Giro d’Italia: il ciclista palestinese ferito a Gaza ‘disgustato’ dalla gara a tappe in Israele

Maha Hussaini

Mercoledì 2 maggio 2018, Middle East Eye

Alaa Al-Dali, che ha perso una gamba dopo essere stato colpito mentre protestava vicino alla barriera di confine di Gaza, afferma che la gara a tappe a Gerusalemme è un incoraggiamento agli abusi israeliani.

Un ciclista palestinese, che ha perso una gamba dopo che un cecchino israeliano gli ha sparato mentre manifestava vicino alla barriera di confine di Gaza, ha accusato gli organizzatori e i corridori del Giro d’Italia di incoraggiare la violenza israeliana accettando che la gara si disputi nel Paese.

Alaa al-Dali ha subito otto operazioni ed alla fine gli è stata amputata una gamba dopo essere stato colpito mentre partecipava alle proteste della “Grande Marcia per il Ritorno” il 30 marzo.

Il ventunenne era in lizza per gareggiare per la Palestina nei giochi asiatici a Giakarta in agosto, ed ha detto a Middle East Eye che l’esercito israeliano ha “distrutto il suo sogno”.

Il Giro d’Italia, una delle corse di ciclismo più prestigiose, inizia a Gerusalemme venerdì ed Israele ospiterà altre due tappe prima che la gara ritorni in Italia, suscitando la condanna degli attivisti per i diritti dei palestinesi e dei partecipanti alla campagna di boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni (BDS).

Al-Dali ha fatto appello alla comunità internazionale perché imponga sanzioni ed un boicottaggio sportivo verso Israele, invece di permettergli l’“onore” di ospitare la gara.

“È molto triste sapere che la gente godrà del mio sport preferito nel Paese il cui l’esercito ha distrutto i miei sogni”, da detto al-Dali. “Non è bello. Sono scioccato e disgustato da questa notizia.”

La gara servirà solo a evidenziare il divario tra “l’occupante e l’occupato”, ha aggiunto.

“Questa è una contraddizione all’ennesima potenza. Simili eventi dovrebbero simboleggiare pace e umanità. Non riesco a vedere nulla di pacifico nello spararmi e rendermi disabile per essermi trovato a circa 200 metri dalla barriera di confine.”

Il fratello maggiore di Al-Dali, il venticinquenne Muhammed, ha detto a MEE che i medici hanno deciso di amputargli la gamba a causa dei danni alle ossa e ai tessuti.

Ma ha detto di credere che ci sarebbe stata una possibilità di salvare la sua gamba se Israele non gli avesse negato il permesso di farsi curare in Cisgiordania.

Il sistema sanitario di Gaza è stato devastato da un blocco di 11 anni imposto da Israele dopo la vittoria di Hamas alle elezioni, che ha gettato l’enclave in una crisi umanitaria.

‘Occhi chiusi di fronte alle nostre sofferenze’

“Gli organizzatori ed i partecipanti non solo chiudono gli occhi sulle nostre sofferenze, in quanto atleti a cui vengono negati i diritti fondamentali, ma stanno anche incoraggiando le autorità israeliane ad imporre ulteriori restrizioni ed a continuare nei loro soprusi contro di noi”, ha detto Alaa al-Dali.

Secondo Ashraf al-Qedra, portavoce del ministero della Sanità palestinese a Gaza, dall’inizio delle proteste della Grande Marcia per il Ritorno, in cui i palestinesi stanno protestando per il loro diritto al ritorno nelle terre e nelle case occupate da Israele nel 1948 e nei successivi conflitti, almeno 44 palestinesi sono stati uccisi ed altri 7.000 feriti, comprese decine di persone rimaste disabili.

Venerdì la prima tappa del Giro d’Italia vedrà gli atleti correre una corsa a cronometro di 9.7 km. a Gerusalemme ovest, che terminerà sotto le mura della Città Vecchia di Gerusalemme, nella Gerusalemme est occupata.

Poi Israele ospiterà tappe da Haifa a Tel Aviv e da Beer Sheva attraverso il deserto del Negev fino al porto di Eilat, sul Mar Rosso.

La gara ospita alcuni dei più famosi ciclisti al mondo, compreso Chris Froome, che cerca di diventare il primo campione, nell’era del ciclismo moderno, a conquistare contemporaneamente tutti e tre i titoli dei grandi tour sportivi, il Tour de France, la Vuelta de España e il Giro d’Italia.

La gara ospita anche squadre sponsorizzate dagli Emirati Arabi Uniti e dal Bahrain.

La partenza della gara è particolarmente significativa poiché coincide con le celebrazioni del 70^ anniversario del giorno dell’indipendenza di Israele, e avviene solo pochi giorni prima che i palestinesi celebrino l’anniversario della Nakba, o catastrofe, in cui più di 750.000 persone furono espulse con la forza dalle loro terre nel maggio 1948.

Una mappa illustrata del percorso della gara pubblicata sul Twitter del Giro mostra la Città Vecchia di Gerusalemme e la moschea della Cupola della Roccia.

Il movimento BDS ha condotto una campagna perché la corsa venisse spostata fin da quando è stato annunciato il percorso l’anno scorso, avvertendo che far partire la gara in Israele avrebbe assunto il significato di un “timbro di approvazione” delle “violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani dei palestinesi.”

“Proprio come sarebbe stato inaccettabile per il Giro d’Italia partire dal Sudafrica dell’apartheid negli anni ’80, è ora inaccettabile far partire la gara da Israele, in quanto questo servirà solo come sigillo di approvazione dell’oppressione di Israele sui palestinesi”, ha dichiarato il movimento sul suo sito web ufficiale.

In seguito alla comunicazione del percorso della gara lo scorso novembre, le associazioni per i diritti hanno emesso un comunicato congiunto chiedendo agli organizzatori di RCS Sport di spostare la partenza della gara da Israele, che, secondo loro, “accrescerà il senso di impunità di Israele.”

In risposta, RCS Sport, l’organizzatore del Giro, ha detto che la gara si sarebbe svolta in Israele come parte dell’“internazionalizzazione” dell’evento e come “un mezzo per esportare nel mondo tutto ciò che è italiano”.

A settembre il direttore della gara Mauro Vegni ha detto: “La realtà è che vogliamo che questo sia un evento sportivo e che si tenga lontano da ogni questione politica.”

Saied Timraz, vicepresidente di Palestinian Motorsport, Motorcycle and Bicycle Federation, ha affermato che è “irragionevole” tenere un evento così prestigioso in Israele allo stesso tempo in cui gli atleti palestinesi vengono privati dei loro diritti fondamentali dalle autorità israeliane.

“Israele usa lo sport per mascherare le sue flagranti violazioni contro i palestinesi. Ha un particolare interesse ad ospitare questo evento in quanto esso consente ai partecipanti di ammirare i luoghi e promuovere una immagine civilizzata di Israele”, ha detto Timraz a MEE.

“Benché lo sport e la politica debbano mantenersi separati, nulla può giustificare dare un premio agli oppressori.”

Secondo Timraz, lo scorso novembre le autorità israeliane hanno rifiutato a lui ed altri sei atleti palestinesi i permessi per uscire da Gaza per gareggiare nel campionato arabo di atletica del 2017, organizzato dalla Associazione Atletica Araba in Tunisia.

“Non è la prima volta che ci negano i permessi per partecipare ad eventi internazionali”, ha detto Timraz.

“Le autorità israeliane vogliono imporre severe restrizioni ai palestinesi che intendono partecipare ad eventi che darebbero voce alle loro sofferenze e mostrerebbero il vero volto dell’occupazione.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)





Rapporto OCHA del periodo 10 – 23 aprile 2018 (due settimane)

La serie di dimostrazioni di massa, iniziate il 30 marzo nel contesto della “Grande Marcia del Ritorno”, è continuata a Gaza durante il periodo di riferimento [di questo Rapporto, cioè fino al 23 aprile]

Le manifestazioni hanno avuto luogo in cinque campi di tende situate a circa 600-700 metri dalla recinzione perimetrale con Israele. Alcune centinaia di manifestanti, su decine di migliaia, si sono avvicinati ed hanno tentato di fare una breccia nella recinzione, bruciare pneumatici, gettare pietre e, secondo fonti israeliane, lanciare bombe incendiarie ed altri ordigni esplosivi alle forze israeliane, o di collocarli lungo la recinzione. Queste ultime hanno usato proiettili di gomma, gas lacrimogeni e proiettili di arma da fuoco; un centinaio di cecchini sono stati schierati lungo la recinzione.

Dall’inizio delle proteste, fino al termine del periodo di riferimento, 34 palestinesi, tra cui quattro minori, sono stati uccisi dalle forze israeliane. Inoltre, cinque palestinesi sono stati uccisi a Gaza in altre circostanze ed altri due, entrati in Israele attraverso la recinzione, sono stati colpiti ed uccisi; i loro corpi sono ancora trattenuti dalle autorità israeliane. A Gaza, secondo il Ministero Palestinese della Salute, dal 30 marzo un totale di 5.511 palestinesi, tra cui almeno 454 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane. Di questi, 3.369 persone (il 61%) sono state ricoverate in ospedale; 1.739 dei ricoverati erano stati colpiti da proiettili di arma da fuoco. Non sono stati segnalati ferimenti di israeliani. Il gran numero di vittime tra i manifestanti palestinesi disarmati, e l’alta percentuale di feriti da proiettili di arma da fuoco, ha suscitato preoccupazioni sull’uso eccessivo della forza. I medici dell’ospedale Shifa di Gaza riferiscono di aver curato lesioni non più viste dai tempi delle ostilità del 2014; alcune di tali lesioni possono causare inabilità permanente. Ciò solleva interrogativi sul tipo di munizioni usate dalle forze israeliane.

Per ulteriori informazioni e grafici: https://www.ochaopt.org/content/humanitarian-snapshot-mass-casualties-context-demonstrations-gaza-strip-0

Durante il periodo di riferimento, nove palestinesi, compreso un minore, sono stati uccisi dalle forze israeliane e 1.739 sono stati feriti nel contesto delle dimostrazioni nella Striscia di Gaza (inclusi nel conteggio di cui sopra). I nove morti sono costituiti da otto uomini ed un 14enne che, secondo fonti mediche, è stato colpito alla testa da un proiettile mentre si trovava a circa 50 metri dalla recinzione. Il Coordinatore Speciale delle Nazioni Unite per il Processo di Pace in Medio Oriente ha espresso indignazione per l’uccisione e ha chiesto un’indagine. L’Esercito Israeliano ha dichiarato che sarà svolta un’inchiesta su questo episodio. Il Coordinatore Umanitario, Jamie McGoldrick, ha chiesto tutela dei manifestanti palestinesi e finanziamenti urgenti per fronteggiare le esigenze umanitarie critiche generate dal massiccio aumento delle vittime a Gaza dal 30 marzo.

In diverse occasioni, nei giorni 12, 17 e 18 aprile, le forze israeliane hanno effettuato molteplici attacchi aerei e sparato colpi di carro armato su Gaza, mirando, a quanto riferito, a siti militari; un membro di un gruppo armato palestinese è stato ucciso e cinque altri sono rimasti feriti. È stato inoltre segnalato il danneggiamento di una casa.

