Israele e Hamas dichiarano il cessate il fuoco dopo 11 giorni di conflitto 

20 maggio 2021 Al Monitor

Il Gabinetto di Sicurezza di Israele ha approvato all’unanimità una proposta egiziana di cessate il fuoco nell’undicesimo giorno di conflitto con i militanti palestinesi nella Striscia di Gaza, che ha causato più di 200 morti.

Giovedì il Gabinetto di Sicurezza di Israele ha approvato all’unanimità una proposta egiziana di cessate il fuoco, nell’undicesimo giorno di conflitto con i militanti palestinesi nella Striscia di Gaza, che ha causato più di 200 morti.

I rapporti dei media israeliani hanno informato che il cessate il fuoco inizierà venerdì alle 2 del mattino (ora locale), circa quattro ore dopo l’annuncio.

Hamas, il movimento islamista palestinese che dall’inizio delle ostilità il 10 maggio ha lanciato migliaia di razzi contro Israele, ha confermato il cessate il fuoco.

Mercoledì il vice capo politico di Hamas Mousa Abu Marzouk ha sottolineato che il cessate il fuoco sarà un’interruzione dei lanci, non una tregua. I colpi da entrambe le parti probabilmente continueranno fino a quando non inizierà il cessate il fuoco.

I dirigenti israeliani hanno smentito voci secondo cui avrebbero concordato ulteriori condizioni al di là dello stop alle operazioni militari, suggerendo che le ragioni sottostanti al conflitto – le denunce palestinesi di espropriazioni di fronte al mancato raggiungimento di una soluzione a due Stati o altra equa soluzione – continueranno.

I dirigenti di Hamas hanno richiesto che le forze di sicurezza di Israele si astengano dall’entrare nel complesso della moschea di Al- Aqsa e interrompano i tentativi da parte dei coloni israeliani di sfrattare attraverso pratiche legali sei famiglie palestinesi dal quartiere di Gerusalemme Sheikh Jarrah.

La settimana scorsa Israele ha respinto una precedente offerta accompagnata da simili richieste, optando per il proseguo dei bombardamenti mirati contro i comandanti di Hamas e della Jihad a Gaza.

Le bombe israeliane hanno ucciso almeno 230 persone a Gaza, tra cui moltissime donne e bambini. In seguito al lancio di 4.000 razzi all’interno di Israele sono morti dodici israeliani. La gran parte di essi comunque sono stati intercettati dal sistema di difesa antimissile israeliana Iron Dome.

L’annuncio è giunto poche ore dopo che il Presidente USA Joe Biden ha telefonato al Presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. Dirigenti egiziani hanno condotto la mediazione tra Hamas e Israele. Anche diplomatici del Qatar e della Giordania, come anche funzionari delle Nazioni Unite, sono stati coinvolti nel compito di fare pressione per porre fine al conflitto.

Secondo una lettera del Congresso ottenuta da Al-Monitor, all’inizio di giovedì deputati USA ancora una volta hanno premuto su Biden perché chiedesse un immediato cessate il fuoco.

I rappresentanti democratici Hank Johnson della Georgia e Pramila Jayapal di Washington e leader democratici progressisti, compresa Alexandra Ocasio Cortez di New York, hanno chiesto a Biden di fare pressioni più intense sul governo Netanyahu ed hanno avvertito che non facendolo avrebbe potuto danneggiare ulteriormente la credibilità USA a livello internazionale.

Questa settimana si sono sollevate ulteriori proteste, in larghissima parte di democratici, sia nel Congresso che in Senato, dopo che è stato reso noto che l’amministrazione Biden ha programmato di concedere alla Boeing la licenza per rifornire Israele di armi teleguidate simili a quelle che sarebbero state usate nel conflitto.

La portavoce del Congresso Nancy Pelosi, democratica della California, all’inizio di questa settimana ha chiesto un immediato cessate il fuoco, quando si sono intensificate le critiche su una percepita riluttanza da parte della Casa Bianca a fare pressioni sul governo Netanyahu per un alleggerimento della sua devastante campagna.

Biden mercoledì ha detto a Netanyahu che si aspettava per quella sera una “significativa de-escalation” nel conflitto.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




La lobby filoisraeliana teme che l’appoggio si autodistrugga a causa dei bombardamenti su Gaza

Yvonne Ridley

19 maggio 2021 – Middle East Monitor

La scorsa notte l’influente lobby filoisraeliana in America era sbigottita dopo che si è saputo che il governo USA potrebbe bloccare la vendita a Israele di missili teleguidati per 735 milioni di dollari. I politici USA, in genere sostenitori dello Stato sionista, sono divisi sul fatto di dare la loro usuale approvazione a un simile accordo.

Qualunque cosa faccia a meno di un appoggio incondizionato da parte di quelli di Washington porterebbe ad accuse di antisemitismo da parte dei lobbysti, ma persino loro stanno avendo sempre più difficoltà a giustificare i crimini di guerra commessi dal loro Stato favorito contro i palestinesi nella Striscia di Gaza.

Mentre i bombardamenti israeliani di civili palestinesi hanno provocato una condanna globale, quello che pare concentrare l’attenzione dei e delle parlamentari a Washington è il fatto che siano stati deliberatamente presi di mira dallo Stato dell’occupazione il grattacielo che ospitava importanti uffici dei mezzi i di comunicazione e case civili, tra cui gli uffici di una compagnia americana, l’Associated Press [agenzia di notizie USA, ndtr.]. I democratici della Commissione per gli Affari Esteri della Camera stanno facendo pressione sull’amministrazione Biden perché rimandi almeno la vendita di armi tecnologicamente avanzate in attesa di un riesame. Deve insistere che venga firmato un accordo di cessate il fuoco prima che sia dato il via libera alla vendita.

Il gruppo di pressione ebraico If Not Now [Se Non Ora] ha accolto positivamente la notizia dell’opposizione del Partito Democratico all’accordo d’emergenza per la vendita di armi. “È un segno incoraggiante di quanto accadrà. Per decenni [l’organizzazione della lobby filo-israeliana] AIPAC ha cinicamente utilizzato false accuse di antisemitismo per rendere impossibile ai democratici mettere in discussione il modo in cui gli USA stavano finanziando le politiche israeliane di apartheid, ha detto la portavoce Morriah Kaplan. “Ora, grazie al movimento guidato dai palestinesi in Israele/Palestina e nella diaspora, chiunque presti attenzione può vedere che queste bombe fabbricate e finanziate dagli USA vengono utilizzate per uccidere palestinesi e commettere crimini di guerra. I bombardamenti israeliani stanno esacerbando le tensioni e rendendo sia i palestinesi che gli ebrei israeliani sempre meno sicuri. Se Joe Biden continua a imporre questo accordo riguardo agli armamenti sarà chiaramente dalla parte sbagliata della storia e del suo stesso partito.”

Ovviamente tra le voci di dissenso c’è stata Ihlan Omar, esplicita critica di Israele e membro della commissione. La parlamentare ha affermato che sarebbe “sconvolgente” che l’amministrazione Biden permettesse la vendita “senza alcun vincolo in seguito alla crescente violenza e agli attacchi contro i civili.”

Un ulteriore dissenso è arrivato da uno dei “buoni amici” di Israele, il politico texano Joaquin Castro, che ha affermato che gli USA non dovrebbero più guardare da un’altra parte mentre vengono commesse atrocità sul territorio di Gaza dagli israeliani. Un rinvio, ha affermato, consentirebbe alla commissione di condurre un riesame approfondito.

“Sarebbe ragionevole chiedere un rinvio di questa vendita in modo che possiamo verificarla alla luce di quanto sta avvenendo,” ha spiegato Castro, “in particolare il fatto che Israele, che è nostro buon amico e che gli Stati Uniti hanno appoggiato da generazioni, ora ha preso di mira un edificio che ospitava un’agenzia americana, l’Associated Press.” Ha evidenziato che nessuno può limitarsi a guardare da un’altra parte. “Gli Stati Uniti devono inviare un fermo messaggio.”

Eventuali risoluzioni di disapprovazione condivise richiedono un’approvazione speciale della commissione, perché il tempo per presentare un ricorso è già tecnicamente scaduto. Tuttavia il fatto che politici USA siano divisi sull’accordo relativo agli armamenti illustra i venti di cambiamento che soffiano nei corridoi del potere a Washington.

Lunedì pomeriggio i democratici hanno tenuto un incontro urgente sulla prevista vendita dopo che il Washington Post ha informato che l’accordo sugli armamenti include kit di Joint Direct Attack Munitions (“JDAM”), che trasformano le bombe in missili teleguidati e Guided Bomb Unit-39s (GBU-39), un’arma sviluppata per penetrare in strutture fortificate situate a grande profondità sottoterra.

Il presidente della Commissione Affari Esteri della Camera, il deputato Gregory Meeks, ha accettato di inviare una lettera all’amministrazione Biden chiedendo che la vendita venga rinviata mentre i parlamentari riesaminano il contratto che è stato formalmente autorizzato il 5 maggio e di cui il Congresso era stato informato. Si tratta di un processo di revisione di 15 giorni, che termina giovedì [20 maggio].

Meeks è considerato un grande amico delle lobby filo-israeliane di Washington ed è una presenza costante alla conferenza annuale dell’AIPAC (the American Israel Public Affairs Committee) [Commissione degli Affari Pubblici Israelo-Americana]. Tuttavia pare che la disponibilità comprata e pagata dall’AIPAC non sia più una garanzia di influenza sul Congresso.

Sono scoppiate tensioni tra i deputati democratici sulla commissione che vuole ritardare il discusso accordo. Molti affermano di aver appreso della sospensione dell’accordo solo durante il fine settimana e hanno criticato la commissione per la scarsa trasparenza.

Mentre tenevano un incontro urgente per discutere sul futuro dell’accordo, l’esercito israeliano era impegnato a lanciare attacchi aerei mortali sulla Striscia di Gaza. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha esternato le solite bellicose minacce: “Faremo tutto il necessario per ripristinare l’ordine, la tranquillità e la sicurezza del nostro popolo e la deterrenza. Stiamo cercando di ridurre la capacità terroristica di Hamas e la sua volontà di riprovarci. Quindi ci vorrà un po’ di tempo. Spero che non ci voglia molto, ma non sarà immediato.”

Tuttavia, nonostante i tentativi di contrastare la copertura giornalistica dal vivo sul terreno a Gaza distruggendo deliberatamente gli uffici di alcune agenzie di notizie con missili e bombe, il mondo esterno può vedere chiaramente la devastazione provocata da Israele. E sappiamo tutti dell’uccisione di uomini, donne e bambini innocenti.

