Israele ha facilitato la crescita di Hamas, dichiara Borrell dell’Unione Europea

Redazione di Middle East Monitor

27 febbraio 2024 – Middle East Monitor

Lunedì il responsabile degli Affari Esteri dell’Unione Europea [UE] Josep Borrell ha affermato che negli anni 80 con le sue politiche Israele ha agevolato la crescita di Hamas. Egli ha criticato Israele in un discorso tenuto ad un forum organizzato presso una università a Madrid.

Io non direi che [Israele] ha finanziato [Hamas] inviando un assegno,” ha spiegato Borrell, “ma ha consentito la crescita di Hamas” come rivale del partito egemone palestinese Fatah. Egli ha ripetuto la sua dichiarazione, fatta nelle ultime settimane secondo cui “Israele ha creato e finanziato Hamas.”

È una “realtà incontestabile”, ha aggiunto il funzionario della UE, che Israele ha scommesso sulla divisione dei palestinesi, creando una forza da opporre a Fatah. Egli ha affermato che si stava riferendo alla ben nota dichiarazione che il primo ministro Benjamin Netanyahu ha reso pubblicamente davanti alla sua coalizione parlamentare, in cui ha affermato che chiunque si opponga alla soluzione a due Stati deve agevolare il finanziamento di Hamas.

Borrell ha ripetuto il suo supporto per la soluzione a due Stati in base alla quale lo Stato palestinese sarebbe riconosciuto e ha criticato Israele perché si oppone a questa soluzione, ma non ha proposto alcuna alternativa. Ha fatto presente che tutti sembrano essere d’accordo sulla soluzione a due Stati, tranne che il governo Netanyahu, che ha cercato di impedire la realizzazione di questa soluzione per 30 anni.

Descrivendo la risposta militare israeliana a Gaza come “sproporzionata” perché sta causando un eccessivo numero di vittime civili, Borrell ha insistito sul fatto che la sua dichiarazione non è “anti-ebraica”.

Da ottobre Israele sta combattendo una devastante guerra genocida contro la Striscia di Gaza. Ha ucciso e ferito più di 100.000 palestinesi, la maggior parte dei quali minori e donne, e ha creato una catastrofe umanitaria senza precedenti e una estesa distruzione delle infrastrutture civili, portando lo stato di occupazione ad affrontare la Corte Internazionale di Giustizia per accuse di genocidio.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




L’UE sta rigettando e allo stesso tempo appoggiando il genocidio di Israele

Ramona Wadi

23 gennaio 2024 – Middle East Monitor

Ciò che vogliamo fare è costruire una soluzione a due Stati. Quindi parliamone”, ha dichiarato il capo della politica estera dell’UE Josep Borrell prima di un incontro a Bruxelles con funzionari israeliani e palestinesi. “Quali altre soluzioni hanno in mente? Espellere tutti i palestinesi? Ucciderli?”

Le domande retoriche di Borrell non si addicono alla sua posizione. Ma gli israeliani hanno escogitato un altro piano: creare un’isola artificiale nel Mediterraneo e mandarvi i palestinesi espulsi. L’idea non è nuova. Nel 2017, Israel Katz, allora ministro israeliano dei Trasporti e dell’Intelligence, suggerì un’isola artificiale al largo della costa di Gaza come primo passo per il collegamento dei palestinesi con il resto del mondo. In qualità di ministro degli Esteri, Katz ha riproposto il piano che è stato respinto dai ministri degli Esteri dell’UE.

Tuttavia, il rifiuto del piano da parte dell’UE, sebbene corretto, non dice nulla sull’integrità morale e politica del blocco quando si tratta del popolo palestinese. Le prove presentate alla Corte internazionale di Giustizia, così come l’aperta difesa da parte di Israele delle sue azioni genocide, non sono riuscite a modificare la posizione passiva dell’UE. Se l’UE non è ancora convinta dell’intento genocida e delle azioni genocide di Israele finora, nonostante il crescente numero di palestinesi uccisi, torturati e feriti dallo Stato dell’apartheid, la proposta di Katz farà altrimenti? Ogni proposta israeliana mira a spazzare via i palestinesi dalla terra di Palestina, a cominciare da Gaza. E tutto ciò che Borrell può fare è ribadire la moribonda diplomazia dei due Stati, perché è ciò che l’UE e il resto della comunità internazionale hanno destinato ai palestinesi.

Per rispondere alle domande di Borrell, sì, Israele vuole espellere tutti i palestinesi e vuole uccidere i palestinesi. Entrambe le opzioni sono praticabili nell’agenda coloniale di Israele. Dal 7 ottobre sono state rilasciate diverse dichiarazioni al riguardo da parte di politici israeliani. I social media sono pieni di filmati di soldati israeliani che celebrano la distruzione di Gaza. L’UE è anche indubbiamente in possesso di una sua raccolta di informazioni, per non parlare del suo coinvolgimento decennale nella debacle politica dell’illusione dei due Stati che ha consentito a Israele di arrivare fino al genocidio con assoluta impunità.

Cos’è la diplomazia dei due Stati in un momento in cui le azioni genocide di Israele sono la prova più evidente che il colonialismo non scende a compromessi, nemmeno in uno scenario in cui l’autonomia politica palestinese è ancora soggetta a imposizioni coloniali e internazionali?

Parlando del compromesso a due Stati Borrell sta liquidando il genocidio di Israele come quasi irrilevante Prima del 7 ottobre l’UE utilizzava questo paradigma politico per dare un fondamento alla normalizzazione della violenza coloniale, al punto che ogni violazione israeliana era separata dall’ideologia e dalla pratica dell’espansione coloniale di insediamento. Questo status quo è stato cancellato. L’UE ora è arrivata al punto di normalizzare il genocidio, pur parlando del paradigma dei due Stati come di qualcosa che vuole realizzare.