In Cisgiordania, 331 palestinesi, tra cui 49 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane durante proteste e scontri. Per l’85% circa, queste lesioni si sono verificate durante scontri scoppiati dopo le proteste in solidarietà con la Grande Marcia del Ritorno, svolta a Gaza. Gli scontri a Kafr Qalil (Nablus) hanno fatto contare il più alto numero di feriti; seguono i feriti conteggiati negli scontri avvenuti nei pressi del DCO di Al Bireh (Ramallah) e nella città di Abu Dis (Gerusalemme). La maggior parte delle lesioni (70%) sono state causate da inalazione di gas lacrimogeno necessitante trattamento medico, seguite da lesioni causate da proiettili di gomma (20%) e da pallottole di arma da fuoco (3%). In altri tre episodi, avvenuti in Cisgiordania, 24 palestinesi, tra cui due minori, sono stati feriti durante scontri con le forze israeliane intervenute a seguito di alterchi e scontri tra residenti palestinesi e coloni entrati in vari siti religiosi.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 183 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 203 palestinesi, di cui 24 minori. Più di un terzo di queste operazioni hanno innescato scontri con i residenti. Nel Governatorato di Hebron è stata effettuato il più alto numero di arresti (55, di cui quattro minori) ed il maggior numero di operazioni (51).

Citando la mancanza di permessi edilizi israeliani, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 16 strutture in sei località in Area C: non ci sono stati sfollamenti dalle abitazioni, ma le demolizioni/sequestri hanno riguardato i mezzi di sussistenza di 362 persone. Undici delle strutture oggetto dei provvedimenti di cui sopra si trovavano nell’Area C dei villaggi di Shuqba e Jibiya (entrambi in Ramallah), di Al ‘Auja (Jericho) e della comunità beduina palestinese di Sud ‘Anata (Gerusalemme). Quattro delle strutture mirate erano utilizzate come aule e due come servizi igienici di una scuola elementare che serve 24 studenti nella comunità pastorale di Khirbet Zanuta nel sud di Hebron. Una delle strutture interessate dai provvedimenti sopraccitati era utilizzata come aula scolastica dalla comunità beduina di Jabal al Baba, nell’Area C del Governatorato di Gerusalemme, ed era stata fornita come assistenza umanitaria in risposta a demolizioni precedenti. Questa specifica demolizione ha interessato 290 persone, di cui 151 minori. Jabal al Baba è una delle 46 comunità beduina palestinesi nella Cisgiordania centrale ad alto rischio di trasferimento forzato. Le forze israeliane hanno inoltre demolito un autolavaggio ed un parco giochi pubblico per bambini (entrambi situati vicino al checkpoint di Qalandiya e Kafr Aqab), pregiudicando il sostentamento di 86 persone; hanno anche demolito un laboratorio nel villaggio di Beiti Anan, in Gerusalemme (Area B), dove hanno sequestrato computer, stampanti ed altre attrezzature; a quanto riferito il sequestro è stato motivato da attività di incitamento; sono stati colpiti i mezzi di sussistenza di 17 persone.

Il 23 aprile, nella città di Jenin, le autorità israeliane hanno demolito una casa per motivi punitivi, sfollando sette persone, tra cui due minori. La casa demolita apparteneva alla famiglia del palestinese, attualmente imprigionato, che, nel gennaio 2018, partecipò ad un attacco in cui un colono israeliano venne ucciso. Dall’inizio del 2018, due case sono state demolite o sigillate per motivi punitivi, sfollando sette palestinesi.

Per mancanza di permessi edilizi israeliani, le autorità israeliane hanno emesso almeno 19 ordini di demolizione o di blocco-lavori contro strutture appartenenti a tre comunità nell’Area C. Le strutture comprendono undici case abitate in Khirbet Ghwein (Hebron), sette strutture di sostentamento in Ni’lin, ed una struttura abitativa nella comunità di Jawaya, nella zona di Yatta (Hebron).

In Cisgiordania tre palestinesi sono stati feriti da coloni israeliani e proprietà palestinesi sono state vandalizzate nel corso di undici episodi di violenza. Il 10 aprile, coloni israeliani hanno aggredito fisicamente e ferito un palestinese vicino Tell (Nablus). Secondo fonti della Comunità locale, in tre episodi distinti, circa 140 ulivi su terreni appartenenti a palestinesi dei villaggi di Rujeib, Burin ed ‘Urif (tutti a Nablus) sono stati vandalizzati da coloni israeliani provenienti, a quanto riferito, dagli insediamenti colonici di Yitzhar e Bracha. Inoltre, in altri cinque diversi episodi, coloni israeliani hanno bucato le gomme di 113 veicoli palestinesi, hanno spruzzato scritte del tipo “questo è il prezzo che dovete pagare” sui muri di dieci case palestinesi ed hanno incendiato una moschea nei villaggi di Lubban Ash Sharqiya e Aqraba (entrambi in Nablus), di Rammun e Burqa (entrambi a Ramallah), e di Beit IKSA (Gerusalemme). Due studenti palestinesi (11 e 12 anni) sono stati feriti e il loro scuolabus ed una casa hanno subìto danni in due separati episodi di lancio di pietre e di bottiglie incendiarie da parte di coloni sulle strade nei pressi di Durai (Hebron) e nella zona H2 della città di Hebron. La violenza dei coloni è andata aumentando dall’inizio del 2018, con una media settimanale di cinque attacchi recanti lesioni o danni alla proprietà, rispetto ad una media di tre attacchi nel 2017 e due nel 2016.

Secondo rapporti di media israeliani, quattro coloni israeliani, tra cui una donna, sono rimasti feriti e quattro veicoli sono stati danneggiati su strade vicino a Betlemme, Hebron, e Gerusalemme a seguito del lancio di bottiglie incendiarie e pietre da parte di palestinesi.

In Gaza, per la terza settimana consecutiva, continuano a verificarsi interruzioni di corrente fino a 20 ore al giorno; ciò pregiudica gravemente l’erogazione dei servizi essenziali, tra cui quelli sanitari, l’acqua potabile ed il trattamento delle acque reflue. La Centrale Elettrica di Gaza, a causa della mancanza di carburante, è totalmente inattiva dal 12 aprile, mentre le tre linee dell’elettricità egiziana sono fuori servizio dal 10 febbraio.

Il valico di Rafah, controllato dall’Egitto, è stato aperto per tre giorni (dal 12 al 14 aprile) in entrambe le direzioni, permettendo il rientro nella Striscia di 400 persone e l’uscita di 2.500. Dall’inizio del 2018, il valico è stato aperto solo tredici giorni; otto giorni in entrambe le direzioni e cinque giorni in una direzione. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, più di 23.000 persone, inclusi casi umanitari ad alta priorità, sono registrate ed in attesa di attraversare il valico.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Comunicato di Amnesty International per l’embargo delle armi dirette a Israele

27 aprile 2018, Amnesty International

Sulla base delle sue recenti ricerche, Amnesty International ha concluso che nel corso delle proteste della “Grande marcia del ritorno”, a Gaza l’esercito israeliano ha ucciso e ferito manifestanti palestinesi che non costituivano alcuna minaccia imminente.

Nel corso delle proteste dei venerdì, iniziate il 30 marzo, i soldati israeliani hanno ucciso 35 palestinesi e ne hanno feriti oltre 5500, in alcuni casi arrecando intenzionalmente danni potenzialmente letali.

Pertanto, Amnesty International ha rinnovato la sua richiesta ai governi affinché, dopo la sproporzionata risposta alle manifestazioni nei pressi della barriera che lo separa dalla Striscia di Gaza, sia imposto un embargo sulle armi dirette a Israele.

Da quattro settimane il mondo assiste con orrore agli attacchi dei cecchini e di altri soldati, perfettamente protetti, che da dietro la barriera colpiscono i manifestanti palestinesi con proiettili veri e gas lacrimogeni. Nonostante le ampie condanne internazionali, l’esercito israeliano non ha ritirato l’ordine illegale di sparare contro manifestanti disarmati”, ha dichiarato Magdalena Mughrabi, vicedirettrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord.

Il tempo delle simboliche dichiarazioni di condanna è finito. La comunità internazionale deve agire concretamente e fermare l’afflusso di armi e di equipaggiamento militare a Israele. Non farlo significherà continuare ad alimentare gravi violazioni dei diritti umani contro uomini, donne e bambini che già vivono nella sofferenza a causa del crudele blocco imposto da Israele contro Gaza. Queste persone stanno semplicemente protestando contro la loro insopportabile condizione di vita e chiedono il diritto di tornare nelle loro case e nei loro villaggi in quello che oggi è Israele”, ha aggiunto Mughrabi.

Gli Usa sono il principale fornitore di materiale e tecnologia militare a Israele e hanno assunto l’impegno di fornire, nei prossimi 10 anni, aiuti militari per un valore di 38 miliardi di dollari. Ma anche altri paesi – tra cui Francia, Germania, Italia e Regno Unito – hanno autorizzato grandi quantità di forniture.

Manifestanti colpiti alle spalle

Nella maggior parte dei casi analizzati da Amnesty International, i manifestanti uccisi sono stati colpiti sulla parte superiore del corpo, come la testa e il petto, in alcuni casi mentre davano le spalle ai soldati israeliani. Testimonianze oculari, riprese video e immagini fotografiche lasciano intendere che molti di loro sono stati uccisi o feriti in modo intenzionale mentre non ponevano alcuna minaccia.

Mohammad Khalil Obeid, un calciatore di 23 anni, è stato colpito a entrambe le ginocchia il 30 maggio nei pressi del campo di al-Breij. In quel frangente, stava riprendendo sé stesso dando le spalle alla barriera. Il video, pubblicato sui social media, mostra che nel momento in cui è stato colpito si trovava in una zona isolata, lontano dalla barriera, e non sembrava rappresentare alcuna minaccia alla vita dei soldati israeliani.

Ferite mai viste dai tempi del conflitto del 2014

I medici dell’ospedale europeo e di quello di Shifa, nella città di Gaza, hanno dichiarato ad Amnesty International che molte delle gravi ferite che hanno curato erano agli arti inferiori, come le ginocchia, di un genere mai visto dal conflitto di Gaza del 2014.

Molti feriti hanno riportato gravi danni alle ossa e ai tessuti, così come ferite da fori di uscita tra i 10 e i 15 millimetri e rischiano di subire ulteriori complicazioni, infezioni, paralisi o amputazioni. Il gran numero di ferite alle ginocchia, che aumentano la probabilità di frammentazione del proiettile, sono particolarmente preoccupanti e lascerebbero intendere che l’esercito israeliano possa intenzionalmente infliggere ferite mortali.

Secondo esperti militari e medici legali che hanno esaminato le immagini delle ferite, molte sono compatibili con quelle causate dai fucili d’assalto Tavor, di fabbricazione israeliana, dotati di munizioni di 5,56 milllimetri. Altre chiamano in causa i fucili M24, prodotti dalla statunitense Remington, dotati di munizioni da caccia di 7,62 millimetri, che si ingrandiscono ed espandono all’interno del corpo.

Secondo Medici senza frontiere, la metà degli oltre 500 pazienti trattati nei suoi centri presentavano ferite “in cui il proiettile ha letteralmente distrutto i tessuti dopo aver polverizzato l’osso”.