È quasi certo che tra la vasta gamma di armamenti utilizzati contro la popolazione civile ci sono missili ottenuti da Israele dal Dipartimento della Difesa USA attraverso un accordo di 1.8 miliardi di dollari nel 2015 per la fornitura di armi.

Nel contratto di vendita c’erano 14.500 kit JDAM per trasformare missili intelligenti e altre armi di distruzione di massa installati su aerei da combattimento e droni israeliani come quelli inviati a bombardare il grattacielo di Gaza che ospitava l’Associated Press e Al Jazeera. Israele ha sostenuto che l’agenzia di intelligence militare di Hamas stava utilizzando l’edificio commerciale e residenziale, ma finora non è stata fornita alcuna prova di ciò. L’AP chiede un’inchiesta indipendente. Nel contempo anche una linea elettrica di servizio dell’unica centrale per la maggior parte di Gaza City è stata distrutta.

I tradizionali amici di Israele sembrano essere divisi sull’offensiva militare dello Stato sionista e alcuni democratici americani stanno facendo pressione sul presidente Joe Biden perché faccia presente a Netanyahu i loro sentimenti.

“Non riesco a ricordare una guerra aperta in cui vengano uccisi bambini da ambo le parti in cui gli USA non abbiano aggressivamente spinto per un cessate il fuoco,” ha detto ai giornalisti il senatore Tim Kaine.

Il presidente della sottocommissione Relazioni Estere sul Medio Oriente del Senato, senatore Chris Murphy, ha sottolineato che “se Israele non crede che il cessate il fuoco sia nel suo interesse, ciò non significa che noi dobbiamo accettare questa opinione. Abbiamo un enorme potere di persuasione.”

In effetti l’America ha un enorme potere di persuasione e sarebbe incoraggiante vedere che una volta tanto venga utilizzato per appoggiare il popolo palestinese. Non possiamo che sperare che il potere e l’influenza della lobby filo-israeliana sia in declino. Sarebbe una cosa buona, non solo per i palestinesi, ma anche per la democrazia occidentale.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Gli Stati Uniti non possono continuare a ignorare i crimini di Israele a Gerusalemme

Daoud Kuttab

27 aprile 2021   Al Jazeera

L’amministrazione Biden deve usare maniere forti con Israele se vuole fare la differenza in Medio Oriente.

È diventato praticamente un cliché. La nuova amministrazione statunitense si insedia e delude le aspettative che intensifichi gli sforzi per risolvere il conflitto israelo-palestinese, elencando invece nuove priorità estere come Afghanistan, Russia e Cina. Allo stesso modo, l’amministrazione Biden ha segnalato una mancanza di serio interesse per la questione palestinese.

Ma le proteste violente e gli scontri scoppiati nella Gerusalemme est occupata all’inizio di questo mese dovrebbero smuovere la leadership degli Stati Uniti dalla loro apatia.

Il primo giorno di Ramadan le autorità israeliane hanno deciso di rompere il fondamentale impegno a rispettare il diritto di culto entrando con la forza nei quattro minareti della moschea di Al Aqsa, per interrompere la chiamata serale alla preghiera, che coincideva con la cerimonia israeliana per la Giornata della Memoria svoltasi presso il Muro Occidentale di Gerusalemme alla presenza di alti funzionari israeliani.

Dopo di che le autorità israeliane hanno anche deciso di negare l’ingresso ad Al Aqsa a un gran numero di fedeli musulmani che volevano unirsi ai loro fratelli e sorelle per la rottura del digiuno nel cortile della moschea. Ai palestinesi è stato anche vietato di riunirsi presso la Porta di Damasco, cosa che fanno tradizionalmente durante il Ramadan.

Le affermazioni dei funzionari che queste misure fossero state prese per proteggere i palestinesi dal COVID-19 non sono credibili. La maggior parte dei residenti di Gerusalemme Est è già stata vaccinata, poiché, a differenza dei palestinesi che vivono a Gaza e in Cisgiordania, hanno avuto accesso ai vaccini dalle autorità israeliane. A un numero limitato di palestinesi nel resto dei territori occupati è stato concesso il permesso di visitare la città occupata e tutti hanno dovuto presentare un certificato di vaccinazione.

Come se non bastasse, la polizia israeliana ha permesso a centinaia di giovani dell’organizzazione di estrema destra Lehava, considerata razzista ed estremista anche dagli israeliani, di marciare verso la città vecchia di Gerusalemme al grido di “morte agli arabi” e “via gli arabi”. Quando i palestinesi li hanno fronteggiati, per disperdere la folla palestinese la polizia israeliana ha usato granate assordanti, gas lacrimogeni e violenza fisica.

In tutto il mondo, le tattiche per prevenire la violenza includono non solo una presenza di polizia ampia e controllata, ma anche tentativi di convincere i leader politici o religiosi a usare la loro posizione per incoraggiare i membri della loro comunità a non entrare in alterchi fisici e a disperdersi pacificamente.

Il problema è che Israele ha da tempo abbandonato questi strumenti di comunicazione con i palestinesi di Gerusalemme est. Dal 1993, con la firma degli accordi di Oslo alla Casa Bianca a Washington, gli israeliani agiscono aggressivamente per recidere ogni legame dei palestinesi di Gerusalemme con la loro leadership nazionale.

Le autorità israeliane interrompono regolarmente gli eventi nella città occupata sponsorizzati dal governo palestinese di Ramallah anche se l’evento è uno spettacolo di marionette per bambini. I leader locali palestinesi vengono spesso trascinati via e imprigionati o minacciati di pene detentive se continuano a comunicare con i leader palestinesi loro colleghi.

E le violazioni israeliane dei diritti dei palestinesi in Gerusalemme non si fermano qui. Israele ha rifiutato di onorare una serie di clausole del patto interinale quinquennale degli accordi di Oslo che riguardano i gerosolimitani. Ha rifiutato di negoziare lo status della città occupata e ha continuato la sua campagna demografica e di sicurezza intesa a sradicare i residenti palestinesi. Ha anche continuato negli sforzi diplomatici per far riconoscere Gerusalemme come sua capitale.

Ora sta anche pianificando di impedire ai palestinesi di Gerusalemme di votare alle elezioni legislative palestinesi che si terranno il 22 maggio. Questo nonostante il fatto che l’accordo interinale garantisca il diritto dei palestinesi di Gerusalemme di votare alle elezioni palestinesi.

Il governo israeliano, che dichiara costantemente di presiedere “all’unica democrazia del Medio Oriente” e di rispettare il diritto dei fedeli di tutte le religioni a praticare la loro fede a Gerusalemme e in tutta la Terra Santa, sta tristemente venendo meno su entrambi i fronti.

Nel frattempo l’amministrazione Biden ha rilasciato solo una debole dichiarazione di “preoccupazione” sulla marcia degli estremisti ebrei a Gerusalemme che ha provocato tensioni. Significa anche che non si opporrà al rinvio delle elezioni palestinesi, cosa che l’Autorità Nazionale Palestinese potrebbe essere costretta a fare poiché non è riuscita a ottenere da Israele il permesso di indire le votazioni a Gerusalemme est.

In patria, l’amministrazione Biden si è opposta all’estremismo di estrema destra e alla repressione degli elettori. Non ha senso che la sua politica estera nei confronti di Israele e Palestina non rifletta gli stessi principi.

Se il presidente Joe Biden è davvero deciso a riparare i danni che il suo predecessore Donald Trump ha fatto in patria e all’estero, allora deve cambiare tattica con Israele. Chiudere un occhio sui crimini israeliani contro i palestinesi e scegliere continuamente di compiacere Israele non porterà a una risoluzione pacifica del conflitto israelo-palestinese.

Biden deve fare pressione su Israele affinché sia accomodante su Gerusalemme, consenta lo svolgimento delle elezioni palestinesi in modo che possa essere eletta una nuova leadership palestinese, e poi procedere per riportare le due parti al tavolo dei negoziati.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione della redazione di Al Jazeera.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Se Israele non ha commesso crimini di guerra, perché rifiuta l’inchiesta della CPI?

Kamel Hawwash

10 aprile 2021 – Days Of Palestine

Il 5 febbraio i palestinesi hanno visto brillare in fondo ad un lungo tunnel una debole luce di giustizia. La Prima Camera Preliminare della Corte Penale Internazionale (CPI) “ha deciso a maggioranza che la giurisdizione territoriale della Corte sulla situazione in Palestina, uno Stato aderente allo Statuto di Roma della CPI, si estende ai territori occupati da Israele dal 1967.” Ora la CPI ha giurisdizione per investigare sui crimini che i palestinesi affermano essere stati commessi da Israele in Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza. La procuratrice della Corte, Fatou Bensouda, aveva precedentemente chiesto le indagini, affermando che vi era “una ragionevole base per ritenere” che si fossero verificati crimini di guerra.

Le reazioni in Palestina e in Israele sono state quelle previste. I palestinesi hanno accolto con favore la decisione. Il Ministro della Giustizia palestinese Mohammed Al-Shalaldeh ha plaudito alla decisione della CPI definendola “storica”.

La decisione della Corte Penale Internazionale è storica e rappresenta l’inizio immediato delle indagini sulle gravi violazioni nei territori occupati palestinesi”, ha detto Al-Shalaldeh. Ha poi aggiunto che la Corte darà priorità a tre dossier: la guerra israeliana contro Gaza del 2014, le colonie israeliane e i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane.

Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha denunciato la decisione in una dichiarazione scritta. “Oggi la Corte Penale Internazionale ha dimostrato ancora una volta di essere un ente politico e non un’istituzione giudiziaria”, ha detto Netanyahu. “Con questa sentenza il tribunale ha violato il diritto delle democrazie a difendersi contro il terrorismo ed è stato manipolato da coloro che minano gli sforzi per estendere l’ambito della pace”, ha aggiunto.

Chiunque si aspettasse un cambio nella posizione americana dalla nuova amministrazione Biden è stato subito deluso. In una telefonata a Netanyahu la vicepresidente americana Kamala Harris gli ha detto che secondo la Casa Bianca gli USA sono contrari all’inchiesta della CPI su possibili crimini di guerra nei territori palestinesi.

Ciò ha fatto seguito ad un annuncio del Segretario di Stato USA Antony Blinken che diceva che Washington “è fermamente contraria e profondamente delusa” dalla decisione della CPI. Ha sottolineato che “Israele non è membro della CPI e non ha accettato la giurisdizione della Corte e siamo molto preoccupati per i tentativi della CPI di esercitare la propria giurisdizione sul personale israeliano”, ha affermato Blinken in un comunicato.

