La Giornata della Terra: il progetto israeliano di furto di terre continua indisturbato

Ghada Karmi

30 marzo 2021 – Middle East Eye

Per i palestinesi, la Giornata della Terra continua a essere uno stimolo e un omaggio alla giusta lotta di un popolo indomito per la propria terra.

La centralità della lotta per la terra è sempre stata fondamentale per capire il conflitto israelo-palestinese.

È al cuore di due grandi eventi le cui ricorrenze cadono il 30 marzo. Il primo, la Giornata della Terra, commemora l’inizio della resistenza dei palestinesi all’occupazione della loro terra da parte di Israele nel 1976; e il secondo segna l’inizio della Grande Marcia del Ritorno nel 2018, quando a Gaza migliaia di palestinesi protestarono per il diritto dei rifugiati al ritorno alle loro terre confiscate in Israele.

Fin dall’inizio, il movimento sionista era fondato sull’acquisizione di un territorio deserto su cui stabilire uno Stato esclusivamente per ebrei. Dato che nella Palestina dell’epoca tale terra non era disponibile, doveva essere ottenuta, prima con l’acquisto e poi con la guerra.

Il percorso del furto della terra

Dato che dopo il 1917 gli immigrati ebrei iniziarono ad arrivare nel Paese in numero crescente, organizzazioni sioniste come il Fondo Nazionale Ebraico e l’Associazione per la colonizzazione ebraica della Palestina si approntarono ad acquistare terre palestinesi, a condizione che al momento dell’acquisto non fossero occupate.

Molti proprietari terrieri arabi che non vivevano più in Palestina e una minoranza di agricoltori palestinesi vendettero loro della terra. Queste vendite erano motivate principalmente dalla necessità economica, dato che le organizzazioni sioniste avevano accesso a fondi stranieri di cui gli arabi non disponevano.

Anni di intensi sforzi sionisti produssero tuttavia risultati deludenti. Nel 1947, e nonostante i loro fondi e contatti con potenti sostenitori del sionismo, queste organizzazioni avevano acquisito non più di un misero 6,7% di terreni palestinesi.

Ma questo insuccesso fu rapidamente ribaltato dalla guerra arabo-israeliana del 1948. In questo conflitto Israele conquistò il 78% della Palestina mandataria, impadronendosi di grandi estensioni di terra palestinese, quasi tutta non occupata a causa della fuga della popolazione e delle espulsioni durante la guerra.

Dopo il 1948, il nuovo Stato di Israele passò rapidamente una serie di leggi volte ad acquisire territori palestinesi con mezzi pseudo-legali. Fra queste ci furono la legge sulla Proprietà degli Assenti del 1950 che permetteva allo Stato di occupare terre e beni palestinesi i cui proprietari erano assenti e, subito dopo, la legge di Acquisizione della Terra che introdusse una nuova categoria di “terre statali” e “aree chiuse”, nel 1953.

Tutto ciò ha avuto l’effetto di far sì che lo Stato diventasse il proprietario della maggioranza della terra, permanentemente fuori dalla portata dei suoi precedenti proprietari palestinesi.

Eventi successivi, fino ad includere la guerra arabo-israeliana nel 1967, con cui Israele occupò il resto della Palestina, sono stati tappe dello stesso percorso di furto di terre. Oggi la presenza di colonie israeliane significa che la proprietà palestinese della Cisgiordania e di Gerusalemme Est si è ridotta a meno del 13%. Questa cifra è destinata a diminuire ulteriormente, dato che il processo di colonizzazione continua con ulteriori perdite di territorio.

Ciò ha fatto da sfondo alle drammatiche proteste della Giornata della Terra nel 1976. All’epoca il detonatore era stato il piano del governo israeliano di espropriare migliaia di dunum [10 dunum= 1 ettaro, ndtr.] di terra araba in Galilea per costruire villaggi industriali per ebrei. In linea con il “Piano per lo Sviluppo della Galilea” del governo israeliano nel 1975 per espandere l’insediamento degli ebrei, ciò avrebbe accelerato l’ebreizzazione di quella che era un’area a maggioranza araba. 

La svolta

Il 30 marzo venne indetto uno sciopero generale e scoppiarono numerose proteste in città arabe dalla Galilea al Negev. Migliaia marciarono per protesta mentre si tenevano dimostrazioni di solidarietà nei Territori Occupati e nei campi di rifugiati palestinesi in Libano.