La natura di queste ferite illustra come i soldati israeliani stiano usando armi militari ad alta velocità per causare il massimo danno a manifestanti palestinesi che non pongono un’imminente minaccia nei loro confronti. Questo apparentemente voluto tentativo di uccidere e ferire è profondamente preoccupante, oltre che del tutto illegale. In alcuni casi sembra essersi trattato di uccisioni deliberate, una grave violazione delle Convenzioni di Ginevra e un crimine di guerra”, ha commentato Mughrabi.

Se Israele non assicurerà indagini efficaci e indipendenti che diano luogo a processi nei confronti dei responsabili, il Tribunale penale internazionale dovrà aprire un’indagine su tali uccisioni e gravi ferimenti in quanto possibili crimini di guerra e garantire che i responsabili saranno portati di fronte alla giustizia”, ha sottolineato Mughrabi.

Secondo il ministero della Sanità di Gaza, alla data del 26 aprile il totale dei feriti era stimato a 5511 (592 bambini, 192 donne e 4727 uomini), 1738 dei quali colpiti da proiettili veri. Circa la metà delle persone ricoverate presentava ferite alle gambe e alle ginocchia, 225 al collo e alla testa, 142 all’addome e al bacino, 115 al petto e alla schiena. Finora, sono state necessarie 18 amputazioni.

Tra le persone morte a seguito delle ferite vi sono quattro minorenni tra i 14 e i 17 anni e due giornalisti, che indossavano giubbotti protettivi che li identificavano con chiarezza come tali. Molti altri sono stati feriti.

Gli ospedali di Gaza stanno gestendo con difficoltà l’elevato numero di feriti a causa della scarsità di forniture mediche, energia elettrica e gasolio causata dal blocco israeliano e dalle divisioni politiche palestinesi. Nel frattempo, Israele ha ritardato o rifiutato il trasferimento di alcuni pazienti bisognosi di cure specialistiche d’urgenza disponibili in altre parti dei Territori, a causa della loro partecipazione alle proteste.

Yousef al-Kronz, un giornalista di 20 anni, ha subito l’amputazione della gamba sinistra dopo che le autorità israeliane gli avevano negato il permesso di ricevere cure mediche urgenti a Ramallah. A seguito di un’azione legale di gruppi per i diritti umani, ha potuto poi lasciare Gaza e operarsi per evitare l’amputazione dell’altra gamba.

Personale paramedico in servizio a Gaza ha riferito ad Amnesty International delle difficoltà di evacuare i manifestanti feriti a causa dei gas lacrimogeni esplosi contro di loro e nei pressi degli ospedali da campo.

Uccisioni e ferimenti potenzialmente letali illegali

Nonostante gli organizzatori della “Grande marcia del ritorno” avessero ripetutamente dichiarato che le proteste sarebbero state pacifiche si sarebbero svolte mediante sit-in, concerti, competizioni sportive, discorsi e altre attività pacifiche, l’esercito israeliano ha rafforzato il suo schieramento alla barriera collocandovi carri armati e altri veicoli militari, soldati e cecchini e ha dato ordine di sparare a chiunque si trovasse nel raggio di diverse centinaia di metri di distanza dalla barriera stessa.

Sebbene alcuni manifestanti abbiano cercato di avvicinarsi alla barriera, abbiano lanciato pietre in direzione dei soldati e dato fuoco a pneumatici, le informazioni raccolte da Amnesty International e dai gruppi per i diritti umani israeliani e palestinesi mostrano che i soldati israeliani hanno colpito manifestanti privi di armi, giornalisti, personale medico e altre persone che erano distanti dalla barriera da 150 a 400 metri e che non ponevano in essere alcuna minaccia.

In una richiesta alla Corte suprema di ordinare la fine dell’uso dei proiettili veri per disperdere le proteste, le associazioni per i diritti umani Adalah e Al Mezan hanno presentato 12 video pubblicati sui social media in cui persone prive di armi, tra cui donne e bambini – in alcuni casi, mentre sventolavano bandiere palestinesi o scappavano dalle vicinanze della barriera – sono stati colpiti dai soldati israeliani.




Le truppe israeliane hanno sparato prima alla gamba sinistra di un giornalista di Gaza, poi alla destra. E non si sono fermate qui.

Gideon Levy e Alex Levac

27 aprile 2018, Haaretz

L’amputazione della gamba sinistra di Yousef Kronz, 19enne fotografo di Gaza, avrebbe potuto essere evitata se Israele gli avesse permesso di ricevere cure mediche tempestive in Cisgiordania.

La sua gamba sinistra è stata amputata nell’ospedale di Shifa nella Striscia di Gaza, e ora sono in corso gli sforzi, nell’Istituto Ospedaliero Arabo Istishari in Cisgiordania, per assicurarsi che la sua gamba destra non subisca lo stesso destino. Più di due settimane sono passate tra l’amputazione della prima gamba – che anch’essa avrebbe potuto essere evitata – e gli sforzi intrapresi per salvare l’altra. Tempo prezioso in cui Israele ha rifiutato a Yousef Kronz, il primo Palestinese gravemente ferito durante le recenti proteste settimanali nella Striscia di Gaza, il permesso di essere trasferito nell’ospedale alla periferia di Ramallah. L’Alta Corte di Giustizia alla fine ha costretto il Ministero della Difesa a porre fine a questa vergognosa condotta e consentire il trasferimento dello studente e giornalista 19enne del campo profughi di Bureij, in quella struttura più attrezzata.

Venerdì 30 marzo, Kronz è stato colpito da un cecchino delle forze di difesa israeliane, prima alla gamba sinistra e poi, pochi secondi dopo, quando ha cercato di alzarsi, alla gamba destra, da un secondo cecchino. Secondo Kronz, i proiettili che gli hanno colpito le gambe e gli hanno frantumato la vita provenivano da due diverse direzioni. In altre parole, è stato colpito da due diversi tiratori, mentre si trovava a 750 metri dal reticolato che segna il confine di Gaza, armato solamente della sua macchina fotografica, con indosso un gilet con su scritto “Stampa”, cercando di documentare il fuoco incessante dei cecchini israeliani contro i manifestanti palestinesi disarmati. Dopo essere stato colpito, ci dice ora, ha visto sempre più persone cadere sulla sabbia, sanguinando, “come uccelli”. L’incidente è avvenuto nella Giornata della Terra, il primo giorno delle Marce del Ritorno di fronte al confine di Gaza.

L’ospedale Istishari è situato in alto nel villaggio di Surda, a nord di Ramallah. È una grande, nuova, sofisticata struttura privata, lussuosa e scintillante. Kronz ha una stanza privata, spaziosa e ben illuminata, con un letto regolabile, un televisore, pareti con pannelli in legno ed una vista mozzafiato. Israele non ha permesso a nessuno della sua famiglia di accompagnare Kronz in Cisgiordania o di badare a lui, eccetto a suo nonno, Mohammed Kronz, che ha 85 anni, e che, dopo pochi giorni, è stato costretto ad andare a casa di parenti nel lontano campo profughi di Aroub, vicino a Betlemme, per riposarsi. Ora Yousef, che soffre di forti dolori al moncone e alla sua gamba rimanente, viene assistito con devozione infinita da un cugino, Ghassan Karnaz, anch’egli di Aroub. The two cou sins had never met before.I due cugini non si erano mai incontrati prima. Come tutti i giovani di Gaza, Kronz non era mai stato fuori dalla Striscia. Ora ha violato l’assedio di Gaza – senza una gamba.

Studente di comunicazione del primo anno all’Università Al-Azhar di Gaza, è di una famiglia originaria di Faluja, nel Negev. Suo padre riceve uno stipendio dall’Autorità Palestinese come funzionario della polizia di Gaza. Kronz era attivo nei social network, dove scriveva sulla situazione nella Striscia. Qualche mese fa, ha acquistato una macchina fotografica Canon 5D per 5.000 dollari, metà dai suoi risparmi e il resto da suo padre, e ha iniziato a lavorare per l’agenzia di stampa locale Bureij.

Kronz è stato il primo giornalista ferito durante il mese delle manifestazioni, anche se non l’ultimo. Conosceva Yaser Murtaja, un giornalista ucciso a sangue freddo da cecchini israeliani il 6 aprile. Come Kronz, anche Murtaja proveniva da un campo profughi di Gaza – Jabalya.

Il 30 marzo, Kronz ha camminato per circa un chilometro e mezzo da casa sua al luogo delle dimostrazioni per fotografarle per la sua agenzia di stampa. Ha recitato le preghiere del mezzogiorno nella tenda dei giornalisti allestita lì. I 25 reporter locali hanno quindi discusso di come avrebbero coperto lo svolgersi delle proteste che stavano documentando. L’atmosfera era tesa, ricorda ora; tutti si aspettavano un numero elevato di vittime.

Pensava che le forze di difesa israeliane avrebbero usato munizioni vere? “Le forze di difesa israeliane usano sempre le munizioni vere.” La sua faccia è contorta dal dolore, ma Kronz è ben curato, nonostante le sue condizioni. Guarda costantemente lo specchio o la telecamera nel suo cellulare, per essere sicuro che il suo taglio di capelli alla moda sia a posto. Dopo le preghiere, continua, la gente inizia a incendiare i pneumatici. Cartelli predisposti dagli organizzatori indicavano la direzione per i servizi igienici e per le varie tende e anche la distanza dal recinto di confine in ogni punto. Così Kronz sapeva di essere a 750 metri dalla barriera. Il giorno prima, le forze di difesa israeliane avevano lanciato dei volantini nella vicina Jabalya, avvertendo che chiunque si fosse avvicinato a più di 300 metri dalla recinzione avrebbe rischiato la vita. Dopo anni di esperienza, gli abitanti di Gaza prendono sul serio questi avvertimenti. Gli organizzatori hanno contrassegnato una zona consentita e una zona rossa proibita e pericolosa. Karnaz dice che era a centinaia di metri fuori dal confine della zona rossa.

Alle 2 del pomeriggio, la situazione si è surriscaldata. Le truppe dell’esercito israeliano hanno iniziato a lanciare granate lacrimogene mentre alcuni giovani si avvicinavano a 100 metri dalla recinzione. Hanno usato fionde per lanciare sassi contro i soldati, ma erano troppo lontani per colpirli. Kronz dice di aver visto alcune dozzine di soldati di fronte a lui dall’altra parte della barriera; tre jeep e la canna di un carro armato stavano sbirciando da dietro un terrapieno. Anche lui ha trovato un piccolo cumulo di terra e si è appollaiato dietro di esso, posizionando il treppiede con la sua fotocamera su di un lato e il suo zaino sull’altro. Si è inginocchiato sulla sabbia, le gambe incrociate davanti a lui. La nuvola di gas lacrimogeni si è fatta più intensa, i soldati hanno iniziato a sparare le granate a raffica e il cielo si è riempito di gas denso e irritante. Il vento portava il gas nella sua direzione; i manifestanti usavano le cipolle per proteggersi.

Kronz ha scattato circa 950 foto.

