Manifestazioni dopo le minacce israeliane di distruggere un villaggio palestinese

Redazione di Al Jazeera

23 gennaio 2023 – Al Jazeera

Khan al-Ahmar si trova nella Cisgiordania occupata in un corridoio che Israele progetta di usare per collegare colonie israeliane illegali.

Decine di palestinesi hanno manifestato contro le minacce dei massimi dirigenti politici israeliani di attuare a breve lo spostamento forzato del villaggio beduino palestinese di Khan al-Ahmar, situato alla periferia orientale di Gerusalemme, ove risiedono circa 180 persone.

La protesta si è svolta lunedì dopo che Itamar Ben-Gvir, politico di estrema destra e ministro della Sicurezza Nazionale, ha detto che avrebbe proceduto con la rimozione forzata del villaggio e dopo che sono emersi i piani per una visita alla località dei ministri di estrema destra, inclusi Ben-Gvir e Bezalel Smotrich.

Alla fine vari politici del Likud, il principale partito del parlamento israeliano, si sono riuniti vicino al villaggio per poi andarsene.

Sabato Ben-Gvir ha detto che il governo del primo ministro Benjamin Netanyahu “non adotterà norme giuridiche diverse per ebrei e per arabi” dopo lo sgombero da parte delle forze israeliane di un avamposto illegale ebraico nella Cisgiordania settentrionale occupata.

Comunque i palestinesi hanno precisato che si oppongono al paragone, secondo loro falso, fra Khan al-Ahmar e le colonie israeliane che sono illegali secondo il diritto internazionale.

Eid Jahalin, che si definisce il portavoce del villaggio, alle manifestazioni di lunedì ha detto che “dal 1967 ci sono state ordinanze militari per demolire case, istituire aree militari chiuse e altre che poi queste zone sono state trasformate in colonie illegali e riserve naturali”.

Il nostro destino è di rimanere in questa zona,” sostiene Jahalin. “E non si pensi che si tratti solo di Khan al-Ahmar, ci sono demolizioni nella valle del Giordano, a Masafer Yatta, nella città di Gerusalemme, succede continuamente in tutta la Palestina.”

Il destino di Khan al-Ahmar ha attirato l’attenzione internazionale per la sua pluriennale battaglia legale per la sopravvivenza contro le autorità israeliane.[ cfr. i molti articoli su Zeitun riguardo all’argomento]

Nel settembre 2018, la Corte Suprema Israeliana ha dato il via libera alla rimozione del villaggio, ora in pericolo di essere smantellato in ogni momento, ma da allora i piani di demolizione sono stati sospesi parecchie volte.

Il governo ha fino al primo febbraio per spiegare alla Corte Suprema perché il villaggio non è ancora stato demolito e per presentare un progetto.

Il governo israeliano ha detto che il villaggio è stato “costruito senza permesso”, ma le autorità rendono estremamente difficile ai palestinesi l’ottenimento di permessi di costruzione nella Gerusalemme Est occupata e in quella che è conosciuta come Area C, [sotto il totale ma temporaneo controllo israeliano, N.d.T.] che occupa più del 60% della Cisgiordania occupata. I palestinesi e le organizzazioni per i diritti umani dicono che la politica è parte di una più vasta strategia israeliana per rafforzare e mantenere nella regione una maggioranza demografica ebraica.

Il trasferimento forzato di persone protette in territori occupati è classificata come crimine di guerra ai sensi del diritto internazionale.

Precedentemente Amnesty International ha definito gli sforzi per spostare gli abitanti di Khan al-Ahmar “non solo spietati e discriminatori [ma anche] illegali”.

Nel 2018 Amnesty ha affermato che “il trasferimento forzato della comunità di Khan al-Ahmar costituisce un crimine di guerra”. Israele deve porre termine alla sua politica di distruzione delle abitazioni dei palestinesi e dei loro mezzi di sostentamento per far posto alle colonie.”

Khan al-Ahmar è situato in Cisgiordania, a pochi chilometri da Gerusalemme, e fra le due più grandi colonie illegali israeliane, Maale Adumim e Kfar Adumim.

È situato lungo un corridoio chiave che si estende alla valle del Giordano dove Israele mira a espandere e collegare le colonie, in pratica tagliando in due la Cisgiordania.

Il nostro messaggio principale ai leader palestinesi: … se questo villaggio sarà distrutto, ci sarà una Cisgiordania settentrionale e una Cisgiordania meridionale,” dice Jahalin. “In ciò risiede l’importanza di Khan al-Ahmar.”

Maarouf Rifai, consulente legale della commissione contro il muro e le colonie dell’Autorità Palestinese (AP), ha detto ad Al Jazeera che l’AP non permetterà la demolizione del villaggio.

Questa è terra palestinese. È terra palestinese privata,” ha aggiunto. “Non ci sono altre scuse per il governo israeliano se non lo sviluppo del piano per una ‘Gerusalemme più grande’ e per collegare le colonie intorno Gerusalemme Est e scacciare da questa zona gli arabi palestinesi. Siamo qui per far sentire la nostra voce, per dire che non permetteremo che ciò accada.”

Secondo Amnesty International dall’inizio della sua occupazione della Cisgiordania nel 1967, Israele ha sfrattato forzosamente e sfollato intere comunità e demolito oltre 50.000 abitazioni e strutture palestinesi.

Anche un’altra comunità palestinese, una costellazione di villaggi nota come Masafer Yatta dove vivono oltre 1000 palestinesi vicino a Hebron, nella Cisgiordania meridionale, sta affrontando uno sfratto forzoso imminente da parte del governo israeliano.

L’attivista palestinese Khairy Hanoun, che era presente alla manifestazione a Khan al-Ahmar, dice: “Siamo qui per sfidare la decisione di Ben-Gvir’ e le scelte di tutto questo governo di destra.”

Siamo venuti qui per dir loro: voi demolite i nostri villaggi, le nostre città e le nostre abitazioni, ma non distruggerete la nostra perseveranza,” ha ripetuto ad Al Jazeera.

Usando l’esempio di al-Araqib, un villaggio demolito e ricostruito 211 volte, Hanoun conclude: “Se demolite Khan al-Ahmar, anche se lo demolite 100 volte, noi continueremo a ricostruirlo.”

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Per la legge israeliana ‘ebraicità equivale a proprietà’

Rabea Eghbariah

9 luglio 2021- Mondoweiss

Nell’ambito del progetto coloniale israeliano, quadri giuridici distinti sono estesi a uno spazio giuridico frammentato, ma condividono una chiara logica comune. Questa logica unificante è che all’ebraicità corrisponde il diritto di proprietà e ciò è al centro di questo sistema di dominio del colonialismo di insediamento.

Nel dibattito pubblico su Sheikh Jarrah è la legge ad essere diventata il punto focale della controversia. Contro la tesi palestinese della pulizia etnica, la propaganda israeliana continua a tentare di descrivere l’imminente espulsione dei palestinesi di Sheikh Jarrah come una “disputa immobiliare”, sottolineando che il ricorso è ancora in sospeso presso la Corte Suprema israeliana. Ma le rivendicazioni di terreni e abitazioni, cioè le “dispute immobiliari”, sono il fulcro sia del progetto israeliano di colonizzazione che della resistenza palestinese. I tribunali israeliani, Corte Suprema inclusa, non sono arbitri neutrali, ma al contrario sono protagonisti in un progetto nazionale-coloniale che dispensa valore, sofferenza e risorse in base a criteri etnico-nazionali.

Il ruolo del diritto nel progetto di colonizzazione si capisce esaminando il modo in cui quadri legali distinti, estesi a uno spazio legale frammentato, condividano tuttavia una logica comune. Questa logica condivisa diventa evidente quando si analizzano i ricorsi circa le terre e le sentenze dei tribunali israeliani: le agenzie statali israeliane e i gruppi di coloni ebrei sono trattati a priori come proprietari legittimi, mentre, nel migliore dei casi, i palestinesi non ebrei sono considerati degli inquilini che non hanno diritto alla proprietà, ma occupano la terra solo per concessione delle autorità israeliane. Stando a questa logica, le terre di proprietà statale sono convertite in terre ebraiche, come sancito ulteriormente nel 2018 dall’emendamento costituzionale della legge sullo Stato-Nazione ebraico che afferma che “lo sviluppo della colonizzazione ebraica è un valore nazionale”, ed esige che lo Stato debba agire attivamente in suo favore. Parafrasando la famosa frase di Cheryl Harris [autrice di ‘Whiteness as property’ – Bianchezza come proprietà, 2005, in K. Thomas e G. Zanetti (a c. di); ed. it. Legge, razza e diritti. La Critical Race Theory negli Stati Uniti, Diabasis, Reggio Emilia] io definisco questo modo di pensare “l’ebraicità come proprietà” secondo la legge israeliana. 

L’elaborazione di ebraicità come proprietà secondo il diritto israeliano è centrale per una struttura che può essere definita coloniale: la terra è un prerequisito e una risorsa materiale su cui si regge una società di coloni che prospera a spese degli abitanti autoctoni. Entro questa struttura, il diritto agisce come una tecnologia d’avanguardia: è la legge che consente, facilita e impone l’esproprio continuo ai danni dei palestinesi e la ridistribuzione delle loro risorse a favore degli ebrei israeliani. La combinazione di una distribuzione di terre e proprietà fortemente politicizzata e razzializzata, in presenza di un sistema giuridico che perpetua e facilita questa distribuzione, produce quello che da tempo molti palestinesi chiamano pulizia etnica. Dispute circa le proprietà e la guerra giuridica contro i palestinesi non sono il contrario della pulizia etnica: sono proprio uno dei suoi metodi.

Una cronologia degli sfratti secondo la legge: Umm al-Hiran, Khan al-Ahmar e Sheikh Jarrah

Possiamo rintracciare la logica dell’ebraicità come proprietà per la legge israeliana ripercorrendo tre cause su “dispute immobiliari” che sono microcosmi di tre contesti legali diversi: Umm al-Hiran, Khan al-Ahmar e Sheikh Jarrah (cittadine situate rispettivamente in Israele, Cisgiordania e Gerusalemme Est). A sopraintendere a tutte queste diverse realtà c’è la Corte Suprema israeliana, che è l’unica istituzione che delibera sui ricorsi dei palestinesi provenienti da frammenti territoriali e concettuali diversi. Ognuna di queste cause è soggetta a leggi diverse e gli abitanti sono soggetti a situazioni legali differenti: a Umm al-Hiran ci sono dei cittadini di Israele che teoricamente godrebbero della protezione costituzionale secondo il diritto civile israeliano; gli abitanti di Khan al-Ahmar risiedono in Cisgiordania (Area C), soggetti al controllo diretto dell’esercito israeliano, e quelli di Sheikh Jarrah sono residenti (ma non cittadini) di Israele sottoposti a un status legale distinto che permette, fra altre cose e in certe condizioni, la revoca del loro permesso di residenza. 

Il caso di Umm al-Hiran dimostra come le tutele costituzionali si azzerino e le “terre statali” siano usate per spossessare e rimuovere i palestinesi. Fra gli anni ’50 e gli inizi degli anni ’60 Israele ha sfrattato non solo i palestinesi dalla gran parte delle loro terre, ma ha anche trasformato il 93% dei terreni sotto il suo controllo in proprietà statale. Ha ottenuto ciò rendendo più difficile fornire prove per dimostrarne la proprietà, ricorrendo a espropri di massa e usando altre leggi, inclusa quella sulla Legge Proprietà degli Assenti. In Cisgiordania e a Gaza ha usato in modo simile leggi giordane e ottomane in vigore sino al 1967 e permesso al governatore militare di acquisire il controllo di terre in quanto “terre statali” (principalmente, ma non solo, in quella che è diventata l’Area C dopo gli accordi di Oslo). In flagrante violazione del diritto internazionale, la Corte Suprema di Israele ha più volte consentito l’insediamento di colonie israeliane in questi territori. 

Le terre statali sono in pratica trasformate in terra ebraica, per rendere concreta l’ebraicità in quanto proprietà. Dal 1948 Israele non ha fondato una sola località palestinese per i palestinesi, mentre dagli inizi degli anni ‘90 ha creato più di 900 “località ebraiche” in Israele e quadruplicato il numero di coloni in Cisgiordania. Allo stesso tempo, la continua presenza palestinese sulle terre è stata spesso interpretata come un mero favore concesso dallo Stato di Israele, ma che non può costituire un diritto di proprietà. Umm al-Hiran ne è un classico esempio: nel 1948 gli abitanti sono stati sfrattati e spossessati delle loro terre di Khirbet Zubaleh e insediati dalle autorità israeliane a Umm al-Hiran nel 1956. Nel 2002, il governo israeliano ha deciso di fondare la città di Hiran, provocando un altro spostamento dei palestinesi di Umm al-Hiran. All’inizio lo Stato ha affermato che gli abitanti di Umm al-Hiran erano degli squatter su terre statali, ma in tribunale poi ha ammesso che avevano abitato lì per generazioni con il permesso dello stesso Stato israeliano. 