In un momento in cui la popolazione araba era in gran parte passiva, tali eventi giunsero inaspettati per Israele che ne fu allarmato e impiegò migliaia di poliziotti, unità dell’esercito e carri armati per sedare le proteste. Furono uccisi sei arabi, migliaia furono i feriti e centinaia gli arrestati.

La Giornata della Terra fu un punto di svolta. Dal 1948 era la prima volta che, dopo anni di controllo militare israeliano, gli arabi in Israele agivano come una collettività nazionale, rifiutandosi di accettare il furto della loro terra. La Giornata della Terra era un’espressione di orgoglio nazionale e di fiducia in sé. Segnò la rivendicazione di una presenza araba che le politiche israeliane non potevano più ignorare e un punto di partenza per la partecipazione politica degli arabi in Israele. 

Da quel momento in poi, la Giornata della Terra è stata commemorata annualmente dai palestinesi ovunque. Nel 2018 è stata segnata dall’inizio di un’altra grande protesta palestinese per la terra. La Grande Marcia del Ritorno ha visto 30.000 palestinesi dimostrare a Gaza vicino alla recinzione israeliana di separazione di filo spinato elettrificato e dotato di sensori. Era una protesta pacifica che chiedeva il diritto al ritorno alle loro terre per i rifugiati e di porre fine al blocco di Gaza. Previste dal 30 marzo al 15 maggio, la giornata della Nakba o catastrofe, le proteste si sono svolte ogni venerdì.

Un eroismo doppio

Come nel 1976 gli israeliani hanno risposto con violenza assassina. Fra il 30 marzo e il 15 maggio si stima che siano stati uccisi 110 manifestanti, 13.000 i feriti da cecchini e droni. Quando la Marcia del Ritorno è stata interrotta da Hamas nel dicembre 2019, 214 persone erano state uccise e 36.000 ferite. Di queste, 1.200 necessitano di un lungo periodo di riabilitazione in seguito a infezioni alle ossa e lesioni agli arti. Sembra che i soldati israeliani abbiano usato una politica di “spara e ferisci”, mirando intenzionalmente alle gambe dei manifestanti per causare il massimo della disabilità.

Il sistema sanitario di Gaza, danneggiato da anni di blocco, da carenza di personale, attrezzature ed energia elettrica non è riuscito a fronteggiare un tale numero di feriti. Eppure ciò non ha impedito ai giovani palestinesi di affrontare morte e ferite ogni settimana per quasi due anni, creando una nuova leggenda palestinese da commemorare il 30 marzo. 

Israele non ha mai cambiato atteggiamento davanti a quel doppio eroismo palestinese celebrato in occasione della Giornata della Terra. Ha continuato a costruire “città di sviluppo” [denominazione delle nuove città solo per ebrei costruite in particolare nel Negev e in Galilea, ndtr.] per ebrei, 26 dal 1981, con il risultato di alterare la demografia della Galilea a favore degli ebrei.

Allo stesso modo a Gaza continua il blocco, e la scusa dell’autodifesa invocata per giustificare la brutalità di Israele contro la grande Marcia del Ritorno è stata accettata da molti governi occidentali. Il suo progetto di furto della terra palestinese continua indisturbato.  

Ma per i palestinesi il 30 marzo la Giornata della Terra continua a essere un’ispirazione e un tributo alla giusta lotta di un popolo indomito per la propria terra.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ghada Karmi

Ghada Karmi è un’ex-assegnista di ricerca all’Istituto per gli Studi Arabi e Islamici dell’università di Exeter. È nata a Gerusalemme ed è stata obbligata a lasciare la propria casa con la famiglia in seguito alla creazione di Israele nel 1948. La famiglia andò in Inghilterra, dove è cresciuta e ha studiato. Per molti anni Karmi ha esercitato la professione medica lavorando come specialista nella cura di migranti e rifugiati. Dal 1999 al 2001 Karmi è stata membro del Royal Institute of International Affairs [Istituto Reale di Affari Internazionali], dove ha guidato un importante progetto sulla riconciliazione tra israeliani e palestinesi. 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Celebrare la Giornata della Terra nella Palestina del blocco

Yara Hawari

30 marzo 2020 Al Jazeera

Israele sta approfittando della crisi COVID-19 per impadronirsi di più terra palestinese, ma i palestinesi resisteranno

Quarantaquattro anni fa ad oggi, la polizia israeliana uccise sei cittadini palestinesi israeliani mentre protestavano contro l’espropriazione da parte del governo israeliano di migliaia di acri di terra palestinese in Galilea. Da allora, il 30 marzo è riconosciuto come La Giornata della Terra ed è una data importante nel calendario politico palestinese.