La domanda in sé è paternalista: perché i palestinesi non dovrebbero essere in grado di articolare le loro richieste politiche quando e dove vogliono, senza aspettare o essere sollecitati? L’UE ha impresso il marchio della sua politica sulla Palestina facendo dei diritti umani una barzelletta proprio per il modo con cui finge di difenderli. Tuttavia, se le richieste palestinesi non vengono articolate dall’interno e accolte dalla comunità internazionale senza alcun compromesso, l’UE, come il resto del mondo, può considerarsi complice del genocidio da parte di Israele.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




L’UE si schiera a favore di Israele contro i suoi stessi Stati membri

Ali Abunimah

19 luglio 2022 – The Electronic Intifada

L’Unione Europea è più fedele a Israele che ai propri Stati membri? Sembra proprio di sì.

All’inizio di questo mese nove governi dell’UE hanno finalmente definito una cavolata la designazione di “organizzazioni terroristiche” da parte di Israele di sei organizzazioni palestinesi per i diritti umani molto stimate.

La designazione di ottobre faceva parte della lunga campagna di Israele volta a criminalizzare, definanziare e sabotare chiunque tenti di chiamarlo a rispondere dei suoi crimini contro i palestinesi.

Da Israele non sono pervenute informazioni sostanziali che giustifichino la revisione della nostra politica” nei confronti delle sei organizzazioni, afferma la dichiarazione congiunta del 12 luglio di Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Paesi Bassi, Spagna e Svezia.

“In assenza di tali prove – aggiungono – continueremo la nostra cooperazione e forte sostegno alla società civile nei territori palestinesi occupati”.

Molte delle associazioni prese di mira da Israele ricevono finanziamenti direttamente da questi governi e dall’apparato burocratico dell’UE a Bruxelles.

Tre di loro – Addameer, Al-Haq e Defence for Children International-Palestine – hanno collaborato strettamente con le indagini della Corte Penale Internazionale sui crimini di guerra in Cisgiordania e a Gaza.

Quindi, appena è stata resa nota la dichiarazione dei nove governi, ho scritto a Peter Stano, portavoce dell’UE per gli affari esteri, per chiedere se Bruxelles l’avesse adottata.

Dopo oltre una settimana – e nonostante due solleciti – il solitamente tempestivo Stano non ha inviato alcuna risposta.

Posso solo interpretare questo silenzio come un segnale che l’irresponsabile apparato burocratico dell’UE non sia d’accordo con i propri Stati membri e stia adottando in modo ancora più deciso il proprio approccio filo-israeliano.

In effetti Bruxelles è schierata a favore di Tel Aviv contro i governi dell’UE che sono arrivati ad essere talmente esasperati dalle diffamazioni e dalle bugie di Israele da dichiararlo pubblicamente.

Anche senza una risposta di Stano le prove di ciò sono abbastanza chiare.

The Electronic Intifada ha rivelato in ottobre che Israele ha comunicato in anticipo all’UE la sua intenzione di designare le organizzazioni palestinesi come “terroriste”, ma Bruxelles non ha respinto [la designazione] e non ha nemmeno inviato tale comunicazione ai propri Stati membri.

In quell’occasione Stano ha ammesso che l’UE aveva bisogno di “maggiori informazioni a proposito di queste designazioni” – un’ammissione del fatto che Israele non aveva fornito alcuna prova effettiva.

Sospensione illegittima”.

Il mese scorso Al-Haq è riuscita a presentare una petizione alla Commissione europea perché revocasse la sospensione dei finanziamenti per uno dei progetti dell’ organizzazione per i diritti umani sponsorizzati dall’UE.

Al-Haq ha affermato che la “sospensione vergognosa” era stata “illegale fin dall’inizio e basata sulla propaganda e sulla disinformazione israeliane”.

Una lettera dell’UE ha confermato che l’unità antifrode del blocco OLAF [Ufficio europeo per la lotta antifrode, istituito per contrastare le frodi, la corruzione e qualsiasi attività illecita lesiva degli interessi finanziari della Comunità europea, ndt.] aveva “concluso che non vi sono sospetti di irregolarità e/o frode ai danni dei fondi dell’UE” forniti ad Al-Haq.

Al-Haq ha accusato della sospensione Olivér Várhelyi, un alto funzionario non eletto dell’UE, affermando che [la sospensione, ndt.] fosse “mirata a dare al governo israeliano un aiuto nei suoi tentativi di danneggiare e diffamare la società civile palestinese e di opprimere le voci delle organizzazioni e difensori palestinesi dei diritti umani”.

Várhelyi è stato anche responsabile della sospensione degli aiuti dell’UE ai palestinesi, compresi i finanziamenti per pagare le cure salvavita per i malati di cancro palestinesi.

Tali aiuti sono stati sbloccati il mese scorso, poco prima che la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen si recasse in Israele e nella Cisgiordania occupata, dove ha trascorso la maggior parte del suo tempo a compiacere Tel Aviv.

L’UE rilancia il forum ad alto livello con Israele

Ma qualunque disaccordo possa esserci tra l’UE e i suoi Stati membri sulle sei organizzazioni, ciò non ha intaccato la loro unanimità quando si tratta di offrire a Israele riconoscimenti incondizionati per i suoi crimini contro il popolo palestinese.

Lunedì i 27 ministri degli esteri del blocco hanno deciso di riprendere le riunioni del Consiglio di associazione UE-Israele.

Questo forum di alto livello non si riuniva da un decennio, con grande disappunto di Israele e della sua lobby.

Secondo un comunicato di Bruxelles i ministri “hanno convenuto di riconvocare gli incontri e di iniziare a lavorare per determinare la posizione dell’Ue”.