Eiakim Rubinstein, giudice della Corte Suprema, ha deliberato che “i membri della tribù non hanno acquisito il diritto di proprietà delle terre ai sensi delle nostre leggi sulle proprietà, sebbene (da generazioni) ci risiedano con un permesso”. Apprendiamo che questo permesso potrebbe essere revocato facilmente, ignorando quelle garanzie costituzionali che dovrebbero essere applicate ai cittadini palestinesi in Israele. Dato che le rivendicazioni territoriali dello Stato hanno la prevalenza su quelle dei palestinesi, lo Stato può proseguire con la sua ridistribuzione razzializzata di terra secondo la logica dell’ ‘ebraicità come diritto di proprietà’. Il risultato è che ora Hiran, una cittadina abitata solo da ebrei, sta per essere edificata sui terreni espropriati agli abitanti di Umm al-Hiran. Una legge che permette l’insediamento di tali comunità segregate, basata su un comitato delle ammissioni che decide sull’ “idoneità sociale e culturale”, è stata confermata dalla Corte Suprema israeliana nel 2014.

La causa relativa a Khan al-Ahmar, i cui abitanti palestinesi hanno presentato una petizione alla Corte Suprema chiedendo di impedire la demolizione del loro villaggio, dimostra che in Cisgiordania la Corte fa affidamento su un altro strumento: l’“abuso edilizio”, un’accusa mossa quando i palestinesi non riescono a ottenere dalle autorità israeliane di occupazione le licenze edilizie previste dalla legge. Ma ottenerli è praticamente impossibile. Non si può negare la natura sistemica di questa illegalità: fra il 2016 e il 2018, per esempio, Israele ha respinto oltre il 98% delle richieste di permesso edilizio presentate dai palestinesi nell’Area C. Lo stesso “regime di permessi” è diventato uno strumento per creare illegalità e imporla ai villaggi palestinesi.

Per la Corte, il fatto che le autorità israeliane in Cisgiordania per decenni non abbiano rilasciato nessuna licenza edilizia o stilato dei piani regolatori a Khan al-Ahmar non è stato neppure un fattore deterrente per decidere che l’intero villaggio è illegale, anche se esisteva persino prima dell’occupazione israeliana della Cisgiordania. Secondo loro il problema è sorprendentemente chiaro: “Il punto di partenza di questa decisione sta nel fatto che le costruzioni sul sito di Khan Al-Ahmar, la scuola e le abitazioni, sono illegali”, ecco come inizia la decisione del 2018 della Corte sul caso di Khan al-Ahmar (scritta dal giudice Noam Solberg, lui stesso colono di un insediamento illegale in Cisgiordania). 

Costruita l’illegalità contro le comunità palestinesi, la strada è spianata per la demolizione di edifici, la rimozione degli abitanti palestinesi e la ridistribuzione di terre a favore di coloni israeliani. (Comunque il governo israeliano non ha ancora proceduto all’evacuazione di Khan al-Ahmar a causa della pressione internazionale. Ora le petizioni delle organizzazioni di coloni israeliane chiedono di “applicare la legge” e demolire il villaggio e restano in sospeso presso quella stessa Corte Suprema che ha dichiarato legittimi i piani per rimuoverlo).

A Sheikh Jarrah diventa più importante una concomitanza di dispositivi giuridici: la legge sulla Proprietà degli Assenti e quella su questioni legali e amministrative. Insieme queste leggi permettono a gruppi di coloni ebrei di rivendicare proprietà a Gerusalemme Est presumibilmente appartenute a ebrei prima del 1948, ma negando lo stesso diritto ai palestinesi che possedevano proprietà prima di quella data a Gerusalemme Ovest o altrove. Di nuovo, la presenza continua dei palestinesi su questi terreni con il permesso delle autorità governative (in questo caso, giordane) diventa irrilevante nelle “dispute sulla proprietà” esaminate dai tribunali israeliani. 

Altri tribunali di prima istanza hanno consistentemente respinto i ricorsi dei palestinesi di Sheikh Jarrah e la Corte Suprema dovrebbe deliberare alla fine di quest’anno. Nel frattempo il Procuratore generale ha dichiarato alla Corte che non intende intervenire nel presente procedimento giudiziario e sulle decisioni degli altri tribunali che hanno ordinato lo sfratto forzoso dei palestinesi dalle loro case in favore di gruppi di coloni ebrei. In altre parole il Procuratore Generale ha deciso che lo Stato non ha un ruolo nella disputa e che le “parti civili,” dato che le organizzazioni di coloni israeliani e gli abitanti palestinesi di Sheikh Jarrah stanno semplicemente disputandosi delle proprietà. Questo atteggiamento non solo ignora l’infrastruttura legale discriminatoria che permette tali dispute, ma in effetti chiede anche alla Corte Suprema di deliberare in modo tale da mantenere e validare il sistema legale israeliano che distribuisce la proprietà a ebrei israeliani a discapito dei palestinesi.

Frammentazione legale

Le leggi adottate in ognuno di questi casi sono diverse, così come l’identità dei ricorrenti israeliani (Stato di Israele o organizzazioni di coloni), la procedura (civile o amministrativa), il criterio del riesame, le dottrine legali, l’applicabilità delle protezioni costituzionali israeliane e altro ancora. Ma lo schema è chiaro: la costruzione coerente di leggi formalmente neutrali per spogliare i palestinesi della terra e ridistribuirla a ebrei israeliani. Indipendentemente dal quadro giuridico in gioco, in pratica i palestinesi non riescono a presentare azioni legali per dimostrare la proprietà: sono meramente soggetti ai ricorsi dello Stato e dei coloni.

Mentre i palestinesi sono sottoposti alla frammentazione, agli ebrei israeliani si applica un sistema legale unificato con in gioco protezioni costituzionali indipendentemente dalle suddivisioni concettuali e territoriali.

Ciò diventa ancora più chiaro quando i casi di spossessamento delle terre subiti da palestinesi, come dimostrato brevemente qui sopra, sono confrontati con la decisione del 2005 della Corte Suprema Israeliana sulla legalità dello sgombero degli insediamenti israeliani a Gaza. In quel caso la Corte Suprema deliberò che le disposizioni giuridiche che limitano la possibilità dei coloni israeliani di richiedere un indennizzo erano incostituzionali, dato che costituivano una violazione del diritto costituzionale alla proprietà. La Corte Suprema crea ed estende norme costituzionali ai coloni ebrei in territori internazionalmente riconosciuti come occupati per proteggere l’ebraicità in quanto diritto di proprietà, mentre nega ai palestinesi il diritto alla proprietà e ignora del tutto la costituzione quando si tratta di Umm al-Hiran, Khan al-Ahmar o Sheikh Jarrah. 

Il presupposto unificante dell’ebraicità come proprietà, centrale in un sistema di dominio coloniale, rende coerente al suo interno questo sistema giuridico frammentario. La possibilità di rivendicare l’ebraicità come proprietà è ulteriormente rafforzata dalle leggi sull’immigrazione che permettono a qualsiasi ebreo/a, ovunque nel mondo, di diventare immediatamente un/una cittadino/a israeliano/a e rivendicare diritti di proprietà sotto controllo israeliano. Lo stesso intreccio di leggi su immigrazione e cittadinanza è usato simultaneamente per frammentare ulteriormente i palestinesi, revocando lo status di residente, negando il diritto al ritorno ai rifugiati palestinesi, vietando il ricongiungimento delle famiglie palestinesi e l’ingresso ad altri palestinesi della diaspora. 

Jacob, il colono israeliano-americano in video diventato virale in cui dice alla famiglia El-Kurd di Sheikh Jarrah che “se non ve la rubo io (la casa della famiglia El-Kurd), lo farà qualcun altro,” dimostra chiaramente la logica della legge israeliana. Jacob riconosce che si tratta di un furto, ma in conclusione la legge israeliana lo premia quando rivendica l’ebraicità per ottenere la proprietà. È grazie alle macchinazioni della legge israeliana che il ladro diventa il proprietario.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Non solo a Sheikh Jarrah: i palestinesi rischiano sfratti ovunque

Redazione di MEE

11 maggio 2021- Middle East Eye

Le famiglie palestinesi hanno subito per decenni continue minacce di sfratti in Israele e nei territori occupati

Nelle ultime settimane la situazione nella Città Vecchia di Gerusalemme e dintorni è peggiorata e la repressione attuata dalle forze di sicurezza israeliane contro i manifestanti palestinesi che protestavano a causa degli sfratti è diventata progressivamente sempre più brutale.

Lunedì mattina le forze israeliane hanno ancora una volta fatto irruzione nella moschea di Al-Aqsa sparando proiettili di acciaio ricoperti di gomma e lanciando lacrimogeni all’interno del complesso, ferendo centinaia di palestinesi.

L’escalation di violenza sta avvenendo nel contesto della prevista espulsione di 40 palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah, della Gerusalemme Est occupata.

Sin dall’inizio dell’anno scorso i tribunali israeliani avevano ordinato lo sfratto di 13 famiglie palestinesi del quartiere, basandosi su una deliberazione di un tribunale di prima istanza agli inizi del 2021 a favore di rivendicazioni vecchie di decenni su lotti di terra da parte di coloni israeliani.

Un’udienza della Corte Suprema per un appello palestinese era stata fissata per lunedì, ma il ministero della Giustizia israeliano l’ha rinviata a causa delle crescenti tensioni nelle ultime settimane.

Da quando Israele ha occupato Gerusalemme Est durante la guerra del 1967, le organizzazioni di coloni israeliani hanno rivendicato la proprietà di terre a Sheikh Jarrah e hanno presentato con esito positivo vari ricorsi per sfrattare i palestinesi dal quartiere.

Quattro delle 38 famiglie della zona rischiano lo sfratto imminente, mentre tre saranno probabilmente sfrattate il 1 agosto.

Quelle rimanenti si trovano a stadi diversi nell’iter giudiziario in vari tribunali israeliani in uno scontro frontale con potenti gruppi di coloni israeliani.

Nonostante l’attenzione recentemente sia concentrata su Sheikh Jarrah, molte famiglie palestinesi in Israele, a Gerusalemme Est e nella Cisgiordania occupata devono affrontare l’imminente pericolo di espulsione, il che evidenzia l’annoso schema di trasferimenti forzati ed espropriazioni di palestinesi da parte di Israele.

Qui di seguito elenchiamo varie zone dove i palestinesi stanno lottando per rimanere.

Silwan

Come a Sheikh Jarrah, i coloni israeliani hanno avanzato rivendicazioni simili per ottenere la proprietà di terre di palestinesi situate vicino alla Città Vecchia di Gerusalemme.

Israele ha una strategia di insediamenti detta “Bacino Sacro”, che prevede unità abitative per i coloni e una sfilza di parchi intitolati a località e personaggi della Bibbia nei dintorni della Città Vecchia di Gerusalemme. Il piano richiede la rimozione degli abitanti palestinesi dal quartiere di Silwan.

A novembre un tribunale israeliano ha ratificato lo sfratto di 87 palestinesi dalla zona di Batan al-Hawa a Silwan, a sud della moschea di al-Aqsa, a favore del gruppo di coloni israeliani di Ateret Cohanim.

Questo gruppo, che mira a espandere la presenza di coloni nei quartieri a maggioranza palestinese di Gerusalemme Est, intorno e all’interno della Città vecchia, ha fatto causa agli abitanti di Batan al-Hawa, sostenendo che, durante il periodo ottomano e fino al 1938, quando le autorità del mandato britannico le spostarono a causa di tensioni politiche, quei terreni erano di proprietà di ebrei yemeniti.

Anche gli abitanti di Wadi al-Rababa, un’altra zona che ospita circa 800 palestinesi gerosolimitani, sono da tempo in guerra con i bulldozer israeliani. A gennaio alcuni abitanti hanno riferito a Middle East Eye che soprusi e tentativi di demolizione da parte delle autorità israeliane sono aumentati durante la pandemia da Covid-19.

L’avanzata dei coloni israeliani a Silwan è cominciata nel 2004, quando furono fondati due avamposti di coloni. Il numero di avamposti era arrivato a sei nel 2014, da appartamenti isolati a interi caseggiati.

Le autorità israeliane hanno annunciato a novembre un piano di scavi per la costruzione di una funivia sopra Silwan. Il controverso progetto altererebbe drasticamente il paesaggio della storica Città Vecchia ed espanderebbe la presenza israeliana nella zona, facilitando l’accesso dei turisti al Muro Occidentale a spese dei negozianti palestinesi della Città Vecchia

Sin dal 1995, l’Autorità israeliana per le antichità scava dei siti a Silwan con il sostegno della fondazione dei coloni “Ir David”, ufficialmente per creare una nuova attrazione turistica e trovare testimonianze dell’esistenza della “Città di Davide” risalente a tremila anni fa.

Il completamento del progetto della “Città di Davide” che include un “viale” in stile romano costruito sulle strade che per generazioni sono state dei palestinesi, consoliderebbe la posizione illegale dei 450 coloni  che attualmente vivono a Silwan e marginalizzerebbe i 10.000 abitanti palestinesi del quartiere.

