L’UE ignora la sentenza della Corte sul diritto a boicottare Israele

David Cronin

29 ottobre 2020 – Electronic Intifada

La brama di Donald Trump di compiacere Israele è stata oscena ma divertente.

Talvolta è stato impossibile non vedere, con un insieme di orrore e diletto, come un presidente facesse a pezzi le convenzioni della diplomazia.

Nel 2017 Trump ha ammesso che non gli importa se ci sarà una soluzione a uno o due Stati, facendo questa insulsa osservazione: “Mi piace quella che piace ad entrambe le parti.”

L’anno seguente si è vantato di aver ridotto il costo dello spostamento dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme. Non importa che Trump usi le risoluzioni ONU come carta igienica, ha ancora un occhio di riguardo per le transazioni immobiliari.

E ora Trump ha messo in dubbio che Joe Biden avrebbe potuto mediato un accordo di “normalizzazione” tra Israele e il Sudan. Così come lo ha spacciato come un trionfo per la pace, Trump ha cercato (in questo caso senza successo) di tirare qualche cazzotto a “Sleepy Joe” [Sonnolento Joe, nomignolo spregiativo con cui Trump chiama Biden, ndtr.].

Parzialità

Per ragioni puramente egoistiche spero che i decisori politici dell’UE si esibiscano in alcune delle bravate di Trump. Mentre lui mi fa ridacchiare, il loro comportamento mi ha fatto diventare un incorreggibile brontolone.

La scorsa settimana è stato riportato che Frontex, l’agenzia dell’UE per il controllo dei confini, sta collaborando con l’industria bellica israeliana. L’agenzia ha concesso un totale complessivo di 118 milioni di dollari al principale esportatore israeliano di armi, Elbit System, e a un consorzio tra Israel Aerospace Industries [principale industria aeronautica israeliana, di proprietà statale, ndtr.] e alla multinazionale Airbus.

Aerei da guerra testati sui palestinesi verranno molto probabilmente utilizzati per contribuire a bloccare i rifugiati che raggiungono le coste europee, anche se questo è un dettaglio che vi sarebbe sfuggito se aveste letto l’articolo di The Guardian su questi contratti.

L’evidente parzialità delle autorità e dei media nei confronti di Israele rende il boicottaggio dei suoi prodotti ed istituzioni ancora più impellente. Il problema è che queste autorità stanno attivamente cercando di compromettere il boicottaggio.

Durante l’estate ho inviato una protesta a Margaritis Schinas, vicepresidente della Commissione Europea. La mia denuncia si concentrava su un discorso poco pubblicizzato ma significativo fatto da Schinas nel 2019, in cui ha affermato che “l’antisemitismo ha molte forme, passando dall’antisionismo alla negazione e distorsione dell’Olocausto, da un commento discriminatorio verso un collega sul posto di lavoro a gravi minacce alla vita di una persona.”

Ho chiesto che Schinas spiegasse perché stava equiparando il sionismo, un’ideologia politica sviluppata alla fine del XIX secolo, all’ebraismo, una religione molto più antica. Gli ho ricordato che il sionismo è stato utilizzato negli anni ’40 come pretesto per una espropriazione di massa dei palestinesi e che oggi è alla base di un sistema razzista contro i palestinesi.

Libertà di espressione

Inoltre ho informato Schinas di come, da quando è stato fatto il suo discorso, la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo abbia emesso un’importante sentenza. Nel suo verdetto, pronunciato nel giugno di quest’anno, la Corte ha esplicitamente difeso i diritti degli attivisti che chiedono il boicottaggio di Israele.

La Corte ha persino affermato che il discorso relativo al boicottaggio di Israele richiede “una notevole protezione”.

Ho obiettato che, se il verdetto della Corte viene preso seriamente, allora le critiche all’ideologia dello Stato di Israele, il sionismo, devono essere considerate come protette dal diritto alla libertà di espressione.

Schinas non ha risposto di persona alla mia protesta. Ha incaricato Katharina von Schnurbein, la coordinatrice dell’UE contro l’antisemitismo, di farlo.

Von Schnurbein, che ha calunniato gli attivisti del movimento per il boicottaggio di Israele, non ha di fatto affrontato i punti da me sollevati. La sua lettera non fa alcuna menzione alla sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani.

Al contrario ha fatto riferimento a come l’ UE si basi sulla definizione di antisemitismo approvata dalla International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, organizzazione intergovernativa, ndtr.]. Ha omesso il fatto che la definizione è stata concretamente stilata da organizzazioni della lobby filo-israeliana e che esse la utilizzano per cercare di proteggere Israele dal rendere conto del proprio operato.

Von Schnurbein ha anche segnalato un sondaggio del 2018 pubblicato dalla Fundamental Rights Agency [Agenzia per i Diritti Fondamentali, agenzia europea che si occupa della difesa dei diritti umani, ndtr.] dell’UE. Nelle sue parole, “l’inchiesta evidenzia che l’antisemitismo legato a Israele è la forma più diffusa di discriminazione e maltrattamenti antisemiti subiti dagli ebrei europei.”

Indipendentemente da quello che pensa von Schnurbein, i sondaggi di opinione non sono di fatto un sostituto delle sentenze di un tribunale.

L’UE si prepara a inserire nella propria legislazione la Convenzione Europea per i Diritti Umani.

La Corte Europea per i Diritti Umani, che è separata dall’Unione Europea, sovrintende al rispetto di quella convenzione. Se i rappresentanti dell’UE pensano davvero quello che dicono riguardo al desiderio di rispettare una convenzione sui diritti umani, allora devono rispettare le sentenze della Corte.

I risultati di un sondaggio non forniscono loro una scusa per ignorare le sentenze che non gli piacciono.

Promuovere l’ignoranza

Oltretutto l’obiettività del gruppo che ha condotto l’inchiesta del 2018 è dubbia.

Il direttore del progetto era Jonathan Boyd, dell’Institute for Jewish Policy Research [Istituto per la Ricerca Politica Ebraica], con sede a Londra. Boyd è un petulante sostenitore di Israele, che non fa alcuna distinzione tra sionismo ed ebraismo.

Nel suo editoriale su The Jewish Chronicle [settimanale ebraico inglese filoisraeliano, ndtr.] Boyd ha riflettuto su come inculcare devozione per Israele nei giovani ebrei. Lo scorso anno, prima delle elezioni politiche in Gran Bretagna, ha affermato che il partito Laburista aveva un grave problema con il fanatismo anti-ebraico, benché ciò sia stato inventato per danneggiare l’allora segreteria di Jeremy Corbyn.