“La posizione dell’UE sul processo in Medio Oriente non è cambiata rispetto alle conclusioni del Consiglio del 2016 a sostegno della soluzione dei due Stati”, si legge nella dichiarazione.

Sebbene l’UE abbia mantenuto il sostegno verbale alla moribonda “soluzione dei due Stati”, continua a premiare e incentivare la colonizzazione violenta da parte di Israele dei territori palestinesi occupati, vanificando l’idea di uno Stato palestinese indipendente.

La reazione di Várhelyi alla decisione di lunedì sottolinea che non c’è motivo di aspettarsi alcun cambiamento.

Egli ha salutato la ripresa del forum ad alto livello come un ulteriore segno che l’UE è “fermamente impegnata” nelle sue relazioni con Israele e ha esortato il blocco “a cogliere l’opportunità di normalizzare le relazioni tra Israele e un certo numero di Paesi arabi .”

Dimiter Tzantchev, l’ambasciatore dell’UE a Tel Aviv, ha affermato che il Consiglio di associazione UE-Israele “dovrebbe permettere di impegnarci con i nostri partner israeliani e di riflettere sul processo di pace in Medio Oriente e sul ruolo dell’UE in esso”.

La generica formulazione di Tzantchev è stata senza dubbio elaborata con cura per dare l’impressione che questo sfacciato riconoscimento ad Israele farebbe in qualche modo progredire il “processo di pace” morto da tempo, pur non offrendo assolutamente alcun sostegno concreto da parte di Bruxelles per promuovere i diritti dei palestinesi.

Secondo il giornalista israeliano Barak Ravid la decisione dell’UE di ripristinare il dialogo ad alto livello è un “risultato importante” per il primo ministro israeliano Yair Lapid.

Ravid osserva che questo era uno degli obiettivi chiave di Lapid quando ha assunto la carica di ministro degli Esteri israeliano poco più di un anno fa.

Rinvio compiacente

Citando un anonimo “alto funzionario europeo”, il Times of Israel [giornale israeliano online in lingua inglese, ndt.] ha riferito lunedì che Josep Borrell, capo della politica estera dell’UE, ha rinviato la ripresa delle riunioni del consiglio UE-Israele “a causa dell’uccisione della giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh” a maggio.

Lo stesso mese Israele ha anche annunciato una massiccia espansione delle sue colonie in Cisgiordania, provocando un’insolita condanna da parte di Borrell.

Secondo The Times of Israel l’anonimo funzionario europeo ha detto: ”Ci sono state due cose inaccettabili sul piano diplomatico: l’uccisione della giornalista e l’annuncio di 4.000 nuovi insediamenti coloniali“.

“Borrell ci ha detto:Come potete immaginare che metta all’ordine del giorno un incontro di cooperazione con le immagini in TV… suvvia!’“, ha aggiunto il funzionario.

Ma questa non è stata una posizione di principio.

Il codardo Borrell era semplicemente preoccupato di salvare le apparenze e pensava che fosse prudente aspettare che l’omicidio della corrispondente di Al Jazeera non fosse più sulle prime pagine dei giornali prima di offrire ulteriori ricompense a Israele.

The Times of Israel riferisce che Borrell ha annunciato che avrebbe portato avanti la questione solo durante i sei mesi di presidenza ceca, iniziata il 1° luglio.

Ed è esattamente quello che è successo – nonostante l’ininterrotta espulsione da parte di Israele degli abitanti dei villaggi palestinesi da Masafer Yatta nella Cisgiordania occupata – tra gli altri crimini di guerra che l’UE pretende di contrastare.

“Il fatto che 27 ministri degli Esteri dell’UE abbiano votato all’unanimità a favore del rafforzamento dei legami economici e diplomatici con Israele è una prova della forza diplomatica di Israele e della capacità di questo governo di creare nuove opportunità con la comunità internazionale”, si è vantato il primo ministro israeliano Lapid dopo la decisione dell’UE di lunedì.

È anche la prova dell’assoluta codardia e della volontaria complicità dell’Unione Europea e di ogni suo membro.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




“Un golpe”: le fazioni palestinesi criticano il rinvio delle elezioni politiche

Al Jazeera e agenzie

30 aprile 2021 – Al Jazeera

Hamas afferma che la decisione del presidente Abbas “è un golpe contro il percorso verso la collaborazione politica e il consenso”.

Il movimento palestinese Hamas, che governa la Striscia di Gaza assediata, ha duramente criticato la decisione del presidente Mahmoud Abbas di rimandare le elezioni politiche previste il 22 maggio.

Giovedì notte il presidente Abbas ha annunciato il rinvio facendo riferimento al rifiuto israeliano di permettere che si tengano le elezioni a Gerusalemme est. Ha tuttavia sottolineato che una volta che Israele consenta di votare a Gerusalemme, le elezioni si terranno “entro una settimana”.

Abbiamo accolto con rammarico la decisione di Fatah (il partito) e dell’Autorità Nazionale Palestinese espressa dal loro presidente, Mahmoud Abbas, di interrompere le elezioni palestinesi,” ha affermato in un comunicato l’organizzazione Hamas.

Essa afferma di ritenere totalmente responsabili l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e Fatah del rinvio e delle sue ripercussioni, considerando questo passo “un golpe contro il cammino verso la collaborazione nazionale e il consenso.”

Il comunicato afferma che Hamas ha boicottato l’incontro [che ha preceduto la decisione di rinviare il voto, ndtr.], in quanto “sapeva già che l’ANP e Fatah stavano andando verso l’annullamento delle elezioni per calcoli diversi, non riguardanti Gerusalemme.” Anche il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, respingendo la decisione, ha chiesto l’osservanza degli accordi nazionali per tenere le elezioni, aggiungendo che cercherà in ogni modo di ribaltare la decisione di rimandare il voto. V

Anche il commissario dell’Unione Europea per la politica estera Josep Borrell ha condannato la decisione di rinviare il voto a lungo atteso.

