Perché la Cisgiordania non si solleva – per ora

Qassam Muaddi

5 luglio 2014 – Mondoweiss

La Cisgiordania rimane stranamente calma mentre Israele porta avanti il genocidio a Gaza. Ma se la repressione israeliana ha dissuaso una rivolta nelle strade, le placche tettoniche sottostanti continuano a muoversi

Mentre la guerra infuria a Gaza e lungo il confine libanese la Cisgiordania ha occupato una posizione mediatica di secondo piano a fronte dell’incessante genocidio di Israele. A parte la proliferazione di piccole sacche di resistenza armata nei campi profughi e nei centri urbani del nord, la Cisgiordania ha mantenuto un’insolita tranquillità.

Questo silenzio è inusuale. In anni precedenti i palestinesi in Cisgiordania hanno reagito ai crimini dell’occupazione con una serie di mobilitazioni di massa, scontri quotidiani con le truppe israeliane, scioperi generali e campagne di disobbedienza civile. La prima Intifada del 1987, anche se iniziò a Gaza, fu condotta da un movimento unitario e organizzato in Cisgiordania, un ruolo che essa ha continuato a ricoprire nella seguente trentina d’anni.

Ciò include l’ “Intifada dell’Unità” nel maggio 2021, quando i palestinesi della Cisgiordania, di Gerusalemme e della Palestina del ’48 insorsero in una reazione collettiva ai tentativi di Israele di espellere le famiglie palestinesi dalle loro case nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme. L’ondata di proteste di massa in tutte le città della Cisgiordania fu più ampia che mai, raggiungendo il culmine il 18 maggio, quando uno sciopero generale venne attuato in tutta la Palestina storica, dal fiume al mare.

Tutto questo è cambiato dopo il 7 ottobre. Negli scorsi nove mesi la mobilitazione di massa è stata praticamente assente, nonostante gli orrori senza precedenti della guerra genocidaria di Israele a Gaza, che è costata la vita di oltre 37.000 palestinesi. 

Anche se la memoria degli eventi passati di rivolta popolare è ancora viva nella mente delle persone, l’attuale mancanza di mobilitazione in Cisgiordania ha portato molti a concludere che Israele la ha effettivamente neutralizzata come terreno di lotta.

Prima di ottobre: tutt’altro che neutralizzata

Scorrendo le notizie nei mesi ed anni prima del 7 ottobre un osservatore poteva pensare che la Cisgiordania fosse un fronte attivo nella guerra. Le quotidiane incursioni israeliane nelle città palestinesi e nei campi profughi si trovavano ad affrontare palestinesi che sempre più spesso usavano armi invece di pietre per far fronte alle truppe che invadevano le loro case. Gruppi locali di resistenza armata hanno iniziato a proliferare in diverse città, da Jenin a Nablus, Tulkarem, Tubas e Gerico.

Il fenomeno ha attirato analisti e giornalisti, che parlavano di una “nuova generazione di resistenza palestinese”. I mezzi di informazione occidentali riferivano della rivolta armata dei “combattenti della generazione Z della Cisgiordania” su giornali come The Economist, Wall Street Journal e Vice. Molti si sono trovati a chiedersi se ciò che avveniva in Cisgiordania si potesse definire una terza Intifada.

Questa situazione di sollevazione si stava sviluppando da almeno due anni. Nel 2021 l’evasione di sei prigionieri palestinesi dl carcere di massima sicurezza di Gilboa scatenò un’ondata di resistenza armata a Jenin, dove si erano rifugiati due degli evasi. Le forze israeliane li ricatturarono dopo uno scontro con un piccolo gruppo di uomini armati. Dopo la cattura altri giovani iniziarono ad unirsi al gruppo finché nacque la Brigata Jenin. Le fecero seguito la Fossa dei Leoni a Nablus, la Brigata Tulkarem a Tulkarem e la Brigata Tubas a Tubas. Queste città e i campi profughi adiacenti divennero rifugi per i gruppi di resistenza armata.

Contemporaneamente movimenti locali di resistenza civile crescevano in diverse località dove le terre venivano minacciate dall’espansione dei coloni, come a Kufr Qaddoum, Salfit e Nabi Saleh. In alcuni posti la resistenza civile era continuata per oltre un decennio. In altri era stata assente dopo la prima Intifada, ma ora tornava a rivivere. Uno dei casi più famosi è il villaggio di Beita a sud di Nablus, dove gli abitanti hanno manifestato contro l’avamposto dei coloni israeliani di Eyyatar sul Monte Sabih per tre anni. Le forze israeliane hanno imposto e continuano ad imporre ripetute chiusure del villaggio, pattugliando l’ingresso, facendo sistematiche incursioni, revocando i permessi di lavoro delle migliaia di capifamiglia che lavorano in Israele, arrestando e ferendo centinaia di abitanti ed uccidendo finora almeno dieci dei giovani di Beita.