Giaffa

Altrove, a Giaffa, nella zona costiera a sud di Tel Aviv, Middle East Eye ha riportato ad aprile che Amidar, un’impresa immobiliare israeliana statale, sta progettando di espellere gli abitanti palestinesi dalle proprie proprietà per venderne alcune a Eliyahu Mali, il capo di una sinagoga militante a Giaffa che sta cercando di impadronirsene per trasformarle in una sinagoga.

Decine di cittadini palestinesi di Israele, che costituiscono il 20% della popolazione del Paese, sono stati attaccati lo stesso mese dalla polizia israeliana e dai seguaci di Mali.

Mali è a capo di “Settling in the Hearts“, [insediarsi nei cuori], un progetto di espansione di colonie israeliane che preme per stabilire avamposti nel cuore di città a maggioranza palestinese e nei quartieri della Gerusalemme Est occupata, in Cisgiordania e in Israele, come al-Ajami.

In aprile Mahmoud Abed, giornalista e attivista di Giaffa, ha detto a MEE che nella zona si stava attuando da parte delle autorità israeliane “un trasferimento silenzioso” di famiglie palestinesi risultante in “una mancanza di sicurezza personale e di una vita dignitosa” per i palestinesi.

Il 70% dei palestinesi che abitano a Giaffa vive in proprietà di cui Israele si è impadronito nel 1948 tramite società statali, come Amidar. Queste imprese possiedono un terzo della proprietà mentre gli abitanti ne possiedono i due terzi,” ha detto Abed.

In anni recenti Israele ha messo all’asta proprietà a Giaffa e chiesto agli abitanti palestinesi di fare delle offerte in concorrenza con ricchi investitori israeliani sulla quota di un terzo detenuta dalle società statali israeliane.

Nessuno può mettere insieme un milione e mezzo di dollari in 60 giorni per restituirli alle compagnie. Quasi 40 famiglie palestinesi se ne sono andate da Giaffa perché non possono comprare o affittare una casa nella zona,” ha detto Abed a MEE.

Umm al-Fahm

Anche Umm al-Fahm, una cittadina nella regione di Wadi Ara vicino ad Haifa, nel nord di Israele, dove recentemente i manifestanti hanno dimostrato contro la violenza e l’inerzia della polizia israeliana [nei confronti della delinquenza locale, ndtr.], ha visto tentativi di sfratto e demolizioni.

I cittadini palestinesi di Israele protestano da tempo che le proprie città e paesi sono poco serviti dalle autorità israeliane, mentre i permessi di costruzione per fornire alloggi per le comunità in espansione sono difficili da ottenere.

Secondo Arab48 [sito di notizie in arabo, ndtr.] la famiglia Eghbarieh, per esempio, da oltre dieci anni è bloccata da dispute con le autorità israeliane riguardo alla demolizione della loro casa. La famiglia ha recentemente presentato ricorso contro lo sfratto.

Secondo Bldtna, sito web palestinese di notizie che ha riferito di parecchie attività commerciali e case nella zona di Wadi Ara a cui recentemente sono state presentate ingiunzioni di demolizione e sfratto perché non avevano un permesso edilizio, lo scorso agosto bulldozer israeliani hanno demolito un edificio in costruzione a causa di una presunta mancanza di licenza edilizia.

Molti palestinesi hanno dovuto demolire loro stessi le proprie case e attività, di fronte all’alternativa fra il farlo loro stessi o pagare le demolizioni attuate dalle autorità israeliane.

Khan al-Ahmar

Prima di Sheikh Jarrah nel 2021, il destino di Khan al-Ahmar aveva attirato l’attenzione mondiale nel 2018.

Il villaggio si trova in Cisgiordania, fra Gerusalemme Est e le colonie illegali israeliane di Maale Adumim e Kfar Adumim.

Nel settembre del 2018, nonostante richieste di Paesi europei, organizzazioni per i diritti umani e attivisti affinché Israele bloccasse il progetto, la Corte Suprema israeliana ha approvato la demolizione di Khan al-Ahmar.

I piani per demolire Khan al-Ahmar fanno parte del cosiddetto piano E1, che prevede la costruzione di centinaia di unità abitative per collegare Kfar Adumim e Maale Adumim con Gerusalemme Est, nell’Area C della Cisgiordania controllata da Israele.

Se implementato completamente, il piano E1 di fatto dividerebbe a metà la Cisgiordania, separando Gerusalemme Est dalla Cisgiordania e costringendo i palestinesi a fare una deviazione ancora più lunga per andare da un posto all’altro, mentre le colonie illegali potrebbero continuare ad espandersi.

Nel 2018, causa della pressione internazionale, Israele ha sospeso i piani di demolire Khan al-Ahmar, ma a marzo il quotidiano israeliano Yedioth Athronoth ha rivelato che i funzionari stavano di nuovo pianificando di sfrattare i palestinesi dal villaggio.

Gli abitanti di Khan al-Ahmar appartengono alla tribù degli Jahalin, un gruppo di beduini espulso dal deserto di Naqab, anche detto Negev, durante la guerra arabo-israeliana del 1948. Gli Jahalin si sono poi stabiliti sulle pendici orientali di Gerusalemme.

La comunità di Khan al-Ahmar comprende circa 35 famiglie, le cui abitazioni e scuole di fortuna, fatte di ondulato e legno, sono state demolite parecchie volte in anni recenti dall’esercito israeliano.

Legislazione delle colonie

Dall’annessione di Gerusalemme Est nel 1967, Israele ha usato due leggi principali per sfrattare i palestinesi dalle loro case.

La Legge sulla Proprietà degli Assenti del 1950 classifica i palestinesi che sono stati espulsi o che hanno lasciato il Paese dopo il novembre 1947 come “assenti” mette le loro proprietà sotto il controllo dello Stato israeliano.

La Legge e Ordinanza Amministrativa del 1970 permette il trasferimento di proprietà perdute a Gerusalemme Est nel 1948 solo agli ebrei.

I palestinesi non possono rivendicare diritti su beni posseduti prima del 1948.

La politica israeliana di insediare i propri civili nei territori palestinesi occupati e cacciando la popolazione locale viola norme fondamentali della legislazione umanitaria internazionale,” ha rilevato Amnesty International, citando le Convenzioni dell’Aia e la Quarta Convenzione di Ginevra.

L’ong aggiunge che “stabilire insediamenti comporta atti importanti”, compresa l’ingiustificata “massiccia distruzione e appropriazione di proprietà” e “trasferimento… da parte della potenza occupante di parti della propria popolazione civile nei territori che occupa, o la deportazione o il trasferimento di tutta o parte della popolazione del territorio occupato all’interno o all’esterno di questo territorio” costituisce crimini di guerra secondo lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale.

Amnesty ha anche criticato quello che chiama “urbanistica e sistema di zone discriminatori” da parte di Israele.

Nel frattempo, dagli Accordi di Oslo del 1993 la Cisgiordania è stata divisa in Aree A, B e C, con la maggior parte della popolazione palestinese nelle Aree A e B. L’Area C, che rappresenta il 60% della Cisgiordania, è sotto totale controllo militare israeliano, con comunità palestinesi più piccole che nella zona vengono regolarmente minacciate di demolizioni delle proprie case, mentre le colonie israeliane nelle vicinanze prosperano.

Nell’Area C, dove si trova la maggior parte della costruzione delle colonie, Israele ha allocato il 70% della terra alle colonie e solo l’1% ai palestinesi,” secondo Amnesty, mentre a Gerusalemme Est, “Israele ha espropriato il 35% della città per la costruzione di colonie, permettendo ai palestinesi di costruire su solo il 13% della terra.”

Mentre continua la lotta per Sheikh Jarrah nei tribunali e nelle strade, il fato di altre comunità palestinesi mostra che il problema non comincia né finisce con questo quartiere di Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Una settimana prima delle elezioni Netanyahu autorizza nuove unità abitative delle colonie nella E1

Yumna Patel

26 febbraio 2020 – Mondoweiss

Solo una settimana prima delle elezioni il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato l’autorizzazione a 3.500 nuove abitazioni illegali per i coloni nella contestatissima zona “E1”, nella parte centrale della Cisgiordania occupata.

Ho dato istruzioni di rendere immediatamente pubblica la presentazione del piano per la costruzione di 3.500 unità abitative nella E-1,” ha detto martedì Netanyahu in un discorso, aggiungendo che i progetti “sono stati ritardati per sei o sette anni.”

I piani di Israele per il corridoio E1, a cui si sta lavorando dal 1995, sono stati considerevolmente ritardati a causa delle pressioni da parte della comunità internazionale, comprese l’UE e l’ex-amministrazione USA.

Il progetto per la E1 intende creare un blocco di colonie che unisca il grande insediamento di Ma’ale Adumim a Gerusalemme, tagliando di fatto la Cisgiordania in due, separando il nord dal sud.

Le conseguenze del piano sono apparse evidenti negli ultimi anni attraverso la lotta per salvare dall’espulsione forzata la comunità beduina di Khan al-Ahmar, che si trova proprio in mezzo al corridoio E1.

La comunità sarebbe una delle decine di enclave beduine del corridoio che, se i progetti venissero portati a termine, verrebbero espulse a forza dalle proprie case.

L’annuncio è arrivato appena una settimana prima che gli israeliani si rechino ai seggi per la terza volta in un anno per eleggere il primo ministro, dopo due falliti tentativi da parte di Netanyahu e del suo rivale Benny Gantz di formare una coalizione di governo.

Nelle ultime due elezioni il governo di destra di Netanyahu si è basato sull’appoggio dei coloni e ha utilizzato promesse politiche simili per garantirsi il loro sostegno.

Nel primo turno delle elezioni nell’aprile dello scorso anno egli si impegnò ad annettere centinaia di colonie nella Cisgiordania occupata e prima delle elezioni di settembre è andato oltre quella promessa giurando che avrebbe esteso la sovranità israeliana alla valle del Giordano, che comprende un terzo di tutta la Cisgiordania.

I leader palestinesi hanno duramente attaccato Netanyahu per il suo annuncio e hanno chiesto agli Stati membri dell’UE di intervenire e di impedire l’attività edilizia israeliana nella zona.

Criticando il piano come un “progetto colonialista”, il capo negoziatore dell’OLP Saeb Erekat ha emanato un comunicato di condanna degli USA per il loro consenso perché Israele vada avanti con tali piani.

In accordo con i progetti concordati tra le delegazioni di USA e Israele, – ha detto Erekat – Israele ora continua a imporre sul terreno nuovi fatti illegali che violano sistematicamente le leggi internazionali e i diritti umani, annullano i diritti inalienabili del popolo palestinese, e minacciano la stessa pace e sicurezza dell’intera regione”.

Ora è chiaro alla comunità internazionale che questo quadro di annessione intende solo seppellire le prospettive di una soluzione negoziata,” ha continuato, chiedendo che la comunità internazionale imponga sanzioni contro Israele per le sue violazioni delle leggi internazionali nei territori occupati.

L’associazione [israeliana] di monitoraggio delle colonie Peace Now ha criticato duramente la decisione, affermando che “costruire nella E1 interromperebbe questa continuità territoriale, silurando la possibilità di uno Stato palestinese praticabile nel caso in cui Israele continui a conservare per sé la terra.”

L’organizzazione ha affermato: “Israele sta ufficialmente scegliendo di rischiare un conflitto permanente invece di risolverlo. Non è niente di meno di un disastro nazionale che deve essere fermato prima che sia troppo tardi.”

Yumna Patel è la corrispondente dalla Palestina per Mondoweiss.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Per Angela Merkel, «Israele uber alles !»

Iqbal Jassat

19 febbraio 2020Palestine Chronicle

Poco tempo dopo la sua visita in Sudafrica, il governo della Cancelliera tedesca Angela Merkel ha fatto un nuovo annuncio scioccante difendendo l’insieme delle azioni criminali di Israele e le sue gravi violazioni dei diritti umani.

La Germania ha preso la decisione vergognosa di minare il diritto internazionale contestando la competenza dell’Aja, affermando che la Corte Penale Internazionale (CPI) non ha il potere di indagare sui crimini di guerra di Israele contro i palestinesi.

In un’istanza depositata presso la CPI il governo Merkel ha chiesto di essere considerato « amicus curiae » (collaboratore non coinvolto nella causa giudiziaria) per impedire all’Aja di perseguire il regime di Netanyahu.

Dopo lunghi periodi di rinvii, a dicembre la procuratrice della CPI Fatou Bensouda ha finalmente annunciato che sussistono ragionevoli presupposti per indagare sulle azioni di Israele.

Ha tuttavia lasciato aperta una voragine che viene sfruttata da Israele e dai suoi alleati come la Germania. Bensouda ha chiesto all’Aja di pronunciarsi sulla questione della sua competenza, cosa che potrebbe inficiare e compromettere ogni possibilità di perseguire e punire i criminali di guerra del regime colonialista.

E questo nonostante che l’Ufficio della Procura abbia insistito sul fatto che Israele ha distrutto proprietà palestinesi, espulso con la forza palestinesi dalla Cisgiordania occupata e da Gerusalemme est. Bensouda ha anche incluso nel suo atto d’accusa crimini di guerra commessi nella Striscia di Gaza occupata durante l’operazione ‘Margine protettivo’ del 2014, oltre all’operazione israeliana di espulsione degli abitanti palestinesi del villaggio beduino di Khan al-Ahmar e alla costruzione di colonie in Cisgiordania.