Ricorda di aver guardato il suo orologio alle 15:00. Più tardi quel pomeriggio, un amico, Bilal Azara, si sarebbe sposato a Bureij; quindi pensò che avrebbe dovuto andare a casa, farsi una doccia e cambiarsi. Kronz prese la sua macchina fotografica e lo zaino e si alzò in piedi. In quel preciso istante, il primo proiettile lo colpì. Non sentì nulla tranne un dolore bruciante. La fotocamera cadde dalle sue mani e lui collassò a terra, quindi cercò immediatamente di alzarsi. In quel momento il secondo proiettile squarciò l’altra gamba. Il primo è entrato cinque centimetri sotto il ginocchio, il secondo a sette centimetri sopra l’altro ginocchio. Paralizzato, cercò di gridare aiuto ma la sua voce lo tradì. Dice di essersi sentito sentirsi come fulminato. La sua macchina fotografica è stata abbandonata nelle sabbie di Gaza.

A pochi metri c’era un giovane della stessa età, Ahmed al-Bahar, un assistente di uno degli altri fotografi. Bahar corse da Kronz e cercò di sollevarlo, ma proprio in quel momento anche lui fu colpito a una gamba e cadde a terra sanguinando.

A questo punto della nostra conversazione, lontani parenti dell’11enne Abed al-Rahman Nufal, che ha perso anche lui una gamba a Gaza ed è ricoverato qui all’Istishari, entrano nella stanza per salutare. Nufal è uno degli unici tre altri abitanti di Gaza feriti che Israele ha permesso di trasportare qui, su 1.500 feriti nelle manifestazioni fino ad oggi. La famiglia, ex abitanti di Gaza che ora vivono in Cisgiordania, è venuta per vedere come sta il ragazzo.

Alcuni giovani hanno trasportato Kronz e Bahar all’unica ambulanza della zona. In breve tempo il veicolo era pieno zeppo di sei feriti distesi l’uno accanto all’altro; Kronz era il ferito più grave. I soldati continuavano a lanciare gas lacrimogeni; Kronz si sentiva come se stesse soffocando nell’ambulanza. Un paramedico gli ha messo una maschera di ossigeno sul viso, ma l’affollamento all’interno gli ha impedito di fermare l’emorragia dalle gambe di Kronz. Semi-incosciente, Kronz è stato portato all’ospedale Al-Aqsa a Dir al-Balah.

All’ospedale ha visto la sua gamba sinistra per la prima volta; era frantumata, l’osso sporgente, la carne lacerata. Alla sua vista è svenuto. È stato anestetizzato e trasferito immediatamente in un ospedale più grande, l’ospedale Shifa di Gaza City, a causa della gravità delle ferite. A Shifa ha subito un intervento chirurgico di sei ore per fermare l’emorragia.

Dopo quattro giorni a Shifa la condizione della gamba sinistra di Kronz si è deteriorata e i medici sono stati costretti ad amputarla sopra il ginocchio. Ha ricevuto 24 trasfusioni di sangue. La richiesta di trasferirlo a Ramallah per il trattamento è stata presentata a Israele poche ore dopo che era stato ferito, ma è stata respinta dalle autorità. Anche la situazione della gamba destra sembrava disperata.

Nove giorni dopo la ferita di Kronz, l’8 aprile, due gruppi per i diritti umani – Adalah, il Centro Legale per i Diritti delle Minoranze Arabe in Israele e il Centro al-Mezan per i Diritti Umani di Gaza – hanno presentato una petizione all’Alta Corte israeliana per consentire a Kronz e a un altro abitante di Gaza ferito, Mohammed Alajuri, di essere trasferiti urgentemente a Ramallah per le cure. A quanto pare il tribunale non ha visto alcuna reale urgenza nel trattare il caso e ha aspettato quattro giorni prima di deliberare sulla petizione, per la quale i giudici avevano richiesto una risposta dallo stato entro quattro giorni.

“Le amputazioni delle membra di entrambi i giovani avrebbero potuto essere evitate se lo stato avesse adempiuto ai propri obblighi secondo il diritto umanitario internazionale”, ha detto Sawsan Zahar, un avvocato di Adalah, ai giudici.

Gli avvocati dello stato, da parte loro, hanno detto alla corte che “Apparentemente, la condizione dei firmatari sembra soddisfare il criterio medico per il rilascio di un permesso [per il trasferimento a Ramallah], ma i funzionari responsabili hanno deciso di non accettare le loro richieste. La motivazione principale del rifiuto deriva dal fatto che la loro condizione sanitaria è il risultato della loro partecipazione alle manifestazioni”.

Il 16 aprile, i giudici Uri Shoham, George Karra e Yael Willner hanno dichiarato di non essere persuasi che il governo avesse pienamente valutato se le circostanze nel caso di Kronz giustificassero una deviazione dalla procedura normale. “Non c’è discussione sul fatto che le cure mediche di cui il firmatario ha bisogno per impedire l’amputazione della sua gamba non siano disponibili nella Striscia di Gaza”, hanno scritto. “Pertanto, il firmatario è incluso tra i casi in cui l’ingresso in Israele deve essere consentito ai fini del passaggio a Ramallah.”

I giudici si sono inoltre degnati di dichiarare che Kronz non rappresenta un rischio per la sicurezza di Israele. Quello stesso giorno fu trasferito all’ospedale Istishari. (Per quanto riguarda Alajuri, prima che la corte arrivasse a emettere una sentenza sul suo caso, i medici a Gaza non hanno avuto altra scelta che amputargli la gamba. Lui rimane a Gaza.)

Yousef Kronz sta attraversando un periodo difficile, adattandosi con difficoltà al suo stato di amputato. Quattro giorni dopo essere stato portato all’ospedale di Ramallah ha subito un intervento chirurgico alla gamba destra, le cui condizioni sembrano essersi stabilizzate. Ora, tuttavia, deve affrontare una lunga riabilitazione, che durerà almeno quattro mesi, in un ospedale di Beit Jala, vicino a Betlemme.

Prima di congedarci, ci chiede se pensiamo che sarà mai in grado di camminare su una gamba sola.

Traduzione di Maurizio Bellotto

su AssopacePalestina

 




Le forze israeliane uccidono tre persone mentre i giovani invitano ad unirsi alle proteste della “Grande Marcia del Ritorno”

Redazione di MEE

venerdì 27 aprile 2018 Middle East Eye

Gli organizzatori dedicano la manifestazione del venerdì alla “gioventù rivoluzionaria” mentre le forze israeliane feriscono almeno sette giornalisti che stavano informando sulle proteste.

Almeno tre palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane mentre migliaia di palestinesi hanno partecipato al quinto venerdì di proteste nella Striscia di Gaza assediata come parte della “Grande Marcia del Ritorno”.

Le proteste continuano e il responsabile per i diritti umani dell’ONU ha attaccato l’esercito israeliano per la “deplorabile” uccisione di almeno 43 palestinesi durante le manifestazioni nelle ultime quattro settimane.

Venerdì il ministero della Sanità di Gaza ha parlato di due palestinesi uccisi, compreso un uomo colpito alla testa a est di Gaza City. Per il momento il ministero non ha potuto identificare i due.

Un terzo palestinese ucciso è stato identificato dal ministero come il ventinovenne Abd al-Salam Bakr, colpito a est di Khuzaa, nella parte meridionale della Striscia.

Il ministero ha anche detto che più di 600 persone sono state ferite, comprese 37 persone colpite dal fuoco israeliano.

Un inviato di MEE ha informato che durante tutto il giorno in tutta la Striscia di Gaza le forze israeliane hanno sparato proiettili veri e una grande quantità di gas lacrimogeni contro i dimostranti.

Secondo fonti sul campo, in diversi incidenti almeno sette giornalisti sono stati feriti dalle forze israeliane mentre stavano informando sulle proteste.

Secondo l’inviato di MEE, il fotoreporter Nabil Derbeih è stato colpito alla testa a est di Jabaliya, nel nord di Gaza, il fotografo Hashem Hamada è stato raggiunto alla testa da un candelotto lacrimogeno a est di Gaza City, mentre nella stessa zona Abd al-Rahman al-Kahlout è stato colpito a un piede.

Il fotografo Mohammed al-Masri ha sofferto le conseguenze dell’eccessiva inalazione di gas lacrimogeno nella zona di Jabaliya, mentre anche i giornalisti Iyad Abu Ghaza e Hassan Youssef sarebbero stati feriti dopo essere stati presi direttamente di mira con candelotti lacrimogeni a est del campo di rifugiati di al-Bureij. Inoltre l’inviata del canale di notizie Al Mayadeen Lana Shaheen sarebbe svenuta dopo aver inalato gas lacrimogeni a est di Gaza City.

Anche una troupe di “Palestine TV” è stata direttamente bersagliata da candelotti lacrimogeni, provocando ai giornalisti conseguenze per l’eccessiva inalazione di gas lacrimogeni.

Testimoni affermano che almeno due minori sono stati colpiti da armi da fuoco a nord di Gaza, compresa una ragazzina ferita a un piede.

Il ministero della Sanità di Gaza ha anche informato che un ambulatorio da campo a est di al-Bureij è stato preso di mira con gas lacrimogeni, colpendo gravemente quattro infermieri.

Secondo il ministero, fino alle 18 ora locale almeno 349 palestinesi erano stati feriti, compresi 19 minorenni, e almeno otto medici e tre giornalisti.

A est di Gaza City e nella cittadina di Jabaliya, nel nord di Gaza, i manifestanti avrebbero rimosso parti del filo spinato sistemato dalle forze israeliane per evitare che i dimostranti arrivassero troppo vicino al confine con Israele.

Un venerdì per la “gioventù rivoluzionaria”

Per quasi un mese manifestanti si sono riuniti ogni giorno ad alcune centinaia di metri dalla barriera che separa Israele da Gaza, dove almeno 1.3 milioni dei due milioni di abitanti del piccolo territorio sono dei rifugiati, per chiedere il diritto al ritornare a quelle che erano le loro case prima del 1948.

Le proteste, programmate per sei settimane, dovrebbero terminare il 15 maggio – il settantesimo anniversario della Nakba (la Catastrofe), in cui più di 750.000 palestinesi sono stati obbligati dalle forze israeliane a lasciare le loro case durante la Guerra arabo-israeliana del 1948.

A Gaza gruppi giovanili hanno risposto all’appello degli organizzatori per dedicare le proteste del venerdì alla “gioventù rivoluzionaria” e hanno incoraggiato i giovani palestinesi a parteciparvi.

Il portavoce in arabo dell’esercito israeliano, Avichay Adraee, ha chiesto ai giovani palestinesi di rimanere a casa venerdì, una richiesta che i dimostranti hanno respinto.

Traduzione: cercano di incantarvi con l’illusione di virilità! No cari, questo non è il venerdì della gioventù rivoluzionaria, questo è il venerdì della gioventù perduta. Non date ad Hamas l’opportunità di rubarvi il futuro. Passate il vostro giorno santo con attività che siano utili al vostro futuro.

Di quale futuro sta parlando Adraee? Hanno distrutto Gaza nel 2014, e privano migliaia di giovani della possibilità di viaggiare per ricevere educazione e cure mediche,” ha detto Bashar Abu Ras, 25 anni, a MEE, ridendo.

Più del 60% della popolazione di Gaza ha meno di 24 anni, mentre il 56% degli abitanti di Gaza tra i 15 e i 29 anni è disoccupato, secondo l’ONU la più alta percentuale di disoccupazione giovanile al mondo.