La decisione di rimandare le previste elezioni palestinesi, comprese quelle legislative fissate originariamente per il 22 maggio, è molto deludente,” ha detto Borrell in un comunicato.

Incoraggiamo vivamente tutti gli attori palestinesi a riprendere gli sforzi basandosi sui colloqui fruttuosi tra le fazioni durante i mesi scorsi. Dovrebbe essere fissata senza indugio una nuova data per le elezioni.”

Il ritardo rischia di accentuare le tensioni  in una società palestinese politicamente divisa.

All’inizio di questa settimana il quotidiano “Al-Quds”, noto per essere vicino all’ANP, ha rivelato che Abbas è stato sottoposto a pressioni da parte araba e statunitense perché rinviasse il voto. Ha affermato che le pressioni erano dovute alla probabilità che Hamas vincesse le elezioni.

Proteste

Parlando con Al Jazeera prima della decisione, alcuni palestinesi nella Cisgiordania occupata hanno detto che se il governo palestinese avesse voluto realmente andare al voto avrebbe trovato una soluzione. “È facile trovare delle scuse,” ha detto un negoziante palestinese.

Dopo la decisione di Abbas, centinaia di palestinesi arrabbiati si sono riuniti nella città centrale di Ramallah e nella Striscia di Gaza per condannare la mossa.

C’è un’intera generazione di giovani che non sa cosa siano le elezioni,” ha detto all’agenzia di notizie AFP Tariq Khudairi, un manifestante di Ramallah. “Questa generazione ha il diritto di eleggere i propri dirigenti.”

Guadagnare tempo

Chi critica Abbas lo accusa di aver utilizzato la questione di Gerusalemme per guadagnare tempo in quanto le prospettive politiche di Fatah erano peggiorate.

Hamas è vista come meglio organizzata di Fatah e con buone prospettive di conquistare terreno in Cisgiordania.

Alcuni osservatori hanno anche visto il problema di Gerusalemme come un possibile pretesto per l’annullamento, perché una vittoria della profondamente divisa Fatah di Abbas è considerata incerta.

In recenti sondaggi, due terzi degli interpellati hanno manifestato scontento nei confronti del presidente. Abbas ha anche affrontato l’opposizione da parte di gruppi scissionisti di Fatah, tra cui uno guidato da Nasser al-Kidwa, nipote del leggendario leader palestinese Yasser Arafat, e un altro dal potente ex-capo dei servizi di sicurezza di Fatah, in esilio, Mohammed Dahlan.

Controsenso”

Durante le ultime elezioni palestinesi, gli abitanti di Gerusalemme est hanno votato nei dintorni della città e migliaia l’hanno fatto via posta, un’iniziativa simbolica accettata da Israele.

Questa settimana il ministero degli Esteri israeliano ha affermato che le elezioni sono una “questione interna dei palestinesi e che Israele non ha intenzione di interferire con esse o di impedirle.”

Ma non ha fatto alcun commento riguardo al voto a Gerusalemme, la città che descrive come sua “capitale indivisibile” e dove ora vieta ogni attività politica dei palestinesi.

Abbas ha detto ai dirigenti dell’OLP di aver ricevuto un messaggio da Israele in cui si dice di non poter dare indicazioni sulla questione di Gerusalemme perché lo Stato ebraico attualmente non ha un governo.

Lo stesso Israele è impantanato nella sua peggiore crisi politica di sempre, senza aver ancora formato un governo in seguito alle inconcludenti elezioni del 23 marzo.

Veto” israeliano

Parlando con alcuni inviati prima dell’annuncio di venerdì, la giornalista palestinese Nadia Harhash, critica con Abbas, ha detto che utilizzare Gerusalemme per giustificare un rinvio “non è affatto una mossa astuta per l’ANP.”

Harhash, candidata alle elezioni con una fazione contraria ad Abbas, ha sostenuto che ciò concede a Israele il potere di veto de facto sul diritto di voto dei palestinesi.

Anche Hamas ha affermato che un ritardo rappresenta una resa al “veto dell’occupazione israeliana.” Le elezioni sono state in parte viste come un tentativo unitario da parte di Hamas e Fatah per rafforzare la fiducia a livello internazionale sulla capacità di governo dei palestinesi prima della possibile ripresa dell’attività diplomatica guidata dagli USA con il presidente Joe Biden, dopo quattro anni di Donald Trump, che hanno visto Washington appoggiare obiettivi fondamentali di Israele.

Alcuni analisti hanno affermato che Abbas sperava che le elezioni consentissero a Fatah e Hamas di continuare a condividere il potere, ma si è sentito minacciato dall’emergere di forti fazioni scissioniste e dal sorgere di nuovi gruppi critici nei confronti della sua leadership.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il mondo non fermerà l’annessione israeliana. Cosa faranno i leader palestinesi?

Omar H. Rahman

22 maggio 2020 – 972mag.com

Quattro eventi della scorsa settimana danno un’idea dell’incapacità della comunità internazionale a bloccare l’annessione – e perché solo un cambiamento della politica palestinese la costringerà ad agire.

Martedì il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha reso quella che inizialmente sembrava essere una affermazione epica, in cui ha dichiarato che i palestinesi sono “sciolti” dai loro accordi con Israele, compresi quelli relativi al coordinamento della sicurezza. Abbas ha fatto tali dichiarazioni numerose volte nel corso degli anni, facendo sì che molti ignorassero le sue osservazioni. Tuttavia, stanno venendo fuori relazioni confuse e non verificate che suggeriscono come, per la prima volta, potrebbe effettivamente dare corso alla sua decisione.