La decisione poco accorta di Merkel di prendere le parti di Israele rafforza l’attacco di Netanyahu contro la CPI. In una recente intervista rilasciata ad una catena televisiva cristiana, il dirigente israeliano, che è stato incriminato per frode e corruzione [in Israele], ha falsamente affermato che la CPI sta conducendo un “attacco frontale” contro gli ebrei ed ha sfacciatamente invocato sanzioni contro l’Aja.

L’argomentazione della Germania nella sua istanza sembra un «copia e incolla» delle dichiarazioni di Israele, che sostiene che la competenza della CPI non si estende ai territori palestinesi occupati perché la Palestina non è uno Stato. Incredibilmente, in questo modo la Germania ignora il fatto che la Palestina è firmataria dello Statuto di Roma della CPI.

Non solo è disonesto da parte tedesca non rispettare i diritti della Palestina, ma, tentando di indurre in errore la CPI, il governo Merkel legittima settant’anni di disumanizzazione dei palestinesi da parte di Israele.

Mentre la vergognosa collusione di Merkel con Netanyahu da alcuni può essere vista come un colpo di fortuna per lui in un momento in cui rischia il carcere, per i palestinesi è chiaro che la Germania ha tradito la loro giusta e legittima causa per la giustizia. Come possono le famiglie dei martiri interpretare in altro modo l’istanza scioccante e ingiusta di Merkel, che sostiene che la CPI non ha nemmeno il potere di discutere se Israele ha commesso dei crimini di guerra?

Essendo la Germania uno dei principali membri del Tribunale dell’Aja, ha l’ingiustificato vantaggio di poter influenzare un risultato che nuocerà alle rivendicazioni di giustizia dei palestinesi. La decisione così spudorata di Merkel di schierarsi al fianco di Netanyahu è quindi un abuso di potere a causa della sua posizione privilegiata al momento delle udienze.

Gli ultimi rapporti indicano che, oltre alla Germania, Israele è attivamente impegnato nel reclutamento di diversi Paesi che appoggino la sua causa in quanto “rappresentanti non ufficiali”, poiché esso stesso ha deciso di non partecipare in modo da “evitare di dare legittimità” alla CPI.

L’Ungheria e la Repubblica Ceca, come anche l’Austria, l’Australia e il Canada si sono uniti per sostenere l’impunità di Israele.

Benché la Procuratrice Bensouda ritenga che la Palestina sia «sufficientemente uno Stato » perché all’Aja venga trasferita la giurisdizione penale sul suo territorio, la sua richiesta di verifica di questo punto di vista può far fallire l’inchiesta, essendoci una battaglia giuridica riguardo alla definizione di ciò che costituisca uno “Stato”. 

L’attacco contro la CPI – con gli appelli di Netanyahu a sottoscriverlo – arriva proprio dopo la pubblicazione da parte dell’ONU di un elenco di 112 imprese legate alle colonie illegali di Israele. E, nello stesso spirito contrario all’etica, il regime di apartheid ha attaccato il commissario delle Nazioni Unite definendolo partigiano e strumento del movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni).

Schierarsi dalla parte di Netanyahu per mascherare i suoi terribili crimini contro i palestinesi può consentire alla Merkel di evitare la collera di Israele, ma questo pone la Germania dalla parte sbagliata della storia – ancora una volta !

Anche se appare incongruo che la Germania ed una manciata di Paesi vogliano impedire l’esercizio della giustizia da parte dell’Aja – cosa che peraltro si sforzano di fare – è vero che, per quanto riguarda i palestinesi, il fatto di schierarsi a fianco di Israele permette a questo Stato delinquente di continuare a commettere crimini di guerra e violazioni del diritto umanitario internazionale.

Alcuni commentatori hanno sostenuto a giusto titolo che questa assurda difesa della sistematica condotta criminale di Israele possa rappresentare un colpo mortale per la CPI.

Il timore che viene espresso è che l’azione della Cancelliera Merkel sia miope, creando un buco nero legale nei territori palestinesi occupati che potrebbe comportare la distruzione di una CPI già fortemente screditata.

Israele spera che, distorcendo i fatti e sviando gli obbiettivi della CPI, ne uscirà indenne. Le sue speranze poggiano sulla Cancelliera Merkel in quanto principale dirigente europeo che può distogliere l’Aja dalle sue responsabilità impegnandola in una battaglia giuridica semantica priva di senso, come è la questione della “giurisdizione”, e contestando la ratifica da parte della Palestina dello Statuto di Roma.

Mentre i giuristi internazionali saranno impegnati (si fa per dire) nella discussione sui concetti giuridici, spetta a Paesi come il Sudafrica alzare la voce contro i diversivi giuridici.

Il silenzio a fronte di questo ostacolo giuridico inventato di sana pianta sarà interpretato come una rinuncia a far rispettare e a difendere i diritti umani dei palestinesi.

Iqbal Jassat è membro esecutivo di Media Rewiew Network, con sede in Sudafrica.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




I tribunali israeliani possono garantire la giustizia ai palestinesi?

Ben White

17 luglio 2019 – Al Jazeera

Critiche mettono in dubbio il ricorso alla Corte Suprema dopo che essa ha consentito la demolizione di edifici sotto controllo palestinese

La demolizione di edifici di proprietà di palestinesi da parte delle forze israeliane nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est è un avvenimento frequente.

Ma a Sur Baher, un quartiere sudorientale di Gerusalemme, incombe una demolizione di massa senza precedenti, con l’approvazione della Corte Suprema israeliana.

Dieci edifici abitati o in via di costruzione, che contano decine di appartamenti, sono stati segnati per essere distrutti, dopo aver contravvenuto a un ordine militare israeliano del 2011 che proibisce la costruzione all’interno di una zona cuscinetto di 100-300 metri dal muro di separazione.

Mentre la maggior parte di Sur Baher si trova all’interno dei confini municipali della Gerusalemme est unilateralmente annessa da Israele, parte della terra della comunità è in Cisgiordania – terreno che tuttavia è finito sul lato “israeliano” del muro condannato internazionalmente che è stato dichiarato illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia.

Lo scorso mese la Corte Suprema israeliana ha dato il permesso di demolizione a Sur Baher, benché gli edifici in questione siano stati costruiti su terreni destinati al controllo civile dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), da cui sono stati regolarmente ottenuti permessi edilizi.

Le autorità israeliane hanno fissato la scadenza per giovedì 18 luglio.

La documentazione parla chiaro”

La decisione della Corte Suprema non corrisponde alla sua fama internazionale come difensore di diritti umani. In effetti la Corte è stata a lungo una maledizione per parte della destra israeliana, che si è lamentata di una presunta tendenza progressista e di un’interferenza giudiziaria con le leggi.

Ma Hagai El-Ad, direttore esecutivo dell’Ong [israeliana, ndtr.] per i diritti umani “B’Tselem”, dice ad Al Jazeera che per “avere una visione adeguata riguardo alla Corte Suprema, è necessario esaminare quello che ha fatto finora.

E questi dati parlano chiaro, dimostrano in modo inequivocabile come la Corte abbia costantemente respinto i ricorsi presentati dai palestinesi, mentre ha fornito il beneplacito legale a sistematiche violazioni dei diritti umani, compresi trasferimenti forzati, punizioni collettive, impunità generalizzata per le forze di sicurezza israeliane e tortura,” aggiunge.

Sawsan Zaher, vice direttrice esecutiva del centro per i diritti giuridici “Adalah”, con sede ad Haifa, è d’accordo. “Se si guarda alla Corte Suprema riguardo ai territori palestinesi occupati, nella grande maggioranza dei casi essa ha respinto ricorsi che contestavano violazioni delle leggi umanitarie internazionali, indipendentemente dal fatto che i giudici fossero conservatori o più “progressisti”, dice ad Al Jazeera.

Secondo Zaher l’approccio della Corte alle petizioni presentate da cittadini palestinesi è differenziato. “Alcune sono accolte, in genere quelle riguardanti i classici casi di discriminazione, come quelli riguardanti la destinazione dei fondi,” dice Zaher.

Ma aggiunge che la Corte usa “ogni genere di scusa e di interpretazione per giustificare il rigetto” quando si tratta di “casi che sono al centro del conflitto nazionale tra lo Stato e i cittadini palestinesi come minoranza” e dell’“esistenza di Israele come ‘Stato ebraico’”, comprese le questioni relative a “terra e demografia”.

Pianificazione discriminatoria

Ma è l’intervento – o il mancato intervento – della Corte sul sistema discriminatorio di pianificazione di Israele e sulle conseguenti demolizioni di case palestinesi che recentemente forse è stato più sotto i riflettori, anche nei casi particolarmente gravi in attesa di espulsione forzata, come nel caso del villaggio di Khan al-Ahmar.

In aprile i giudici hanno respinto un ricorso sulla demolizione di case palestinesi costruite senza permesso, chiarendo che non avrebbero discusso il sistema di pianificazione in cui tali demolizioni avvengono – ma solo se le strutture erano state costruite “legalmente” o meno.

In un rapporto di quest’anno sulla “responsabilità” della Corte Suprema per la “spoliazione dei palestinesi”, B’Tselem ha affermato che, per quanto a sua conoscenza, “non c’è stato neppure un singolo caso in cui i giudici abbiano accolto un ricorso presentato dai palestinesi contro la demolizione delle loro case.”

Per Dalia Qumsieh, un’esperta consulente giuridica dell’Ong per i diritti dei palestinesi “Al-Haq”, il caso di Sur Baher “dimostra uno schema costante della Corte (Suprema) che si rifiuta di prendere le distanze dai progetti del governo e accoglie persino ogni sua richiesta: “In generale la Corte non mette in discussione la legalità di politiche o misure in sé,” dice ad Al Jazeera. “Al contrario, si concentra su dettagli tecnico-legali che riguardano la messa in pratica di tali politiche.

Il massimo risultato che si può ottenere essendo palestinese con una causa nel sistema israeliano non può andare oltre le tutele minime, ora ancora più difficili da ottenere,” aggiunge.

Altri dicono che persino quelle “tutele minime” sono minacciate.

“La composizione della Corte Suprema è cambiata,” afferma Zaher, indicando le nomine giudiziarie del 2017 fatte dall’allora ministra della Giustizia Ayelet Shaked [esponente del partito di estrema destra dei coloni, ndtr.].

“Oggi la critica dei conservatori alla Corte è cambiata: invece di accuse riguardo a un approccio “progressista” verso le richieste della minoranza araba, la destra sta criticando persino la facoltà della Corte di discutere della costituzionalità delle leggi,” aggiunge Zaher, descrivendo come negativa la parabola della Corte.

Complicità nel rafforzamento

Secondo Qumsieh, mentre la Corte “non è mai stata un vero luogo in cui è stata fatta giustizia per i palestinesi,” gli ultimi anni hanno visto “gravi sviluppi riguardanti il lavoro della Corte”, e in particolare lo “legame sempre più stretto” tra essa e il governo israeliano.

“Questo legame è passato dal fare pressione sui ricorrenti palestinesi perché accettino i progetti dell’esercito israeliano a dettare effettivamente al governo quello che deve fare per legalizzare politiche illegali,” aggiunge, citando il caso della revoca della residenza a Gerusalemme a politici affiliati ad Hamas. Per qualcuno, come El-Ad di B’Tselem, la situazione dell’attività giurisprudenziale della Corte significa che “la domanda è: per quale fine realistico si avvia una causa davanti ad essa?”

Per avvocati e gruppi per i diritti umani, palestinesi e israeliani, il vantaggio di impegnarsi in un giudizio con la Corte Suprema rimane una questione aperta.

“La Corte non ha mai sinceramente messo in discussione nessuna delle principali politiche che tengono in piedi l’occupazione,” afferma Qumsieh, “fino a diventarne un pilastro.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Falsa giustizia: le responsabilità dell’Alta Corte israeliana per la demolizione di case di palestinesi e la loro spoliazione

B’Tselem

Pubblicazione , Sintesi, febbraio 2019

All’inizio del settembre 2018, dopo anni di azioni legali, i giudici dell’Alta Corte di Giustizia israeliana (ACG) hanno deciso che non sussistevano ostacoli giuridici per la demolizione degli edifici nella comunità di Khan al-Ahmar – situata a circa 2 chilometri a sud della colonia di Kfar Adumim – in quanto le costruzioni del centro abitato erano “fuorilegge”.

La decisione della sentenza, secondo cui la distruzione della comunità non è altro che una questione di “applicazione della legge”, riflette fedelmente il modo in cui Israele ha elaborato per anni la sua politica riguardo alle costruzioni dei palestinesi in Cisgiordania. A livello di dichiarazioni formali, le autorità israeliane considerano la demolizione di case palestinesi in Cisgiordania come una semplice questione di abusi edilizi, come se Israele non avesse obiettivi a lungo termine in Cisgiordania e se la materia non avesse implicazioni di vasta portata per i diritti umani di centinaia di migliaia di individui, compresa la loro possibilità di sopravvivere, guadagnarsi da vivere e gestire la propria vita quotidiana.