Israele deve essere rimasto un po’ sconcertato, ma certamente deluso, per il fatto che la stessa amministrazione (USA) recentemente ha tolto le sanzioni sul personale della CPI imposte dal predecessore di Biden, Trump, nel dicembre 2020. Il team di Blinken ha affermato: “Quella decisione rispecchia la nostra valutazione secondo cui le misure adottate erano inappropriate e inefficaci” prosegue l’amministrazione, “riguardo all’obiettivo di dissentire fortemente dalle azioni della CPI relative alle situazioni di Afghanistan e Palestina” ed opporsi agli “sforzi della CPI di rivendicare la giurisdizione sul personale di Stati non membri, quali gli Stati Uniti e Israele.”

Gli USA hanno preso questa decisione nonostante le indagini, che potrebbero prendere di mira personale militare USA per crimini commessi in Afghanistan. Ci si sarebbe potuti aspettare che Israele seguisse l’esempio e riconoscesse che la CPI è un tribunale indipendente e che il procuratore capo abbia condotto scrupolose consultazioni prima di sentenziare che la Corte ha giurisdizione sui Territori Palestinesi Occupati e che avrebbe condotto indagini su crimini commessi da entrambe le parti, compresi i palestinesi, a partire dal 2014. Tuttavia chi ben conosce l’atteggiamento di Israele nei confronti di un necessario esame esterno non si sarebbe sorpreso per il suo rigetto formale della decisione della CPI di indagare i crimini dei suoi dirigenti.

Israele è chiaramente preoccupato per la decisione della CPI. Dopo una riunione dei suoi vertici ha deciso di inviare una lettera alla Corte per comunicare il proprio rifiuto a collaborare. Alla riunione erano presenti, tra gli altri, il Primo Ministro, il Ministro della Difesa, il Ministro per gli Affari Strategici, il Ministro dell’Educazione, il Ministro dell’Acqua, il Procuratore Generale, il capo del Consiglio di Sicurezza Nazionale e il Capo di Stato Maggiore.

Coerentemente con la sua consolidata posizione Israele non collaborerà all’inchiesta della Corte Penale Internazionale su presunti crimini di guerra e sosterrà che la Corte non ha giurisdizione per avviare l’indagine. Durante la riunione Netanyahu ha sostenuto che “mentre i soldati dell’IDF (l’esercito israeliano) combattono con estrema moralità contro terroristi che commettono quotidianamente crimini, la Corte dell’Aja ha deciso di accusare Israele.” “Non vi è altro termine per questo, se non ipocrisia. Un’istituzione creata per lottare per i diritti umani si è trasformata in un’istituzione ostile che difende chi calpesta i diritti umani.”

Nella lettera da inviare alla CPI Israele sosterrà di avere la propria “magistratura indipendente” in grado di giudicare i soldati che commettano crimini di guerra.

I palestinesi chiederanno di fare diversamente, dato che le indagini di Israele sui propri crimini non hanno fatto giustizia. Prendiamo per esempio l’inchiesta sull’uccisione, nel 2018, dell’infermiera palestinese ventunenne Razan Al-Najjar vicino alla barriera di Gaza. Un’inchiesta israeliana ha affermato che “nel corso di un esame preliminare dell’incidente che ha avuto luogo il primo giugno 2018, in cui è stata uccisa una donna palestinese di 22 anni, è stato riscontrato che durante l’incidente sono stati sparati pochi proiettili e che nessuno sparo è stato deliberatamente o direttamente indirizzato a lei.” Commentando l’inchiesta, l’organizzazione per i diritti umani Al-Haq ha affermato: “L’esame preliminare frettolosamente concluso mette in luce l’incapacità di Israele di condurre un’indagine indipendente, efficace ed imparziale su presunti crimini di guerra.” Ha inoltre affermato:

Di fatto l’esercito israeliano agisce impunemente. Tra il 2005 e il 2009, su 800 denunce presentate per crimini di guerra, solo 49 indagini hanno portato ad incriminazioni.

Perciò Israele non può essere ritenuto affidabile nel condurre in modo imparziale proprie indagini, e questo è il motivo per cui è necessaria un’indagine esterna. Inoltre, ha una storia decennale di rifiuti di concedere accesso a squadre investigative internazionali per indagare su potenziali crimini di guerra.”

Nel 2002 è stato negato l’ingresso al campo al team di Amnesty International che indagava su potenziali crimini commessi dalle truppe israeliane nel campo profughi di Jenin. Il professor Derrick Pounder, che faceva parte del team di 3 persone inviato ad indagare su violazioni dei diritti umani, ha detto: “Il rifiuto di consentirci di svolgere o anche di aiutare altri a svolgere tali indagini è molto grave e solleva dubbi sulle motivazioni delle autorità.”

Nel 2009 al team guidato dal giudice Goldstone per indagare su possibili crimini commessi durante la guerra contro Gaza del 2008/09 Israele ha negato i visti, e il team ha dovuto entrare a Gaza attraverso l’Egitto. Alla fine il suo rapporto ha concluso che Israele e gruppi armati palestinesi erano colpevoli di crimini di guerra. Il rapporto ha inoltre riferito che ad Amnesty International, Human Rights Watch e B’Tselem era stato vietato di entrare a Gaza per condurre le proprie indagini.

Nel 2014 Israele ha nuovamente negato l’ingresso ai team che erano incaricati di indagare su potenziali violazioni dei diritti umani. La commissione investigativa dell’UNHCR [Alto Commissariato Nazioni Unite per i Rifugiati, ndtr.] ha rilevato che sia Israele che gruppi armati palestinesi avevano commesso crimini di guerra.

Israele ha anche negato l’ingresso ai relatori dell’ONU Richard Falk e Michael Link, relatore speciale ONU per i Territori palestinesi.

Forse Israele ha qualcosa da nascondere? Certo, sicuramente sì. Le sue violazioni dei diritti umani riempiono pagine su pagine di ogni dossier. Che riguardino i crimini di guerra nel corso delle ripetute guerre contro la popolazione palestinese indifesa e intrappolata a Gaza, o la sua illegale impresa coloniale, o il trasferimento della sua popolazione in aree illegalmente occupate, o il trasferimento di prigionieri palestinesi dai territori occupati nel proprio territorio. E le demolizioni di case, gli sgomberi delle famiglie?

Con questi foschi precedenti, giustizia impone che le violazioni israeliane vengano indagate e che Israele ne renda conto. I suoi dirigenti devono rispondere di persona dei loro presunti crimini di guerra e devono comparire di fronte al tribunale dell’Aja. Altrimenti continueranno a commettere crimini, con la consapevolezza di non doverne pagare le conseguenze. Le ruote della giustizia devono girare più veloci e allora i criminali di guerra israeliani non potranno più dormire tranquillamente la notte pensando che possono alzarsi al mattino e commettere impunemente altri crimini.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Days of Palestine.

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(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




“The Present” mette totalmente a nudo la realtà palestinese

William Parry

12 aprile 2021 – The Electronic Intifada

La regista anglo-palestinese Farah Nabulsi ha vissuto un paio di settimane straordinarie.

Il mese scorso il suo cortometraggio, The Present (Il Regalo) – il suo debutto come regista – è stato il primo selezionato per un premio dell’Accademia Britannica delle Arti Cinematografiche e Televisive (BAFTA), prima di ottenere, alcuni giorni dopo, la nomination per un premio oscar, che verrà assegnato a fine aprile.

Poi è giunta la notizia che Netflix stava trasmettendo in streaming il film.

Infine il 10 aprile il corto di 24 minuti ha vinto il BAFTA, aggiungendosi ai numerosi premi e riconoscimenti ricevuti dalla sua uscita lo scorso anno.

Che cosa significa tutto ciò per Nabulsi?

Per me la priorità era che il film fosse visto. È da questo che traggo veramente la mia soddisfazione. Quindi tutto questo significa una maggiore visibilità, che è già stata ampia – e per un cortometraggio, sotto molti aspetti senza precedenti nella nostra storia. In questo senso sono molto, molto soddisfatta”, ha detto a Electronic Intifada in videocollegamento.

Nabulsi si inserisce in un elenco di registi il cui lavoro è ineluttabilmente legato all’identità palestinese. La piccola storia di Nabulsi mostra, con dettagli che spezzano il cuore, il controllo fisico brutale ed umiliante che Israele esercita quotidianamente su milioni di palestinesi, e la fatica fisica, emotiva e mentale che deriva dal suo essere implacabile.

Tuttavia, curiosamente, mentre i suoi film sono inestricabilmente legati alle realtà palestinesi, Nabulsi dice che le sue influenze culturali hanno poco a che fare con la cultura palestinese ed araba.

Cresciuta a Londra e avendo frequentato una “scuola veramente inglese”, Nabulsi dice di non avere conosciuto molto l’arte o la musica araba. Pur amando gli scritti di Edward Said e la poesia di Mahmoud Darwish, dice di aver letto le loro opere “attraverso la lente di chi non legge molto bene l’arabo, ed ha quindi fatto ricorso alle traduzioni.”

Prima di diventare regista, le piacevano i film di Annemarie Jacir e Hany Abu-Assad [due registi palestinesi, ndtr.], ma ammette ridendo che William Shakespeare e altri artisti occidentali sono stati importanti e in vari modi più formativi nella sua crescita culturale.

Il modo in cui affronto il mio lavoro è leggermente diverso”, dice Nabulsi. “Che mi piaccia o no, mantengo un piede in occidente, sempre. Quindi quando scrivo e creo le mie storie e le dirigo, penso di subire una certa influenza dalla mia educazione e anche dalle mie influenze occidentali, forse più che da quelle palestinesi, se devo essere onesta. Non intendo far finta che non sia così.”

I tempi stanno cambiando?

Con un cortometraggio che mostra senza veli la brutale realtà dell’apartheid israeliano sulla vita quotidiana dei palestinesi ottenendo attenzione internazionale – e con una nuova amministrazione USA guidata da Joe Biden e la promessa di tenere quest’estate le elezioni palestinesi a lungo rimandate – Nabulsi trova motivi di ottimismo?

Non vedo reali differenze tra Biden e Trump”, dice Nabulsi. “Sono teste dello stesso serpente, solo che uno indossa una maschera e l’altro no.”

Tuttavia ritiene che i quattro anni di presidenza di Donald Trump abbiano rivelato chiare prese di posizione politiche che quelli che mantengono una posizione neutrale non possono più negare, inclusi alcuni sionisti progressisti.

