a Israele in base alle violazioni dei diritti umani e ha ordinato ai suoi funzionari di lottare contro il movimento di base per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) a favore dei diritti dei palestinesi, che si ispira ai movimenti per i Diritti Civili [negli USA, ndtr.] e contro l’apartheid in Sudafrica. In maggio, durante il bombardamento israeliano di Gaza che ha ucciso più di 250 palestinesi, tra cui 12 famiglie cancellate dall’anagrafe, Biden ha resistito a ripetute richieste all’interno del suo stesso partito per sollecitare pubblicamente Israele a interrompere le violenze.

Da parte sua Bennett è ansioso di presentarsi al principale sponsor di Israele e al mondo. Vuole distinguersi da Netanyahu, sotto il quale e al cui fianco ha lavorato per molti anni, nel tentativo di compiacere i sionisti progressisti USA, che sono alla disperata ricerca di una foglia di fico per sostenere la loro negazione riguardo all’esistenza dell’apartheid israeliano.

Tuttavia Bennett è, se possibile, persino più estremista di Netanyahu. Bennett è stato a capo del Consiglio Yesha, la principale organizzazione che rappresenta i coloni, e si è opposto senza riserve a uno Stato palestinese. In base all’accordo che tiene insieme la sua coalizione, il nuovo governo “incentiverà in modo significativo la costruzione a Gerusalemme,” comprese le colonie a Gerusalemme est, e, secondo informazioni, ha promesso ai capi dei coloni che non ci sarà un blocco delle colonie neppure nel resto della Cisgiordania.

Cosa forse ancor più allarmante, Bennett ha iniziato a cambiare lo status quo nel venerato complesso della moschea del nobile santuario, noto agli ebrei come Monte del Tempio, per consentire agli ebrei di pregarvi. Dall’occupazione di Gerusalemme est nel 1967 Israele ha vietato agli ebrei di pregare sul Nobile Santuario perché molte autorità religiose ebraiche vi si sono opposte per ragioni teologiche e per evitare di provocare tensioni con i musulmani. Ora con Bennett ciò sta cambiando, con conseguenze potenzialmente disastrose non solo per la regione.

Come parte di questo piano per presentare una nuova immagine, Bennett sta cercando di “ridimensionare il conflitto” rendendo più tollerabili le condizioni dei palestinesi con la prosecuzione della dominazione israeliana, proprio come la visione di Trump per una “pace economica”. Questo approccio riguarderà anche l’esaltazione come modelli per la pace degli Accordi di Abramo, il riconoscimento reciproco tra Israele e regimi autoritari sostenuti dagli USA. Bennett probabilmente appoggerà un incremento degli aiuti USA all’Autorità Nazionale Palestinese, che è parte dell’apparato di sicurezza israeliano: proprio di recente essa ha arrestato decine di difensori dei diritti umani palestinesi nel tentativo di reprimere il dissenso.

Biden è altrettanto ansioso di accogliere Bennett e una versione modificata delle politiche di contenimento di Trump. Egli rappresenta la vecchia guardia del Partito Democratico, che ha perso i contatti con gli elettori democratici e con l’opinione pubblica degli USA in generale. I sondaggi mostrano sistematicamente che gli americani di tutto lo spettro politico vogliono che gli USA siano più corretti e imparziali quando si tratta di Israele e dei palestinesi.

Questo spostamento dell’opinione pubblica statunitense è stato chiaramente evidente lo scorso maggio, quando gli americani hanno occupato le reti sociali e sono scesi in piazza in numero senza precedenti per chiedere la fine dell’attacco israeliano contro Gaza e un cambiamento della politica USA nella regione. Con un altro segno dei tempi, la popolare marca di gelati Ben & Jerry ha annunciato che smetterà di vendere gelati nelle colonie israeliane, una decisione che ha sostenuto benché le più alte cariche del governo israeliano abbiano vilmente accusato l’azienda di antisemitismo.

In ogni caso, quando Biden e Bennett si incontreranno alla Casa Bianca, i palestinesi figureranno al massimo come ombre. Ciò è particolarmente insultante alla luce del continuo movimento di protesta dell’Intifada Unita e una testimonianza del fatto che un cambiamento necessario non avverrà dall’alto verso il basso. Nel prossimo futuro probabilmente Israele sarà il suo stesso peggior nemico, in quanto insiste a sostenere che il suo regime di suprematismo razziale è una forma corretta di liberazione nazionale, e probabilmente gli Stati Uniti saranno l’ultima tessera a cadere come fu nel caso della lotta contro l’apartheid in Sud Africa.