I palestinesi credono che il blocco di Gaza da parte di Israele – e appoggiato anche dall’Egitto -, durato quasi 11 anni abbia portato al deterioramento delle condizioni economiche e sociali dello stretto territorio costiero.

Siamo assediati, non possiamo viaggiare per completare i nostri studi all’estero a causa del fatto che il valico di Rafah (con l’Egitto) apre solo per casi umanitari e non possiamo attraversare il posto di controllo di Eretz a causa delle misure di sicurezza di Israele,” ha detto a Middle East Eye Youssef Abu Hashish, 25 anni, aggiungendo che, nonostante tutti i tentativi fatti, né lui né due suoi amici che manifestano con lui hanno trovato lavoro da quando si sono laureati all’università due anni fa.

È per questo che io e miei amici abbiamo deciso di protestare,” ha spiegato. “Questo è il modo che abbiamo per parlare apertamente all’occupazione.”

Anwar al-Salhi, 29 anni, ha detto di vivere tra un lavoro precario e l’altro, a volte solo per 7 dollari al giorno, e di essere la principale fonte di reddito della famiglia, in quanto i suoi due fratelli sono disoccupati.

Al-Salhi ha affermato di aver avuto una proposta di lavoro nella città di Hebron, nel sud della Cisgiordania, ma l’ha perso quando Israele gli ha negato il permesso di entrata.

I partiti palestinesi ci hanno delusi perché non sono riusciti a riconciliarsi. Dobbiamo opporci insieme all’occupazione israeliana che ha rubato la nostra terra 70 anni fa, ci assedia, viola i nostri diritti, uccide i nostri figli e ci impedisce di vedere le nostre famiglie in Cisgiordania,” dice al-Salhi a MEE.

L’occupazione è la principale ragione per cui abbiamo perso la speranza. Abbiamo solo le nostre voci per essere ascoltati e per rompere il silenzio del mondo sulle violazioni commesse contro di noi. Ci opponiamo tutti insieme disarmati con una protesta pacifica per il nostro legittimo diritto al ritorno.”

Venerdì l’ufficio di coordinamento per gli affari umanitari dell’ONU ha detto che almeno quattro minori sono stati uccisi e 454 feriti dalle forze israeliano fino al 23 aprile.

Ma l’ambasciatrice USA all’ONU Nikki Haley giovedì ha ripetuto la posizione del governo israeliano che incolpa Hamas, il partito che governa Gaza, di “utilizzare minori come carne da macello”.

Accusa il gruppo – che è uno dei vari partiti politici che appoggiano la marcia – di utilizzare nelle proteste i civili come scudi umani.

Gli organizzatori della marcia hanno ripetutamente negato che Hamas stia coordinando le proteste e hanno sottolineato che le decine di migliaia di manifestanti sono state prevalentemente pacifiche.

Israele criticato per “violenze e massacri”

Secondo il ministero della Sanità di Gaza 43 palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane dall’inizio della marcia il 30 marzo, e più di 5.500 sono stati feriti. L’ONU ha contato 42 palestinesi morti, che non includono le vittime di venerdì ma comprendono persone non coinvolte nelle manifestazioni.

Non risulta alcuna vittima israeliana.

Gli inviati di MEE hanno ripetutamente testimoniato che durante le manifestazioni le forze israeliane hanno preso di mira infermieri e giornalisti.

Dal 30 marzo due giornalisti palestinesi – Yasser Murtaja e Ahmad Abu Hussein – sono stati colpiti e uccisi, nonostante portassero giubbotti che indicavano chiaramente “Stampa”.

Il segretario generale dell’associazione della stampa democratica a Gaza, Rami al-Sharafi, ha detto che Israele sta mandando il messaggio che “ogni giornalista che documenti la verità lungo il confine (tra Gaza e Israele) per Israele è un bersaglio.”

L’esercito israeliano ha respinto ripetute richieste da parte della comunità internazionale di usare moderazione e condurre un’inchiesta indipendente sulle morti, continuando con la sua politica di aprire il fuoco indiscriminatamente.

Nel contempo Amnesty International ha chiesto un embargo globale della vendita di armi a Israele, accusando le sue forze di “condurre violenze e massacri” contro i palestinesi nella Striscia di Gaza.

Giovedì il portavoce del sistema sanitario di Gaza, Ashraf al-Qidra, in una dichiarazione ha affermato che a 21 palestinesi feriti sono stati amputati gli arti inferiori.

Il gruppo per i diritti umani “Adalah” ha sostenuto che un certo numero di palestinesi ha subito imputazioni dopo che le autorità israeliane hanno negato loro il permesso di viaggiare nella Cisgiordania occupata per essere curati, in quanto gli ospedali di Gaza assediata lo scorso mese hanno dovuto far fronte al grande numero di feriti.

Nel frattempo l’alto commissario ONU per i diritti umani ha detto che Israele deve interrompere l’eccessivo uso della forza e chiedere ai responsabili delle morti nelle manifestazioni di renderne conto.

Zeid Raad al-Hussein ha affermato: “La perdita di vite è deplorevole, e il numero sconcertante di ferite provocate dalle pallottole vere confermano solo la sensazione che sia stata usata una forza eccessiva contro manifestanti – non una volta, non due, ma ripetutamente.

È difficile vedere come ragazzini, anche quelli che lanciano pietre, possano rappresentare un pericolo immediate di vita o di gravi ferite al personale pesantemente protetto delle forze di sicurezza [israeliane].”

(traduzione di Amedeo Rossi)




La copertura dei media: difendere Israele è una questione di politica

Ramzy Baroud

18 aprile 2018, Palestine Chronicle

Il termine “parzialità dei media” non rende giustizia del rapporto

che i mezzi di comunicazione occidentali hanno con Israele e la Palestina. Che è, infatti, molto peggio della semplice tendenziosità. Non è neppure una questione di ignoranza. È una campagna premeditata e di lunga durata, intesa a proteggere Israele e a demonizzare i palestinesi.

L’attuale scandalosa informazione sulle proteste popolari mostra come la posizione dei media tenda a cancellare la verità sulla Palestina, ad ogni costo e con ogni mezzo. La simbiosi politica, l’affinità culturale, Hollywood, la capillare influenza dei gruppi filoisraeliani e sionisti nei circoli politici e mediatici occidentali sono alcune delle ragioni che molti di noi hanno dato sul perché Israele sia spesso visto con occhi comprensivi e i palestinesi e gli arabi condannati.

Ma queste spiegazioni non sono ancora sufficienti, Attualmente ci sono vari canali di informazione che cercano di compensare lo sbilanciamento, molti dei quali mediorientali, ma anche di altre parti del mondo. Giornalisti, intellettuali e personalità della cultura palestinesi ed arabi sono presenti come mai prima sulla scena mondiale perfettamente in grado di fronteggiare, se non sconfiggere, il discorso filoisraeliano dei media.

Tuttavia sono in gran parte invisibili ai mezzi di comunicazione occidentali: è il portavoce israeliano che continua ad occupare il centro della scena, parlando, urlando, teorizzando e demonizzando a suo piacere.

Non è dunque una questione di ignoranza dei media, ma una politica.

Anche prima del 30 marzo, quando parecchi palestinesi di Gaza sono stati uccisi e migliaia feriti, i mezzi di comunicazione USA e britannici, per esempio, avrebbero dovuto quanto meno chiedere perché a centinaia di cecchini israeliani e carri armati dell’esercito sia stato ordinato di schierarsi sul confine di Gaza per affrontare manifestanti palestinesi.

Invece hanno parlato di scontri tra giovani di Gaza e cecchini, come se fossero forze equivalenti in una battaglia ad armi pari.

I media occidentali non sono ciechi. Se la gente comune è sempre più in grado di vedere la realtà riguardo alla situazione in Palestina, esperti giornalisti occidentali non possono ragionevolmente non vederla. Sanno, ma scelgono di rimanere in silenzio.

Il principio secondo cui la propaganda ufficiale israeliana, o “hasbara”, è troppo scaltra non basta più. Nei fatti non è neanche tanto vero.

Dov’è la scaltrezza nel modo in cui l’esercito israeliano ha spiegato l’uccisione di palestinesi disarmati a Gaza?

Ieri abbiamo visto 30.000 persone,” ha tweettato l’esercito israeliano il 31 marzo. ”Siamo arrivati preparati e con i rinforzi necessari. Niente è stato fatto per caso; tutto è stato accurato e misurato, e sappiamo dove è finito ogni proiettile.”

Se non bastasse, il ministro della Difesa di Israele, l’ultranazionalista Avigdor Lieberman, ha fatto seguito a questa auto-accusa dichiarando che “non ci sono persone innocenti a Gaza”, legittimando quindi il fatto di aver preso di mira ogni gazawi all’interno della Striscia assediata.

La scorretta informazione dei media non è alimentata dalla semplicistica nozione ”astuto Israele, arabi imprudenti.” I media occidentali sono attivamente coinvolti nella difesa di Israele e nella promozione della sua immagine in crisi, demolendo al contempo in modo accurato quella dei nemici di Israele.

Prendete per esempio l’infondata propaganda di Israele secondo cui Yasser Murtaja, il giornalista di Gaza che è stato ucciso a sangue freddo da un cecchino israeliano mentre informava sulle proteste della “Grande Marcia del Ritorno” sul confine di Gaza, sarebbe stato un membro di Hamas.

All’inizio, “fonti ufficiali anonime” in Israele hanno affermato che Yasser era “un membro dell’apparato di sicurezza di Hamas.” Poi Lieberman ha offerto ulteriori dettagli (artefatti) secondo cui Yasser era sul libro paga di Hamas dal 2011 e “ricopriva un ruolo pari a quello di capitano”. Molti giornalisti hanno ripreso queste affermazioni e le hanno ripetute, associando continuamente ad Hamas ogni informazione sulla morte di Yasser.

Si è poi saputo che, secondo il Dipartimento di Stato USA, la nuova agenzia giornalistica di Yasser a Gaza aveva in realtà ricevuto un piccolo finanziamento da USAID [ente federale USA di cooperazione allo sviluppo, legata alla politica estera USA, ndt.], che ha sottoposto l’impresa di Yasser a un rigoroso processo di valutazione.

Ancora, un rapporto della Federazione Internazionale dei Giornalisti ha affermato che Yasser era stato in realtà arrestato e picchiato dalla polizia di Gaza nel 2015 e che il ministero della Difesa israeliano stia costruendo una montatura.

A giudicare da ciò, l’apparato mediatico israeliano è inaffidabile e contraddittorio tanto quanto quello della Corea del Nord; ma non è questa l’immagine trasmessa dai media occidentali, che continuano a collocare Israele su un piedestallo mettendo al contempo in cattiva luce i palestinesi, indipendentemente dalle circostanze.

Ma nell’approccio dei mezzi di comunicazione occidentali alla Palestina e a Israele c’è di più della protezione ed esaltazione di Israele, con la demonizzazione dei palestinesi. Spesso i media lavorano per distrarre del tutto l’attenzione dai problemi, come oggi in Gran Bretagna, dove l’immagine di Israele sta rapidamente peggiorando.