È diventato molto chiaro che quando si pensa a Trump, a Netanyahu in Israele, a Orban in Ungheria, a Bolsonaro in Brasile, a Modi in India, subito si pensa ‘fascisti!’ e si vede chiaramente chi siano questi compari e che cosa stiano facendo.”

Di conseguenza, sostiene Nabulsi, “questa trasversalità tra altri movimenti per i diritti e antirazzisti è venuta sempre più allo scoperto e questa fratellanza e sorellanza sono state di aiuto. Perciò sono molto contenta dei tempi che stiamo vivendo, ma non di Biden.”

Riguardo alle elezioni palestinesi previste in estate, Nabulsi ammette che “le piace l’idea” di Marwan Barghouti candidato alla presidenza dalla sua cella di un carcere israeliano.

Certo,” dice. “Dà davvero una lieve sensazione alla (Nelson) Mandela, ma non mi faccio illusioni che ciò non possa concludersi del tutto o non vada invece a finire in niente.”

Dice che se l’attuale leadership avesse sinceramente a cuore gli interessi dei palestinesi, “dovrebbe entrare nel XXI secolo e stare al gioco.” Aggiunge che non riesce a capire perché non abbiano buttato la palla direttamente nel campo di Israele molto tempo fa.”

Perché non hanno dichiarato collettivamente: “Sapete che c’è? Ecco: un solo Stato. Prendetevi cura di noi, riprendetevi l’occupazione, riprendetevi tutto questo. Oslo? [gli Accordi di Oslo del 1993 da cui è nata l’Autorità Nazionale Palestinese, ndtr.] Lo avete ucciso, è defunto ed eccone tutti i motivi: le colonie, questo, quello e quell’altro: fatto. Quindi è tutto inutile.”

Anche l’Autorità Nazionale Palestinese è vuota. I leader palestinesi adesso devono chiedere agli israeliani di “vivere con voi. Devono farlo con molta sincerità e dire seriamente: ‘Ecco ciò che vogliamo!’ e mettere Israele di fronte a una scelta.”

Così devono decidere: ‘Oh no! No, no, no! Ecco il vostro Stato!’, oppure devono fare i conti con un’inequivocabile apartheid.”

I due Stati, dice, “erano una buona idea quando era praticabile, ma adesso chiaramente non lo è. Ma il peccato originale ideologico di Israele è il colonialismo di insediamento, quindi, a meno che non lo abbandonino, loro non vogliono i due Stati. Non è mai stata la loro intenzione.”

Primi germogli

Nonostante gli scenari politici che influenzano l’attuale situazione, Nabulsi scorge guadagnare terreno segni autentici di progresso – che alla fine incominceranno ad influenzare, dal basso verso l’alto, quegli stessi scenari politici.

Cita alcuni esempi recenti, compresi il rapporto “Questo è apartheid” dell’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, la recente decisione della Corte Penale Internazionale di indagare sui crimini di guerra israeliani e negli ultimi anni il cambiamento di ex sionisti progressisti come il giornalista americano Peter Beinart [noto editorialista ebreo americano che nel 2020 ha affermato di non credere più in uno Stato ebraico, ndtr.].

Sono una di quelle persone che credono che si tratti veramente di tutte le gocce dell’oceano che si uniscono. Non è un solo movimento o un individuo o un rapporto – certo, ci sono momenti di svolta e ci sono individui chiave, ma alla fine si tratta di una miscela di tutte queste cose.”

Senza questo ottimismo, dice, fare film sarebbe inutile.

William Parry è un giornalista e fotografo freelance che vive nel Regno Unito. È autore di ‘Against the wall: the art of resistance in Palestine’ [Contro il muro: l’arte della resistenza in Palestina] e coautore del documentario breve ‘Breaking the generations: palestinian prisoners and medical rights’ [Spezzare le generazioni: i prigionieri palestinesi e il diritto a cure mediche].

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




‘Til Kingdom Come’: come i cristiani evangelici fomentano il caos in Palestina

Azad Essa

22 marzo 2021- Middle East Eye

Nella chiesa evangelica luterana del Natale a Betlemme, il reverendo Munther Isaac siede su una panca accanto al pastore Boyd Bingham IV, un cristiano evangelico di una cittadina americana, per discutere dei cristiani evangelici e del loro ruolo nel conflitto israelo-palestinese.

“Gli evangelici hanno contribuito in modo molto negativo a questo conflitto perché sono ossessionati dalle profezie,” dice Isaac, un cristiano palestinese, a Bingham, un sionista cristiano estremista della chiesa battista Binghamtown a Middlesboro, in Kentucky. 

“Vedi, ecco quello che non capisco di molti evangelici americani: nella loro visione gli ebrei un giorno dovranno convertirsi al cristianesimo, quelli che non lo faranno purtroppo saranno massacrati, questa è l’idea profetica. In un qualche modo questa è percepita come una teologia che supporta il popolo ebraico. 

“Per me, questa è una logica contorta: l’idea che Dio riporti gli ebrei nella loro terra. Ma quello che spesso manca è la presenza palestinese, è come se parlaste di una terra disabitata. Siamo stati destinatari di una teologia che in pratica ci ha detto che noi non apparteniamo a questo posto, che ci ha persino detto che siamo cittadini di seconda classe nella nostra patria,” aggiunge Isaac, mentre Bingham lo guarda.

La loro conversazione è una di una serie di scene molto efficaci in ‘Til Kingdom Come[Fino alla Fine del Mondo], un nuovo documentario sul legame poco conosciuto e spesso sottostimato fra la destra israeliana e i cristiani evangelici americani.

Diretto da Maya Zinshtein, regista israeliana vincitrice di un Emmy, il documentario è un viaggio in prima persona nel mondo dei fanatici del movimento sionista cristiano negli Stati Uniti mentre si scatenava febbrilmente durante la presidenza di Donald Trump.

La base sionista cristiana

I cristiani evangelici sono un quarto dell’elettorato americano e circa tre quarti di tutta la popolazione evangelica sono bianchi. Molti sono cristiani sionisti che letteralmente credono che Israele sia una manifestazione di profezie bibliche e che gli ebrei debbano essere appoggiati perché ritornino nella loro patria spirituale.

Secondo la teologia del movimento, una volta riuniti in Israele, Gesù tornerà e determinerà la conversione di massa al cristianesimo per alcuni ebrei e la morte per gli altri.

Con l’elezione di Trump alla fine del 2016 e lo spirito molto esplicito e trionfante che ha seguito la sua base cristiana evangelica dentro la Casa Bianca, Zinshtein ha detto che sembrava un momento appropriato per esplorare una storia che pochi in Israele sembrano capire o interessarsi, ma che supponeva avrebbe esercitato un’enorme influenza sulla regione.

“Quando ho cominciato a interessarmi a questo tema ho capito che c’era un enorme potere sotto la superficie che influenzava la mia vita, la vita dei palestinesi che vivevano vicino a me … e volevo portarlo alla luce,” ha detto la regista a Middle East Eye.

Nel documentario, Zinshtein e il suo gruppo esplorano la piccola comunità evangelica a Middlesboro, in Kentucky, un microcosmo della più ampia comunità evangelica cristiana negli USA. Ha passato del tempo con Bingham e mostra come giovani e anziani subiscano un lavaggio del cervello e credano che sostenere Israele migliorerà la loro vita.

‘Il destino di questa chiesa’

Middlesboro fa parte di un gruppo di cittadine minerarie dove una volta si estraeva il carbone in uno dei distretti più poveri degli USA. Nonostante il 40% della popolazione viva in povertà, la comunità è fra i maggiori contribuenti dell’ente no profit International Fellowship of Christians and Jews [Fratellanza Internazionale di Cristiani ed Ebrei] (IFCJ).

“Il destino del popolo ebraico è il destino di questa chiesa. E il destino di questa chiesa è il destino del popolo ebraico,” Yael Eckstein, presidentessa dell’IFCJ, afferma davanti a una chiesa gremita a Middlesboro, dopo aver ricevuto un assegno di 25.000 dollari.

“È il bene contro il male. E dio dice: da che parte state?” aggiunge, accolta da un boato proveniente dai fedeli davanti a lei.

Til Kingdom Come gode di accesso illimitato ad alcuni degli spazi più esclusivi e privati del mondo cristiano evangelico americano. 

A Los Angeles, Zinshtein segue Eckstein in un evento per la raccolta fondi a favore dell’esercito israeliano, durante il quale celebrità hollywoodiane di primo piano come Gerard Butler sfilano insieme a figure come il defunto Sheldon Adelson, il miliardario mecenate di Trump e sostenitore di Israele. Poi si vede Butler farsi un selfie con soldati israeliani e a fianco di Rona-Lee Shimon, star di Fauda, serie televisiva israeliana di gran successo.

“È una storia di fede, soldi e influenza politica,” ha detto Zinshtein.

Smascherare le macchinazioni all’interno di questa relazione durata decenni rende il film una vicenda avvincente. Zinshtein è un’abilissima narratrice, permette ai suoi personaggi di raccontare la storia con le proprie parole ed espressioni e persino di sfidare i protagonisti principali. 

Quando Bingham dice a Zinshtein davanti alla cinepresa che “non c’è una cosa che si chiama Palestina,” dopo un’accesa conversazione nella chiesa a Betlemme con Isaac, il pubblico non ha dubbi a proposito della millanteria del progetto evangelico.

Zinshtein interviene solo per far domande, mai per narrare. 

Storia incompleta

Zinshtein ha detto che parte dell’intenzione del film è di illustrare ai politici israeliani di destra e sinistra che “quando Israele sta con gli evangelici, aderisce al loro ‘programma complessivo’. E questo progetto include campagne anti-aborto, anti-LGBTQ, e su questi temi sono molto diversi dagli evangelici.” È questa relazione crescente fra il governo israeliano e la destra cristiana che le interessa.

A un summit dei Cristiani Uniti per Israele, dopo aver sentito il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu dire che gli evangelici americani erano i “migliori amici,” di Israele, Zinshtein ricorda di aver pensato: “Questo è assurdo. Da israeliana, questo mi fa paura.”

Tuttavia è questa cornice che diventa la debolezza principale del film. In nessuna parte Zinshtein o i suoi personaggi mettono in discussione il progetto colonialista degli insediamenti israeliani che ha sistematicamente sradicato i palestinesi, distrutto vite e occupato terre, ancor prima del rapporto con gli evangelici.

Nonostante gli sforzi del film di raccontare una storia complessiva, mettere al centro delle preoccupazioni e paure israeliane secondo cui un Israele sprovveduto si sarebbe accollato un incontrollabile colosso antisemita non è solo infelice: semplicemente non è tutta la storia. 