Detto questo, la ricerca del 2018 non dovrebbe essere ignorata.

Una delle sue conclusioni è stata che il 43% degli ebrei che vi hanno preso parte riteneva di essere incolpato continuamente o frequentemente per le azioni di Israele. Un altro 36% riteneva di esserlo stato occasionalmente.

Qui c’è un chiaro messaggio: l’oppressione israeliana contro i palestinesi può anche danneggiare gli ebrei europei.

Se le autorità dell’UE fossero davvero così preoccupate dell’antisemitismo come pretendono di essere, allora farebbero pressioni su Israele in modo che ponga fine ai soprusi e tutti potrebbero tirare un sospiro di sollievo.

Potrebbero abbinare questo lavoro con la crescente consapevolezza su come gli ebrei del resto del mondo non debbano essere considerati responsabili di quello che fa Israele.

Allo stato attuale, le autorità dell’UE si comportano in modo esattamente opposto.

Comprando le armi di Israele, come Frontex ha appena fatto, rendendo economicamente conveniente l’oppressione, contribuendo pertanto a che essa continui. E considerando il sionismo indistinguibile dall’ebraismo, stanno promuovendo l’ignoranza.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Buone notizie da Washington: l’AIPAC e Israele stanno perdendo consensi tra i democratici progressisti

Ramzy Baroud

14 luglio 2020 – Middle East Monitor

Mentre l’amministrazione USA del presidente Donald Trump rimane irremovibile nel suo appoggio ad Israele, la dirigenza democratica di sempre continua ad utilizzare un linguaggio subdolo, il tipo di “ambiguità strategica” che offre pieno sostegno ad Israele e nient’altro che vuote promesse per la Palestina e la pace.

Le politiche di Trump su Israele e Palestina sono state dannose, culminate con il vergognoso e iniquo “accordo del secolo”, e la sua amministrazione rimane largamente impegnata a favore della tendenza verso una crescente vicinanza tra il gruppo dirigente repubblicano e il campo di destra israeliano del primo ministro Benjamin Netanyahu.

Le opinioni della leadership democratica, rappresentata dal probabile sfidante democratico nelle prossime elezioni di novembre, Joe Biden, sono ancora quelle di un’epoca di fanatismo, quando l’amore incondizionato dei democratici per Israele era pari a quello dei repubblicani. Si può affermare con sicurezza che quei giorni stanno volgendo al termine, in quanto successivi sondaggi di opinione stanno ribadendo un cambiamento di panorama politico a Washington.

Una volta l’élite politica americana, le cui politiche differivano su molte questioni, concordava senza riserve su un unico argomento di politica estera: l’amore e l’appoggio ciechi e incondizionati del loro Paese per Israele. In quei giorni l’influente gruppo lobbystico filo-israeliano, l’American Israel Public Affairs Committee [Comitato per gli Affari Pubblici Americani e Israeliani] (AIPAC), faceva il bello e il cattivo tempo, regnando incontrastato sul Congresso USA e decidendo praticamente da solo il destino di parlamentari in base al fatto che appoggiassero o meno Israele.

Anche se è troppo presto per affermare che “quei tempi sono finiti”, a giudicare dal discorso politico su Palestina e Israele notevolmente mutato, i molti sondaggi di opinione e i successi elettorali di candidati contrari all’occupazione israeliana in elezioni nazionali e locali, si è obbligati a dire che la salda presa dell’AIPAC sulla politica estera USA si sta finalmente allentando.

Tale affermazione può sembrare prematura, considerando la parzialità senza precedenti dell’attuale amministrazione a favore di Israele – l’illegale spostamento dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme, il rifiuto del “diritto al ritorno” dei rifugiati palestinesi e il sostegno dell’amministrazione al progetto israeliano di annettere illegalmente parti della Cisgiordania, e via di seguito.

Tuttavia si deve fare una distinzione tra l’appoggio a Israele tra chi governa, la sempre più isolata cricca di politicanti, e il sentimento generale di un Paese che, nonostante le numerose violazioni della democrazia negli ultimi anni, è ancora in qualche modo democratico.

Il 25 giugno un incredibile numero di circa 200 parlamentari democratici, compresi alcuni dei più strenui sostenitori di Israele, ha chiesto in una lettera a Netanyahu e ad altri importanti politici israeliani di annullare il progetto di annettere illegalmente circa il 30% della Cisgiordania.

Esprimiamo la nostra profonda preoccupazione riguardo all’intenzione dichiarata di procedere con una qualunque annessione unilaterale di territori della Cisgiordania, e invitiamo il vostro governo a riconsiderare il progetto di attuarla,” afferma fra l’altro la lettera.

Mentre il linguaggio della lettera è lungi dall’essere etichettabile come “minaccioso”, il fatto che sia stata firmata da fedelissimi alleati di Israele come i parlamentari della Florida Tedo Deutch e dell’Illinois Brad Schneider la dice lunga sul cambiamento di discorso su Israele tra i vertici centristi e persino conservatori del partito Democratico. Tra i firmatari ci sono anche figure importanti dell’establishment democratico, come la congressista Debbie Wasserman Schultz e il capo della maggioranza alla Camera dei Rappresentanti, Steny Hoyer.

Altrettanto importante è il fatto che l’influenza della generazione più giovane e progressista dei politici democratici continui a spostare i confini del discorso del partito su Israele, grazie al lavoro instancabile della parlamentare Alexandria Ocasio-Cortez e dei suoi colleghi. Insieme a decine di rappresentanti democratici, il 30 giugno Ocasio-Cortez ha inviato un’altra lettera, questa volta al segretario di Stato USA, Mike Pompeo.

A differenza della prima, la seconda lettera è decisa e molto audace: “Se il governo israeliano dovesse continuare lungo questo cammino (dell’annessione), lavoreremo per garantire il mancato riconoscimento dei territori annessi così come porteremo avanti leggi che condizionino i finanziamenti militari USA di 3.8 miliardi di dollari a Israele per assicurare che i contribuenti USA non stiano appoggiando in alcun modo l’annessione,” dice tra l’altro la lettera.