Per impedire che si parli della Palestina, dell’occupazione israeliana e dell’incondizionato appoggio del governo britannico ad Israele, i principali media britannici hanno concentrato l’attenzione su Jeremy Corbyn, il popolare leader del partito Laburista.

Accuse di antisemitismo hanno perseguitato il partito fin dall’elezione di Corbyn nel 2015. Eppure Corbyn non è razzista, al contrario si è opposto al razzismo, a favore della classe operaia e di altri gruppi svantaggiati. La sua posizione fortemente favorevole ai palestinesi, in particolare, minaccia di imporre un cambiamento epocale su Palestina e Israele all’interno del rilanciato e rivitalizzato partito Laburista.

Purtroppo la contro-strategia di Corbyn è praticamente inesistente. Invece di rilasciare una dichiarazione di condanna di ogni forma di razzismo e di passare ad affrontare gli urgenti problemi in questione, compreso quello della Palestina, egli permette ai suoi detrattori di determinare la natura della discussione, se non di tutto il discorso. Ora è intrappolato in un dibattito senza fine, mentre il partito Laburista sta sistematicamente espellendo suoi membri per presunto antisemitismo.

Considerando che Israele e i suoi alleati nei media ed altrove confondono le critiche a Israele e alla sua ideologia sionista con quelle contro gli ebrei e l’Ebraismo, Corbyn non può vincere la sua battaglia.

Neppure gli amici di Israele sono interessati a vincere. Vogliono semplicemente prolungare un dibattito futile in modo che la società britannica rimanga invischiata in un diversivo e risparmi ad Israele ogni obbligo di rendere conto delle sue azioni.

Se i media britannici sono effettivamente ansiosi di denunciare il razzismo e di isolare i razzisti, perché allora si discute così poco sulle politiche razziste di Israele che prendono di mira i palestinesi?

Le acrobazie dei media continuano a fornire ad Israele i margini necessari per proseguire con le sue politiche violente contro il popolo palestinese, senza nessun costo morale. Rimarranno leali ad Israele, creando una barriera tra la verità e il pubblico.

Tocca a noi mettere in evidenza questo squallido rapporto e chiedere ragione ai media del fatto di nascondere i crimini di Israele, così come in primo luogo a Israele del perché li sta commettendo.

Ramzi Baroud è un giornalista, autore ed editorialista di Palestine Chronicle. Il suo libro di prossima pubblicazione è “The Last Earth: A Palestinian Story” [“L’ultima terra: una storia palestinese] (Pluto Press, Londra). Baroud ha un dottorato in Studi Palestinesi all’università di Exeter ed è docente non residente presso l’“Orfalea Center for Global and International Studies” dell’università della California a Santa Barbara.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




40 morti, 5.511 feriti: l’ONU pubblica i dati sulle vittime palestinesi delle manifestazioni di massa a Gaza nei pressi del confine con Israele

Jack Khoury

25 aprile 2018, Haaretz

Hamas afferma che le dimostrazioni continueranno persino dopo il 15 maggio il giorno della Nakba.

Martedì l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) ha pubblicato un rapporto secondo cui fin dal 30 marzo quaranta palestinesi sono stati uccisi e 5.511 feriti nella dimostrazioni di massa lungo la barriera di confine tra la Striscia di Gaza e Israele. Da allora le manifestazioni sono avvenute ogni venerdì.

Le informazioni sulle vittime sono suddivise per data, tipologia della ferita, sesso ed età, nonché in base a dove la persona è stata curata.

2.596 feriti sono stati ricoverati in ospedali pubblici, 773 in quelli privati e i rimanenti sono stati curati sul posto. Di quelli portati in ospedali pubblici , 1.499 sono stati colpiti da pallottole vere, 107 da pallottole rivestite di gomma, 408 hanno sofferto per avere inalato gas lacrimogeni e 582 hanno subito altri tipi di ferite; 2.142 sono adulti e 454 minori.

Il rapporto afferma che “il settore della sanità a Gaza sta lottando per far fronte al grande flusso di feriti, dovuto ad anni di blocco, a divisioni interne e a una cronica crisi dell’energia che che a malapena consente di far funzionare i servizi essenziali.

Le informazioni si basano su dati provenienti dal ministero palestinese della Sanità di Gaza e l’OCHA afferma che essi sono solamente una fotografia preliminare e che si attendono ulteriori informazioni.

Mercoledì il ministero palestinese della sanità di Gaza ha annunciato la morte di Ahmed Abu Hassin, un fotoreporter colpito due settimane fa durante le proteste.

Le manifestazioni continueranno anche dopo il 15 maggio, giorno che i palestinesi ricordano come la Nakba (la Catastrofe), la nascita di Israele, ha detto mercoledì Ismail Haniyeh, capo dell’ ufficio politico di Hamas. “Il popolo palestinese manifesterà durante tutto il Ramadan per affrontare le molte sfide che si trovano di fronte a noi, prima fra tutte il piano di pace promosso dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, chiamato ‘l’Accordo del Secolo’” ha detto Haniyeh.

( Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




A Gaza Israele uccide un minorenne e spezza ossa

Maureen Clare Murphy

20 aprile 2018, Electronic Intifada

Le forze israeliane hanno ucciso quattro palestinesi, compreso un ragazzino, mentre per il quarto venerdì consecutivo si svolgevano manifestazioni di massa lungo il lato orientale di Gaza come parte di una protesta di sei settimane per la “Grande Marcia del Ritorno”.

Muhammad Ibrahim Ayyoub, 14 anni, colpito venerdì alla testa a est di Jabaliya nel nord di Gaza, è il quarto minorenne tra i più di 30 palestinesi uccisi durante le proteste da quando, il 30 marzo, le manifestazioni sono iniziate.

Infermieri che oggi hanno portato via il ragazzino hanno dichiarato che è stato colpito alla testa con un proiettile letale a circa 50 metri dalla barriera, a est di Jabaliya, senza nessun indizio che rappresentasse un pericolo per le forze israeliane,” ha affermato venerdì l’ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento delle Questioni Umanitarie.

L’inviato delle Nazioni Unite per la pace in Medio Oriente Nickolay Mladenov ha abbandonato le sue abitualmente caute dichiarazioni che esprimono “preoccupazione” e chiedono “la massima moderazione”.

Su Twitter Mladenov ha sostenuto che è “vergognoso sparare a un ragazzino!” ed ha aggiunto che “il tragico incidente deve essere indagato.”

Gli altri tre palestinesi uccisi venerdì sono stati identificati dal ministero della Salute di Gaza come Ahmad Nabil Abu Aqel, 20 anni, Ahmad Rashad al-Athamna, 24, e Saad Abd al-Majid Abd al-Al Abu Taha, 29.

Abu Aqel, di Beit Hanoun, nella parte settentrionale di Gaza, è stato colpito da un proiettile alla nuca durante proteste a est del campo di rifugiati di Jabaliya. Fotografie che circolano sulle reti sociali mostrano che parte del suo cranio è stata strappata via.

Immagini che mostrano Abu Aqel prima che venisse colpito sono circolate sulle reti sociali in seguito all’annuncio della sua morte.

Una di queste lo mostra mentre viene curato da un medico per una lieve ferita prima che venisse ucciso.

Secondo il gruppo per i diritti umani “Al Mezan”, con sede a Gaza, Abu Aqel era “seduto su una collina di sabbia a circa 150 metri a ovest della barriera di confine, e voltava la schiena alle forze di occupazione israeliane quando queste ultime gli hanno sparato” venerdì.

Abu Aqel usava le stampelle in seguito al fatto di essere rimasto ferito da un proiettile vero alla gamba sinistra durante la protesta dell’8 dicembre contro il riconoscimento USA di Gerusalemme come capitale di Israele.

Al Mezan afferma che l’uccisione di Abu Aqel, un disabile che non rappresentava nessuna ragionevole minaccia per le forze israeliane, a molta distanza e protette da fortificazioni di terra e da barriere, ricorda l’uccisione da parte di un cecchino, nel dicembre 2017, di Ibrahim Abu Thurrayya, un uomo in sedia a rotelle che aveva perso le sue gambe in un precedente attacco israeliano.

Ahmad Rashad al-Athamna è stato ferito mortalmente venerdì da una pallottola alla schiena a Beit Hanoun, nel nord della Striscia di Gaza.

Dopo l’annuncio della sua morte sulle reti sociali è circolata una sua foto.

Il ministero della Salute di Gaza ha affermato che Saad Abd al-Majid Abd al-Al Abu Taha è stato colpito al collo durante proteste a est di Khan Younis.

Il ministero ha informato che più di 700 persone sono rimaste ferite durante le proteste di venerdì, 156 delle quali da proiettili veri. Quattro sarebbero state gravemente ferite.

Al Mezan” ha chiesto “alla comunità internazionale di passare dalla semplice condanna a un’azione concreta per proteggere i civili e garantire il rispetto dei principi dei diritti umani e delle leggi umanitarie.”

Il gruppo ha aggiunto che la continua tolleranza nei confronti del comportamento di Israele costituisce “un incoraggiamento perché le forze israeliane mettano in atto sistematiche violazioni delle leggi internazionali.”

Secondo “Al Mezan” dal 30 marzo più di 1.600 palestinesi di Gaza sono rimasti feriti da proiettili veri durante le proteste.

Questa settimana il gruppo palestinese per i diritti umani “Al-Haq” ha affermato di aver documentato ferite da parte delle forze israeliane “che hanno preso di mira deliberatamente specifiche parti del corpo dei manifestanti palestinesi a Gaza, provocando la morte o ferite gravi e permanenti.”

Il direttore del pronto soccorso dell’ospedale al-Shifa, il più grande di Gaza, ha detto ad “Al-Haq” che la maggior parte delle ferite sono state provocate da “munizioni vere, per lo più dirette agli arti inferiori, con la rottura di vaste parti ossee, il taglio di vene, nervi e muscoli e la perdita di pelle nella zona ferita.”

Secondo Al-Haq l’ospedale ha osservato “una nuova caratteristica delle ferite” dall’inizio delle proteste della “Grande Marcia del Ritorno” il 30 marzo, “per cui il punto di entrata del proiettile è piccolo mentre il foro d’uscita è grande.” Questi casi “richiedono operazioni di molte ore e una equipe medica più numerosa.”

Al-Shifa ha anche avuto casi senza precedenti di danni provocati da gas lacrimogeni che comprendono “commozione cerebrale, forti crampi e perdita dei sensi a causa dell’inalazione dei gas, che necessitano di immediata sedazione, ausili respiratori e trattamenti di evaporazione.”

Il gruppo umanitario “Medici senza Frontiere” ha anche osservato nelle scorse tre settimane “ferite insolitamente gravi e devastanti da armi da fuoco.”

La grande maggioranza dei pazienti – per lo più giovani, ma anche qualche donna e bambino – presenta ferite insolitamente gravi agli arti inferiori,” ha affermato il gruppo, sottolineando che alcuni dei fori d’uscita erano “delle dimensioni di un pugno.”

Giovedì l’associazione umanitaria ha dichiarato che “il numero di pazienti curati nei nostri ambulatori nelle ultime tre settimane è maggiore del numero di quelli che abbiamo assistito durante tutto il 2014, quando è stata lanciata l’operazione militare israeliana “Margine protettivo” contro la Striscia di Gaza.