Sebbene gli evangelici cristiani abbiano un “piano” per gli ebrei, il loro progetto resta teologico, basato sulla loro interpretazione della Bibbia, ed è principalmente una questione di fede. Se alcuni israeliani sono magari a disagio perché gli evangelici hanno una strage di ebrei sulla loro lista dei desideri, è anche qualcosa che la maggioranza degli israeliani non prende seriamente.

Per i palestinesi però la paura è molto più viscerale ed esistenziale. In patria, gli israeliani hanno espulso centinaia di migliaia di palestinesi, costruito un muro di 700 km attraverso la Cisgiordania occupata e agiscono come il cane da guardia degli USA nella regione. All’estero, Israele è da tempo alleata con governi di destra e razzisti: il Sud Africa dell’apartheid, la giunta militare di Myanmar o, più recentemente, i regimi autoritari e xenofobi di  Brasile e India.

La cooperazione di Israele con i cristiani evangelici nativisti e razzisti è perciò solo una della serie di alleanze di destra. L’incapacità del film di evidenziare le somiglianze fra Israele e i fanatici evangelici bianchi serve solo a rendere popolare l’idea che un’alleanza fra Israele e i ripugnanti sostenitori di Trump sia un’anomalia.

Ma per i palestinesi che sono stati vittime per decenni di questo legame fra fanatici e per quegli ebrei che hanno tentato di evidenziare le mire del colonialismo d’insediamento di Israele, il legame rappresenta la vacuità del sionismo stesso. 

“Io penso veramente di star facendo vedere gli aspetti chiave di come questo legame stia influenzando questa questione [il conflitto]. La conclusione è che i cristiani evangelici credono che tutta la terra che Dio aveva promesso ad Abramo appartenga al popolo ebraico. Ciò significa che chiunque ceda questa terra è praticamente un peccatore. E noi diventiamo i migliori amici di questa gente e quindi, come pensiamo esattamente di risolvere questo conflitto?” afferma Zinshtein. “La mia sensazione è che la (questione) del nostro destino (collettivo) in questo posto sia in ogni parte di questo film.”

Una questione di storia

Sebbene dica chiaramente che il sionismo cristiano non è nuovo, il film non cerca di chiarire che il corteggiamento fra sionismo cristiano e la destra israeliana è un progetto a lungo termine, perseguito dallo Stato israeliano alla fine degli anni ‘70 e agli inizi degli anni ’80 sotto la guida dell’ex primo ministro Menachem Begin.

“Le alleanze di Begin furono sostenute dal rapporto del ministero degli Esteri [israeliano], che considerava gli evangelici una forza elettorale vitale nelle politiche americane,” scrive Daniel Hummel in Covenant Brothers: Evangelicals, Jews, and US-Israeli Relations. [Fratelli dell’alleanza: evangelici, ebrei e le relazioni USA-Israele]. “Sotto Begin, i sionisti cristiani sono diventati un elemento chiave dei rapporti diplomatici di Israele con gli Stati Uniti.”

Il rifiuto del presidente Joe Biden di annullare il trasferimento dell’ambasciata USA a Gerusalemme o il fatto che la sua amministrazione abbia ignorato la decisione della Corte Penale Internazionale di avviare un’indagine su Israele (e gruppi palestinesi) per crimini di guerra e l’esitazione a togliere le sanzioni contro funzionari della Corte Penale Internazionale, tutte decisioni dell’era Trump, mostrano che Israele è senza dubbio ancora l’unico tema in fatto di politiche su cui sia i Democratici che i Repubblicani riescono a trovare un accordo.

Va riconosciuto a Zinshtein che il film non avrebbe potuto trattare tutti questi argomenti. La storia è definita e modellata dai suoi personaggi e ‘Til Kingdom Come’ esplora solo un aspetto di questa relazione. 

“Penso che il film mostri chiaramente che i leader israeliani d’oggi – e sapete che sono gli stessi da almeno 10 anni – hanno deciso che gli evangelici cristiani sono i nostri migliori amici. Punto. E a loro non importa cosa succede dopo,” ha detto Zinshtein. 

“Invece di dire che sostengono le colonie e un programma di destra, loro (i cristiani evangelici) dicono di sostenere tutto di Israele. E se sei un israeliano, non dirai di no al sostegno a favore di Israele.”

Eliminare i palestinesi

Eppure non riuscire a investigare come lo Stato di Israele faccia i conti con la cosiddetta ironia di lavorare con fanatici cristiani – o ancora meglio, mostrare come lo Stato abbia usato l’enorme influenza degli cristiani evangelici americani perché contribuiscano ad avvicinarsi al raggiungimento dei propri obiettivi, come l’espansione delle colonie, l’annessione e l’eliminazione del popolo palestinese – permette al film di insinuare che il destino di Israele è ostaggio di fanatici.

‘Til Kingdom Come, quindi dà l’impressione di non essere poi tanto un’accusa contro la destra israeliana. Solleva, forse involontariamente, una serie di problemi totalmente diversi sui miti a proposito del proprio paese a cui gli israeliani in tutti questi anni sono rimasti aggrappati. 

Che ci volesse il legame grottesco con Trump per rivelare la fondamentale illegittimità dello Stato di Israele è forse l’ironia più grande di tutte. 

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Azad Essa

Azad Essa, giornalista esperto di Middle East Eye, vive a New York. Dal 2010 al 2018 ha lavorato per Al Jazeera nella versione inglese occupandosi dell’Africa meridionale e centrale. È l’autore di The Moslems are Coming [Arrivano i musulmani] (Harper Collins India) e Zuma’s Bastard [Il bastardo di Zuma) (Two Dogs Books). 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Orizzonte Palestina: vincere la partita a lungo termine

Richard Falk

21 marzo 2021 – Global Justice in the 21st Century

Il bilancio palestinese: vittorie normative, delusioni geopolitiche

Vincere la partita a lungo termine

Nelle scorse settimane il popolo palestinese ha ottenuto importanti vittorie che potrebbero avere serie conseguenze per Israele se la legge e l’etica governassero il futuro politico. Invece a questi successi si contrappongono sviluppi geopolitici avversi dato che la presidenza Biden ha accolto alcuni dei peggiori aspetti dell’assoluta partigianeria di Trump riguardo a Israele/Palestina. La legge e l’etica incidono sulla reputazione, influenzano la legittimità di politiche contestate, mentre la geopolitica incide più direttamente sui comportamenti. La differenza è meglio compresa separando le politiche simboliche da quelle concrete.

Eppure le conquiste relative alla legittimità non dovrebbero essere scartate solo perché niente che importi sul terreno sembra cambiare, e a volte per vendetta cambia in peggio. Nella lunga partita del cambiamento sociale e politico, soprattutto nel corso degli ultimi 75 anni, il vincitore della guerra per la legittimazione, intrapresa per conquistare terreno sul piano legale ed etico e la ricompensa per l’intensità dell’impegno politico, alla fine lungo il percorso ha per lo più determinato il risultato della lotta per l’autodeterminazione nazionale e per l’indipendenza, superando gli ostacoli geopolitici e la superiorità militare. Finora la dirigenza israeliana, benché preoccupata delle battute d’arresto nel campo di battaglia della guerra per la legittimazione, non si è allontanata dalla strategia americana di concepire la sicurezza attraverso una combinazione di capacità militari e attività regionale, alleandosi contro l’Iran e sovvertendo nel contempo l’unità e la stabilità di Stati vicini potenzialmente ostili.

È fondamentale la grande lezione dell’ultimo secolo che non è stata appresa secondo la quale nella guerra del Vietnam gli USA erano superiori in quanto a potenza militare, eppure sono riusciti a perderla. Perché non è stata appresa? Perché se lo fosse stata, la necessità di un bilancio militare da permanente stato di guerra sarebbe svanita e l’ostinata convinzione mitica che ‘il nostro esercito ci garantisce la sicurezza’ avrebbe perso molta della sua credibilità.

Con il presidente Biden, che riprende una geopolitica conflittuale basata sulle alleanze, la prospettiva è quella di un peggioramento pericoloso e costoso delle relazioni tra le principali potenze economiche e militari mondiali, evitando il tipo di riallocazione delle risorse urgentemente necessaria per affrontare le sfide dell’Antropocene. Possiamo lamentare la disfunzionalità del militarismo globale, ma come possiamo raggiungere la forza politica per sfidarlo? Questa è la domanda che dovremmo fare ai nostri politici, senza distoglierli dall’affrontare le urgenze della politica interna che riguardano salute, rilancio dell’economia e attacchi al diritto di voto.

La lotta dei palestinesi prosegue e offre il modello di una guerra coloniale portata avanti in un’epoca post-coloniale, in cui un potente regime oppressivo sostenuto dal consenso geopolitico è necessario per consentire a Israele di andare controcorrente opponendosi alle potenti maree di libertà della storia. Israele ha dimostrato di essere uno Stato colonialista di insediamento pieno di risorse che ha portato a compimento il progetto sionista per tappe e con il fondamentale aiuto del potere geopolitico e che solo di recente ha iniziato a perdere il controllo del discorso normativo in precedenza controllato attraverso la drammatizzazione della vicenda degli ebrei perseguitati in Europa che meritavano un luogo sicuro, insieme al rifiuto negazionista delle rivendicazioni nazionali dei palestinesi di stare al sicuro nella loro stessa patria. I palestinesi, senza rapporti significativi con la storia dell’antisemitismo, hanno pagato i costi umani inflitti agli ebrei dall’Olocausto, mentre l’Occidente democratico assisteva nel più totale silenzio. Questo discorso unilaterale è stato rafforzato in nome dei benefici della modernità, insistendo sulla sostituzione della sordida arretrata stagnazione araba in Palestina con un’egemonia ebraica dinamica, moderna e fiorente, che in seguito è stata anche considerata come un avamposto occidentale in una regione ambita per le sue riserve di energia e più di recente temuta per il suo estremismo contro l’Occidente e per la rivolta islamista. Il conflitto per la terra e l’identità ideologica dello Stato emergente, sviluppata per un secolo, ha conosciuto molte fasi ed è stata interessata, quasi sempre sfavorevolmente, da sviluppi regionali e interventi geopolitici dall’esterno.

Come nel caso di altre lotte anticoloniali, il destino dei palestinesi prima o poi si invertirà se le lotte del popolo vittimizzato potrà durare più del molteplice potere congiunto dello Stato repressore e, come in questo caso, degli interessi regionali e strategici di attori geopolitici. Può il popolo palestinese garantirsi i diritti fondamentali attraverso la sua stessa lotta condotta contro un insieme di forze interne/esterne, basandosi sulla resistenza palestinese all’interno e sulle campagne di solidarietà internazionali dall’estero? Questa è la natura della partita di lungo termine palestinese e attualmente la sua traiettoria è celata tra le mistificazioni e le contraddizioni di una storia che si sviluppa a livello nazionale, regionale e globale.