Noura Erekat è avvocatessa per i diritti umani e docente associata dell’università Rutgers [prestigiosa università statunitense, ndtr.]. È autrice di “Justice for Some: Law and the Question of Palestine” [Giustizia per qualcuno: la legge e la questione della Palestina].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Intervista a Khaled Meshaal: l’alto dirigente sostiene che ora è Hamas a guidare la lotta palestinese

David Hearst

25 maggio 2021 – MIDDLE EAST EYE

Parlando a MEE Meshaal chiede a tutti i palestinesi di unirsi in una “rivolta totale” contro l’occupazione israeliana

Hamas è ora alla guida del popolo palestinese perché il ruolo principale di una leadership durante l’occupazione è condurre i palestinesi verso la libertà e la liberazione, ha detto a Middle East Eye Khaled Meshaal, capo dell’organizzazione nella diaspora.

Nella prima intervista in inglese del gruppo militante dal momento del cessate il fuoco con Israele di venerdì scorso, Meshaal invita ad una rivolta totale in “tutte le località” del territorio storico della Palestina: Gerusalemme e la Città Vecchia, la Cisgiordania e l’interno dello stesso Israele.

L’anziano dirigente, alla guida dell’ufficio politico di Hamas fino al 2017, afferma inoltre che il movimento sarebbe pronto a discutere con gli Stati Uniti.

Dice che è strano che l’amministrazione del presidente Joe Biden continui a parlare con i talebani, che hanno combattuto attivamente le truppe statunitensi in Afghanistan per quasi due decenni, e si rifiuti di parlare con Hamas, che non è impegnata a combattere gli Stati Uniti ma dal 1997 è ritenuta da Washington un’organizzazione terroristica.

In un messaggio diretto a Biden Meshaal ha aggiunto: Non vi consideriamo nostri nemici, anche se ci opponiamo a molte delle vostre politiche di parte a favore di Israele e contro i nostri interessi arabi e islamici. Ma non vi combattiamo. Quindi siamo pronti a comunicare con qualsiasi partito senza condizioni.”

Ma avverte che Hamas non sarebbe disposta a cambiare la sua posizione su Israele. “Non importa quanto tempo ci vorrà, questo è il mio messaggio a Biden, agli Stati Uniti e a tutti gli Stati occidentali che continuano a inserire Hamas nelle liste del terrorismo. Dico loro: non importa quanto tempo ci vorrà, Hamas non soccomberà alle vostre condizioni “

Meshaal sostiene che i Paesi arabi che hanno normalizzato le relazioni con Israele non solo hanno pugnalato alle spalle i palestinesi, ma hanno anche danneggiato i loro interessi rischiando di provocare una rivolta popolare.

“Ciò che sperano di ottenere da Israele è un’illusione e una fantasia”, avverte Meshaal. “Anche se non si vergognano, hanno prospettive molto limitate perché l’opinione pubblica sarà contro di loro”.

Hamas ha verificato un aumento del sostegno popolare in Palestina in seguito della sua decisione di lanciare razzi contro Israele in risposta alle aggressioni israeliane alla moschea di al-Aqsa e ai residenti di Sheikh Jarrah.

Tale sostegno viene da aree al di fuori del suo controllo tradizionale dove i suoi membri sono stati sottoposti a ripetuti arresti, ma dalla Cisgiordania e tra i cittadini palestinesi di Israele.

Alla domanda se ritenga che Mahmoud Abbas possegga ancora una qualche autorevolezza come presidente palestinese dopo l’ultimo round di combattimenti, Meshaal ha risposto: Non escludiamo nessuno e non disconosciamo il ruolo di nessuno.

Tuttavia, indubbiamente tutti hanno notato che le credenziali di Hamas e il suo status nella leadership palestinese si sono rafforzati poichè ha guidato la lotta nelle ultime fasi e specialmente in quella attuale”.

Per la prima volta in molti anni le bandiere di Hamas sono state viste sventolare accanto a quelle di Fatah in manifestazioni e proteste a Nablus, e venerdì un imam che si era rifiutato di menzionare Gaza nel suo sermone settimanale ad al-Aqsa è stato costretto a lasciare la moschea a causa della rabbia dei fedeli.

A Gerusalemme e a Umm al Fahm, nel nord di Israele, i manifestanti hanno gridato il nome di Mohamed ad-Deif, il capo dell’ala militare di Hamas, le Brigate al-Qassam, che Israele ha cercato di uccidere durante il recente conflitto.