Marie-Elisabeth Ingres, capo della missione di “Medici senza Frontiere” in Palestina, ha affermato in un comunicato stampa che “metà dei più di 500 pazienti che abbiamo accolto nei nostri ambulatori presenta ferite in cui la pallottola ha letteralmente distrutto il tessuto dopo aver fatto a pezzi l’osso.”

Questi pazienti necessiteranno di operazioni chirurgiche estremamente complesse e molti di loro rimarranno disabili a vita,” ha aggiunto.

Alcuni pazienti dovranno subire l’amputazione delle gambe se non riceveranno da Israele il permesso di avere cure mediche specialistiche fuori da Gaza, come è già successo per molti manifestanti feriti.

Jamie McGoldrick, il vice-coordinatore speciale dell’ONU per il processo di pace in Medio Oriente, giovedì ha affermato che “l’attuale picco di necessità umanitarie è una crisi che è più grave di una catastrofe.”

McGoldrick ha aggiunto che “gli operatori dei servizi essenziali di Gaza non hanno al momento la possibilità di gestire l’attuale situazione.”

Venerdì l’ufficio ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari ha detto che il sistema sanitario di Gaza è “sull’orlo del collasso in seguito al blocco decennale, alla divisione politica sempre più profonda tra i palestinesi, alla crisi energetica in peggioramento, al pagamento irregolare del personale medico del settore pubblico e alla crescente mancanza di medicine e di prodotti monouso.”

L’OCHA ha aggiunto che “l’esposizione alla violenza durante le ultime tre settimane ha anche avuto conseguenze significative per la salute mentale e psicosociale, soprattutto tra i bambini.”

Propaganda israeliana

Israele continua a sostenere la versione secondo cui la sua repressione mortale contro manifestanti disarmati è necessaria per difendere i suoi confini e i civili da “disordini” utilizzati come copertura del “terrorismo” di Hamas.

Un video propagandistico dell’esercito afferma: “È per questo che l’IDF (l’esercito israeliano) deve proteggere la barriera di sicurezza.”

Non un solo soldato o civile israeliano risulta essere stato ferito in seguito alle proteste della “Grande Marcia del Ritorno”.

Due terzi dei due milioni di abitanti di Gaza sono rifugiati provenienti dalle terre su cui è stato dichiarato lo Stato di Israele nel 1948. Israele ha da molto tempo impedito ai rifugiati palestinesi di tornare nelle loro terre e case in quanto non sono ebrei.

Venerdì mattina l’esercito israeliano ha lanciato su Gaza volantini che mettono in guardia gli abitanti dall’avvicinarsi o danneggiare la barriera di confine tra Gaza e Israele.

L’IDF prenderà iniziative contro qualunque tentativo di danneggiare la barriera e le sue parti e di ogni altra struttura militare”, afferma il volantino.

L’avvertimento dell’esercito aggiunge: “Hamas vi sta utilizzando per promuovere gli interessi del suo movimento. Non seguite gli ordini di Hamas che mettono in pericolo le vostre vite.”

All’inizio della settimana il COGAT, il braccio amministrativo dell’occupazione militare israeliana, ha affermato che avrebbe sanzionato 14 compagnie di autobus che trasportano “terroristi di Hamas e rivoltosi violenti” al confine orientale di Gaza.

Il COGAT aveva in precedenza pubblicato quella che ha sostenuto essere una registrazione tra uno dei propri funzionari e un rappresentante della compagnia di autobus di Gaza, in cui il funzionario dice che “non consentiremo che tu e la tua famiglia manteniate un qualunque rapporto commerciale o imprenditoriale o personale con il lato israeliano” come punizione per aver trasportato manifestanti.

I messaggi di Israele non sembrano aver avuto effetto, in quanto Israele ha ricevuto un avvertimento dalla procura generale della Corte Penale Internazionale che i suoi dirigenti potrebbero dover affrontare un processo per l’uccisione di manifestanti disarmati.

Ha anche ricevuto la condanna di una serie di esperti dei diritti umani dell’ONU che hanno chiesto la fine immediata del blocco di Gaza.

La scorsa settimana Israele ha pubblicato una foto che mostrerebbe giornalisti utilizzati come scudi umani durante le proteste a Gaza.

L’agenzia France Press ha informato che, quando per la prima volta ha distribuito la foto, il 13 aprile, l’esercito ha sostenuto che mostrava “un terrorista che brandiva un oggetto sospettato di essere un ordigno esplosivo utilizzato per fini terroristici mentre giornalisti e una persona invalida gli stavano vicino.”

Un’inchiesta dell’APF ha scoperto, invece, che il “terrorista” mostrato nella foto stava “cercando senza riuscirci di accendere quello che sembrava un normale fuoco d’artificio mentre era a terra in mezzo al fumo nero di copertoni incendiati.”

Il giornalista dell’AFP che si vede nell’immagine ha detto che l’uomo “in seguito ha rinunciato e se n’è andato.”

Secondo la “Commissione per la Protezione dei Giornalisti”, dal 30 marzo almeno 13 giornalisti palestinesi sono stati colpiti da cecchini israeliani mentre informavano sulle proteste, compreso uno che è stato ucciso.

Venerdì quattro giornalisti sono stati feriti da proiettili veri, da inalazioni di gas lacrimogeni e da un candelotto lacrimogeno.

In una lettera al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu la “Commissione per la Protezione dei Giornalisti” (CPJ) ha osservato che la maggior parte dei giornalisti colpiti dal 30 marzo portava giubbotti con la scritta “STAMPA” al momento del ferimento.

I colpi sparati suggeriscono che le autorità israeliane potrebbero star cercando di reprimere la copertura mediatica delle proteste,” ha affermato il CPJ.

Persino se l’IDF (l’esercito israeliano) non stesse deliberatamente prendendo di mira giornalisti,” ha aggiunto il gruppo, “il suo uso di munizioni letali come primo strumento da utilizzare invece di mezzi non letali sottopone i giornalisti – soprattutto i fotografi e i video operatori che devono essere in prima linea per riprendere le immagini – a un rischio terribile, rendendo il loro lavoro quasi impossibile.”

Anche le affermazioni fatte dal ministro della Difesa di Israele Avigdor Lieberman secondo cui Yaser Murtaja, un cameraman ucciso il 6 aprile dalle sue forze armate mentre stava informando sulle proteste, era un membro stipendiato dell’ala militare di Hamas, sono state smentite da organi di controllo della libertà di stampa, compresa la CPJ.

Nel contempo il gruppo della resistenza palestinese Jihad Islamica ha diramato un proprio video propagandistico, avvertendo Israele che “state uccidendo la nostra gente a sangue freddo e pensate di essere al sicuro, ma i mirini dei nostri cecchini sono puntati sui vostri comandanti in capo.”

Il video mostra ufficiali dell’esercito, compreso il capo del COGAT Yoav Mordechai, visti attraverso un binocolo e il mirino di un fucile.

Il video della Jihad Islamica sembra essere una risposta alla propaganda presentata dal portavoce in arabo dell’esercito israeliano, che mostra manifestanti, compreso un bambino, inquadrati da un binocolo con l’avvertimento che “vi vediamo bene” o minacce del genere.

In risposta al video [della Jihad Islamica, ndt.], il ministro israeliano dell’Intelligence Yisrael Katz ha diramato una minaccia secondo cui qualunque aggressione a importanti personalità dell’esercito israeliano da parte dei gruppi della resistenza palestinese “porterà immediatamente alla ripresa degli omicidi mirati dei dirigenti di Hamas.”

Un rapporto di “Human Rights Watch” [organizzazione per i diritti umani con sede a New York, ndt.] afferma che la violenza letale di Israele contro i palestinesi che manifestavano durante l’inizio della “Grande Marcia del Ritorno” è stata premeditata, illegale in base alle leggi internazionali e ordinata dai più alti livelli del governo.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 27 marzo- 9 aprile 2018 (due settimane)

Secondo il Ministero della Salute di Gaza, durante il periodo di riferimento, nella Striscia di Gaza sono stati uccisi dalle forze israeliane 32 palestinesi e 3.078 sono stati feriti.

La maggior parte delle vittime [vedi paragrafo successivo] si sono avute nel contesto della “Grande Marcia del Ritorno”: una serie di proteste iniziate il 30 marzo e che è previsto continuino fino al 15 maggio, data del 70° anniversario di ciò che i palestinesi chiamano “Nakba” [la Catastrofe: cioè la proclamazione dello stato di Israele, avvenuta nel maggio 1948]. Le dimostrazioni si sono svolte sul lato di Gaza della recinzione di confine con Israele, dove l’esercito israeliano, tuttavia, adducendo problemi di sicurezza, impone una “No Go Zone”. Non sono state registrate vittime israeliane.

Ventisei [dei 32] morti (3 dei quali minori) e praticamente la totalità dei ferimenti [3.078] (445 dei quali di minori) si sono avuti nel contesto delle dimostrazioni di cui sopra. La grande maggioranza delle vittime sono state contate venerdì 30 marzo e venerdì 6 aprile, presso diversi attendamenti posizionati a circa 700 metri dalla recinzione con Israele. Alcune centinaia di manifestanti, su decine di migliaia, si sono avvicinati ed hanno tentato di aprire la recinzione, hanno bruciato pneumatici, lanciato pietre e, secondo fonti israeliane, bombe incendiarie contro le forze israeliane. Queste ultime (tra esse un centinaio di cecchini schierati lungo il recinto) hanno risposto sparando con armi da fuoco, con proiettili gommati e con gas lacrimogeno. Secondo il Ministero della Salute di Gaza, circa il 40% di tutti i feriti (1.236 persone) sono stati colpiti con armi da fuoco. Le autorità israeliane hanno dichiarato che alcune delle vittime erano membri di gruppi armati palestinesi ed hanno accusato il Ministero della Salute di esagerare il numero dei feriti da arma da fuoco.

Questi fatti hanno suscitato preoccupazione per l’uso eccessivo della forza da parte delle forze israeliane. Il portavoce dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha affermato che “constatato il gran numero di feriti e morti e le minacciose dichiarazioni rilasciate dalle autorità israeliane nei giorni precedenti la protesta; considerato che le persone uccise o ferite erano disarmate o non rappresentavano una seria minaccia per le ben protette forze di sicurezza (in alcuni casi i palestinesi stavano addirittura scappando dalla recinzione), sussistono fondate indicazioni che le forze di sicurezza abbiano usato una forza eccessiva”. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha espresso la sua profonda preoccupazione per gli scontri e le vittime ed ha chiesto un’indagine indipendente e trasparente sull’accaduto. L’esercito israeliano ha annunciato che svolgerà una propria indagine interna.