Che mantenga o no la promessa, la dichiarazione di Abbas avviene in un momento critico per i palestinesi, perché facciano il punto sulla situazione della loro lotta politica. Mentre il movimento nazionale palestinese si fa sempre più diviso e impotente, Israele ha fatto notevoli sforzi per massimizzare i propri guadagni a sue spese. Il più importante è l’impegno del governo israeliano ad annettere formalmente gran parte della Cisgiordania occupata, mossa che molti considerano un punto di non ritorno.

In effetti, quattro eventi della scorsa settimana hanno offerto uno speciale, simbolico distillato di come la comunità internazionale – e i palestinesi – abbiano regolarmente fallito nel fermare il percorso di Israele verso l’annessione.

Il 13 maggio, nonostante la pandemia globale, il segretario di stato americano Mike Pompeo ha fatto una visita a sorpresa di 12 ore per incontrare diversi leader israeliani pochi giorni prima che il nuovo governo di unità prestasse giuramento. Il viaggio è stato detto era concentrato su questioni geopolitiche come l’Iran e la Cina, ma alcuni osservatori hanno ipotizzato che fosse parzialmente destinato a puntellare l’appoggio degli evangelici USA all’amministrazione Trump. Altri invece hanno pensato che potesse anche essere un tentativo di rassicurare le autorità israeliane – tra cui Benny Gantz, partner della coalizione di Benjamin Netanyahu e “primo ministro supplente” – del sostegno americano all’annessione.

Gantz, durante la campagna elettorale, aveva apertamente dichiarato il suo sostegno all’annessione e aveva insistito sul fatto che avrebbe dato corso alla mossa solo se realizzata in “coordinamento” con la comunità internazionale. In linea con questa condizione, il nuovo accordo di governo sostiene che i primi ministri a rotazione “agiranno in pieno accordo con gli Stati Uniti, insieme agli americani, per quel che riguarda le mappe e il dialogo internazionale sull’argomento [dell’annessione]”. La teatrale visita in persona di Pompeo potrebbe aver placato ogni dubbio sulla posizione di Washington secondo cui, come ripeteva il segretario di Stato a Gerusalemme, “questa è una decisione che spetta agli israeliani “.

Due giorni dopo la visita di Pompeo, i ministri degli Esteri degli Stati membri dell’Unione Europea si sono incontrati a Bruxelles per definire una risposta unitaria ai piani di annessione di Israele. I leader europei, tra cui il capo della politica estera europea Josep Borrell, hanno per settimane dato segni di voler prendere una dura posizione contro Israele, per impedire qualsiasi mossa definitiva a partire dal 1 ° luglio.

Si dice che alcune nazioni – tra cui Francia, Irlanda, Svezia, Spagna e Belgio – stiano spingendo per sanzioni contro Israele, segnalando la potenziale gravità dell’annessione. Altri paesi all’interno del blocco – in particolare Ungheria, Austria, Repubblica Ceca, Romania e Grecia – hanno frenato ogni tentativo di agire contro Israele. Negli ultimi anni Netanyahu ha sapientemente costruito solide relazioni con i cosiddetti paesi di Visegrad, mirando a dividere le posizioni sulla politica mediorientale dell’UE, le cui decisioni devono essere prese all’unanimità.

Non sorprende che l’incontro si sia concluso con nulla di fatto. Non sono stati proclamati impegni o dure condanne – una conclusione che fornisce ai leader israeliani ulteriori motivi per considerare l’Europa debole e insignificante. “Gerusalemme ha espresso soddisfazione perché la discussione si è conclusa senza dichiarazioni o decisioni concrete”, ha riferito Noa Landau ad Haaretz, “e perché Borrel non ha attaccato Israele durante la conferenza stampa, ma sottolineato piuttosto la necessità di rispettare il diritto internazionale”. Israele ha anche apprezzato che Borrel abbia respinto una domanda sul confronto fra l’annessione della Cisgiordania e l’annessione della Crimea da parte della Russia, affermando che “ci sono differenze tra l’annessione di territori che appartengano a uno Stato sovrano e quelli dei palestinesi”, ha aggiunto Landau.

Mentre si svolgevano queste discussioni, sabato scorso l’Autorità Nazionale Palestinese si preparava a tenere una riunione a Ramallah, evidentemente con le varie fazioni palestinesi, per discutere il futuro del movimento nazionale alla luce dei piani di annessione di Israele. La settimana precedente, durante una tavola rotonda ospitata dal Middle East Institute [centro culturale e di ricerca senza fini di lucro né affiliazione politica, a Washington dal 1946, ndtr.], il primo ministro palestinese Mohammed Shtayyeh aveva affermato che la discussione interna fra i palestinesi potrebbe portare alla ristrutturazione dell’ANP, all’abrogazione formale degli accordi di Oslo e alla riformulazione delle relazioni fra Palestina e Israele.

Eppure l’incontro non è mai avvenuto. I funzionari palestinesi hanno addotto una serie di motivi per rimandarlo, inclusa la necessità di aspettare fino a quando si fosse insediato il nuovo governo israeliano. Allo stesso tempo, Hamas e la Jihad islamica, che, ha detto Shtayyeh, erano state invitate a partecipare e avevano segnalato la loro disponibilità, hanno cancellato la propria adesione pochi giorni prima dell’incontro, mettendo in dubbio la serietà del presidente Abbas a muoversi in una nuova direzione. Altri resoconti suggerivano che funzionari europei e arabi avessero fatto pressioni su Abbas affinché non prendesse una netta posizione fino a quando il governo israeliano non avesse espresso ufficialmente le sue intenzioni sull’annessione.

Domenica, Netanyahu l’ha fatto. Mentre il nuovo governo israeliano prestava giuramento alla Knesset [Parlamento, ndtr.] a Gerusalemme, Netanyahu ha dichiarato che “è giunto il momento” di proseguire con l’annessione, descrivendola come l’epilogo di un “processo storico”.