Meshaal afferma che la funzione primaria della leadership in queste condizioni sia la lotta e la resistenza, e la guida dei palestinesi verso la libertà e la liberazione.

Le elezioni non sono l’unica opzione

Solo poche settimane prima che scoppiassero i combattimenti, Hamas era propenso a contestare le elezioni insieme a Fatah e ad altre fazioni palestinesi prima che le stesse fossero rinviate da Abbas.

Meshaal sostiene che Hamas ha fiducia in se stesso e che sia comunque pronto a presentarsi al ballottaggio, ma che le elezioni non rappresentino l’unica opzione.

Hamas non ha paura di proporsi alla sua gente tramite le urne. Forse altri hanno paura”, ha detto, con un’evidente stoccata ad Abbas.

Ma ha proseguito: Eppure, ancora una volta, le elezioni sono l’unica opzione? È l’unico strumento del sistema di riconciliazione ed in grado di rimettere ordine in casa palestinese? No.”

Meshaal afferma che i palestinesi sono un unico popolo con un’unica causa e invita ad una “rivolta totale in tutti i luoghi”.

A Gerusalemme, dove incombe la minaccia su al-Aqsa, su Sheikh Jarrah, sulla Città Vecchia e su tutta Gerusalemme; in Cisgiordania, dove sono presenti l’occupazione, gli insediamenti coloniali, la scissione dei legami e la confisca di terre; e nella Palestina del 1948, dove vige la discriminazione razziale, i tentativi di espellere e bandire il nostro popolo coll’uso di norme giuridiche; anche la resistenza di Gaza; fino alla diaspora. Tutti sono partecipi della responsabilità della liberazione”.

Mentre Meshaal parlava, i coloni israeliani, sostenuti dalla polizia, prendevano ancora una volta d’assalto al Aqsa.

Alla domanda su cosa abbia indotto Hamas a lanciare nuovamente razzi, Meshaal ha affermato che il cessate il fuoco non era condizionato solo alla cessazione degli attacchi israeliani a Gaza, ma alla fine delle incursioni delle forze di sicurezza israeliane ad al-Aqsa e alla fine dello sfollamento degli abitanti palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah e di Gerusalemme Est.

La battaglia è scoppiata per questi motivi. A tali condizioni cesserà iI lancio da Gaza dei razzi della resistenza”, ha detto.

Tuttavia ha proseguito affermando come ogni area sotto occupazione possa scegliere la propria forma di resistenza.

“Non esiste una formula che vada bene per tutti e nello stesso momento.”

Israele “sta pagando un prezzo”

Meshaal sostiene che l’ultimo conflitto abbia evidenziato il ruolo dei palestinesi che vivono all’interno dei confini della Palestina del 1948.

“Hanno inviato il messaggio che siamo del tutto parte di questo popolo e che vengono in aiuto di al-Aqsa, del quartiere di Sheikh Jarrah e di Gaza proprio come fa ogni altro palestinese che viene in aiuto dell’altro fratello”, dice.

Aggiunge che Israele stia anche pagando il prezzo delle politiche razziste e delle violazioni dei diritti dei suoi cittadini palestinesi, tanto da mettere a nudo la “fragilità” del suo Stato.

È diventato evidente a tutte le comunità palestinesi, arabe e islamiche e alle persone libere di tutto il mondo che Israele sta contando i suoi giorni e che questa occupazione, gli insediamenti, il colonialismo, non hanno futuro nella regione”.

MEE ha chiesto a Meshaal di spiegare in che modo Hamas sia passato da una posizione di contestazione delle elezioni, anche mentre centinaia dei suoi membri venivano arrestati in Cisgiordania, al lancio dei razzi.

In quel momento c’era un acceso dibattito all’interno di Hamas sull’opportunità di contestare le elezioni, dal momento che non sarebbe stato in grado di agire liberamente come partito politico. Alla fine le elezioni sono state rinviate, molti credono annullate, da Abbas che ha usato come scusa il rifiuto di Israele di consentire ai gerosolimitani di votare.

Meshaal ha confermato che c’è stato un “dibattito interno” sull’opportunità di candidarsi alle elezioni in Cisgiordania. Ma ha insistito sul fatto che il principio riguardante la sua candidatura alle elezioni non fosse in discussione.

Spiegando il passaggio dalle urne ai razzi, Meshaal dice che la decisione di annullare le elezioni abbia creato “rabbia e frustrazione” e un senso di stupore: “Perché questo passo?”