Quest’anno i palestinesi celebreranno la Giornata della Terra a casa, nel pieno della pandemia di COVID-19 che ha messo gran parte delle popolazioni del mondo in isolamento e coprifuoco. Essere confinati in casa e in villaggi e città non è un’esperienza nuova per i palestinesi, forse è per questo che in così tanti gestiscono la cosa senza problemi.

In effetti, i palestinesi in Cisgiordania sono confinati in quel che rimane di bantustan collegati tra loro solo da strade controllate dal regime israeliano, mentre i loro fratelli e sorelle a Gaza vivono in una prigione a cielo aperto ritenuta “invivibile” dalle Nazioni Unite. La maggior parte dei palestinesi che vivono al di là della “Linea verde” hanno la cittadinanza israeliana ma vivono in ghetti urbani e rurali.

Inoltre i palestinesi sono separati dai loro fratelli e sorelle arabi, poiché a molti di loro è impedito di viaggiare nel mondo arabo sia perché i loro documenti non consentono di farlo (nel caso di palestinesi con cittadinanza israeliana) sia perché sono soggetti a divieti di viaggio.

Come parte della risposta al COVID-19, il regime israeliano ha imposto ulteriori misure che limitano i movimenti ai palestinesi. La città di Betlemme è stata messa in sicurezza, e i varchi verso Gaza e la Cisgiordania sono stati chiusi. Ai lavoratori palestinesi che lavorano in Israele è anche stato detto di restare per un periodo di tempo indefinito in sistemazioni scadenti e poco igieniche o di rinunciare al lavoro e rimanere in Cisgiordania.

L’Autorità Nazionale Palestinese ha imposto un coprifuoco e istituito checkpoint tra villaggi e città per limitare il movimento delle persone. Le aziende sono state chiuse, ad eccezione di supermercati e farmacie.

Nel frattempo, Israele continua le sue pratiche di rimozione dei palestinesi dalla loro terra, sfruttando persino l’isolamento dovuto alla pandemia per farlo. A Gerusalemme, dove c’è uno sforzo concertato per ebraicizzare i quartieri e ridurre il numero di abitanti palestinesi, le demolizioni di case palestinesi continuano nonostante l’epidemia. Per giustificare la loro demolizione, il regime israeliano afferma che quegli edifici sono illegali, ma ai palestinesi vengono costantemente negati i permessi di costruzione.

Le demolizioni sono usate anche come metodo di punizione collettiva per le famiglie dei prigionieri politici palestinesi, in particolare in Cisgiordania. Nel mezzo dell’attuale pandemia, questa continua e crudele pratica rende assurdi gli appelli delle autorità israeliane a “rimanere a casa”.

Allo stesso modo, la costruzione di insediamenti illegali in Cisgiordania non si è fermata e si teme che in queste circostanze l’annessione de jure di molte aree sarà anche più veloce, specialmente visto che Benjamin Netanyahu è di nuovo nella posizione di guidare il prossimo governo.

Già la scorsa settimana ci sono stati tre episodi in cui gli insediamenti israeliani illegali hanno raso al suolo il territorio palestinese e c’è stato un aumento generale degli attacchi contro le proprietà palestinesi.

All’inizio di questo mese, i palestinesi del villaggio di Beita vicino a Nablus hanno organizzato un sit-in per cercare di proteggere la loro terra dai furti dei coloni. Le forze di sicurezza israeliane sono arrivate al gran completo per difendere i coloni e nel corso degli eventi hanno sparato alla testa il quindicenne Mohammed Hammayel, uccidendolo all’istante.