Dopo ottobre: nuovi livelli di repressione

Se qualunque cosa impallidisce a confronto della campagna genocidaria a Gaza, la repressione israeliana contro la resistenza in Cisgiordania ha assunto un significato completamente differente dopo il 7 ottobre. Israele ha revocato decine di migliaia di permessi di lavoro ai palestinesi, ha bloccato decine di strade che i palestinesi utilizzavano per muoversi tra le città e i villaggi in Cisgiordania ed ha drasticamente intensificato la campagna di arresti contro i palestinesi.

Nei primi due mesi dopo il 7 ottobre Israele ha raddoppiato il numero di prigionieri palestinesi, raggiungendo oltre i 10.000 prigionieri. Il numero di detenuti amministrativi – quelli detenuti senza accuse né processo – ha raggiunto i 3.600, mentre prima della guerra erano 1.300.

Anche l’ambito degli arresti è stato ampliato, allargandosi a comprendere palestinesi di tutti i generi, compresi molti non politicamente attivi. Molti degli arrestati sono leader di comunità, giornalisti e attivisti della società civile con scarsi o deboli legami con la politica. All’interno delle prigioni rapporti sui diritti umani e testimonianze di palestinesi rilasciati hanno rivelato livelli senza precedenti di umiliazioni, violenze e torture, che di fatto estendono il genocidio dei palestinesi ai prigionieri sotto custodia israeliana.

Secondo un portavoce dell’Associazione di Sostegno ai Prigionieri Addameer, che ha chiesto di rimanere anonimo, “gli arresti israeliani prendono di mira sistematicamente membri attivi della comunità che sono in grado di mobilitarla, soprattutto quelli che hanno dei trascorsi a riguardo”, ed ha aggiunto che “questo si può vedere chiaramente negli arresti di persone che lavorano nella società civile, nel settore accademico, nei media e nell’ambito dei diritti umani.”

Fuori dalle città la violenza dei coloni israeliani si è scatenata in modo esponenziale, di fatto espellendo circa 20 comunità rurali in Cisgiordania con attacchi violenti e minacce di morte. I coloni israeliani hanno anche aumentato le aggressioni contro palestinesi in viaggio sulle strade cisgiordane, in aggiunta ai rischi di pestaggi e arresti ai posti di blocco militari israeliani.

Queste azioni israeliane negli scorsi nove mesi hanno provocato l’uccisione di 554 palestinesi e l’arresto di 9.400 in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est.

Il motivo dell’intensità della repressione israeliana non è un mistero. Essa è preventiva, con lo scopo di traumatizzare e dissuadere i palestinesi in Cisgiordania dall’aprire un secondo fronte nella battaglia “tempesta di Al-Aqsa”.

L’impatto nelle strade

Nelle città del nord di Jenin e Tulkarem l’escalation impressionante dei raid israeliani, sia nel numero che nella portata delle violenze e distruzioni, ha portato ad un aumento dell’intensità degli scontri armati con i combattenti della resistenza palestinese. Almeno sette soldati israeliani, compresi due ufficiali, sono stati uccisi dal 7 ottobre durante i raid in Cisgiordania, inclusa la morte di un ufficiale e il ferimento di 17 soldati a Jenin solo la scorsa settimana.

Eppure, mentre i gruppi armati in Cisgiordania sono riusciti finora a contrastare l’aggressione, la mobilitazione civile nella sua forma tradizionale in Cisgiordania è rimasta ampiamente assente.

Il 17 ottobre, dieci giorni dopo l’inizio del genocidio a Gaza, palestinesi in diverse città della Cisgiordania sono scesi in strada in seguito alle notizie del bombardamento israeliano dell’ospedale al-Ahli Baptist a Gaza, che ha ucciso 500 persone. A Jenin e Ramallah alcuni manifestanti hanno gridato slogan contro ciò che ritenevano l’inazione dell’Autorità Nazionale Palestinese. Le proteste si sono trasformate in scontri con la polizia palestinese e cinque manifestanti sono stati uccisi. Nelle settimane seguenti i manifestanti hanno evitato di scontrarsi con l’ANP, in quanto il loro numero diminuiva e sono state arrestate da Israele altre figure di primo piano delle proteste.

Il 30 marzo, Giornata della Terra palestinese, la città di Ramallah ha vissuto un momento speciale di risveglio. In migliaia hanno marciato nelle strade della città, comprese persone di ogni età, per circa due ore, con grida in sostegno dei palestinesi a Gaza e denunce di genocidio. Poi è finito tutto.

Dopo la marcia un manifestante ha detto a Mondoweiss che “la gente vi ha visto l’opportunità di esprimersi dopo essere stati costretti per mesi al silenzio, ecco perché il numero dei partecipanti è stato più alto rispetto ad altre marce dall’inizio della guerra ed anche perché è durata così a lungo.”