La Corte Suprema ha totalmente accolto questo punto di vista. In centinaia di sentenze e decisioni stilate nel corso degli anni sulla demolizione di abitazioni palestinesi in Cisgiordania i giudici hanno considerato la politica urbanistica israeliana come legale e legittima, concentrandosi quasi sempre solo sulla questione tecnica se i ricorrenti avessero permessi edilizi. Di volta in volta i giudici hanno ignorato l’intenzione sottintesa nelle politiche israeliane e il fatto che, in pratica, queste politiche impongono un divieto generalizzato di costruzione per i palestinesi. Hanno anche ignorato le conseguenze di queste politiche per i palestinesi: condizioni di vita più dure – a volte decisamente terribili – per il fatto di essere obbligati a costruire case senza permessi, e l’assoluta incertezza riguardo al futuro.

A. Politica di pianificazione in Cisgiordania

L’apparato che si occupa di pianificazione istituito da Israele in Cisgiordania è al servizio della sua politica di promozione ed espansione dell’appropriazione israeliana della terra in tutta la Cisgiordania. Quando si tratta della pianificazione per i palestinesi, l’Amministrazione Civile [il governo militare israeliano nei territori palestinesi occupati, ndtr.] cerca di ostacolare l’ampliamento, riducendo al minimo la dimensione delle comunità e incentivando la densità delle costruzioni, con lo scopo di impadronirsi di quanto più terreno possibile a beneficio degli interessi israeliani, soprattutto per l’espansione delle colonie. Ma quando pianifica per le colonie, la cui stessa fondazione è in primo luogo illegale, l’Amministrazione Civile agisce esattamente al contrario: la pianificazione riflette le necessità attuali e future delle colonie, e mira ad includere quanta più terra possibile nel piano generale in modo da impossessarsi di quante più risorse della terra possibili. Questa pianificazione porta a uno sviluppo dispendioso di infrastrutture, alla perdita di zone rurali naturali e alla rinuncia di spazi aperti.

Israele ottiene questi risultati con vari mezzi. Primo, proibisce ai palestinesi di costruire su circa il 60% dell’Area C [in base agli accordi di Oslo, sotto totale ma temporaneo controllo israeliano, ndtr.], che equivale a circa il 36% di tutta la Cisgiordania. Lo fa applicando una serie di definizioni giuridiche per vaste aree (con classificazioni che ogni tanto si sovrappongono): “terre dello Stato” (circa il 35% dell’Area C), “zone per l’addestramento militare” (circa il 30% dell’Area C), o “competenza delle colonie” (circa il 16% dell’Area C). Queste classificazioni sono utilizzate per ridurre in modo significativo l’area a disposizione per lo sviluppo dei palestinesi.

Secondo, Israele ha modificato la legge giordana di pianificazione che si applica alla Cisgiordania, sostituendo molte delle sue disposizioni con quelle di un’ordinanza militare che trasferisce ogni potere di pianificazione in Cisgiordania al Consiglio Supremo dell’Amministrazione Civile ed elimina la rappresentanza palestinese nelle commissioni urbanistiche. Di conseguenza, l’Amministrazione Civile è diventata l’unica ed esclusiva autorità per la pianificazione e lo sviluppo in Cisgiordania, sia per le comunità palestinesi che per le colonie.

Terzo, Israele sfrutta il proprio potere esclusivo sul sistema di pianificazione allo scopo di impedire di fatto ogni sviluppo dei palestinesi e incrementare la densità abitativa persino sul rimanente 40% della terra, in cui non vieta a priori la costruzione da parte dei palestinesi. Nell’ottobre 2018, durante un incontro alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.], il capo dell’Amministrazione Civile ha detto che, in conformità con le istruzioni di funzionari del governo, attualmente non c’è nessun piano regolatore per i palestinesi.

Tuttavia, per mantenere la parvenza di un sistema di pianificazione che funzioni correttamente, lo Stato sostiene che i piani regolatori per le comunità palestinesi devono rispettare gli schemi stilati dalle autorità del Mandato britannico negli anni ’40 – che definivano la suddivisione in zone per l’uso dei terreni per l’intera Cisgiordania – anche se questi piani sono ad anni luce di distanza dalle attuali necessità della popolazione. Indubbiamente l’Amministrazione Civile ha stilato centinaia di piani schematici speciali per le comunità palestinesi. Ma, mentre l’obiettivo dichiarato era di sostituire i piani del periodo del Mandato, anche quelli nuovi sono stati concepiti per ridurre l’edificazione. Non sono altro che piani di delimitazione, che sostanzialmente tracciano una linea attorno al perimetro delle zone edificate dei villaggi sulla base di fotografie aeree.

I dati illustrano chiaramente i risultati di questa politica:

  • Richieste per ottenere permessi edilizi: secondo i dati dell’Amministrazione Civile, dal gennaio 2000 a metà del 2016 i palestinesi hanno presentato 5.475 richieste per avere una concessione edilizia. Solo 226 (circa il 4%) sono state accolte.

  • Ordini di demolizione: nel corso degli anni, l’Amministrazione Civile ha emesso migliaia di ordini di demolizione per strutture palestinesi. Secondo i dati dell’Amministrazione Civile, dal 1988 al 2017 sono stati emanati 16.796 ordini di demolizione; 3.483 (circa il 20%) sono stati messi in atto e 3.081 (circa il 18%) sono ancora oggetto di procedimenti giudiziari. Fino al 1995 l’Amministrazione Civile ha emesso meno di 100 ordini di demolizione all’anno. Tuttavia, dal 1995 – l’anno in cui è stato firmato l’accordo ad interim [degli accordi di Oslo, ndtr.] – il loro numero è costantemente aumentato. Dal 2009 al 2016 l’Amministrazione Civile ha emesso annualmente una media di 1.000 ordini di demolizione.

  • Demolizioni: secondo i dati di B’Tselem, dal 2006 (l’anno in cui B’Tselem ha iniziato a registrare la demolizione di case) fino al 2018, Israele ha demolito almeno 1.401 unità abitative palestinesi in Cisgiordania (esclusa Gerusalemme est), provocando il fatto che almeno 6.207 persone – compresi almeno 3.134 minorenni – abbiano perso le proprie case. Nelle comunità palestinesi non riconosciute dallo Stato, molte delle quali devono affrontare la minaccia di espulsione, Israele distrugge ripetutamente case. Dal 2006 al 2018 Israele ha demolito più di una volta le case di almeno 1.014 persone – compresi 485 minori – che vivono in queste comunità.

La pianificazione per le colonie israeliane è l’esatto contrario della situazione nelle comunità palestinesi. Con la sola eccezione delle colonie nella città di Hebron, tutte le colonie sono state fondate in spazi aperti. Inoltre sono stati predisposti piani regolatori generosi e molto dettagliati praticamente per tutte le colonie, sostituendo gli antiquati piani dell’epoca del Mandato britannico che erano in vigore lì. I nuovi piani includono una nuova definizione delle aree coerente con le necessità di comunità moderne. Includono terre per uso collettivo, spazi verdi e terreni per l’espansione e lo sviluppo, ben oltre quanto necessario in base al tasso di incremento normale della popolazione. L’Amministrazione Civile ha anche costruito una nuova rete di strade per collegare le varie colonie le une con le altre e queste con l’altro lato della Linea Verde (il confine tra il territorio sovrano di Israele e la Cisgiordania), che restringe e limita lo sviluppo dei palestinesi.

B. Le sentenze dell’ACG: totale approvazione del sistema di pianificazione

Nel corso degli anni i palestinesi hanno presentato centinaia di ricorsi all’ACG, chiedendo la revoca degli ordini di demolizione dell’Amministrazione Civile. Nella maggioranza dei casi l’ACG ha emesso provvedimenti inibitori provvisori che proibiscono allo Stato di demolire strutture in attesa di sentenza. Tuttavia c’è un alto prezzo da pagare per questa situazione di stallo. La Corte spesso emette ordini temporanei che non solo vietano le demolizioni da parte di Israele, ma non consentono neanche agli abitanti palestinesi di costruire case o edifici pubblici, collegarsi ai servizi ed effettuare riparazioni, neppure quelle essenziali, su edifici esistenti, condannandoli a un prolungato stato di limbo e all’incertezza riguardo al loro futuro.

Molti ricorsi sono stati bocciati dai giudici, che hanno rigettato ogni argomentazione di principio riguardo alla politica di pianificazione che Israele mette in atto in Cisgiordania. A volte la Corte non ha neppure esaminato le argomentazioni. Altri ricorsi sono stati ritirati dai ricorrenti, a volte dopo che lo Stato ha affermato di non aver intenzione a quel punto di mettere in pratica gli ordini di demolizione e si è impegnato a fornire ai ricorrenti un preavviso nel caso in cui dovesse modificare la propria posizione. Tuttavia, per quanto ne sa B’Tselem, non c’è stato neppure un caso in cui i giudici abbiano accolto un ricorso presentato dai palestinesi contro una demolizione della propria casa.

1. Accettazione dello spossessamento di palestinesi in vaste zone della Cisgiordania

I giudici non hanno trovato niente da ridire nel fatto che la terra della Cisgiordania sia stata dichiarata “terra dello Stato” o “zona di addestramento”. Nonostante abbia ascoltato le argomentazioni che mettono in discussione la legittimità di questo modo di procedere, in ognuno di questi casi la Corte ha accettato gli argomenti dello Stato secondo cui le costruzioni dei palestinesi sono illegali e di conseguenza le strutture devono essere demolite.

La Corte Suprema ha sempre accettato la posizione dello Stato secondo cui i palestinesi, a differenza dei coloni, non hanno il permesso di costruire su “terre dello Stato”. In ricorsi in cui lo Stato ha sostenuto che la costruzione in questione si trova su terre dichiarate “zona di addestramento militare”, la Corte non ha neppure affrontato la reale questione del fatto che la zona sia stata dichiarata area chiusa. Persino quando i ricorrenti hanno esplicitamente sollevato questa argomentazione, non ha neppure preso in esame se questa designazione sia stata giusta o legittima. Al contrario, in questi casi le udienze si sono limitate alla questione se i ricorrenti fossero di fatto “residenti permanenti” delle zone di tiro. In base agli ordini militari solo quella condizione avrebbe consentito loro di stare lì. In tutti i casi in cui finora è stata presa una decisione, i giudici hanno accettato l’argomentazione dello Stato secondo cui i ricorrenti non sono “residenti permanenti” e ha approvato la demolizione delle loro case.

2. Riconoscere ragionevole e legittimo il sistema di pianificazione

I giudici dell’ACG hanno considerato legittimi e necessari i cambiamenti fatti da Israele alla legge di pianificazione giordana, nonostante la proibizione stabilita dalle leggi internazionali contro la potenza occupante di realizzare cambiamenti alle leggi locali, salvo rare eccezioni che non si applicano a questo caso. Nel prendere questa decisione hanno ignorato il fatto che i cambiamenti hanno consentito a Israele di consolidare e prendere il controllo di tutto il sistema di pianificazione, di escludere i palestinesi da ogni commissione e impedire loro di avere un ruolo nel decidere del proprio futuro. Questo cambiamento ha aperto la strada alla successiva istituzione di due sistemi di pianificazione paralleli: uno per i palestinesi e l’altro per i coloni.

Inoltre i giudici hanno stabilito che il sistema di pianificazione per i palestinesi riflette le necessità degli abitanti. I giudici sono stati assolutamente disposti ad accettare che piani regolatori antiquati – disegnati oltre ottant’anni fa dal Mandato britannico – siano ancora applicati ai villaggi palestinesi, ma non alle colonie israeliane; hanno stabilito che gli schemi che l’Amministrazione Civile ha stilato per le comunità palestinesi sono ragionevoli e corrispondono alle necessità degli abitanti. I giudici non hanno dato alcuna importanza al fatto che i piani regolatori siano identici, inflessibili, non presentino alcuno spazio pubblico e che ogni futuro sviluppo debba essere realizzato all’interno dell’area già edificata del villaggio. I giudici hanno anche stabilito che le commissioni edilizie dell’Amministrazione Civile prendono in considerazione in modo corretto e professionale le domande di licenza edilizia dei palestinesi, benché non ci siano rappresentanti dei palestinesi nelle commissioni, e non hanno prestato la minima attenzione allo scarsissimo numero di richieste approvate.

Dato questo punto di partenza, i giudici esaminano i ricorsi come se l’applicazione delle leggi per la pianificazione e la costruzione fosse l’unico problema in questione. Di conseguenza non accettano i ricorsi, come se il problema non fosse altro che una questione di applicazione di leggi edilizie. Chiedono che i ricorrenti esauriscano tutte le inutili procedure che il sistema offre e sono inorriditi quando i ricorrenti “si fanno giustizia da soli” e – in assenza di qualunque altra alternativa – costruiscono senza permesso.

3. Riconoscimento implicito della politica israeliana

La Corte fornisce anche un implicito timbro di approvazione legale alla politica israeliana. Lo fa attraverso due metodi principali.