Molti abitanti della Palestina storica sono preoccupati che Israele userà l’epidemia COVID-19 come scusa per mantenere le nuove misure restrittive anche quando la pandemia sarà finita e anche che impedirà ai palestinesi di opporsi al furto di terra. In un momento in cui il mondo si concentra esclusivamente sulla pandemia e il regime israeliano ha il pieno sostegno dell’amministrazione americana per fare ciò che vuole, un aggressivo espansionismo israeliano sembra inevitabile.

Eppure, nel corso dei decenni, i palestinesi hanno mostrato una forza, un coraggio e un sumud (determinazione) incredibili di fronte a grandi avversità. Se l’espansionismo di insediamento dei coloni israeliani non si ferma, non cessa nemmeno la perseveranza palestinese. Come scrisse il poeta palestinese Tawfiq Ziyad:

A Lidda, a Ramla, in Galilea,

resteremo

come un muro sul vostro petto,

e nelle vostre gole

come un frammento di vetro,

una spina di cactus,

e nei vostri occhi

una tempesta di sabbia.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Yara Hawari è borsista esperta di politica palestinese per Al-Shabaka, rete politica palestinese.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Gaza: il sogno di un giovane scultore fermato da un cecchino israeliano

Patrizia Cecconi

1 aprile 2018, Pressenza

L’hanno ucciso così, con un colpo in fronte. Esecuzione senza processo detta pure assassinio. Era un artista. Aveva 28 anni, si chiamava Mohammed Abu Amr. Era scultore e gli piaceva realizzare alcune opere sulla spiaggia di Gaza. Come per tanti altri artisti palestinesi i temi delle sue creazioni  nascevano dalle particolari condizioni imposte dall’illegalità e dalla profonda ingiustizia subite da questo popolo da troppi decenni.
Usava la grafia araba in forma artistica Mohammed, e l’ultima delle sue opere, realizzata il giorno prima di essere assassinato, rappresentava il suo sogno, che poi è il sogno collettivo rivendicato nella “grande marcia del ritorno”che un popolo festoso ma determinato ha iniziato il 30 marzo, giornata della terra, e concluderà il 15 maggio, giornata della naqba, cioè la cacciata dei palestinesi dalle loro case nel 1948. Era il sogno del ritorno.
Manifestava a Shujaya a est di Gaza city, insieme a decine di migliaia di altre persone di ogni età, sesso e colore e di diverso credo religioso perchè – cosa che molti ignorano – in tutta la Palestina, Gaza compresa, i palestinesi sono sia cristiani, benchè in minoranza, che musulmani, e subiscono la stessa sorte.
La “grande marcia”, organizzata  da giovani palestinesi al di fuori dei partiti politici e quindi trasversale alle diverse fazioni,  aveva tutta l’aria di una grande festa di popolo, di questo popolo che viene spesso descritto in modo assolutamente opposto a quel che realmente è: un popolo che nelle avversità più incredibili riesce a trovare la capacità di vivere senza rinunciare, per quanto possibile,  alla gioia.
Non c’erano che tre o quattro internazionali nella Striscia a testimoniare l’evento, e le loro testimonianze coincidono tutte: una grande manifestazione pacifica, con bambini, vecchi, addirittura persone invalide, uomini e donne di ogni ceto sociale. La loro unica arma era la determinazione a marciare verso il border per dire agli assedianti che Gaza non ne può più, per ricordare al mondo le continue violazioni subite e, in particolare, per rivendicare il diritto al ritorno nelle loro case sancito dalla Risoluzione Onu 194, inapplicata da Israele come tante altre decine di Risoluzioni senza avere per questo alcuna sanzione.
Al solito, i media principali italiani hanno fatto a gara nel raccontare con grande sicurezza versioni lontane dalla realtà, pur non avendo i loro inviati nella Striscia. Tv e giornali hanno parlato per due giorni, quelli che ne hanno parlato, di scontri e battaglie  ed hanno aggiunto, come da velina israeliana pubblicamente diffusa, il tutto voluto dai vertici di  Hamas. Invece non si è trattato di battaglia, ma di un vero e proprio tirassegno a uomini, donne e bambini che manifestavano pacificamente e a mani nude.
Mohammed è stato uno dei primi martiri ad essere colpito. Potremmo dire vittima, e infatti lo è, ma le vittime degli oppressori sono testimoni del diritto a resistere e pertanto, anche etimologicamente, divengono martiri. I tiratori scelti che Israele aveva appostato lungo il border l’hanno colpito a distanza, e con mira perfetta lo hanno centrato sulla fronte. Le parole di Mohammed, consegnate alla memoria in seguito a un’intervista rilasciata pochi giorni prima di essere ucciso, ora sembrano un monumento alla speranza. Il giovane scultore non avrà il futuro che sognava, i cecchini israeliani hanno fermato la sua vita e la sua carriera a soli 28 anni e Mohammed non sarà più un artista, perché da ieri è diventato un martire e un eroe. Aveva detto nell’ultima intervista “sii umano, sii ottimista, fissa un obiettivo nella tua vita e apriti agli altri…. possiamo realizzare nei sogni quello che non siamo riusciti a realizzare nella realtà…immaginiamo che i nostri sogni diventino noi stessi come una realtà incarnata e superiamo così alcune delle nostre difficoltà e dei nostri conflitti psicologici”. Questa era la sua filosofia, ora è il suo testamento ideale.
Adesso lo scultore Mohammed, insieme ad altri 16 ragazzi, alcuni quasi bambini, arricchirà la lista degli eroi. Gaza ha perso un artista ed ha guadagnato un testimone e questo Israele, sempre pronto a convincere il mondo del suo bisogno di sicurezza dovrebbe capirlo.
Soprattutto dovrebbero capirlo i Governi e le Istituzioni che sostengono questo Paese sempre più ricco di manifesta illegalità. Dovrebbero capirlo non solo per quel principio di giustizia che i palestinesi rivendicano e che la comunità umana avrebbe diritto a veder rispettato, ma anche per la stessa sicurezza del Paese loro amico il quale,  macchiandosi di crimini sempre impuniti, incrementa l’odio e non certo la sicurezza.  E il sogno di Mohammed Abu Amr e degli altri sognatori uccisi con lui, seguiterà  ad essere  il sogno dei palestinesi  l’incubo di Israele.