Il processo a cui il primo ministro si riferiva non sono soltanto i tre anni durante i quali si è coordinato con l’amministrazione Trump per elaborare quello che alla fine è diventato l’ “accordo del secolo”. Né sarebbero i 52 anni di attività di insediamento, costruzione di infrastrutture pubbliche e cambiamenti demografici in Cisgiordania che hanno reso l’annessione de jure più una formalità simbolica che una radicale decisione politica. Piuttosto, è stato il processo di colonizzazione più che centenario che ha portato l’intera terra tra il fiume [Giordano] e il mare [Medterraneo] sotto il controllo esclusivo di Israele.

Una realtà che è stata resa possibile la settimana scorsa dalle azioni esemplari di tutte e quattro le parti: il sostegno degli Stati Uniti, l’acquiescenza dell’Europa, la frammentazione dei palestinesi e la risolutezza di Israele a portare inesorabilmente avanti il suo progetto sionista, anche mentre discuteva di divisione e pace durante i negoziati.

Nei prossimi mesi continueranno probabilmente a fare più o meno lo stesso. L’amministrazione Trump raddoppierà il proprio sostegno ai massimalisti territoriali israeliani, in particolare con l’avvicinarsi delle elezioni di novembre. Gli Stati europei possono intraprendere azioni individuali, ma è improbabile che un’Europa unita prenda una posizione ferma. L’UE potrebbe apportare alle sue relazioni con Israele lievi modifiche che non richiedano il consenso, ma alla fine non riuscirà a dissuadere Israele dalla sua intraprendenza.

Non resta che la leadership palestinese, la cui inazione e indecisione di fronte all’annessione israeliana è sconcertante. La dichiarazione di Abbas di abbandonare gli accordi con Israele, se effettivamente rispettata, potrebbe rappresentare una rottura importante col passato. Ma senza un piano d’azione dettagliato e concreto, e con dubbi diffusi sull’effettivo impegno dell’ANP riguardo alle sue parole, la dichiarazione di Abbas suona solo una minaccia vuota. Abbandonare gli Accordi di Oslo senza una chiara idea su come districarsi dalle strutture che si sono consolidate per 27 anni è la ricetta per una vasta confusione e, nel peggiore dei casi, il caos.

Nel mutevole panorama globale, da qualche tempo è evidente che l’imperativo di un cambiamento immediato spetta in definitiva ai palestinesi. È molto più facile per le terze parti pronunciare belle frasi piuttosto che intraprendere azioni politiche fondamentali ma politicamente costose da realizzare. Solo un cambiamento reale e decisivo nella posizione palestinese può costringere altre parti a reagire in modo significativo. Eppure sono stati sprecati anni di tempo prezioso per prepararsi e organizzare, e non sono stati fatti nemmeno i primi passi di un riordino del palazzo palestinese.

Se i palestinesi potranno avere qualche possibilità in questa fase avanzata, l’ANP deve allentare la sua presa sul potere, riconciliare le diverse fazioni politiche, ripristinare la legittimità delle istituzioni politiche e guidare il suo popolo e le sue risorse nel perseguire una nuova, popolare ed efficace strategia nazionale.

I palestinesi non possono fermare l’annessione da soli; è necessaria una solida risposta internazionale per invertire questa pericolosa strada. Ma demandando ogni speranza politica alle azioni di altri, la leadership palestinese può essere certa che nessun cambiamento arriverà fino a quando non sarà troppo tardi.

Omar H. Rahman è scrittore e analista politico specializzato in politica mediorientale e politica estera americana. Attualmente è assistente ricercatore presso il Brookings Doha Center [campus a Doha in Qatar del Brooking Institute di Wahington, ndtr.], dove sta scrivendo un libro sulla frammentazione palestinese nell’era post-Oslo.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Israele/Cisgiordania. Yehoshua: “L’annessione è apartheid. È tempo di uno Stato unico”.

 Michele Giorgio 

16 maggio 2020, Nena News da Il Manifesto

Dialogo con lo scrittore israeliano divenuto sostenitore di uno Stato per ebrei e palestinesi insieme. «In Cisgiordania – spiega – nello spazio di un chilometro trovi gli abitanti di una colonia israeliana con pieni diritti e quelli di un villaggio palestinese che invece diritti non ne hanno. Non è accettabile»

 Il Tunnel di A.B. Yehoshua non è un romanzo a sfondo politico, o almeno non lo è nella sua finalità originaria. Il protagonista, Zvi Luria, è un ingegnere che fa i conti con il declino delle sue facoltà mentali e che deve trovare un compromesso con la sua malattia.

Il racconto, con tratti autobiografici, di Yehoshua tuttavia include due episodi con un significato politico.

Nel primo Luria va al kibbutz Sde Boker a visitare la tomba di David Ben-Gurion, uno dei principali leader sionisti e padre fondatore di Israele.

Nel secondo, trovandosi di fronte a una famiglia palestinese che vive sul percorso della strada che sta costruendo nel deserto del Negev, pensa che non vada espulsa e di dover costruire un tunnel sotto quell’abitazione.

La visita di Zvi Luria alla tomba di Ben Gurion è un omaggio o un addio al Sionismo classico che l’83enne Yehoshua ha abbracciato per quasi tutta la sua vita? Il tunnel alternativo all’espulsione della famiglia palestinese è il segnale di strada diversa che lo scrittore propone per il rapporto con i palestinesi in Israele e nei Territori occupati?

Yehoshua non risponde direttamente questi interrogativi durante la conversazione telefonica che abbiamo avuto con lui sul tema dell’annessione unilaterale a Israele di una larga porzione di Cisgiordania palestinese al centro del programma del nuovo governo Netanyahu atteso oggi al giuramento.