Si immagini se queste esatte parole fossero state utilizzate dai rappresentanti democratici nel luglio 1980, quando il parlamento israeliano annesse illegalmente Gerusalemme est con un atto che era – e rimane – contrario alle leggi internazionali. Il destino di quei politici sarebbe stato simile a quello di altri che osarono opporsi, col rischio di perdere il proprio seggio al Congresso, ossia di fatto tutta la loro carriera politica in una volta.

Ma i tempi sono cambiati. È veramente inconsueto, e consolante, vedere l’AIPAC affannarsi a spegnere i molti focolai accesi dalle nuove voci radicali tra i democratici.

La ragione per cui non è più facile per la lobby filo-israeliana conservare la sua pluridecennale egemonia sul Congresso è che quelli come Ocasio-Cortez sono anche loro risultato del cambiamento generazionale e probabilmente irreversibile che è avvenuto tra i democratici nel corso degli anni.

La tendenza alla polarizzazione dell’opinione pubblica americana riguardo a Israele risale a vent’anni fa, quando gli americani iniziarono a considerare il proprio supporto a Israele in base a linee di partito. Sondaggi più recenti suggeriscono che questa polarizzazione sia in aumento. Un sondaggio di opinione della Pew [gruppo di esperti statunitensi che si occupano di inchieste ed analisi socio-politiche, ndtr.] pubblicato nel 2016 ha mostrato che tra i repubblicani la simpatia per Israele era passato a un inaudito 74%, mentre tra i democratici era scesa al 33%.

Inoltre, per la prima volta nella storia, tra i democratici l’appoggio a Israele e ai palestinesi era praticamente diviso in parti uguali: rispettivamente il 33% e il 31%. Era il periodo in cui abbiamo iniziato a vedere inusuali prime pagine dei principali mezzi di informazione come “Perché i democratici stanno abbandonando Israele?”

Questo “abbandono” è continuato senza sosta, come hanno indicato sondaggi più recenti. Nel gennaio 2018 un’altra inchiesta di Pew ha dimostrato che l’appoggio dei democrati a Israele si è ridotto al 27%. Non solo la base democratica si sta allontanando da Israele in seguito alla crescente consapevolezza dei continui crimini israeliani e della violenta occupazione in Palestina: anche i giovani ebrei stanno facendo altrettanto.

Le mutate opinioni su Israele tra i giovani ebrei americani stanno finalmente dando frutti, fino al punto che nell’aprile 2019 i dati di Pew hanno concluso che nel loro complesso probabilmente gli ebrei americani sono ancor più (42%) dei cristiani ad affermare che il presidente Trump stia “favorendo troppo gli israeliani.”

Mentre molti democratici al Congresso sono sempre più in sintonia con le opinioni dei loro elettori, quelli che comandano, come Biden, rimangono caparbiamente legati a programmi che sono promossi dall’AIPAC e dal resto della vecchia guardia.

La buona notizia da Washington è che, nonostante l’attuale appoggio di Trump a Israele, un graduale ma durevole cambiamento strutturale continua ad avvenire tra i sostenitori del partito Democratico ovunque in tutto il Paese. Una ancor più sorprendente notizia è che la tradizionale roccaforte di Israele nelle comunità ebraiche del Paese sta vacillando, e molto rapidamente.

Mentre l’AIPAC probabilmente continuerà ad utilizzare e improvvisare vecchie tattiche per difendere gli interessi di Israele nel Congresso USA, la cosiddetta “potente lobby” probabilmente non riuscirà a riportare indietro il tempo. Anzi, l’epoca del totale dominio di Israele sul Congresso USA è probabilmente finita, e, si spera, questa volta per sempre.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La responsabile UE per la lotta all’antisemitismo non ha l’incarico di ripetere a pappagallo le menzogne di Israele

David Cronin  

2 giugno 2020 – Electronic Intifada

 

Katharina von Schnurbein, ccordinatrice dell’Unione europea contro l’antisemitismo, si è confrontata con le sfide poste dal confinamento di COVID-19.

Non potendo coltivare di persona i rapporti con i lobbisti filo-israeliani, si è invece mantenuta in contatto con loro online.

Sembra che da quando nel dicembre 2015 è stata nominata all’attuale carica, von Schnurbein abbia mantenuto buoni rapporti con i sostenitori di Israele. Ma, come funzionaria pubblica, è questo che prevede il suo mandato?

Dopo molte insistenze, ho finalmente ottenuto il mansionario redatto per von Schnurbein dall’amministrazione UE.

Il documento – che delinea i suoi principali compiti e responsabilità – non nomina Israele nemmeno una volta.

L’omissione è strana visto che vi sono forti ragioni per sospettare che la carica di von Schnurbein sia stata creata con l’unico obiettivo – o almeno l’obiettivo principale – di compiacere Israele e i suoi sostenitori.

L’idea stessa che l’UE nominasse un coordinatore contro l’antisemitismo è stata proposta durante un evento ospitato dal Ministero degli Esteri israeliano all’inizio del 2015.

Mentalità distorta

La descrizione del lavoro di Von Schnurbein la impegna a “collaborare strettamente con la comunità ebraica” e ad avvisare i responsabili politici dell’UE delle preoccupazioni di quella comunità.

L’espressione “comunità ebraica” non è sinonimo di Israele.

Anzi, ritenere “comunità ebraica” sinonimo di Israele sarebbe antisemita. Considererebbe gli ebrei europei responsabili dell’oppressione dei palestinesi da parte di Israele.

E se la burocrazia di Bruxelles utilizza effettivamente i termini “comunità ebraica” e “Israele” come intercambiabili, allora è colpevole dello stesso pensiero distorto che pervade l’élite americana.

Sia Joe Biden che Donald Trump hanno lasciato intendere che gli ebrei negli Stati Uniti siano indistinguibili da Israele.

Ma le comunità ebraiche non sono monolitiche, da nessuna delle due sponde dell’Atlantico.

Gli ebrei in Europa hanno una vasta gamma di opinioni su Israele, ma von Schnurbein e i suoi colleghi cercano di alterare questa realtà. Gli ebrei critici di Israele e della sua ideologia di stato sionista sono stati esclusi dalle deliberazioni dell’UE sull’antisemitismo.

Von Schnurbein lavora nel dipartimento di giustizia della Commissione europea – l’esecutivo dell’UE. Il suo lavoro è presumibilmente regolato da una carta dei diritti.

Quella carta difende il diritto di avere ed esprimere opinioni e idee “senza interferenze da parte dell’autorità pubblica”.