Poi sono arrivate le violenze ad al-Aqsa contro fedeli e manifestanti e la minaccia di sfollamento degli abitanti dalle loro case a Sheikh Jarrah.

Accusa Israele di aver iniziato l’aggressione. Afferma che Hamas aveva avvertito Israele, in modo che Israele non fosse sorpreso dal lancio di razzi.

“Quando hanno assalito la moschea di al-Aqsa alla fine del Ramadan la resistenza è stata costretta a rispondere … e la battaglia è iniziata”, prosegue Meshaal.

Sostiene che non c’è contraddizione tra impegnarsi nella battaglia politica attraverso elezioni e alleanze sostenendo la causa e mobilitandosi in suo favore nei forum internazionali, e impegnarsi in combattimenti. Le due battaglie sono collegate fra loro“.

Alla domanda su chi abbia preso la decisione di lanciare i razzi, Meshaal risponde che il movimento ha un’unica leadership, ma ogni singola parte prende le sue decisioni personali.

“Quando la dirigenza di al-Qassam prende una decisione su come portare avanti la lotta decide in conformità con la strategia e l’orientamento comune del movimento. Lo stesso vale per coloro che lavorano nel campo della mobilitazione di massa o delle relazioni politiche. Queste sono decisioni complesse prese di volta in volta durante i percorsi di lavoro. Derivano dalla risoluzione stabilita a livello centrale dalla leadership del movimento”.

Reciprocità di interessi” con l’Egitto

Meshaal riserva parole gentili per l’Egitto, nonostante il presidente Abdel Fatteh el-Sisi abbia organizzato un colpo di stato militare contro il presidente eletto Mohamed Morsi sostenuto dai Fratelli Musulmani e abbia massacrato i suoi sostenitori a Rabaa, oltre ad aver rafforzato l’assedio di Gaza distruggendo i tunnel di Hamas e la parte egiziana del valico di confine di Rafah.

Meshaal dice che il ruolo dell’Egitto negli affari palestinesi è fondamentale, anche se ci sono stati disaccordi.

La reciprocità degli interessi richiede che entrambe le parti lavorino insieme e possano prevedere dei ruoli sui quali concordare e collaborare nonostante le differenti opinioni, come lei ha detto, sulla questione della Fratellanza o altro”.

“Noi di Hamas, sebbene siamo una parte essenziale della Fratellanza, costituiamo un movimento di resistenza e non interferiamo negli affari degli altri, trattando con i Paesi islamici, e con gli altri, in base alla nostra causa e ai relativi interessi, senza interferenze reciproche negli affari di ognuno.

“Pertanto, accogliamo con favore il ruolo egiziano così come accogliamo con favore i ruoli di tutti gli Stati arabi e islamici o di qualsiasi Paese del mondo fintanto che sia inteso a servire il nostro popolo fermando l’aggressione contro di esso e assecondando la sua determinazione”.

Il leader anziano di Hamas ha affermato che gli stati arabi hanno la responsabilità di elaborare una nuova strategia per recuperare la Palestina, Gerusalemme e al-Aqsa e porre fine all’occupazione.

Credo che tutti abbiano capito l’inutilità dei negoziati, l’inutilità del processo di pace e degli accordi di pace con Israele e l’inutilità della normalizzazione. Coloro che avevano visto Israele come parte naturale della regione si sono sbagliati. Alcuni pensavano di poter trarre vantaggio da Israele nel confronto con i loro diversi nemici.

“Tutti sono ormai certi che Israele costituisca il vero nemico della regione e che Israele sia un’entità fragile e che possiamo sconfiggerlo invece di lamentarci delle sue politiche”.

Sostiene che l’Egitto sia scontento delle politiche israeliane nei confronti della Diga del Rinascimento in Etiopia, che il Cairo vede come una minaccia alla sicurezza nazionale. Di certo l’Egitto è scontento delle notizie sui presunti piani israeliani di scavare un canale navigabile alternativo al Canale di Suez.

“Pertanto, invece di sentirci impotenti riguardo alle violazioni e ai piani di Israele, questa è un’opportunità … la resistenza in Palestina e questa grande rivolta del nostro popolo sta dicendo agli arabi, ‘Gente, siamo una sola Ummah [termine arabo che designa la comunità dei fedeli dell’Islam, ndtr.], abbiamo gli stessi interessi, quindi partiamo da questo risultato.’

“Combattiamo un’unica battaglia, non solo per salvare e rivendicare la Palestina, ma anche per proteggere l’intera Ummah”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)