«Spero che Netanyahu non muova questo passo (l’annessione), finirebbe per rafforzare l’apartheid che già esiste in Cisgiordania», ci dice lo scrittore, uno degli autori israeliani più conosciuti e tradotti all’estero.

«Ci sono Bantustan palestinesi» prosegue «non so come altro potrei definirli. In Cisgiordania nello spazio di un chilometro trovi gli abitanti di una colonia (israeliana) che godono di pieni diritti e quelli di un villaggio palestinese che diritti invece non ne hanno. E questo non è accettabile».

Apartheid, Bantustan, termini che Yehoshua usa sempre più spesso da qualche tempo a questa parte. Una netta frattura rispetto al passato recente in cui lo scrittore è stato un accanito sostenitore della «separazione» tra ebrei e arabi e che inizialmente vide nel Muro fatto costruire da Ariel Sharon in Cisgiordania parte della soluzione dei problemi.

Oggi pensa che la soluzione invece sia uno Stato unico, binazionale, per ebrei e palestinesi su tutta la Palestina storica, unica possibilità per evitare l’apartheid. «Israele di fatto è già uno Stato binazionale» spiega «due milioni di palestinesi sono cittadini di Israele, lavorano negli ospedali come medici e infermieri, svolgono tutte le attività professionali, sono ovunque pur soffrendo delle discriminazioni. E 72 anni dopo (dalla nascita di Israele, oggi è l’anniversario, ndr), sulla base di questa lunga esperienza, dico che come i palestinesi in Israele anche quelli della Cisgiordania possono e devono ottenere residenza e cittadinanza. Possiamo vivere insieme in un unico Stato, senza annullare le nostre rispettive identità».

Yehoshua peraltro non esclude che nello Stato unico che ha in mente un palestinese possa diventare premier di Israele: «Perché no?» ci dice.

Lo Stato per ebrei e arabi di Yehoshua non è uguale a quello che è oltre il Sionismo, il nazionalismo, il colonialismo che teorizzano l’accademico Ilan Pappè e altri intellettuali, studiosi e attivisti ebrei e palestinesi. Ma senza dubbio è una voce autorevole fuori dal coro del sostegno acritico a qualsiasi politica di Israele nei confronti del territorio e dei palestinesi. E contro il mantra della soluzione a Due Stati, Israele e Palestina.

«Quell’idea è morta – conclude lo scrittore – l’hanno uccisa le tante colonie (israeliane) che sono state costruite negli ultimi decenni con l’approvazione degli Stati uniti. L’Europa protesta eppure sino ad oggi non ha fatto nulla di concreto, proprio nulla, per fermare la colonizzazione israeliana».

Parole che avrebbero dovuto ascoltare i ministri degli esteri dell’Ue che ieri pomeriggio si sono riuniti per discutere delle intenzioni di Netanyahu.

Nei giorni scorsi giravano indiscrezioni su sanzioni richieste da alcuni paesi dell’Ue, tra cui la Francia, da esplicitare subito per scoraggiare il governo israeliano dal compiere passi unilaterali, non negoziati, nella Cisgiordania palestinese sotto occupazione militare.

Tra queste il congelamento del programma Horizon Europe 2021-2027, che garantisce ingenti risorse a Israele, e la sospensione dell’accordo che dà a Tel Aviv accesso libero ai mercati europei.

L’Alto rappresentante dell’Ue, Josep Borrell, butta acqua sul fuoco: «Siamo molto lontani dal parlare di sanzioni, comunque è importante sapere quale sia la posizione degli Stati membri sul mancato rispetto della legge internazionale (da parte di Israele)».

Da Washington al contrario arrivano solo approvazioni e regali per il premier israeliano. L’idea dell’annessione è stata partorita proprio dall’Amministrazione Trump che l’ha poi confezionata nel piano conosciuto come “Accordo del Secolo”.

Qualche giorno fa Netanyahu ne ha discusso a Gerusalemme per tre ore con Mike Pompeo. Non è chiaro se abbia ottenuto dagli Usa luce verde all’annessione, come vorrebbe, già dal prossimo 1 luglio. Gli americani forse hanno meno fretta del primo ministro israeliano. Sembra suggerirlo il segretario di stato parlando della necessità di fare altri «progressi» sull’attuazione del piano di pace americano.

Contro i progetti di Trump e Netanyahu il presidente palestinese Abu Mazen ha formato una task force incaricata di mobilitare i governi, specie quelli europei, e l’opinione pubblica internazionale.  Sulle speranze palestinesi gravano però le posizioni morbide di Cina e Russia che mantengono ancora una posizione di basso profilo.

Invoca provocatoriamente l’annessione il noto giornalista israeliano Gideon Levi che da anni racconta al mondo le forme dell’oppressione dei palestinesi.

«Sarà la fine del mondo? No, perché i Territori palestinesi occupati sono già stati annessi a Israele più di 52 anni fa» spiega Levi in un podcast postato online dal suo giornale, Haaretz, «questo passo mette fine alla vecchia bugia che l’occupazione sarebbe stata temporanea. L’occupazione non è mai stata intesa come temporanea». Levi avverte che l’annessione sarà un altro passo verso «la costruzione dell’apartheid».

L’eco di questo dibattito arriva a stento nella Valle del Giordano, il primo territorio destinato ad essere incluso in quella che Netanyahu descrive come «l’estensione della sovranità israeliana» sulla biblica Eretz Israel.