Tradizionalmente la marcia dovrebbe dirigersi all’ingresso della città (vicino alla colonia Beit El) e finire con alcuni manifestanti che si scontrano con i soldati dell’occupazione, ma questa volta tutti sapevano che ciò non sarebbe accaduto, per questo motivo la marcia ha vagato nel centro della città così a lungo”, ha detto il manifestante.

Il 15 maggio, giorno della Nakba, decine di palestinesi in maggioranza giovani hanno corso il rischio e sono andati all’entrata nord di Ramallah e al-Bireh, protestando di fronte al posto di blocco di Beit El. Parecchi sono stati feriti e un manifestante palestinese è stato ucciso.

Aysar Safi, di 20 anni, era studente al secondo anno di educazione fisica all’università Birzeit e proveniva dal campo profughi di Jalazone a nord di Ramallah. E’stato il sesto palestinese di Jalazone ad essere ucciso dalle forze israeliane dopo il 7 ottobre.

Il fratello maggiore e il padre di Aysar sono entrambi detenuti nelle carceri israeliane. Dopo il loro arresto Aysar si era occupato del negozio di alluminio del padre, lavorando e studiando contemporaneamente. Suo zio lo ha descritto come “il braccio destro di sua madre”. Intanto la madre era troppo soffocata dal lutto per poter parlare.

Aysar era molto colpito dal genocidio a Gaza e diceva che noi dovevamo fare di più qui in Cisgiordania per aiutare il nostro popolo laggiù”, ha detto a Mondoweiss un amico di Aysar. “Era sempre presente all’accoglienza dei prigionieri rilasciati e ai funerali dei martiri.”

La sua uccisione non è stata casuale. I soldati occupanti hanno mirato al suo ventre”, ha sottolineato l’amico. “Hanno usato proiettili veri, non pallottole rivestite di gomma. Intendevano mandare il messaggio che non avrebbero tollerato alcuna protesta, perché vogliono tenere la gente nella paura e mantenere passiva la Cisgiordania.”

Ma per lo storico palestinese Bilal Shalash, che studia la storia della resistenza palestinese, “La Cisgiordania è tutt’altro che passiva.”

Storicamente in Palestina c’è un modello secondo cui quando in una regione si verificano forti ondate di resistenza, al ritorno della calma si riprende in un’altra regione”, dice Shalash a Mondoweiss. “L’occupazione teme un contagio da Gaza alla Cisgiordania, specialmente a nord, ed ecco perché intensifica in modo così brutale la repressione.”

Quanto alla mobilitazione civile, Shalash ritiene che dipenda molto dalla geografia. “Non è del tutto assente”, dice. “Nei villaggi vicini al muro di annessione o alle strade dei coloni israeliani la mobilitazione di massa può variare. Alcuni villaggi hanno sviluppato il proprio movimento di massa locale negli scorsi anni o decenni e continuano le proteste settimanalmente, mentre in altri villaggi una manciata di giovani si scontra con le forze di occupazione e con i coloni quando fanno incursioni.”

Nelle città la gente spesso protesta all’interno dei propri centri urbani senza scontrarsi con l’occupazione, conseguenza della separazione spaziale dei palestinesi dagli occupanti dovuta al regime di Oslo. Ciò ha portato molti ad astenersi dal partecipare a queste azioni, sottolinea Shalash. “Non ne vedono lo scopo”, spiega. “Alcuni ancora partecipano perché vogliono mandare un messaggio all’ANP relativamente alla politica interna palestinese.”

L’ANP ha mostrato l’intenzione di reprimere un sollevamento di massa in Cisgiordania, ma Shalash pensa che vi siano limiti a quanto l’ANP possa impedire le proteste senza rischiare una più vasta reazione. “Per questo esse possono ancora verificarsi”, dice.

Inoltre la mobilitazione di massa in Palestina dipendeva in parte dal coinvolgimento della classe media, che costituiva una parte dell’intellighenzia politica e del movimento popolare. Quella stessa classe media è stata ora risucchiata in uno stile di vita consumistico e spoliticizzato, che viene mantenuto solamente dal flusso di denaro dall’estero – sia verso l’ANP che verso il settore delle ONG.

Però proprio quella stabilità adesso è compromessa da Israele. 

Con il rifiuto di Israele di terminare la guerra a Gaza e l’aumento delle tensioni in tutta la regione tutti i precedenti sintomi di stabilità in Cisgiordania sono scomparsi uno dopo l’altro. Israele non ha fatto che rispondere con sempre maggior repressione, sperando di impedire una grossa scossa di ribellione almeno a livello superficiale. Il problema è che in profondità le placche tettoniche non hanno smesso di muoversi.

Qassam Muaddi è il redattore dello staff sulla Palestina per Mondoweiss.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)