B’Tselem: Gaza non è “zona di guerra”, sparare ai manifestanti è un crimine

29 marzo 2018, B’Tselem

Il Centro di informazione israeliano sui diritti umani nei Territori Occupati:

Prima delle manifestazioni palestinesi programmate per l’inizio di domani (venerdì) a Gaza, gli ufficiali israeliani hanno ripetutamente minacciato di rispondere con l’eliminazione fisica.

Ignorando completamente il disastro umanitario a Gaza di cui Israele è responsabile, stanno interpretando la protesta in termini di rischio per la sicurezza, rappresentando i manifestanti come terroristi e riferendosi a Gaza come a una “zona di guerra”.

Informazioni frammentarie riferite dai media indicano che: i soldati avranno l’ordine di sparare a chiunque si muova entro i 300 metri dalla recinzione; cecchini spareranno a chiunque la tocchi; si sparerà anche in circostanze che non siano una minaccia mortale [per i soldati]. In altre parole sparare per uccidere i palestinesi che partecipano alle dimostrazioni.

Le forze israeliane da tempo hanno già sparato per uccidere contro manifestanti palestinesi a Gaza. Solo nel dicembre 2017- il mese con il più alto numero di morti dello scorso anno- a Gaza le forze israeliane hanno sparato e ucciso otto manifestanti palestinesi disarmati.

Indubbiamente l’ incremento dell’uso illegale delle armi da fuoco innalzerà il numero dei morti. Ma questo prevedibile esito appare non avere scosso gli israeliani responsabili delle decisioni riguardo alla risposta da dare alle manifestazioni a Gaza, sia in generale che in particolare nell’ impartire gli ordini che consentono di aprire il fuoco.

Inoltre, la presunzione israeliana di poter decidere le azioni dei palestinesi all’interno della Striscia di Gaza è assurda. La decisione di dove, se e come manifestare a Gaza non è Israele che la deve prendere, nè rispetto alla manifestazione di domani né in generale rispetto alla vita quotidiana.

I comunicati ufficiali israeliani non fanno alcun riferimento alle concrete motivazioni della protesta, alla situazione disastrosa di Gaza o al diritto di manifestare liberamente. Israele ha il potere di cambiare in meglio [le condizioni] di vita a Gaza, ma ha scelto di non farlo. Ha fatto di Gaza un enorme prigione, ma impedisce ai prigionieri persino di protestare contro di ciò, pena la morte.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)