Lungi dal rispettare questo diritto, von Schnurbein ha cercato di mettere sotto controllo le opinioni critiche su Israele.

Una menzogna oltraggiosa

Ha mosso accuse false e calunniose contro attivisti della solidarietà con i palestinesi, in particolare quelli che spronano a boicottaggio, disinvestimento e sanzioni.

L’anno scorso, all’incontro inaugurale a Bruxelles, von Schnurbein ha parlato di uno “studio” del governo israeliano sul movimento BDS.

Nelle sue dichiarazioni, ha accusato gli attivisti del BDS di aver criticato il cantante Matisyahu perché è ebreo. Una menzogna oltraggiosa.

La verità è che Matisyahu è stato condannato dagli attivisti perché ha raccolto fondi per l’esercito israeliano e ha plaudito ad un attacco contro la flottiglia in viaggio verso Gaza, non per la sua religione o etnia.

E nel 2018 von Schnurbein ha disatteso la neutralità politica richiesta ai dipendenti pubblici dell’UE per ripetere a pappagallo gli argomenti della lobby israeliana, calunniando un membro eletto al Parlamento europeo come antisemita.

La parlamentare aveva presentato un evento con un oratore palestinese, nonostante le obiezioni dei gruppi di pressione israeliani.

Lo statuto del personale dell’UE proibisce ai suoi funzionari di seguire le istruzioni emanate da governi esteri.

Ripetendo macchinalmente bugie architettate da Israele e dalla sua rete di sostenitori, von Schnurbein ha infranto quella regola.

Come può uscirne indenne? La spiegazione più plausibile è che goda del sostegno della gerarchia dell’UE.

Per quasi cinque anni von Schnurbein sarebbe stata tenuta a rispondere a Vera Jourova, membro ceco della Commissione europea. Jourova ha calunniato il movimento di solidarietà palestinese, usando termini estremamente simili, se non identici, a quelli di von Schnurbein.

È dal 2018 che cercavo di ottenere il mansionario del lavoro di von Schnurbein. Quando ho presentato la mia prima richiesta in base alla libertà di informazione, la Commissione europea ha rifiutato di rilasciare il documento.

Alla fine, tuttavia, ha consentito a farlo – dopo che ho sottoposto la questione al difensore civico dell’UE, organismo formale di difesa del cittadino.

Sostenevo che quel mansionario avrebbe dovuto essere reso disponibile per valutare se von Schnurbein fosse stata ufficialmente incaricata di perseguire un programma a favore di Israele.

La risposta della Commissione europea alla questione dimostra disprezzo per la democrazia.

Ursula von der Leyen, presidentessa della Commissione, rispose che era compito della gerarchia dell’UE giudicare il lavoro di von Schnurbein. L’opinione pubblica, sottintendeva von der Leyen, non deve occuparsi di simili questioni.

Significativamente la Commissione europea non ha cercato di negare che von Schnurbein persegua quelli che sembrano essere gli interessi di Israele.

Potrebbe esserci una prova più evidente di così?

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Il nuovo governo israeliano è pronto per un’annessione a luglio – e i leader palestinesi giurano di opporvisi

Philip Weiss  

20 Aprile 2020 Mondoweiss

Oggi ci sono grandi novità da Israele. Benny Gantz, l’uomo che per tre elezioni ha cercato di archiviare Netanyahu, si è arreso. Benjamin Netanyahu sarà primo ministro per i prossimi 18 mesi, durante i quali ci sarà il processo per corruzione; dopo di ciò Gantz diventerà primo ministro e l’accordo sulla divisione del potere prevede l’OK a partire da luglio per l’annessione di grandi parti della Cisgiordania occupata.

Barak Ravid dell’israeliana Channel 13 [canale della televisione israeliana, ndtr.] spiega l’accordo sull’annessione. La politica israeliana è semplicemente troppo a destra perché Gantz potesse mantenere la posizione. Questo è il “lascito” di Netanyahu e deve essere implementato mentre Trump è al potere:

L’accordo di coalizione tra Netanyahu e Gantz dice che Netanyahu può portare ‘le intese con l’amministrazione Trump’ sull’annessione di parti della Cisgiordania a una discussione di governo e a un voto o del governo o in parlamento a partire dal 1 luglio … Il desiderio di Netanyahu di annettere la Valle del Giordano e altre parti della Cisgiordania occupata è stato uno dei principali punti critici nei negoziati sul nuovo governo. Gantz ha rinunciato alla sua pretesa di avere potere di veto su qualsiasi decisione di annessione.”

Secondo l’accordo, Netanyahu e Gantz lavoreranno “in pieno accordo con gli Stati Uniti” per quanto riguarda il piano di Trump, incluso il punto di mappare quali parti in Cisgiordania gli Stati Uniti sono pronti a riconoscere come parte di Israele.

Netanyahu considera l’annessione di parti della Cisgiordania la sua principale eredità. Secondo i suoi collaboratori, vuole realizzarla abbastanza presto nel timore che alle elezioni presidenziali degli Stati Uniti Trump possa perdere e con Joe Biden alla Casa Bianca la mossa sia resa impossibile…

L’accordo ha suscitato grida angosciate da parte dei sionisti liberali, e probabilmente resisterà allopposizione dei principali politici palestinesi della Lista Unita. Aida Touma-Sliman [giornalista e politica arabo-israeliana, ndtr.] scrive:

Il prossimo governo israeliano sarà pericolosamente di destra. Gantz è sceso in campo sperando di sostituire Netanyahu e ha finito per rafforzare la politica razzista e antidemocratica di quest’ultimo. Faremo opposizione a questo governo di annessione – durante la crisi di Covid e dopo.”

I politici palestinesi sono stati i grandi vincitori delle ultime elezioni, e sono rafforzati dalle ultime notizie. Ayman Odeh, responsabile della Lista Unita, scrive su Twitter [in ebraico, traduzione automatica]:

La resa di Gantz è uno schiaffo in faccia ai cittadini recatisi ripetutamente alle urne per estromettere Netanyahu. Gantz non ha avuto abbastanza coraggio per vincere e ha scelto di legalizzare l’annessione, il razzismo e la corruzione.”