Le vittorie normative dei palestinesi

Cinque anni fa nessuna persona sensata avrebbe previsto che B’Tselem, la più autorevole ong israeliana per i diritti umani, avrebbe reso pubblico un rapporto in cui si afferma che Israele ha formato uno Stato unico di apartheid che governa dal fiume Giordano al mare Mediterraneo, che include cioè non solo la Palestina occupata, ma lo stesso Israele. (This is Apartheid: A regime of Jewish Supremacy from the Jordan River to the Mediterranean Sea [Questo è apartheid: un regime di supremazia ebraica dal mare Giordano al mare Mediterraneo], B’Tselem: The Israeli Information Center for Human Rights in Occupied Territory, 12 Jan 2021).[cfr la versione italiana]

Attentamente analizzato, il rapporto mostra che le politiche e le prassi israeliane rispetto all’immigrazione, ai diritti sulla terra, alla residenza e alla mobilità sono state gestite in accordo con un contesto preminente di supremazia ebraica e, in base a questa logica, di sottomissione dei palestinesi (più precisamente dei non ebrei, inclusi i drusi e i cristiani non arabi). Tale assetto politico discriminatorio e di sfruttamento si qualifica come apartheid, come inizialmente instaurato in Sudafrica e poi reso universale come crimine a livello internazionale nella Convenzione Internazionale sull’Eliminazione e la Punizione del Crimine di Apartheid. Questa idea del carattere criminale dell’apartheid è stata portata avanti nello Statuto di Roma, che rappresenta il contesto nel quale la Corte Penale Internazionale dell’Aia svolge le proprie attività. L’articolo 7 dello Statuto di Roma, un trattato tra le parti che regola la CPI, elenca i vari crimini contro l’umanità su cui la CPI esercita la propria autorità giurisdizionale. Nell’articolo 7(j) l’apartheid è definito come tale, benché senza alcuna definizione che l’accompagni, e non c’è mai stata un’indagine della CPI per accuse di apartheid che abbia coinvolto i responsabili israeliani. È significativo che vedere l’‘apartheid’ come crimine contro l’umanità ridurrebbe, rispetto alle accuse di ‘genocidio’, l’onere della prova.

Poche settimane dopo il rapporto di B’Tselem, il 6 febbraio 2021 è arrivata la tanto attesa decisione della Camera preliminare della CPI. Con una votazione di 2 a 1 la decisione della Camera ha stabilito l’autorità di Fatou Bensouda, la procuratrice generale della CPI, di procedere con un’indagine per crimini di guerra commessi dal 2014 nei territori palestinesi occupati, come definiti geograficamente dai suoi confini provvisori del 1967.

Per raggiungere questo obiettivo la decisione ha dovuto fare due importanti affermazioni: primo, che la Palestina, benché priva di molte attribuzioni della statualità come definita dalle leggi internazionali, si configura come uno Stato per le finalità di questo procedimento della CPI, essendo stata accettata nel 2014 come Stato membro dello Statuto di Roma dopo essere stata riconosciuta dall’Assemblea Generale il 29 novembre 2012 come “Stato osservatore non-membro”; secondo, che la giurisdizione della CPI per indagare crimini commessi nel suo territorio, la Palestina è stata autorevolmente identificata come la Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza, cioè i territori occupati da Israele durante la guerra del 1967.

Con una decisione che intendeva dare l’impressione di autolimitazione giurisdizionale, è stato sottolineato che queste situazioni giudiziarie sono state limitate ai fatti e alle richieste presi in considerazione e non pretendono di giudicare in anticipo la statualità o le rivendicazioni territoriali di Israele o della Palestina in altri contesti. L’opposizione di lunga data a questa impostazione ha rifiutato questo ragionamento, basandosi prevalentemente sull’attuale vigenza degli accordi conclusi dalla diplomazia di Oslo che avrebbe modificato lo status dell’occupazione ed avrebbe la prevalenza, concludendo che la procuratrice generale non ha competenza giuridica per procedere con l’indagine (il futuro di questo procedimento giudiziario è incerto, dato che l’ incarico dell’attuale procuratrice termina nel giugno 2021 e subentra un nuovo procuratore, Karim Khan).

Andrebbe rilevato che questo procedimento preliminare ha insolitamente attirato un interesse generale in tutto il mondo sia per l’identità delle parti che per l’intrigante carattere delle questioni. I giuristi sono stati a lungo interessati alla definizione di statualità in relazione a diversi ambiti giudiziari, e hanno definito dispute legali affrontando questioni sollevate in territori senza confini stabiliti in modo definitivo e in mancanza di una chiara definizione dell’autorità sovrana. Un numero senza precedenti di memorie sono state presentate alla CPI da “amicus curiae” [parti terze che intervengono in un procedimento con considerazioni giuridiche presso un tribunale, ndtr.], anche di eminenti figure di entrambe le parti della controversia. (Io ne ho presentata una con la collaborazione del ricercatore di Al Haq [Ong palestinese per i diritti umani, ndtr.] Pearce Clancy. ‘The Situation in Palestine,’ amicus curiae Submissions Pursuant to Rule 103, ICC-01/18, 16 March 2020). Israele non è uno Stato membro dello Statuto di Roma e si è rifiutato di partecipare direttamente al procedimento, ma le sue posizioni sono state ben articolate da varie memorie di amicus curiae. (Ad esempio di Dennis Ross, che ha guidato i negoziati di pace all’epoca di Clinton tra Israele e Palestina (‘Observations on Issues Raised by Prosecution for a ruling on the Court’s territorial jurisdiction in Palestine,’ ICC-01/18, 16 March 2020).

Dal punto di vista palestinese questa decisione fa ben sperare, in quanto un’esaustiva indagine preliminare condotta dalla procura nel corso degli ultimi sei anni ha già concluso che ci sono molte ragioni per credere che in Palestina siano stati commessi crimini da parte di Israele e di Hamas, soprattutto in riferimento a questi tre contesti: 1) la massiccia operazione militare delle IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.] nel 2014 a Gaza, nota come “Margine protettivo”; 2) l’uso sproporzionato della forza da parte delle IDF in risposta alle proteste per il diritto al ritorno nel 2018; 3) l’attività di colonizzazione in Cisgiordania e a Gerusalemme est.

Ora è stato stabilito dal punto di vista giuridico che la procura può procedere anche all’ identificazione di singoli responsabili che potrebbero essere imputati e chiamati a rispondere delle proprie azioni.

Se ciò avverrà dipende ora dall’approccio adottato da Khan quando in giugno assumerà il ruolo di procuratore, il che rimane un mistero nonostante alcune supposizioni.

Un’ulteriore vittoria dei palestinesi è la defezione di sionisti progressisti molto autorevoli e noti che, per così dire, non sono rinsaviti, ma ne hanno parlato apertamente e regolano l’accesso ai principali media. Peter Beinert è l’esempio più significativo nel contesto americano, ma il suo annunciato scetticismo sulla volontà da parte di Israele di trovare un accordo con i palestinesi su una qualunque base ragionevole è un’ulteriore vittoria nel campo della politica simbolica.

Delusioni geopolitiche

È stato ragionevole per la Palestina e i palestinesi sperare che la più moderata presidenza Biden avrebbe ribaltato le iniziative più dannose prese da Trump e che sembravano compromettere ulteriormente il potere negoziale palestinese, così come hanno violato significativamente i diritti fondamentali dei palestinesi e lo hanno negando l’autorità sia dell’ONU che delle leggi internazionali.

Il segretario di Stato di Biden, Antony Blinken, ha inviato segnali in merito alle questioni più significative che sono sembrati confermare e ratificare piuttosto che invertire o modificare l’attività diplomatica di Trump. Blinken ha affermato quello che Biden ha fatto intendere riguardo allo spostamento dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme e quindi si è unito a Trump nella sfida alla risoluzione dell’assemblea generale dell’ONU del 2017 che affermava che questa iniziativa era “non valida” e priva di effetti giuridici. Blinken ha anche sostenuto l’annessione da parte di Israele delle Alture del Golan, che è un’ulteriore sfida alle leggi internazionali e all’ONU, che ha difeso un saldo principio, in precedenza sostenuto nella storica Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU riguardo all’occupazione israeliana dei territori palestinesi dopo la guerra del 1967. Questo testo confermò che un territorio estero non può essere acquisito con la forza ed ha previsto il ritiro israeliano sui confini del 1967 (modificati da negoziati relativi a trascurabili aggiustamenti di confine in accordo tra le parti).

E Blinken ha soprattutto appoggiato gli accordi di normalizzazione tra Israele e quattro Stati musulmani (EAU, Bahrain, Sudan, Marocco) raggiunti da Trump con metodi vessatori e il perseguimento di interessi personali. Ci sono state vittorie principalmente simboliche di Israele relative all’accettazione a livello regionale e a credenziali di legittimità, così come il contenimento regionale e prese di posizione di rifiuto contro l’Iran. Per molti aspetti esse ampliano precedenti sviluppi di fatto con un impatto minimo sulle dinamiche tra Israele e Palestina.

Valutare vittorie e sconfitte

Finora l’ira israeliana contro la CPI prevale sulle sconfitte geopolitiche palestinesi, essendo queste ultime ridotte probabilmente dalle chiare speranze persistenti di un rapporto parzialmente migliore tra l’ANP, gli Usa e i Paesi dell’UE. E ci sono state alcune giuste modifiche, compresa l’annunciata volontà di riaprire i centri di informazione dell’OLP negli USA, la ripresa dei contatti diplomatici tra Washington e l’Autorità Nazionale Palestinese, e qualche dichiarazione che suggerisce un ritorno alla diplomazia in contrasto con il tentativo di Trump di dettare i termini di una vittoria israeliana presentata come “l’accordo del secolo”.

Eppure le prime iniziative di Biden in questioni politiche meno controverse per rimediare il più possibile ai danni di Trump a livello internazionale, dal ritorno all’Accordo di Parigi sul Cambiamento Climatico, all’OMS e al Consiglio ONU per i Diritti Umani per esprimere l’intenzione di ribadire la cooperazione internazionale e un redivivo internazionalismo, contrastano con il fatto di lasciare immutati i peggiori aspetti del tentativo di Trump di infrangere le speranze dei palestinesi. Che ciò possa essere spiegato con la forza dell’appoggio bipartisan negli USA al rapporto incondizionato con Israele o da fattori strategici regionali è oggetto di congetture.