A. Nasconde le differenze tra i vari schemi di pianificazione: nelle loro sentenze sulla costruzione nelle comunità palestinesi i giudici della Corte Suprema hanno anche citato sentenze che trattano la pianificazione delle colonie o all’interno stesso di Israele. Hanno fatto lo stesso anche nei casi contrari: in sentenze riguardanti la pianificazione per colonie o all’interno di Israele, i giudici hanno citato sentenze riguardanti piani regolatori per la popolazione palestinese. Il rimando a precedenti giuridici è tipico del sistema giudiziario israeliano. Tuttavia i vari sistemi di pianificazione sono sostenuti da valori diversi e sono destinati a salvaguardare interessi in conflitto. Un sistema il cui obiettivo è pianificare a favore della popolazione – come quello applicato alle colonie e alle comunità ebraiche in Israele – non è affatto come uno schema il cui obiettivo è di iniziare, portare avanti e legalizzare la sistematica spoliazione della popolazione, come quello in vigore per le comunità palestinesi. Mettere tutto quanto insieme elimina le differenze, rendendo apparentemente etico e valido un sistema palesemente illegittimo.

B. Riferimenti selettivi alle disposizioni delle leggi internazionali: l’ACG ha anche riconosciuto valido il sistema di pianificazione trasmettendo il messaggio che la pianificazione attuata per i palestinesi rispetta quanto previsto dalle leggi umanitarie internazionali (LUI). Ciò viene ottenuto principalmente citando in modo selettivo le LUI, in modo da creare l’impressione che la politica israeliana sia in linea con esse, e ignorando altre disposizioni, come la proibizione di addestramento militare o di fondazione di colonie nella zona occupata.

È particolarmente evidente l’indifferenza dei giudici rispetto al fatto che la messa in pratica della politica di pianificazione israeliana implica la violazione della proibizione assoluta di trasferimento forzato, benché siano state portate davanti alla Corte denunce riguardanti la violazione di questa norma. La proibizione rimane persino se le persone lasciano le proprie case non per propria libera scelta, per esempio a causa di condizioni di vita insopportabili provocate dalle autorità impedendo loro l’accesso alle reti idrica ed elettrica, trasformando la zona in cui vivono in area per l’addestramento militare o con la ripetuta distruzione delle loro case. La violazione di questo divieto è un crimine di guerra.

C. Una giustizia illusoria.

Nonostante le enormi differenze tra il sistema di pianificazione che Israele ha definito per la popolazione palestinese in Cisgiordania e quello per i coloni, l’ACG le ha considerate identiche. Durante una delle sessioni dell’ACG tenuta nel 2018 sulla questione di ricorsi contro la demolizione di Khan al-Ahmar, il giudice Hanan Melcer ha persino detto – riguardo all’applicazione di leggi di pianificazione per palestinesi e coloni – che “a tutti si applica la stessa legge.”

Eppure la politica di pianificazione ed edificazione di Israele per i coloni è l’esatto contrario di quella applicata ai palestinesi. Nonostante a volte i coloni facciano le vittime – lupi vestiti di agneli – è sufficiente guardare semplicemente alla situazione sul terreno per vedere l’immenso divario tra la pianificazione per i coloni e per i palestinesi. Dall’occupazione della Cisgiordania oltre cinquant’anni fa, Israele ha costruito quasi 250 nuove colonie – la cui stessa fondazione è vietata dalle leggi internazionali – e solo una comunità palestinese. E quest’unica comunità è stata costruita per trasferirvi beduini che vivevano su terre che Israele ha destinato all’espansione di una colonia. In altre parole, persino la fondazione di quest’unica comunità era destinata a rispondere a necessità israeliane. Allo stesso tempo Israele ha fondato un sistema che non consente ai palestinesi di ottenere permessi edilizi e dedica notevoli sforzi per imporre e applicare rigide restrizioni su qualunque costruzione o ampliamento per la popolazione palestinese.

È inimmaginabile il divario tra questa situazione e quella descritta in migliaia di decisioni dell’ACG – in cui i giudici hanno scritto di “mani pulite” e di “faticose misure correttive”, hanno accettato qualunque argomento dello Stato riguardo alla pianificazione per la popolazione palestinese e hanno fatto una sintesi consentendo allo Stato di demolire le case dei ricorrenti e di consegnarli a condizioni di vita disastrose. Mentre la Corte non scrive le leggi, determina le politiche o le applica, i giudici hanno sia l’autorità che il dovere di stabilire che le politiche di Israele sono illegali e di proibire la demolizione delle case. Invece, ripetutamente, hanno scelto di dare alle politiche la loro approvazione e di convalidarle pubblicamente e giuridicamente.

Così facendo non solo i giudici della Corte Suprema non hanno assolto ai loro doveri, hanno anche giocato un ruolo fondamentale nel consolidare ancor di più l’occupazione e l’impresa di colonizzazione e nello spogliare ulteriormente i palestinesi delle loro terre.

È ragionevole pensare che i giudici siano ben consapevoli, o lo dovrebbero essere, delle fondamenta giuridiche che stanno consolidando con le loro sentenze e delle devastanti implicazioni di queste sentenze, comprese le violazioni del divieto delle Leggi Umanitarie Internazionali di trasferimento forzato. Quindi anche loro – insieme al presidente del consiglio, ai ministri, al capo di stato maggiore e ad altri alti gradi dell’esercito – hanno una responsabilità personale nella perpetrazione di tali crimini.

Per Israele, il principale vantaggio di conservare un “sistema di pianificazione” per la popolazione palestinese è che ciò conferisce al sistema una parvenza di correttezza e funzionalità, operando in apparenza in base alle leggi internazionali e israeliane. Ciò consente allo Stato di affermare che i palestinesi scelgono di costruire “illegalmente” e di farsi giustizia da soli – come se avessero alternative – giustificando così la demolizione delle case e le continue restrizioni nella pianificazione. Tuttavia il tentativo di mascherare il sistema di pianificazione nei territori occupati come se fosse corretto non è altro che uno stratagemma propagandistico. Un sistema di pianificazione dovrebbe riflettere gli interessi degli abitanti ed essere al servizio delle loro necessità. Ma per definizione l’equilibrio di potere sotto un regime di occupazione è ineguale. I funzionari del regime di occupazione non rappresentano la popolazione occupata, che non può partecipare al sistema che regola e governa la sua vita, né ai processi di pianificazione e legislativi, né all’emanazione di ordini militari, né alla commissione che nomina i giudici.

A volte pare che lo Stato stesso ne abbia avuto abbastanza dello sforzo insito nel conservare le apparenze. Mappare edifici, passare per le procedure della commissione, scrivere risposte ai ricorsi ecc. ecc., tutto ciò porta via tempo, impegno e risorse preziosi, anche se Israele ha a sua disposizione legioni di avvocati, enormi risorse finanziare, sistemi di pianificazione per fare il suo volere e un sistema giudiziario volontariamente votato alla farsa. Contrapposta a questa potenza congiunta c’è una popolazione con scarsa rappresentanza e poche risorse, persone che hanno vissuto per oltre mezzo secolo sotto un regime militare in cui libertà e sopravvivenza sono precarie. Tuttavia i dirigenti dello Stato sono insoddisfatti del ritmo e del tasso di spoliazione, trovando frustrante dover aspettare mesi e anni perché i tribunali raggiungano il verdetto a cui lo Stato mira.

Pertanto negli ultimi anni Israele ha intensificato i suoi tentativi di evitare – o persino cancellare – le procedure giuridiche relative alla demolizione di strutture palestinesi. La volontà di Israele di fare a meno dell’apparenza testimonia soprattutto la sua sicurezza che non sarà chiamato a dover subire significative conseguenze interne o internazionali per aver violato la legge. La legittimità dei nuovi ordini è stata discussa dall’ACG proprio in questi giorni. Ciò significa che, paradossalmente, alla Corte Suprema viene ora chiesto di considerare la cancellazione della finzione nella cui creazione ha giocato un importante ruolo.

Indipendentemente dal fatto che i giudici dell’ACG scelgano di avallare la cancellazione della finzione, essi hanno costruito un solido edificio per supportare la legittimazione giuridica della spoliazione della terra del popolo palestinese. Quanta cura si prenderanno nell’aggiungere una bella mano di vernice a questa struttura nei prossimi giorni? Insisteranno nel mantenere la finzione? In fin dei conti, questa è una questione di immagine secondaria. Ciò non dovrebbe sviare l’attenzione dalla situazione di furto e spoliazione che Israele ha creato e che i giudici continuano a consentire, giustificare e avvallare.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’ideologia della “Nakba 2.0” di Benny Morris

Hossam Shaker

2 febbraio 2019 Middle East Monitor

Benny Morris sa benissimo cosa significhi il termine “Nakba”. Tuttavia non pare avere alcun problema a ripeterla, considerandola più adeguata per il XXI^ secolo e, di fatto, un obbligo. Come si può dedurre dalle sue parole, questa dovrebbe essere la “Nakba 2.0” – che sarà una versione più intelligente e più decisiva della prima, avvenuta in Palestina durante la guerra del 1948.

Morris, uno dei più illustri storici israeliani, è famoso per aver riesaminato documenti d’archivio sull’espulsione forzata dei palestinesi. Tuttavia ha smesso di utilizzare il termine “pulizia etnica” per riferirsi alla Nakba, che ha trasformato in profughi la maggior parte dei palestinesi. Il suo lavoro – insieme a quello di altri pensatori noti come “Nuovi Storici”- ha contribuito a smentire la propaganda israeliana, che ha messo in circolazione affermazioni relative ai rifugiati palestinesi e all’espulsione di massa del popolo palestinese.

Tuttavia Morris non ha espresso posizioni di principio. Ha invece rifiutato quello che è successo solo da un punto di vista specifico, che ha deciso di rivelare in seguito, quando ha sostenuto che la pulizia etnica non era terminata. In ciò differisce dall’ altro suo collega che ha mostrato una posizione di principio e un impegno morale, come Ilan Pappé, autore di “Ethnic Cleansing of Palestine” (2006) [“La pulizia etnica della Palestina”, Fazi, 2008, ndtr.]

Benny Morris ha fatto un’apparizione pubblica nel XXI^ secolo con una palese tendenza di estrema destra. Oggi parla come se fosse una guida ideologica del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Questa tendenziosità politica ha un enorme significato. Attualmente Morris sta facendo uso della sua competenza e reputazione come illustre storico per giustificare la pulizia etnica dei palestinesi attraverso la sottovalutazione del processo o considerandolo come una necessità per l’esistenza dello Stato di Israele. Morris ritiene che l’espulsione forzata o la pulizia etnica non siano così negative come il mondo e i sostenitori di diritti umani, valori, principi e trattati pensano che sia. Secondo lui, l’unica alternativa a questa scelta è il genocidio.

Morris esprime crescente preoccupazione esistenziale riguardo al “destino di Israele”. Tuttavia la preoccupazione in questo caso pare essere semplicemente una scusa astuta per giustificare il comportamento definitivo che le élite dominanti desiderano adottare riguardo al popolo palestinese, senza prendere in considerazione considerazioni etiche. Quando si tratta della questione “essere o non essere”, ignorare i valori e negare gli obblighi diventa per tali persone una scelta ragionevole.

La giustificazione di Morris è la migliore interpretazione delle dichiarazioni che terrorizzano gli israeliani e che sono state esposte dal settantenne storico a gennaio durante un’intervista con Haaretz [giornale israeliano di centro sinistra, ndtr.]. In quell’intervista – intitolata “Questo posto è destinato ad affondare e gli ebrei rimarranno una minoranza perseguitata e potrebbero scappare negli USA” – Morris è stato molto pessimista nelle sue previsioni. Ha detto che “questo posto (Israele) sarà un paese mediorientale al collasso con una maggioranza araba e gli ebrei rimarranno come una piccola minoranza all’interno di un grande mare arabo di palestinesi. Una minoranza soggetta all’oppressione o al massacro.”

Morris ha scelto di lanciare il suo avvertimento contro questo terribile destino in occasione del suo pensionamento dalla vita accademica. Tuttavia è un modo consueto di ravvivare il senso israeliano di pericolo esistenziale, che è una tipica premessa ai discorsi di mobilitazione israeliani che incitano ad azioni risolute e crudeli contro l’origine della minaccia, rappresentata dal popolo palestinese sottoposto ad occupazione e non, per esempio, dalle “armi chimiche di Saddam Hussein (l’ex presidente iracheno)” o dall’ “Olocausto (dell’ex presidente iraniano Mahmoud) Ahmadinejad,” o dalla “bomba iraniana.” Questo discorso quindi corrisponde alla crescente retorica fascista nelle posizioni dei dirigenti israeliani.

Le conclusioni di Morris sembrano ideali da adottare per l’élite dominante estremista israeliana per scatenare una campagna finale contro il popolo palestinese – oltre a tutto quello che finora è stato commesso – con il pretesto che “se noi non uccidiamo loro, loro uccideranno noi.”