Ahmad Tibi, deputato della Lista Unita e medico:

Blu e bianco [il partito di Gantz] ha sventolato la bandiera bianca. Si è arreso a tutti i dettami politici (l’annessione a luglio) e nella sfera civile si è arreso alla legge dello Stato Nazionale, alla legge di Kaminitz [che limita i permessi di costruzione palestinesi] … Vediamo nella lotta contro un governo di 52 ministri e vice ministri una sfida e una missione. Avverto la sconfitta di milioni di cittadini che volevano il cambiamento.”

L’annessione interessa circa il 30 % della Cisgiordania, compresi la valle del Giordano e gli insediamenti ebraici di oltre 620.000 coloni.

Il lobbista israeliano Martin Indyk afferma che Trump si schiererà con l’annessione per soddisfare la destra americana cristiana:

Coronavirus o no … questo è molto chiaro: Trump darà il via libera all’annessione per assicurarsi la base evangelica alle elezioni.”

Indyk esclude la Florida dal gioco di Trump: gli elettori ebrei potrebbero essere cruciali in quello stato altalenante.

L’opinione diffusa è che questo accordo sarà un test per le organizzazioni liberali sioniste negli Stati Uniti, se si opporranno all’annessione ora e coinvolgeranno i politici democratici contro di essa. Si noti che la scorsa settimana tale iniziativa ha portato 11 deputati a scrivere una lettera di opposizione all’annessione. Non esattamente una marea. Ma J Street [gruppo liberale statunitense filoisraeliano per la pace e la democrazia, ndtr.] ha recentemente appoggiato Joe Biden che ha accolto con favore il sostegno; è certo che prenderà posizione contro l’annessione.

Le organizzazioni liberali sioniste dovranno lavorare con i politici palestinesi se mirano a bloccare l’annessione.

Tamara Cofman Wittes, che sostiene Israele, dichiara di sperare che gli eventi in campo non sposteranno nulla verso un governo Biden …

L’approvazione di Trump non mette fine alla questione. Il riconoscimento presidenziale delle rivendicazioni territoriali è una cosa che dipende dalle decisioni dell’esecutivo e può essere immediatamente annullata da una nuova amministrazione.”

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Come la questione israelo-palestinese è arrivata al cuore della politica USA

Alex Kane

22 novembre 2019 – +972

Un acceso dibattito su Israele e Palestina sta diventando centrale nella politica USA e non vi sono segnali che si stia spegnendo.

L’ultima volta che vi sono state delle primarie aperte del partito democratico, Hillary Clinton e Barack Obama si sono scontrati su tutto, dalla guerra in Iraq all’assistenza sanitaria, alla razza. Cioè su tutto tranne che su Israele.

Le critiche a Israele, nel corso della campagna elettorale 2007-2008 si sono limitate a candidati marginali. In un dibattito del 2007 sulla radio nazionale, Mike Gravel, il polemico ex senatore dell’Alaska che non ha mai avuto consensi superiori al 3%, ha chiesto perché fosse un problema che l’Iran finanziasse Hamas e Hezbollah, mentre gli Stati Uniti finanziano Israele.

Quella è stata una delle rare eccezioni rispetto alla linea standard filoisraeliana diffusa durante il periodo delle primarie – e il candidato che l’ha fatto non era esattamente una star. Gravel non ha ottenuto nemmeno un delegato. Mentre Clinton e Obama davano debitamente voce all’appoggio ad Israele durante la campagna, le relazioni tra USA ed Israele non occupavano un posto centrale nella corsa alle primarie democratiche

Dieci anni dopo, il dibattito su Israele è radicalmente cambiato. Adesso sta occupando la scena principale della politica americana – la corsa alla presidenza – e le aule del Congresso.

Il senatore Bernie Sanders, che è dato terzo nei sondaggi come prossimo candidato democratico alla presidenza, ha detto ripetutamente di desiderare che gli USA diminuiscano gli aiuti militari ad Israele per porre fine all’iniquo trattamento dei palestinesi da parte di Israele. Pete Buttigieg, il sindaco dell’Indiana accreditato al quarto posto, ha detto che i contribuenti statunitensi non dovrebbero pagare il conto di un’annessione israeliana della Cisgiordania. La senatrice Elizabeth Warren, che sta lottando per il primo posto con Joe Biden, è stata meno esplicita sui suoi programmi riguardo ad Israele/Palestina. Però ha parlato della necessità di porre termine all’occupazione israeliana e a ottobre ha detto di essere disposta a condizionare l’aiuto militare USA ad Israele. Quanto a Biden, è il solo a dichiarare che condizionare l’aiuto militare USA ad Israele sarebbe “assolutamente vergognoso”.

Intanto un nuovo gruppo di progressisti, guidati dalle deputate Ilhan Omar e Rashida Tlaib, sta allargando il dibattito al Congresso sull’alleanza USA-Israele, chiedendo limitazioni agli aiuti militari USA e accogliendo le tattiche di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni come strumenti per cambiare lo status quo sul terreno.

“C’è una crescente apertura e volontà di parlare in modo molto più approfondito e molto più imparziale riguardo alla realtà del conflitto israelo-palestinese”, ha detto Logan Bayroff, portavoce di ‘J Street’, il gruppo di pressione ebreo-americano filoisraeliano. “Si è aperto uno spazio molto più ampio negli ultimi 10 anni e soprattutto negli ultimi quattro, sotto l’amministrazione Trump.”

Questa evoluzione non è casuale. Il netto cambiamento nel dibattito statunitense su Israele e Palestina è il risultato di cambiamenti da tempo in gestazione nell’ideologia del partito, di una serie di clamorosi eventi in Israele e negli USA e della tenace organizzazione condotta da palestinesi americani che ha messo a profitto queste tendenze. Il risultato di tutto ciò? Un vivace dibattito sul futuro delle relazioni tra USA e Israele che non mostra segni di spegnersi.

Lo Stato ebraico non è estraneo alle politiche di Washington. Anche prima che il Presidente Harry Truman riconoscesse Israele nel 1948, gli ebrei americani stavano al Campidoglio, facendo pressione su Truman perché appoggiasse la trasformazione della Palestina, allora a maggioranza araba, in uno Stato ebraico.

Durante molti dei 70 anni trascorsi da allora, la discussione su Israele a Washington si è incentrata su come meglio proteggere lo Stato ebraico dai suoi ostili vicini.