Forse la spiegazione più plausibile è il passato filoisraeliano dello stesso Biden, insieme al suo proclamato impegno per unificare l’America, lavorando il più possibile con i repubblicani. Il suo motto totemico sembra essere “insieme possiamo fare tutto”, che finora non ha ricevuto molto incoraggiamento dall’altro schieramento.

Ciò che potrebbe far sperare in parte i palestinesi è il livello in cui questi due sviluppi sono stati un terreno di scontro per quanti difendono Israele in ogni modo. Persino Jimmy Carter è stato umiliato come “antisemita” perché nel titolo il suo libro del 2007 suggerisce semplicemente che Israele deve fare la pace con i palestinesi o rischia di diventare uno Stato di apartheid. Si ricordi che l’osservazione piuttosto banale di John Kerry secondo cui Israele aveva ancora due anni per fare la pace con i palestinesi nel contesto di Oslo per evitarsi un futuro di apartheid ha incontrato una reazione talmente ostile che egli è stato portato a chiedere scusa per queste considerazioni, rinnegando più o meno ciò che sembrava così plausibile quando lo aveva affermato.

Nel 2017 uno studio accademico commissionato dall’ONU, che ho scritto insieme a Virginia Tilley e che confermava le accuse di apartheid, è stato denunciato al Consiglio di Sicurezza come un documento diffamatorio indegno di essere associato all’ONU. Le affermazioni critiche sono state accompagnate da velate minacce americane di ritirare finanziamenti all’ONU se il nostro rapporto non fosse stato sconfessato, ed esso è stato diligentemente tolto dal sito web dell’ONU per ordine del Segretario Generale [il socialista portoghese António Guterres, ndtr.]. Ormai nei contesti internazionali persino la maggior parte dei militanti sionisti preferisce il silenzio piuttosto che organizzare attacchi contro B’Tselem, una volta molto apprezzata dai sionisti progressisti come prova tangibile che Israele è “l’unica democrazia del Medio Oriente.”

Le reazioni alla decisione della CPI da parte di Israele raggiungono livelli apodittici di intensità. La furibonda risposta di Netanyahu è stata ripresa da tutto lo spettro della politica israeliana. Secondo la vergognosa calunnia contro la CPI: “Quando la CPI indaga su Israele per falsi crimini di guerra ciò è puro e semplice antisemitismo.” Ed ha aggiunto: “Lotteremo con tutte le nostre forze contro questa perversione della giustizia.” In quanto così smodati, questi commenti dimostrano che a Israele interessano molto le questioni di legittimità, e a ragione. Le leggi internazionali e l’etica possono essere sfidate come Israele ha fatto ripetutamente nel corso degli anni, ma è profondamente sbagliato supporre che alla dirigenza israeliana non interessino. Mi pare che i leader israeliani comprendano che il razzismo sudafricano è crollato in buona misura perché ha perso la guerra per la legittimità. Forse alcuni dirigenti israeliani hanno iniziato a capirlo. La decisione della CPI potrebbe risultare un punto di svolta proprio come il massacro di Sharpeville del 1965 [in realtà nel 1960. La polizia sudafricana uccise 70 persone e oltre 180 furono ferite, ndtr.]. Potrebbe essere così persino se, come è probabile, neppure un israeliano venisse portato davanti alla CPI per essere giudicato.

RICHARD FALK

Richard Falk è uno studioso di Diritto Internazionale e Relazioni Internazionali che ha insegnato per quarant’anni all’università di Princeton. Dal 2002 vive a Santa Barbara, California, ha insegnato Studi Globali e Internazionali nel campus dell’università della California e dal 2005 presiede il consiglio della Fondazione per la Pace nell’Epoca Nucleare. Ha iniziato questo blog in parte per festeggiare i suoi 80 anni.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La CPI[Corte Penale Internazionale] avvia un’inchiesta per crimini di guerra in Palestina

Maureen Clare Murphy

3 marzo 2021 – Electronic Intifada

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che probabilmente nell’ambito dell’inchiesta della CPI verrà inquisito, ha definito la Corte “antisemita”.

Mercoledì la procuratrice capo Fatou Bensouda ha confermato che la Corte Penale Internazionale ha aperto un’indagine formale sui crimini di guerra in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

L’annuncio di Bensouda è stato accolto dalle associazioni palestinesi per i diritti umani che hanno guidato questi tentativi come “una giornata storica nella pluridecennale campagna palestinese per la giustizia internazionale e la definizione delle responsabilità.”

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che probabilmente verrà sottoposto a indagine dalla CPI, ha definito l’inchiesta come “l’essenza dell’antisemitismo”.

L’annuncio di un’indagine da parte della CPI è giunto meno di un mese dopo che un collegio giudicante ha confermato che la giurisdizione territoriale della Corte si estende ai territori palestinesi sotto occupazione militare da parte di Israele.

Nel dicembre 2019 Bensouda ha concluso una lunga indagine preliminare affermando che i criteri per un’inchiesta per crimini di guerra in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, e nella Striscia di Gaza erano stati rispettati.

L’indagine della Corte Penale Internazionale riguarderà crimini commessi dal giugno 2014, quando la situazione in Palestina è stata presentata al tribunale internazionale.

Obbligato ad agire”

Bensouda ha affermato che il suo ufficio “definirà delle priorità” per l’inchiesta “alla luce dei problemi operativi che dobbiamo affrontare a causa della pandemia, delle risorse limitate a nostra disposizione e del pesante carico di lavoro attuale.”

Ha aggiunto che in situazioni in cui il procuratore definisce la fondatezza di un’indagine, l’ufficio della procura “è obbligato ad agire”.

Il prossimo passo della Corte sarà la notifica a Israele e alle autorità palestinesi, che consente a ogni Stato firmatario di condurre importanti indagini “su propri cittadini o altri che ricadano sotto la sua giurisdizione” riguardo a crimini di competenza della CPI.

In base al principio della complementarietà, secondo cui “gli Stati hanno la responsabilità primaria e il diritto di perseguire crimini internazionali”, la CPI rinvia a indagini interne del Paese, ove queste esistano.

Israele ha un sistema di auto-indagine, anche se esso è descritto da B’Tselem, principale organizzazione per i diritti umani del Paese, come un meccanismo di insabbiamento che protegge la dirigenza militare e politica dal rendere conto delle proprie azioni.

Alla fine del 2019 Bensouda ha affermato che “in questa fase” il giudizio del suo ufficio “riguardo alla portata e all’affidabilità” dei procedimenti interni di Israele “è ancora in corso”.

Tuttavia “ha concluso che i casi potenziali riguardanti crimini che si presume siano stati commessi da membri di Hamas e dei GAP (Gruppi Armati Palestinesi) sarebbero al momento ammissibili.”

Nella sua dichiarazione di mercoledì Bensouda ha detto che il giudizio sulla complementarietà “continuerà” e ha suggerito che la materia venga definita da un collegio giudicante in una camera preliminare.

Dato che il processo di colonizzazione della Cisgiordania da parte di Israele è indubitabilmente una politica statale sostenuta dai governanti al più alto livello, ciò sarà probabilmente uno dei principali obiettivi dell’indagine della CPI.

Come la questione della giurisdizione territoriale, la complementarietà sarà probabilmente un punto critico fondamentale dell’inchiesta della Corte sulla Palestina.

Massima urgenza”

Mercoledì, accogliendo positivamente l’annuncio di Bensouda, le associazioni palestinesi per i diritti umani hanno raccomandato “che non ci siano indebiti ritardi e che si proceda con la massima urgenza.”

Ma Bensouda ha previsto un procedimento tutt’altro che rapido, affermando che “le indagini richiedono tempo e devono essere fondate in modo oggettivo su fatti e leggi.”

Ha invitato alla pazienza “le vittime palestinesi e israeliane e le comunità colpite,” aggiungendo che “la CPI non è una panacea.”

Alludendo a un’argomentazione da parte di alleati di Israele secondo cui un’inchiesta danneggerebbe futuri negoziati bilaterali, Bensouda ha affermato che “il perseguimento della pace e della giustizia dovrebbero essere visti come imperativi che si rafforzano a vicenda.”

Mercoledì Bensouda ha affermato che la Corte concentrerà “la sua attenzione sui presunti colpevoli più noti o su coloro che potrebbero essere i maggiori responsabili dei crimini.”

Nella sua richiesta alla camera preliminare sulla giurisdizione territoriale Bensouda ha citato la promessa di Netanyahu durante la campagna elettorale [del 2020] di annettere territori in Cisgiordania.

I media hanno informato che il governo israeliano ha una lista di centinaia di personalità che potrebbero essere indagate e perseguite dalla Corte, che giudica individui e non Stati.

Fonti ufficiali israeliane affermano che alcuni Stati membri della CPI “hanno concordato di avvertire in anticipo Israele di ogni eventuale mandato di cattura” contro suoi cittadini al momento dell’arrivo nei rispettivi Paesi.

Far filtrare informazioni che potrebbero consentire a sospetti di sfuggire alle indagini o all’arresto violerebbe probabilmente l’obbligo che hanno gli Stati membri in base allo Statuto di Roma che ha fondato la CPI di collaborare con il lavoro della Corte.

Pressioni politiche

Mercoledì Bensouda ha detto che “contiamo sull’appoggio e sulla cooperazione delle parti (Israele e i gruppi armati palestinesi), così come su tutti gli Stati membri dello Statuto di Roma.”

Tuttavia la CPI verrà sottoposta a terribili pressioni politiche in quanto potenze come gli USA, il Canada e l’Australia si oppongono a qualunque inchiesta contro il loro alleato Israele.

Lo scorso anno il Canada ha minacciato in modo appena velato di ritirare l’appoggio finanziario alla CPI se dovesse procedere con un’inchiesta.

A Washington l’amministrazione Trump ha imposto sanzioni economiche e restrizioni dei visti contro Bensouda e membri del suo staff.

Queste misure estreme pongono il personale della Corte accanto a “terroristi e narcotrafficanti” o a individui e gruppi che lavorano a favore di Paesi sottoposti a sanzioni da parte degli USA.

Mentre il presidente Joe Biden ha firmato una raffica di ordini esecutivi che annullano misure prese dal suo predecessore, il nuovo leader USA ha consentito che rimangano in vigore le sanzioni contro la CPI.

Di fronte a pressioni per togliere le sanzioni, la Casa Bianca ha solo promesso di “analizzarle attentamente.”

Durante la sua prima telefonata con il presidente Biden, Netanyahu lo ha esortato a lasciare in vigore le sanzioni.