Nell’intervista Benny Morris ha disegnato un quadro mostruoso dei palestinesi senza osare descriverli come umani, proprio come ogni politico e militare israeliano. Questo è assolutamente adeguato per giustificare il fatto di ucciderli e incolparli del loro stesso destino. Morris non è solo uno storico, è anche un brillante sostenitore dell’espulsione forzata e della pulizia etnica. Ha chiaramente espresso ciò durante un’intervista con Ari Shavit su Haaretz nel 2004, quando ha detto: “Lo Stato ebraico non avrebbe potuto nascere fino a quando 700.000 palestinesi non vennero cacciati. È stato quindi necessario espellerli.”

L’impressione che si ricava dalle successive posizioni di Morris nel corso degli anni è che il fatto di non aver completato il compito di fare una pulizia etnica contro il popolo palestinese sia stato un grave errore.

Come storico è più probabile che comprenda che la sopravvivenza di popoli indigeni nel loro Paese, senza il loro totale sterminio o la loro espulsione, ha portato alla fine di ogni occupazione coloniale a cui il mondo ha assistito in precedenza. Ciò è dovuto al fatto che cercare di stabilire il controllo assoluto su un altro popolo e sottometterlo al potere di un’occupazione militare non è stata una scelta razionale nel passato. Come potrebbe avere successo ora? Morris lo esprime attraverso chiari indicatori demografici, che descrivono la crescente popolazione palestinese nella Palestina mandataria (27.000 km2, di cui la Cisgiordania costituisce solo un quinto) a un ritmo superiore di quello degli ebrei israeliani, nonostante tutti i tentativi generosamente finanziati e incessanti di fondare colonie illegali.

Il problema demografico di Morris non si limita alla Cisgiordania occupata e alla Striscia di Gaza assediata. Invece sembra essere evidentemente angosciato dai palestinesi a cui è stata concessa a forza la cittadinanza israeliana dopo la Nakba – i cosiddetti “arabo-israeliani” o “palestinesi cittadini di Israele” – e questa sensazione è condivisa da alcuni ministri del governo di Netanyahu. Morris arriva a utilizzare espressioni umilianti che lo rivelano come un razzista. Considera la maggior parte del popolo palestinese con un atteggiamento arrogante, che non contempla la logica dei diritti e della giustizia.

Morris appare come un individuo nel mezzo di una trincea ideologica, che utilizza la propria posizione accademica ed espressioni scientifiche a favore di un progetto di occupazione inconsueto in questo mondo. Ha riconosciuto le proprie inclinazioni politiche di destra e è sembrato persino entusiasta di Netanyahu, solo due mesi prima delle elezioni politiche del 9 aprile.

Quello che deliberatamente Morris non menziona è che il governo di Netanyahu – che include coloni e personaggi noti per il loro fascismo – ha già incluso nel proprio programma l’espulsione forzata di palestinesi da alcune città. Ciò riguarda almeno l’Area C della strategicamente importante Cisgiordania, come Khan Al-Ahmar, un villaggio beduino che si trova ad est di Gerusalemme e che è stato ripetutamente previsto di demolire, solo per fare un esempio. I politici israeliani, compreso il dimissionario ministro della Difesa Avigdor Lieberman, hanno tentato di incitare all’espulsione forzata del popolo beduino. A novembre Netanyahu ha annunciato: “Khan Al-Ahmar sarà evacuato molto presto. Non vi dirò quando, ma preparatevi a questo,” ma il problema è che la messa in pratica dell’espulsione forzata in questa zona strategica non sarà una passeggiata.

I palestinesi di Khan Al-Ahmar restano determinati, nonostante le dure condizioni di vita che vengono loro imposte. Hanno lanciato una lotta civile che ha raggiunto il resto del mondo, che in cambio li ha appoggiati. Continuano ad aggrapparsi al luogo che le autorità occupanti vogliono destinare all’espansione delle colonie e a rafforzare il controllo sulle terre che dovrebbero rimanere libere da palestinesi. Le autorità israeliane agiscono allo stesso modo anche con circa 45 villaggi palestinesi che non sono riconosciuti nella regione del deserto del Negev. Spesso ne distruggono qualcuno per cercare di espellerne gli abitanti, come a Al-Araqeeb e a Umm Al-Hiran. Nel contempo la città settentrionale di Umm Al-Fahm, occupata nel 1948 insieme alla sua popolazione palestinese, è stata sottoposta per decenni a successive minacce di deportazione di massa.

Più in generale, il governo israeliano continua a perseguire la sua politica di lenta e silenziosa deportazione forzata, che si basa sull’espansione delle colonie, sulle restrizioni alla vita dei palestinesi, sulla confisca delle terre, sul controllo delle risorse idriche ed economiche e sull’intensificazione delle restrizioni sulle costruzioni residenziali e sull’urbanizzazione. Israele ha anche provocato problemi per loro con quotidiane campagne di arresti e il gran numero di posti di controllo che separano città e villaggi le une dagli altri, oltre al “muro di separazione” costruito attraverso la Cisgiordania, che le autorità occupanti hanno continuato a costruire nonostante le obiezioni del resto del mondo sulla sua costruzione, comprese l’Assemblea generale delle Nazioni Unite e la Corte Internazionale di Giustizia (CIG).

I dirigenti politici israeliani stanno monitorando l’influenza di queste condizioni sui palestinesi in Cisgiordania, come il parlamentare della Knesset Bezalel Smotrich, che sta seguendo con grande interesse come ogni anno la situazione dell’occupazione obblighi circa 20.000 palestinesi della Cisgiordania ad andarsene. Tuttavia sta anche scommettendo sulle tendenze per risolvere la situazione demografica, parlando del 30% della popolazione della Cisgiordania che desidera emigrare, cioè, è più probabile che venga allontanata con maggiori fattori di spinta.

Questi politici che hanno una posizione compulsiva non sono soddisfatti nel vedere le conseguenze delle politiche di occupazione. Stanno piuttosto spingendo per una situazione finale decisiva senza il popolo palestinese sulla sua terra. Smotrich e i suoi colleghi del partito “Casa Ebraica” [partito di estrema destra dei coloni, ndtr.] nel settembre 2017 hanno adottato un “piano decisivo” che, secondo loro, sarebbe “meno costoso” delle guerre di Israele ogni qualche anno. Il piano chiede la cacciata di un gran numero di palestinesi dal loro Paese e l’intensificazione delle colonie in Cisgiordania, come l’intento di “determinare un fermo ed eterno destino” in uno Stato che dovrebbe essere solo ebraico, così come un atteggiamento deciso da parte delle autorità e dell’esercito israeliano nei confronti di tutti quelli che rifiutano l’occupazione.

Questo progetto fascista riceve un appoggio ideologico anche da siti “accademici”, come suggerito dalle affermazioni di Benny Morris, che formula pareri sufficienti a far suonare campane d’allarme in tutto il mondo. Per esempio, egli sottovaluta centinaia di massacri commessi dalle forze sioniste durante la Nakba – come quello di Deir Yassin nei pressi di Gerusalemme – che è particolarmente simbolico nella memoria collettiva del popolo palestinese. Pensa anche che l’espulsione forzata sia un’opzione meno pesante dello sterminio.

Le affermazioni scorrette di Morris non sono slegate da importanti sviluppi. Di fatto Morris parla mentre al potere c’è un presidente USA “scelto da dio per questo ruolo”, come la portavoce della Casa Bianca Sarah Sanders ha detto alla CBN in gennaio. Questa è una definizione coerente con l’opinione di circoli USA e israeliani, che vedono il presidente Donald Trump come “un inviato dal cielo per Israele”. A differenza dei suoi predecessori, Trump ha dichiarato Gerusalemme capitale di Israele ed ha trasferito là l’ambasciata USA. I suoi collaboratori stanno partecipando ad attività pubbliche di colonizzazione e la sua amministrazione sta cercando di affamare e impoverire i profughi palestinesi e di spingerli ad emigrare riducendo le risorse UNRWA [agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, ndtr.]. Sotto il suo governo la Knesset [il parlamento, ndtr.] israeliana ha anche approvato la legge dello Stato Nazione, che esprime le tendenze razziste nelle posizioni dei decisori politici israeliani.

Benny Morris concorda con queste tendenze con il suo tono prevenuto persino con i palestinesi, che rappresentano circa un quarto della popolazione del suo Paese e la cui nazionalità è stata loro imposta a forza e che non hanno posto nell’identità o nella cultura di questo Stato in base alla stessa legge razzista. Lo storico svolge il suo lavoro ideologico in un Paese che rifiuta di definire i propri confini. Alcuni dei suoi dirigenti politici sono impazienti di intraprendere campagne definitive di pulizia etnica, e, chissà, qualcuno a Washington, commentando la “Nakba 2.0”, potrebbe dire “dio lo vuole!”

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Khan al-Ahmar: come stanno veramente le cose.

Angela Godfrey-Goldstein

+972 Magazine, 18 dicembre 2018

Negli ultimi mesi i media hanno raccontato mille volte la storia di Khan al-Ahmar. Ma il modo in cui è stata raccontata è pieno zeppo di equivoci. Ecco la vera storia del tormentato villaggio.

Il villaggio di Khan al-Ahmar, che ospita 193 Beduini palestinesi e una scuola, è sotto la minaccia molto seria e imminente di demolizione e di trasferimento forzato da parte delle autorità israeliane. Israele vuole toglier di mezzo Khan al-Ahmar per facilitare il suo piano di sviluppo “E-1”, che prevede 3.910 unità abitative per Israeliani e oltre 2.000 camere d’albergo e che dovrebbe collegare la colonia israeliana di Ma’ale Adumim con Gerusalemme Est. Intorno a questo blocco sarebbe poi costruito il muro di separazione, completando la “giudeizzazione” di tutta Gerusalemme e compromettendo la fattibilità di uno stato palestinese.

Negli ultimi mesi i media hanno raccontato mille volte la storia di Khan al-Ahmar, da quando la Corte Suprema israeliana ha dato il permesso di demolizione. Da quel momento, gli attivisti si sono preparati a dar battaglia contro quella che sembrava una demolizione imminente. Poi, col montare della pressione internazionale, il governo israeliano ha sospeso la demolizione. Ma il modo in cui questa storia è stata raccontata è pieno zeppo di equivoci.

Equivoco n° 1: La Corte Suprema ha ordinato l’evacuazione e la demolizione.

Questa falsa notizia è stata diffusa dal primo ministro Netanyahu che ha detto: “Questa è una decisione della Corte, questa evacuazione e demolizione è la nostra linea e sarà messa in atto.” In realtà, la Corte Suprema israeliana ha dichiarato che, poiché quelle strutture non hanno i dovuti permessi, possono essere demolite se così decide il governo, mentre i Beduini non possono essere trasferiti con la forza se decidono di non spostarsi.

Fino ad ora, i Beduini hanno respinto ogni “offerta” di essere trasferiti vicino a una discarica di rifiuti oppure vicino a un impianto di trattamento dei liquami. La vicenda non interessa soltanto i pochi Beduini di Khan al-Ahmar, poiché decine di migliaia di Palestinesi sono ora minacciati di demolizioni nell’Area C della Cisgiordania (che è totalmente sotto il controllo militare di Israele) e la decisione a Khan al-Ahmar potrebbe avere conseguenze negative per loro.

Equivoco n° 2: I Beduini di Khan al-Ahmar hanno costruito illegalmente su terreni dello Stato.

La frequente affermazione che i Beduini avrebbero costruito illegalmente su terreni dello stato (a partire dagli anni 1950) ignora il fatto che quelle terre sono proprietà privata di Palestinesi che stanno ad Anata. Questo equivoco è stato favorito dall’esercito israeliano che, all’inizio dell’anno, ha emesso nei confronti di questi stessi proprietari delle ordinanze provvisorie di esproprio per la costruzione di strade di servizio che dovevano agevolare la demolizione di Khan al-Ahmar. L’avvocato dei Beduini, Tawfiq Jabareen, ha detto alla Corte che la procedura di esproprio per quei terreni era stata avviata negli anni 1970, ma non era mai stata formalizzata, deducendo quindi che la proprietà era rimasta ai Palestinesi.

Quanto alle abitudini dei Beduini, malgrado un comune pregiudizio, si deve sapere che non sono nomadi. I Beduini del Negev erano tradizionalmente dei proprietari terrieri che si spostavano in modo quasi-nomade sulle loro terre deserte, ma fu loro impedito di conferire i loro terreni alla “Israel Land Authority” il 95% del territorio di Israele è di pubblico dominio; essere “proprietario” significa affittarne una parte da questa Authority per periodi di 49 o 98 anni, NdT. Sono stati quindi accusati di occupare abusivamente le loro stesse terre e sono soggetti ad esserne rimossi, in ossequio al mito di una terra senza popolo. L’avvocato Jabareen, inoltre, ha presentato al comitato per il piano edilizio dell’esercito una mappa giordana in cui la destinazione d’uso della zona è descritta come “terra deserta,” ciò che –secondo le leggi territoriali dell’area– non richiederebbe permessi di costruzione.

Equivoco n° 3: I residenti di Khan al-Ahmar si mostrano irragionevoli.