Vi sono state occasionali interruzioni dello status quo. All’inizio degli anni ’80 il Presidente Ronald Reagan ha sospeso l’invio di aerei da combattimento ad Israele dopo il bombardamento di un reattore nucleare iracheno ed ha proibito l’esportazione di bombe a grappolo dopo che Israele le ha sganciate sul Libano durante la prima guerra israeliana in quel Paese. Nel 1992 il Presidente George H. W. Bush ha rifiutato di approvare la concessione di crediti a Israele finché non avesse smesso di costruire colonie su terra palestinese in Cisgiordania e a Gaza.

Questi occasionali cambiamenti nella posizione politica americana riguardo a Israele non hanno comunque compromesso l’alleanza di ferro tra USA ed Israele. E alla fine queste fratture nella discussione sullo status quo si sono spente.

Tuttavia la polarizzazione della politica di Washington negli ultimi anni ha aperto la strada all’attuale contrapposizione su Israele. Il partito repubblicano è diventato più bianco, più vecchio e più ricco. L’influenza dei cristiani evangelici di destra sul GOP [il partito repubblicano, ndtr.] è notevolmente aumentata, spingendo molto a destra la politica del partito repubblicano su Israele. Il partito democratico ha fatto maggior affidamento sulla gente di colore, sui giovani, sui laici e sulle minoranze religiose. I sostenitori di entrambi i partiti si sono coalizzati intorno a due visioni profondamente diverse su come l’America dovrebbe comportarsi nel mondo. Gli attacchi dell’11 settembre 2001 hanno provvisoriamente unito la dirigenza democratica e quella repubblicana per promuovere la guerra all’Iraq, ma negli ambienti progressisti il sentimento contro la guerra era forte. E con esso, vi era maggior attenzione verso la questione palestinese, benché la Palestina a volte costituisse un argomento divisivo. Alcuni progressisti non volevano collegare la Palestina all’Iraq, mentre quelli più schierati a sinistra le vedevano come questioni interconnesse.

“Hanno incominciato a mettere in rapporto ciò che avveniva all’interno del Paese e ciò che avveniva in Israele, perché Israele stava facendo quel collegamento all’interno della sua campagna di hasbara (propaganda)”, ha detto Zaha Hassan, una ricercatrice ospite al ‘Carnegie Endowment for International Peace’ [organizzazione no profit, che ha come missione la promozione della pace e la cooperazione fra le Nazioni, ndtr.]. “Dicevano che la resistenza palestinese nei territori occupati non era diversa dai movimenti islamici estremisti in Medio Oriente. I liberal e i progressisti negli Stati Uniti hanno incominciato a chiedersi se i valori sostenuti dal loro movimento potessero coerentemente continuare ad appoggiare Israele senza prendere in considerazione i diritti umani dei palestinesi.”

Era normale, nelle proteste contro la guerra in Iraq, vedere le bandiere palestinesi, sentire lo slogan “Dall’Iraq alla Palestina, l’occupazione è un crimine!”. Il legame tra la lotta contro l’imperialismo USA e la Palestina ricordava la fine degli anni ’60, quando i militanti del Black Power proposero una prospettiva internazionalista che collegava la lotta dei neri negli USA alle lotte anticoloniali in tutto il mondo, compresa la Palestina. Nell’era post 11 settembre, come alla fine degli anni ’60, le divisioni nelle strade riguardo a Israele-Palestina non si sono tradotte in una rottura nel consenso di Washington su Israele. Invece si è dovuti arrivare agli anni di Obama perché lo scetticismo su Israele giungesse al cuore del dibattito nel distretto di Washington.

L’elezione alla presidenza di Barack Obama è giunta come uno shock in un Paese abituato ad avere un bianco insediato alla Casa Bianca. Egli ha anche promesso di chiudere con le guerre dell’era Bush e di ricucire le relazioni con il mondo arabo e musulmano dopo l’11 settembre, una promessa che ha cercato di onorare compiendo la sua prima visita oltremare in Medio Oriente. Là, ha promesso una nuova era nella politica USA.

Una delle aree di quella nuova politica era Israele-Palestina. Dopo essersi insediato nel gennaio 2009, egli [Obama] ha telefonato al presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas prima che al primo ministro israeliano Ehud Olmert, che presto avrebbe lasciato l’incarico per uno scandalo, sostituito da Benjamin Netanyahu. Nel suo viaggio in Medio Oriente, Obama non è atterrato in Israele, ma al Cairo, dove ha criticato la violenza palestinese, ma ha chiesto a Israele che smettesse di costruire colonie e che affrontasse la crisi umanitaria di Gaza.

Snobbato da Netanyahu, il cui governo ha continuato a costruire colonie israeliane, Obama non ha mai dato seguito alle sue richieste con dei fatti. Ma l’appello di Obama per un congelamento delle colonie, accanto alla fredda risposta di Netanyahu, ha gettato le basi per quella che sarebbe diventata una relazione avvelenata tra Obama e Netanyahu.

Queste tensioni hanno raggiunto un picco nel 2013 con il dibattito sull’accordo nucleare iraniano. La decisione di Obama di negoziare un accordo con l’Iran ha fatto venire un colpo a Netanyahu ed ai suoi alleati repubblicani. Ai loro occhi, l’accordo avrebbe consentito all’Iran di entrare nell’economia globale senza fare niente per limitare i suoi finanziamenti a gruppi di militanti ostili alla politica USA nella regione. Per Netanyahu, avrebbe anche compromesso il ruolo dell’Iran come elemento di distrazione dalla questione palestinese.

Il partito Repubblicano ha invitato Netanyahu a tenere un discorso al Congresso per cercare di impedire l’accordo. Questo ha provocato un impressionante scontro politico tra Obama, lo storico presidente amato dalla base del suo partito, da un lato, e il partito Repubblicano ed Israele dall’altro, accentuando la contrapposizione riguardo allo Stato ebraico.

“I repubblicani pensavano che Netanyahu fosse il leader più importante al mondo in quel momento – persino più di Reagan. È diventato una star, come se fosse il guru del partito repubblicano”, ha detto Shibley Telhami, docente all’università del Maryland e professore associato ospite presso la ‘Brookings Institution’ [importante gruppo di ricerca americano indipendente, ndtr.]. Per i democratici era l’esatto opposto. Ciò ha avuto un grande impatto.”

Telhami, un sondaggista, ha osservato queste ripercussioni in una inchiesta che ha condotto nel dicembre 2015: i sondaggi contrari a Netanyahu tra i democratici sono saliti dal 22% al 34%. Il 13% dei repubblicani non vedeva di buon’occhio il leader israeliano, mentre il 51% gli era favorevole.