Nel contempo Israele ha rivolto il proprio livore contro i difensori dei diritti umani dei palestinesi, in particolare contro quanti sono coinvolti nelle istituzioni della giustizia internazionale come la CPI.

Le sue tattiche hanno incluso “arresti arbitrari, divieti di spostamento e revoca della residenza, così come attacchi contro organizzazioni palestinesi per i diritti umani, comprese irruzioni [nelle loro sedi].”

Mercoledì Balkees Jarrah, direttore aggiunto di Human Rights Watch [importante Ong internazionale per i diritti umani con sede a New York, ndtr.], ha affermato che “gli Stati membri della CPI dovrebbero essere pronti a difendere tenacemente il lavoro della Corte da ogni pressione politica.”

Jarrah ha aggiunto che “tutti gli occhi saranno puntati sul prossimo procuratore, Karim Khan, perché prenda il testimone e proceda speditamente dimostrando una salda autonomia nel cercare di chiedere conto delle loro azioni anche ai più potenti.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Una netta maggioranza di esperti di politica estera dichiara che Israele/Palestina è “assimilabile all’apartheid”

Philip Weiss

23 febbraio 2021 – Mondoweiss

Il 52% di studiosi del Medio Oriente afferma che la soluzione dei due Stati non è più praticabile. Il 59% afferma che la realtà attuale è “assimilabile all’apartheid”.

Un sondaggio fra quasi 1300 studiosi del Medio Oriente pubblicato la settimana scorsa da Shibley Telhami e Marc Lynch [docenti di scienze politiche internazionali, ndtr.] ha rilevato che per la grande maggioranza di quegli studiosi la realtà in Israele/Palestina è “assimilabile all’apartheid” e che la soluzione dei due Stati è morta.

Forse l’elemento più sconvolgente del sondaggio è la valutazione collettiva del conflitto israelo-palestinese. Un’ampia maggioranza del 59% descrive l’attuale realtà tra Israele e i palestinesi come “l’effettiva situazione di uno Stato unico assimilabile all’apartheid”.

 Ecco qui di seguito le domande chiave e le conclusioni.

Probabilità di una soluzione con due Stati.

a)  non è più possibile: 52%

b) è possibile e probabile entro i prossimi dieci anni: 6%

c)  è possibile ma improbabile entro i prossimi dieci anni: 42%

 Ed ecco la domanda relativa all’apartheid.

Quale fra le seguenti frasi descrive meglio la realtà attuale in Israele, in Cisgiordania e a Gaza:

a)  lo Stato di Israele con l’occupazione temporanea della Cisgiordania e di Gaza: 2%

b) lo Stato di Israele con l’occupazione semi-permanente della Cisgiordania e di Gaza: 30%

c)  due Stati non paritari: 1%

d) l’effettiva situazione di uno Stato unico con disuguaglianze, ma non assimilabile all’apartheid: 7%

e)  l’effettiva situazione di uno Stato unico assimilabile all’apartheid: 59%.

 Come osservano Telhami e Lynch, “anche se l’amministrazione Biden cercherà probabilmente di rimettere in moto la diplomazia, gli esperti lasciano poche speranze per la fattibilità di una soluzione con due Stati.”

Il Washington Post ha pubblicato questo studio definendolo “sondaggio fra studiosi”, ma nel titolo ha evitato qualsiasi riferimento alle conclusioni più significative.

Questo sondaggio conferma la tesi di Al-Haq [organizzazione palestinese indipendente per i diritti umani, ndtr] che vi sia una “crescente consapevolezza” che Israele pratichi l’apartheid. Quattro giorni fa, nel corso di Saturday Night Live [programma di varietà in onda il sabato sera su NBC, celebre emittente radiotelevisiva di New York, ndtr] il comico Michael Chen ha dato voce a tale consapevolezza [“Israele rivendica di avere vaccinato metà della sua popolazione. Scommetto che è la metà ebraica” è la battuta di Chen, ndtr.] scatenando una valanga di proteste da parte dei sostenitori di Israele ma ancora più sostegno da parte dei critici di Israele. Lo scorso mese B’Tselem, organizzazione israeliana non-governativa per i diritti umani, aveva affermato in un rapporto esplosivo che “Israele mantiene un regime di supremazia ebraica tra” il fiume e il mare. Esso fa seguito a molte altre prese di posizione simili, incluso quello dell’on. Betty McCollum [Partito Democratico, membro della Camera dei Rappresentanti per lo stato del Minnesota, ndtr], che due anni fa ha usato il termine “apartheid” di fronte allo US Campaign for Palestinian Rights, [USCPR, coalizione di centinaia di gruppi impegnati per la libertà, giustizia e uguaglianza per i palestinesi, ndtr.]

E come abbiamo scritto la settimana scorsa, i media tradizionali da lungo tempo sono abituati ad ignorare queste dichiarazioni, così come i sionisti liberali evitano queste notizie. Il sondaggio Telhami/Lynch non è stato ripreso quasi da nessun media, se si escludono il blog del Washington Post e Newsweek. Ben Rhodes [esperto USA di politica estera, ndtr.] ha dichiarato al podcast di Peter Beinart [noto editorialista ebreo americano che recentemente si è pronunciato a favore di uno Stato unico, ndtr.] dieci giorni fa: “Nella cerchia ufficiale della politica estera prevale ancora questa teologia della soluzione dei due Stati.”

L’unica domanda che mi faccio è perché solo il 59% lo definisca apartheid, ironizza Donald Johnson. Il numero sale a 77% quando agli studiosi è stato chiesto:

Se non si concretizzerà la soluzione dei due Stati nei prossimi dieci anni, quale fra queste frasi si avvicina di più alla situazione reale in Israele, Cisgiordania e Gaza

a)Stato unico con uguaglianza fra israeliani e palestinesi: 1%

b)l’effettiva situazione di uno Stato unico con disuguaglianze crescenti, ma non assimilabile all’apartheid: 17%

c) l’effettiva situazione di uno Stato unico assimilabile all’apartheid: 77%

d) una confederazione: 3%

e) astenuti: 2%

 

Morale: nessuno vede l’uguaglianza all’orizzonte! Lo Stato ebraico sta semplicemente per ampliare le sue politiche discriminatorie.

Gli studiosi [che hanno risposto al sondaggio] sono apertamente più a sinistra di quelli che fanno parte dell’establishment. Due contro uno hanno affermato che sarebbe nell’interesse degli USA ritornare “immediatamente agli JCPOA (gli accordi con l’Iran) prima di affrontare altre questioni.” Il 23% appoggia la linea ufficiale in politica estera di Biden secondo la quale gli USA dovrebbero cercare di negoziare un accordo più ampio con l’Iran che includa missili, droni e “sicurezza nella regione.”

Il sondaggio, realizzato ai primi del mese, ha attinto fra “membri della Middle East Studies Association, l’American Political Science Association’s MENA Politics Section e del Project on Middle East Political Science della George Washington University.” Gli studiosi potevano rispondere in forma anonima. Il 28% vive al di fuori degli USA, il 71% negli USA.

 

 

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)

 

 




Il responsabile della politica estera di Biden: USA intendono mantenere l’ambasciata a Gerusalemme.

Al Jazeera e agenzie di notizie

20 gennaio 2021 – Al Jazeera

Antony Blinken afferma che l’amministrazione Biden non annullerà il controverso trasferimento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, voluto da Donald Trump.

La nuova amministrazione del presidente eletto Joe Biden manterrà l’ambasciata USA in Israele a Gerusalemme, ha affermato il suo candidato a Segretario di Stato durante l’audizione di conferma al Senato.

Siete d’accordo che Gerusalemme sia la capitale di Israele e vi impegnate a che gli Stati Uniti mantengano la propria ambasciata a Gerusalemme?”, ha chiesto il senatore repubblicano del Texas Ted Cruz [esponente dell’estrema destra trumpiana, ndtr.].

Sì e ancora sì”, ha detto Antony Blinken nella sua audizione martedì.

Il presidente uscente Donald Trump annunciò il riconoscimento USA di Gerusalemme come capitale di Israele nel dicembre 2017. Gli USA trasferirono l’ambasciata in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme nel maggio dell’anno seguente.

Gerusalemme resta al centro del pluridecennale conflitto mediorientale, con l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) che sostiene che Gerusalemme est – occupata illegalmente da Israele dal 1967 – debba essere la capitale di uno Stato palestinese.

L’unico modo per garantire il futuro di Israele come Stato ebraico e democratico e per dare ai palestinesi uno Stato a cui hanno diritto sta nella cosiddetta soluzione a due Stati”, ha detto Blinken.

Penso che realisticamente sia difficile vedere prospettive a breve termine per avanzare a questo proposito. Ciò che sarebbe importante è garantire che nessuna delle parti prenda iniziative che rendano ancor più insidioso il già arduo processo”, ha aggiunto.

Finora non vi è stato alcun commento da parte della leadership palestinese.

Lama Khater, una giornalista che vive nella città di Hebron nella Cisgiordania occupata, ha scritto su twitter: “Tutto può cambiare nei programmi delle varie amministrazioni USA, tranne l’assoluta lealtà verso Israele”.

L’amministrazione Trump è stata sfrontata nel suo aperto sostegno ad Israele.

Gli scorsi quattro anni hanno consolidato il favore statunitense nei confronti di Israele attraverso politiche come la cancellazione degli aiuti USA all’ANP e l’annullamento dei finanziamenti all’agenzia ONU per i rifugiati, da cui milioni di palestinesi dipendono per l’istruzione, il cibo e il sostentamento.

In conflitto con la posizioni condivisa a livello internazionale, l’amministrazione Trump ha riconosciuto la sovranità di Israele su Gerusalemme e sulle Alture del Golan occupate e ha dichiarato che la costruzione di colonie non è illegale.

Circa 500.000 israeliani vivono in colonie situate nella Cisgiordania occupata. Negli ultimi anni l’espansione delle colonie si è intensificata, mettendo a serio rischio la possibilità di uno Stato palestinese indipendente come parte della soluzione a due Stati.

Benché Biden abbia affermato che la sua amministrazione ripristinerà la politica di Washington precedente a Trump di opposizione all’espansione delle colonie, dichiara tuttavia “un ferreo sostegno” ad Israele.

Gli analisti hanno sottolineato che la politica di Biden verso Israele sarà probabilmente in continuità, non in opposizione, alla precedente amministrazione. Funzionari della campagna di Biden hanno affermato che probabilmente lui non annullerà nemmeno il riconoscimento di Trump della sovranità di Israele sulle Alture del Golan occupate.

Biden ha detto che lascerà l’ambasciata USA a Gerusalemme.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)