«Ci aspettiamo un netto peggiomento della nostra condizione quando sarà realizzata l’annessione» ci dice Rashid Khudiri, attivista dei diritti della popolazione palestinese nella Valle del Giordano «Israele assorbirà il territorio senza garantirci diritti e accesso alle risorse naturali». Con ogni probabilità, prevede, «avremo maggiori difficoltà a spostarci e subiremo un incremento delle demolizioni di case, delle strutture per i nostri animali e delle misure repressive. Il mondo deve intervenire per fermare Trump, il piano americano è contro la legge internazionale».

Lo sceriffo che occupa la Casa Bianca conosce solo la legge del Far West. Nena News




Israele non ha bisogno di “avvertimenti” contro l’annessione, ma di misure conseguenti

Hagai El-Ad

30 aprile 2020 – +972

Mezzo secolo di occupazione è un ampio margine di tempo perché potenti Stati come la Germania imparino che le parole senza i fatti non fanno altro che rafforzare l’impunità di Israele

La scorsa settimana nell’ultima seduta del Consiglio di Sicurezza dell’ONU sulla situazione in Medio Oriente, in seguito alle notizie secondo cui l’accordo di coalizione tra il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il suo rivale Benny Gantz include l’impegno a portare avanti l’annessione della Cisgiordania a partire dal primo luglio, l’ambasciatore tedesco Jürgen Schulz ha rilasciato quello che potrebbe essere frainteso come un forte avvertimento.

Sconsigliamo fermamente un qualunque governo israeliano dall’annettere territori palestinesi occupati,” ha detto l’ambasciatore. “Ciò costituirebbe una chiara violazione delle leggi internazionali e non avrebbe solo gravi ripercussioni negative per la realizzazione della soluzione dei due Stati e dell’intero processo di pace, ma potenzialmente anche per la stabilità regionale e per la posizione di Israele nella comunità internazionale.”

Perché definirla come erroneamente, ma non realmente forte? In breve: perché questo “avvertimento” non è –né lo è mai stato – sostenuto dall’azione. Se “una chiara violazione delle leggi internazionali” non viene contrastata con azioni conseguenti, e se quelli che ne sono responsabili non ne devono mai rispondere, quale impatto hanno tali parole?

Dopo questa vuota esibizione di spavalderia, la Germania ha ripetuto la sua posizione, secondo cui “le attività israeliane di insediamento nei territori palestinesi occupati sono illegali in base alle leggi internazionali.” Eppure queste attività di colonizzazione sono continuate indisturbate per oltre mezzo secolo – un ampio margine di tempo per imparare che i suoi “avvertimenti”, indipendentemente da quanto severamente pronunciati, non hanno alcun potere su Gerusalemme.

Josep Borrell, alto rappresentante e vice presidente dell’Unione Europea, ha riconosciuto questo aspetto quando in febbraio ha scritto che “gli europei devono affrontare il mondo per come è, non per come sperano che sia,” il che a sua volta richiede “reimparare il linguaggio della forza.”

Sicuramente la Germania, uno degli attori politici fondamentali dell’Europa, se lo volesse potrebbe esercitare questa forza. Ma quando si tratta di schierarsi con i diritti dei palestinesi, la Germania si rifiuta di affrontare “il mondo per come è”. Israele sa tutto ciò troppo bene, e quindi può facilmente ignorare l’avvertimento della Germania continuando in modo altrettanto con totale indifferenza ad opprimere un intero popolo.

L’inazione su questo fronte è piuttosto sorprendente, dato che recentemente la Germania ha dimostrato che, se lo decide, può dispiegare il suo considerevole peso. Quando i giudici della camera preliminare della Corte Penale Internazionale hanno invitato le parti a presentare le loro considerazioni sulla giurisdizione della Corte riguardo allo Stato di Palestina, la Germania è stata tra i pochi Paesi che hanno obiettato riguardo alla giurisdizione della CPI.

Nell’argomentazione che ha presentato, la Germania ha affermato formalmente di “rimanere una fervente sostenitrice della lotta contro l’impunità.” Eppure la Germania ha deciso di sostenere che la CPI non abbia “una solida base giurisdizionale” perché lo Stato di Palestina non è “sovrano”. Non importa che questa precondizione non si trovi da nessuna parte nello Statuto di Roma [che ha istituito la CPI, ndtr.], né che la procuratrice generale [della CPI] Fatou Bensouda non abbia sostenuto una cosa simile. I palestinesi, ovviamente, devono ancora ottenere la sovranità proprio perché Israele ha occupato la loro terra. Tuttavia, con il suo non-argomento, la Germania ha continuato ad opporsi a un’inchiesta.

Se fosse stata solo una questione tecnica a bloccare la Germania, avrebbe potuto far valere la sua posizione come membro del Consiglio di Sicurezza dell’ONU almeno per cercare di fare in modo che il Consiglio rinviasse il caso della Palestina alla CPI per concedere quindi la giurisdizione alla Corte.

Certamente un “fervido sostenitore della lotta contro l’impunità” avrebbe fatto pesare la propria forza giuridica per difendere le leggi internazionali. Invece la Germania ha scelto di dire semplicemente, ancora una volta, che le colonie sono illegali, e ha solo espresso a parole, di nuovo, il suo presunto appoggio al fatto che i responsabili vengano chiamati a risponderne.

Di fronte alle infinite violazioni israeliane la Germania ha mantenuto significativamente silenzioso il suo “linguaggio della forza”. Questo linguaggio ha molte articolazioni – la CPI è solo una di esse -, ma la Germania ha deciso di non utilizzarne nessuna, salvo la vuota retorica. Nel frattempo Israele continua a violare le fondamenta del diritto internazionale davanti agli occhi del mondo, compresi quelli della Germania. Sostenere continuamente che qualcosa è sbagliato senza agire per fermarlo non è un “forte avvertimento”, è complicità.

Hagai El-Ad è direttore esecutivo di B’Tselem: Centro di Informazione Israeliano per i Diritti Umani nei Territori Occupati.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)