Quando Netanyahu è arrivato a Washington nel marzo 2015 per opporsi all’accordo con l’Iran, 58 democratici e indipendenti alleati dei democratici hanno boicottato il suo intervento.

Le critiche ad Israele all’epoca di Obama non si limitavano al Congresso. Erano persino più aspre nei movimenti sociali progressisti, che a loro volta rassicuravano i democratici riguardo al fatto che la loro posizione anti Netanyahu era appoggiata dalla loro base elettorale.

Nel periodo in cui si è svolto lo scontro tra Obama e Netanyahu sull’Iran, sempre più gruppi per i diritti dei palestinesi hanno destinato risorse a Washington. Nel 2015 ‘Jewish Voice for Peace’ [Voce Ebraica per la Pace] (JVP), l’associazione di [ebrei di] sinistra di solidarietà con la Palestina, ha assunto il suo primo dipendente focalizzato sul Congresso.

“C’è stato l’attacco a Gaza del 2014, e allora improvvisamente siamo diventati molto, molto più grandi”, ha detto Rebecca Vilkomerson, che ha appena lasciato la carica di capo di JVP dopo 10 anni in carica. “Abbiamo deciso che avevamo abbastanza membri con abbastanza sezioni locali per cui non sarebbe stato inutile andare a fare questo genere di incontri (al Congresso)”.

Inoltre alla fine del 2014 ‘Defense for Children International-Palestine’ [associazione internazionale per la difesa dei bambini con sede a Ginevra, ndtr.] e l’ ‘American Friends Service Committee’ [associazione di quaccheri che si batte per la giustizia sociale, la pace, la riconciliazione tra i popoli, l’abolizione della pena di morte ed i diritti umani, ndtr.] hanno lanciato la campagna “Non è il modo di trattare un bambino”, un tentativo concentrato su Washington di spingere i parlamentari USA a esprimersi contro i maltrattamenti israeliani nei confronti dei bambini palestinesi. Questo tentativo ha avuto successo, soprattutto presso la deputata Betty McCollum: con le sue proposte di legge e lettere che chiedevano attenzione per gli arresti israeliani di bambini palestinesi, è diventata il principale difensore dei diritti dei palestinesi al Campidoglio.

Tuttavia non tutti i gruppi della sinistra progressista lavoravano congiuntamente. ‘J Street’ [associazione di ebrei liberal moderatamente critici con Israele, ndtr.], per esempio, un gruppo fondato nel 2007, si è creato uno spazio a parte in Campidoglio: premere per uno Stato palestinese e per la fine dell’occupazione israeliana per consentire ad Israele di rimanere “ebreo e democratico”, secondo quanto afferma J Street. Ciò si opponeva a gruppi come JVP e ‘US Campaign for Palestinian Rights’ [coalizione di gruppi che lavorano per libertà, giustizia ed eguaglianza, ndtr.] (USCPR), i quali sostengono in pieno la strategia del movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni [contro Israele, ndtr.] (BDS) – compreso il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi – e il taglio degli aiuti militari statunitensi [ad Israele, ndtr.]. Eppure nel loro insieme, i gruppi da J Street a ‘US Campaign’ hanno introdotto una novità in un dibattito normalmente dominato soltanto dalla preoccupazione per la sicurezza di Israele.

“Anche se la parte avversa ha molte più risorse e migliori relazioni, i gruppi per i diritti dei palestinesi hanno svolto un duro e diligente lavoro per rendere visibile la propria presenza in Campidoglio, chiarendo che c’è un’altra prospettiva che i membri del Congresso devono riconoscere, anche se non sentono ancora la necessità di votare in quel senso”, ha detto a +972 un autorevole assistente parlamentare. “Ecco come riesci a spostare il dibattito. Si inizia a rendere più complessa la questione per la gente, e per troppi membri del Congresso la questione è stata semplice. Ciò sta cambiando.”

Ma se il dibattito a Washington si è incentrato su Netanyahu, i movimenti sociali di sinistra non hanno focalizzato la principale attenzione sul leader israeliano. Al contrario, si sono concentrati su Israele stesso e hanno criticato l’intero regime che ha governato i palestinesi in modo simile ad uno Stato di apartheid, uno Stato che doveva essere boicottato – un messaggio diffuso dalle campagne BDS. I gruppi per i diritti dei palestinesi si sono alleati con i gruppi per i diritti dei migranti e per i diritti civili in campagne indirizzate a chi fa profitti con le carceri private, lanciando il messaggio che l’oppressione delle persone di colore nelle carceri è collegata all’oppressione dei palestinesi – soprattutto perché imprese come G4S [società privata britannica di servizi per la sicurezza, ndtr.] traggono profitto dall’incarcerazione di tutte quelle comunità. Sezioni di ‘Students for Justice in Palestine’ [organizzazione di attivisti studenteschi pro-palestinesi negli Stati Uniti, in Canada e in Nuova Zelanda, ndtr.] hanno formato coalizioni con comunità di colore nei campus universitari per spingere i dirigenti studenteschi ad appoggiare il disinvestimento dalle imprese che traggono profitto dall’occupazione israeliana.

Molto di questo lavoro degli studenti è stato guidato dagli stessi palestinesi, un’eco del lavoro che gruppi come la ‘General Union of Palestinian Students’ [organizzazione gestita da studenti palestinesi che esiste fin dai primi anni ’20, ndtr.] hanno fatto nei campus USA a cominciare dalla guerra del 1967. Dopo gli Accordi di Oslo [del 1993], l’attivismo guidato dai palestinesi negli USA è venuto meno, in quanto è stata dedicata maggiore attenzione alla creazione di uno Stato a casa loro piuttosto che a creare un movimento globale anticoloniale. Ma, una volta falliti gli Accordi di Oslo, i capi delle organizzazioni palestinesi si sono reinseriti nel più ampio movimento di solidarietà. Questa rinascita ha raggiunto il suo apice in seguito all’invasione israeliana di Gaza nel 2008-2009.

“I palestinesi hanno iniziato ad essere più autocentrati, il che ha anche significato che sono aumentati i militanti palestinesi”, ha detto Andrew Kadi, a lungo organizzatore palestinese-americano e membro del comitato direttivo della USCPR.