Niente di più falso. I Beduini di Khan al-Ahmar hanno presentato un progetto di massima in cui propongono di spostarsi più lontano dall’autostrada, ma le autorità israeliane si sono rifiutate di esaminarlo. Una delle motivazioni secondo cui Khan al-Ahmar dovrebbe essere distrutto è proprio il fatto che si trova troppo vicino all’autostrada.

Dopo la costruzione della scuola nel 2009, nel 2012 i Beduini di Khan al-Ahmar hanno spontaneamente trasferito il campo giochi e il blocco dei bagni in concomitanza con la costruzione dell’autostrada: un ingegnere stradale aveva promesso di spostare la strada in modo che non fosse troppo vicina alla scuola, cosa che non è mai avvenuta.

Secondo molti resoconti, i residenti di Khan al-Ahmar si dimostrano “irragionevoli” perché rifiutano di spostarsi di solo 200 metri, ma in realtà questa è un’offerta che non è mai stata fatta. I Beduini hanno studiato la possibilità di spostare il villaggio con tutte le sue case di 500 metri, ma un’autostrada pianificata da Israele impedisce questo spostamento, oltre al fatto che la proprietà dei terreni in cui spostarsi sarebbe problematica.

La presenza dei Beduini a Khan al-Ahmar garantisce attualmente la continuità tra Gerusalemme Est e il resto della Cisgiordania, rendendo–a parere di molti­– gli stessi Beduini i guardiani della soluzione a due stati. La demolizione del villaggio e il trasferimento forzato degli abitanti in un’area di sviluppo urbano configurerebbe non solo dei potenziali crimini di guerra (un’ipotesi che è attentamente seguita dal procuratore della Corte Penale Internazionale), ma metterebbe anche a forte rischio di estinzione la cultura del deserto dei residenti.

Angela Godfrey-Goldstein è la condirettrice di Jahalin Solidarity.

https://972mag.com/khan-al-ahmar-setting-record-straight/139270/

Traduzione di Donato Cioli

A cura di AssopacePalestina




Rapporto OCHA del periodo 23 ottobre – 5 novembre 2018 (due settimane)

Nei pressi della recinzione israeliana che circonda Gaza sono continuate le dimostrazioni del venerdì: quattro palestinesi sono stati uccisi da forze israeliane e 531 sono rimasti feriti.

Tutte le uccisioni si sono verificate il 26 ottobre, quando centinaia di manifestanti hanno raggiunto la recinzione e, secondo fonti israeliane, hanno lanciato un numero relativamente elevato di bottiglie incendiarie, granate rudimentali e palloncini incendiari, mettendo in atto vari tentativi di aprire brecce nella recinzione. Al contrario, il venerdì successivo, 2 novembre, è stata registrata una considerevole riduzione degli scontri violenti e non sono state registrate uccisioni. Fonti israeliane hanno segnalato che in questo secondo venerdì non sono stati lanciati aquiloni o palloncini incendiari e che non sono stati registrati tentativi di violazione della recinzione. Secondo il Ministero della Salute palestinese per 405 feriti [dei 531] si è reso necessario il ricovero in ospedale.

Nel corso di altre manifestazioni e attività che si sono svolte in altri giorni, sempre nel contesto della “Grande Marcia di Ritorno”, altri due palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane e 112 sono stati feriti. Uno dei due è stato ucciso, con arma da fuoco, il 23 ottobre presso la recinzione, mentre partecipava ad una manifestazione tenutasi nella zona di Deir al Balah. Il secondo è stato ucciso, con arma da fuoco, il 29 ottobre, nell’area settentrionale di Beit Lahiya, durante una dimostrazione a sostegno dei tentativi di rompere il blocco navale.

Altri tre palestinesi sono morti per le ferite riportate durante le proteste delle settimane precedenti.

Tra il 26 e il 27 ottobre, un gruppo armato palestinese ha sparato decine di razzi e colpi di mortaio verso il sud di Israele. Successivamente, l’aviazione israeliana ha attaccato diversi siti in Gaza. Non ci sono notizie di feriti, ma, nel nord di Gaza, l”Ospedale indonesiano” ha subito danni ed è stato costretto ad interrompere l’erogazione dei servizi; nella città di Gaza un edificio disabitato di cinque piani, utilizzato, a quanto riferito, da una fazione armata, è stato preso di mira e distrutto e diverse abitazioni sono state danneggiate. Tutti i razzi sparati contro Israele o sono caduti in aree aperte (inclusi alcuni caduti all’interno di Gaza) o sono stati intercettati in volo e non hanno provocare vittime. L’ala armata della Jihad islamica palestinese si è assunta la responsabilità del lancio dei razzi, sostenendo che è stata una risposta all’uccisione di quattro palestinesi, avvenuta durante le proteste di quel giorno, e il 27 ottobre ha annunciato un cessate il fuoco unilaterale.

Il 28 ottobre, vicino alla recinzione perimetrale, ad est di Deir el Balah, tre minori palestinesi, di età compresa tra i 13 e i 15 anni, sono stati uccisi da un attacco aereo israeliano. Secondo fonti israeliane, i ragazzi sono stati colpiti perché avvistati mentre tentavano di collocare un rudimentale ordigno esplosivo contro la recinzione. Secondo il Centro palestinese per i diritti umani a Gaza, i ragazzi non portavano alcunché e non rappresentavano alcuna minaccia. Un’equipe medica palestinese ha potuto recuperare i loro corpi un’ora dopo l’accaduto.

Il 4 novembre, un 17enne è morto per le ferite riportate il giorno precedente; era stato colpito, secondo quanto riferito, mentre si avvicinava alla recinzione; il suo corpo è trattenuto dalle autorità israeliane. A Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato di terra e di mare, in almeno sette occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento, senza provocare feriti. In due distinti episodi, verificatisi il 23 ottobre, le forze navali israeliane hanno arrestato quattro pescatori e confiscato le loro due barche. In due occasioni, ad est della città di Gaza e nella zona settentrionale, le forze israeliane sono entrate nella Striscia ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo nelle vicinanze della recinzione perimetrale.

Dal 28 ottobre, nella Striscia di Gaza, in conseguenza dell’approvvigionamento di carburante aggiuntivo per il funzionamento della Centrale Elettrica, la fornitura di elettricità è passata dalle 4-5 ore dei mesi precedenti, a 12-16 ore al giorno. L’incremento è da attribuire al carburante entrato a Gaza dal 9 ottobre e finanziato dal governo del Qatar. Di conseguenza, rispetto al precedente funzionamento ad una sola turbina, la centrale ha iniziato ad attivare tre delle sue quattro turbine. Si prevede che questo sviluppo migliorerà significativamente le condizioni di vita. Nonostante ciò, durante le interruzioni di corrente, i servizi sanitari di base, la fornitura di acqua ed il trattamento dei reflui continueranno a dipendere dal carburante fornito dall’ONU per il funzionamento dei generatori elettrici di riserva e dei veicoli di emergenza.

In Cisgiordania, in due diversi episodi, due palestinesi sono stati colpiti con armi da fuoco e uccisi dalle forze israeliane. Il 24 ottobre, nel villaggio di Tammun (Tubas), un’operazione di ricerca-arresto ha innescato scontri che hanno provocato la morte di un palestinese di 22 anni. Il 26 ottobre, nel villaggio di Al Mazra’a al Qibilya (Ramallah), durante scontri con le forze israeliane un uomo di 33 anni è stato ucciso con arma da fuoco. Gli scontri erano seguiti ad una incursione di coloni israeliani nel villaggio, nel quale si stava manifestando contro la violenza dei coloni e l’espansione degli insediamenti colonici.

In Cisgiordania, in numerosi scontri, 62 palestinesi, tra cui nove minori, sono stati feriti dalle forze israeliane. 50 delle 153 operazioni di ricerca-arresto condotte dalle forze israeliane, hanno innescato scontri con i residenti: 30 palestinesi sono stati feriti. Nel villaggio di Ar Ram, nel corso di una operazione, le forze israeliane hanno fatto irruzione nell’ufficio del Governatorato di Gerusalemme dell’Autorità Palestinese (AP); si sono scontrate con i dipendenti, ferendone cinque e sequestrando attrezzature. A Gerusalemme Est, in un episodio separato, il governatore di Gerusalemme dell’Autorità Palestinese è stato arrestato. Altri 27 palestinesi sono rimasti feriti nel villaggio di Al Mazra’a al Qibilya (Ramallah) durante le proteste sopra menzionate. Altri tre palestinesi sono rimasti feriti a Kafr Qaddum (Qalqiliya), nel corso della manifestazione settimanale contro le restrizioni all’accesso e contro l’espansione degli insediamenti [colonici israeliani]. Durante il periodo di riferimento, nei villaggi di Bil’in e Ni’lin (entrambi a Ramallah) e Madama (Nablus), sono proseguite altre dimostrazioni settimanali simili e scontri, conclusi senza feriti.

Un palestinese è stato ferito con arma da fuoco e successivamente arrestato: secondo quanto riferito, aveva tentato di pugnalare un soldato israeliano. L’episodio è avvenuto il 5 novembre vicino all’insediamento israeliano di Kiryat Arba ‘(Hebron).

Nell’Area C della Cisgiordania, per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, 13 strutture di proprietà palestinese sono state demolite o sequestrate, sfollando 14 persone e colpendo i mezzi di sostentamento di altre 34. Sette delle strutture prese di mira si trovavano nella comunità di pastori di Al Hadidiya, nella Valle del Giordano, ed erano state fornite precedentemente come assistenza umanitaria. Le autorità israeliane hanno inoltre emesso ordini di stop lavori o di demolizione contro cinque strutture finanziate da donatori (tra queste una scuola e quattro abitazioni) in due comunità situate nella “Zona 918 per esercitazioni a fuoco” dell’area di Massafer Yatta, nella Cisgiordania meridionale.

In seguito al rinvio della demolizione della Comunità beduina di Khan al Ahmar-Abu al-Helu, le autorità israeliane hanno smantellato le strutture che avevano installato nel sito di trasferimento prefissato (Al Jabal Ovest); nonostante questi sviluppi, permangono preoccupazioni per la possibile demolizione e il trasferimento forzato della Comunità.

Coloni israeliani hanno ferito, in due episodi separati, cinque palestinesi, tra cui tre minori. Il 4 novembre, un bambino di quattro anni è stato ferito alla testa, quando coloni israeliani hanno lanciato pietre contro un veicolo palestinese che viaggiava sulla strada 60, vicino all’avamposto [=colonia israeliana non autorizzata da Israele] di Havat Gilad (Nablus). Gli altri quattro palestinesi sono stati fisicamente aggrediti e feriti il 2 novembre, in scontri con un gruppo di decine di coloni israeliani che marciavano nella città vecchia di Hebron; le forze israeliane sono intervenute e hanno sparato lacrimogeni, ferendo un palestinese (incluso nel totale sopra). Inoltre, durante il periodo di riferimento, nella città vecchia di Hebron, è stato vandalizzato da coloni un negozio palestinese. Inoltre, in una serie di altri attacchi, coloni israeliani hanno aggredito o intimidito palestinesi: agricoltori intenti alla raccolta delle olive nel villaggio di Jit (Qalqiliya) e nell’area di Tel Rumeida (Hebron); lavoratori durante il ripristino di una strada agricola nel villaggio di Qaryut (Nablus); attivisti internazionali e palestinesi nella città vecchia di Hebron.

550 alberi di proprietà palestinese sono stati sradicati dalle autorità israeliane, con la motivazione che erano stati piantati in “terra di stato” [definita tale da Israele]; 8.000 mq di terra sono stati sequestrati per la costruzione di una strada destinata ad un insediamento colonico. L’episodio dello sradicamento, che ha interessato 200 ulivi e 350 mandorli, si è svolto il 29 ottobre in Area C, nel villaggio di Beit Ula (Hebron). Il sequestro di terra è stato compiuto per far posto a una nuova strada di accesso all’insediamento israeliano di Qedumim (Qalqiliya); i lavori di costruzione hanno causato danni a 35 ulivi.

In Cisgiordania, vicino a Hebron, Ramallah e Gerusalemme, in tre occasioni, palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani; secondo fonti israeliane, hanno causato danni ad almeno un veicolo privato. Non sono stati segnalati feriti. A Nablus, le forze israeliane hanno chiuso l’ingresso principale della scuola Al Lubban ash Sharqiya / As Sawiya, secondo quanto riferito, in risposta al ripetuto lancio di pietre da parte di studenti contro veicoli israeliani. Per lo stesso motivo, durante il periodo di riferimento del precedente Rapporto, la scuola era già stata chiusa per un giorno su ordine militare.

Il valico di Rafah, tra Gaza e l’Egitto, sotto controllo egiziano, è stato aperto in entrambe le direzioni per tutto il periodo di riferimento, ad eccezione di quattro giorni. Un totale di 1.454 persone sono entrate a Gaza, 2.644 ne sono uscite. Dal 12 maggio 2018, il valico è stata quasi continuativamente aperto cinque giorni a settimana.

¡

Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 7 novembre un pescatore palestinese, mentre navigava ad ovest di Rafah, è stato ucciso con armi da fuoco dalle forze navali egiziane.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it