Uno dei momenti più importanti per il movimento per i diritti dei palestinesi è stato nell’agosto 2016, quando ‘A Vision for Black Lives’, una piattaforma politica resa pubblica da gruppi collegati con il movimento ‘Black Lives Matter’, ha appoggiato il disinvestimento dal “complesso militare-industriale” di Israele ed ha accusato Israele di apartheid e genocidio. Per i gruppi per i diritti dei palestinesi la piattaforma politica è stata un eccellente esempio di come la lotta per la libertà dei neri e la lotta palestinese dovrebbero essere collegate. È stata una brillante affermazione della loro strategia “intersezionale”, che garantiva che i palestinesi difendessero i diritti dei neri negli USA, e viceversa, come parte di una più vasta spinta a collegare le lotte per la giustizia dei palestinesi e dei neri.

“Vi è ora una situazione in cui i movimenti sociali sono profondamente interconnessi”, ha detto Nadia Ben Youssef, direttrice delle attività di sostegno del Center for Constitutional Rights [Centro per i diritti costituzionali, organizzazione di sinistra per il patrocinio legale senza scopo di lucro con sede a New York, ndtr.]. “Stiamo creando una politica coerente di giustizia sociale, per cui se tu hai un’opinione sulla giustizia razziale, sulla detenzione, sulla disuguaglianza in senso più generale, hai un’opinione anche sulla Palestina.”

Nel periodo dello shock delle elezioni del 2016, l’ampio schieramento di sinistra era arrivato a riconoscere che i diritti dei palestinesi avrebbero dovuto essere parte integrante del programma progressista. Linda Sarsour, un’importante attivista palestinese-americana, è stata uno dei volti della storica Marcia delle Donne contro Trump del gennaio 2017. Ma l’integrazione dei diritti dei palestinesi nel movimento progressista non è avvenuto senza polemiche. Gruppi filoisraeliani hanno attaccato Sarsour e il Movimento per le Vite dei Neri. Li hanno accusati di dirottare il movimento progressista verso un programma del tutto differente. Tuttavia è diventato insostenibile per i progressisti ignorare la Palestina.

Ciò è diventato ancor più evidente quando dirigenti progressisti come Ilhan Omar, eletta nel 2016, ha sposato la lotta a favore di qualunque cosa, dall’assistenza sanitaria per tutti al Green New Deal fino all’eliminazione dell’occupazione israeliana. L’impostazione di politica estera di Omar si concentra sulla smilitarizzazione e sui diritti umani, senza fare eccezione riguardo al trattamento di Israele verso i palestinesi.

L’elezione di Trump ha esasperato la politica sulla Palestina negli USA. La sua stretta alleanza con Netanyahu ha allontanato i democratici da Israele. I regali di Trump alla destra israeliana – il trasferimento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, il silenzio dell’amministrazione sulle colonie israeliane e il riconoscimento delle alture del Golan come territorio israeliano – lo hanno ulteriormente legato a Netanyahu, un problema per coloro che credono nell’importanza di una relazione bipartisan con lo Stato ebraico.

Trump ha perseguito anche un’altra strategia che ha portato la questione israelo-palestinese al centro del dibattito americano: definendo “antisemiti” suoi accesi oppositori come Omar e Tlaib, parte di un tentativo di spaccare il partito democratico, fa perdere elettori ebrei ed eccita la sua base di destra.

“Avete visto il partito repubblicano cercare di trasformarlo in un’arma politica, una questione spinosa. Diventa una questione di guerra culturale, come l’aborto o l’immigrazione”, ha detto Logan Bayroff, il portavoce di J Street. “Questo provoca la loro base elettorale, che non sono ebrei americani ma sono tanti elettori evangelici, che stanno guidando il programma [di Trump].”

La decisione di Netanyahu nello scorso agosto di vietare a Omar e Tlaib di recarsi in Israele-Palestina con una delegazione del Congresso faceva parte della strategia di Trump di dipingerle come nemiche di Israele e dell’America. Facendo in modo di creare un contrasto internazionale da prima pagina, Trump ha portato avanti i suoi piani di fare di Omar e Tlaib i volti del partito democratico, una strategia che lui reputa vincente nei confronti delle persone preoccupate della corsa a sinistra dei democratici.

Ma quella decisione ha avuto anche un effetto boomerang. Omar e Tlaib hanno tenuto un’eccezionale conferenza stampa dopo che è stato comunicato il divieto, in cui hanno parlato ad un pubblico di tutta la Nazione dell’indecenza dell’occupazione e di come Israele fa del male ai palestinesi. È stata, in una sola settimana, una sintesi di come la Palestina sia passata dai margini al centro della politica americana. A destra viene usata come questione controversa, mentre a sinistra viene amplificata dai parlamentari progressisti che vedono la Palestina come parte del loro più vasto programma di giustizia sociale.

Per quei democratici che vogliono mantenere l’alleanza USA-Israele così com’è, la decisione di Netanyahu di bandire Tlaib e Omar è stata inquietante ed ha solo incrementato il loro desiderio di vedere Netanyahu lasciare l’incarico e vincere qualcuno come Benny Gantz, il capo del partito Blu e Bianco [coalizione di centro-destra che ha vinto le ultime elezioni in Israele, ndtr.]. Ai loro occhi, ciò permetterebbe ai democratici di tornare alle loro consuete posizioni su Israele: appoggiare i negoziati tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese senza la seccatura di un Netanyahu sfacciatamente di parte che danneggia il rapporto tra USA ed Israele.

Ma mentre un incarico di formare un nuovo governo a Gantz potrebbe dare un attimo di respiro a questi democratici dopo il caos dell’era Netanyahu-Trump, non porrà fine alla messa in discussione progressista del consenso di Washington a Israele.

“Moltissimi democratici si illudono che il problema sia solo Bibi (Netanyahu). Ma non dovremmo fare troppe personalizzazioni”, ha detto l’importante consigliere democratico al Congresso. “Sì, Bibi è particolarmente dannoso, sfacciato nel suo approccio di parte, ma, come Trump, Bibi è il prodotto di una reale tendenza politica in Israele. Rappresenta un elemento illiberale con cui i democratici devono fare i conti se prendono sul serio i valori che professano.”

Alex Kane è un giornalista che vive a New York, il cui lavoro su Israele/Palestina, libertà civili e politica estera USA è stato pubblicato su VICE News, The Intercept, The Nation, In These Times ed altri giornali.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)