In tre diversi episodi, verificatisi vicino alla recinzione perimetrale, sono stati uccisi dalle forze israeliane cinque palestinesi, di cui almeno due membri dell’ala armata di Hamas. I due sono stati uccisi il 30 marzo da colpi di cannone sparati da carri armati contro un sito militare di Hamas. Secondo fonti israeliane, sono stati colpiti dopo che essi avevano aperto il fuoco contro le forze israeliane. Lo stesso giorno, altri due palestinesi sono stati colpiti con armi da fuoco e uccisi dopo aver aperto un varco nella recinzione ed essere entrati in Israele. I loro corpi sono stati trattenuti dalle autorità israeliane. Il 5 aprile, ad est di Gaza City, le forze israeliane hanno colpito ed ucciso un uomo di 22 anni armato che, a quanto riferito, si avvicinava alla recinzione. Il 9 aprile, l’aviazione israeliana ha lanciato un numero di missili contro siti di addestramento militare a Gaza, senza provocare vittime. Secondo fonti israeliane, il raid aereo è stato compiuto in risposta all’infiltrazione in Israele di tre palestinesi [vedere il Rapporto precedente] che avevano posizionato un ordigno esplosivo ed erano rientrati a Gaza illesi. Altri cinque palestinesi sono stati arrestati nella parte settentrionale di Gaza mentre cercavano di entrare in Israele attraverso la recinzione perimetrale.

In Gaza, il 30 marzo, prima dell’inizio delle manifestazioni, in prossimità della recinzione che circonda la Striscia, un contadino palestinese 31enne che stava lavorando sul proprio terreno, ad est di Khan Younis, è stato colpito ed ucciso dalle forze israeliane. In almeno altre 34 occasioni, nelle zone lungo la recinzione ed in mare, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso contadini e pescatori, provocando il ferimento di tre pescatori. In cinque occasioni, le forze israeliane [sono entrate] all’interno della Striscia e, in vicinanza della recinzione, hanno effettuato operazioni di spianatura e di scavo.

In Cisgiordania, durante proteste e scontri, 715 palestinesi, tra cui 165 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane. Circa il 76% di queste lesioni si è verificato durante scontri seguiti alle manifestazioni di solidarietà con la “Grande Marcia del Ritorno” svolta nella Striscia di Gaza ed in commemorazione del “Giorno della Terra”. Il maggior numero di feriti si è avuto durante gli scontri nella città di Qalqiliya; a seguire, nei villaggi di Kafr Qalil e di Lubban ash Sharqiya (entrambi a Nablus) e durante scontri avvenuti nei pressi del checkpoint DCO (Ramallah) e di Huwwara (Nablus). A causa di scontri connessi a sette operazioni di ricerca-arresto, sono stati segnalati altri feriti (16%); la maggior parte di essi (90) sono stati registrati durante un’operazione in Abu Dis (Gerusalemme). La maggior parte delle lesioni (80%) sono state causate da inalazione di gas lacrimogeno richiedente cure mediche, seguite da ferite da proiettili gommati (13%) e da proiettili di armi da fuoco (3%). Le lesioni dovute ad inalazione di gas lacrimogeno includono quelle occorse a 25 studenti: il 3 aprile, nella zona H2 della città di Hebron, sono stati colpiti da bombolette sparate da forze israeliane nei cortili di due complessi scolastici.

Due palestinesi sono morti per le ferite riportate in due separati episodi, a quanto riferito, di aggressioni con coltello. L’8 aprile, un colono israeliano aveva sparato e ferito un palestinese di 30 anni che, secondo quanto riferito, aveva tentato di accoltellarlo all’ingresso dell’area industriale dell’insediamento colonico di Mishor Adumim (Gerusalemme). L’uomo era stato trasferito in un ospedale israeliano, dove è morto il giorno seguente. Il 2 aprile, un palestinese 46enne era stato colpito e ferito dalle forze israeliane al posto di blocco di Jubara (Tulkarm), dopo che, stando a quanto riferito, aveva tentato di pugnalare un soldato israeliano; è morto sei giorni dopo per le ferite riportate. In nessuno di tali episodi è stato segnalato il ferimento di israeliani. Sale a quattro, dall’inizio del 2018, il numero di palestinesi uccisi da forze israeliane o da coloni israeliani nel corso di attacchi e presunti attacchi.

In Area C e Gerusalemme Est, a causa della mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito, sequestrato o sigillato 15 strutture, sfollando 11 palestinesi e colpendone, in diverso modo, più di 80. Cinque delle strutture prese di mira erano a Gerusalemme Est; una di queste è stata demolita dagli stessi proprietari in seguito al ricevimento dell’ordine di demolizione. Le altre dieci strutture si trovavano in Comunità dell’Area C. Una delle comunità interessate è quella di Khirbet Zanuta, nel sud di Hebron, dove sono state sequestrate due strutture adibite a scuola elementare per 24 studenti. Una recente valutazione ha indicato che 44 scuole primarie (36 nella zona C e 8 a Gerusalemme Est), che attualmente servono circa 5.000 bambini, sono a rischio di demolizione o sequestro per mancanza di permessi di costruzione.

Il 10 aprile, in occasione della stagione delle sardine, le autorità israeliane hanno annunciato un’estensione temporanea, da 6 a 9 miglia nautiche, della zona di pesca consentita lungo la costa meridionale di Gaza. Nel 2016 e nel 2017, estensioni simili della zona di pesca hanno portato a un incremento significativo del pescato totale. Tuttavia tale incremento rimane limitato principalmente alle sardine di basso valore, e ne minimizza l’importanza economica; pertanto, i pescatori continuano a incontrare difficoltà ad avere un reddito sufficiente.

Sono stati segnalati almeno sei attacchi da parte di coloni israeliani che hanno provocato ferimenti di palestinesi o danni alle proprietà. Nel villaggio di At Tuwani, nel sud di Hebron, un 20enne palestinese è stato ferito da un gruppo di coloni israeliani che lo hanno aggredito fisicamente ed investito con una moto. In tre distinti episodi, a Beit Hanina (Gerusalemme Est), Far’ata (Qalqiliya) e Beita (Nablus), coloni israeliani hanno dato fuoco a undici veicoli di proprietà palestinese ed hanno spruzzato sui muri di due case palestinesi scritte razziste e di tipo: “questo è il prezzo che dovete pagare”. Lungo strade vicino a Dura (Hebron) e all’ingresso nord della città di Hebron, uno scuolabus e due veicoli palestinesi hanno subito danni in due distinti episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie da parte di coloni israeliani. In altri due casi, in seguito all’ingresso di coloni israeliani in vari siti religiosi della Cisgiordania e conseguenti alterchi e scontri con i palestinesi, 19 palestinesi sono rimasti feriti durante scontri con le forze israeliane.

Secondo rapporti di media israeliani, lungo strade vicine a Yabrud (Ramallah), Tuqu ‘(Betlemme) ed al Campo Profughi di Al ‘Arrub (Hebron), un colono israeliano è stato ferito e due veicoli sono stati danneggiati dal lancio di pietre da parte di palestinesi.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah è rimasto chiuso in entrambe le direzioni sul lato egiziano. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 23.000 persone, compresi casi umanitari prioritari, sono registrate e in attesa di attraversare Rafah.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Quello che i palestinesi ci possono insegnare sulla resistenza popolare

Ramzy Baroud

11 Aprile 2018, Al Jazeera

La gente di Gaza si è ribellata non per le fazioni politiche palestinesi, ma nonostante loro.

La continua mobilitazione popolare sul confine di Gaza è una reminiscenza di avvenimenti storici precedenti, in cui il popolo palestinese si è sollevato all’unisono per sfidare l’oppressione e chiedere la libertà.

La resistenza popolare palestinese non è né un fenomeno nuovo né estraneo. Scioperi generali di massa e disobbedienza civile, sfidando l’imperialismo britannico e gli insediamenti sionisti in Palestina, iniziarono circa un secolo fa, culminati nel 1936 con uno sciopero generale di sei mesi.

Da allora la resistenza popolare è stata un elemento fondamentale nella storia palestinese ed una caratteristica rilevante della Prima Intifada, la rivolta popolare del 1987.

È superfluo dire che i palestinesi non hanno bisogno di lezioni su come resistere all’occupazione israeliana, lottare contro il razzismo e sfidare l’apartheid. Loro, e solo loro, sono in grado di sviluppare la strategia adeguata e i mezzi che alla fine li porteranno alla vittoria. Oggi la necessità di questa strategia è più che mai urgente, e c’è una ragione di ciò.

Gaza viene soffocata. Il decennale blocco israeliano, insieme all’indifferenza araba e al prolungato conflitto tra le fazioni palestinesi, sono serviti a portare i palestinesi a un passo dal morire di fame e alla disperazione politica. Qualcosa si è spezzato.

Venerdì 30 marzo decine di migliaia di palestinesi si sono ammassati sul confine orientale di Gaza per iniziare una serie di proteste e veglie che dovrebbero durare fino al 15 maggio.

In quella data, settant’anni fa, Israele ha dichiarato l’indipendenza, obbligando centinaia di migliaia di palestinesi all’esilio. Per molti palestinesi la dichiarazione d’indipendenza di Israele, come risultato della distruzione della loro patria, è stato un crimine indimenticabile. Per gli israeliani il 15 maggio è una festa; per il popolo palestinese, è la nostra Nakba, o catastrofe.

Ma la continua mobilitazione di massa non è solo per sottolineare il diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi (come sancito dalle leggi internazionali), né solo la commemorazione del “Giorno della Terra”, un evento che ha unito tutti i palestinesi dalle sanguinose proteste del 1976. La manifestazione riguarda la richiesta di un progetto che superi le lotte intestine e che ridia voce al popolo.

Ci sono parecchie somiglianze storiche tra questa mobilitazione e il contesto che ha preceduto la Prima Intifada nel 1987.

All’epoca in tutta la regione i governi arabi avevano largamente relegato la causa palestinese allo status di “problema di qualcun altro”. Alla fine del 1982 l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), già esiliata in Libano, venne espulsa insieme a migliaia di combattenti palestinesi ancora più lontano, in Tunisia, Algeria, Yemen e vari altri Paesi. Questo isolamento geografico rese irrilevante la dirigenza tradizionale della Palestina rispetto a quanto stava succedendo sul terreno, in patria.

Con scarse pressioni su Israele perché ponesse fine all’occupazione illegale di Gerusalemme est, di Gaza e della Cisgiordania, l’occupazione militare israeliana lentamente diventò lo status quo. I palestinesi divennero poco più che prigionieri in una serie di carceri urbane separate – controllati ad ogni incrocio stradale principale, sottoposti ad incursioni nelle loro case in modo prevedibilmente irregolare, e spiati giorno e notte da terra, aria e, nel caso di Gaza, dal mare.

Ma, in quel momento di apparente disperazione, scattò qualcosa. Nel dicembre 1987 la gente (per lo più bambini ed adolescenti) scese in strada con una mobilitazione prevalentemente non violenta che durò oltre sei anni. Ma la dirigenza palestinese non approfittò dell’energia di massa del suo popolo. Peggio, ne approfitto per arrivare alla firma degli accordi di Oslo nel 1993.

Oggi la dirigenza palestinese si trova in una situazione simile di crescente irrilevanza. Di nuovo isolata geograficamente (con Fatah che controlla la Cisgiordania e Hamas Gaza), ma anche dalle divisioni ideologiche.

È vero, ovviamente, che le divisioni politiche ed ideologiche sono tipiche di ogni lotta anticolonialista. Dall’India all’Algeria al Sud Africa, le divisioni interne sono state la norma, non l’eccezione, nei movimenti di liberazione di massa.

Ma mai prima d’ora queste divisioni interne sono state utilizzate come arma in modo così efficace dagli avversari della causa ed usate come argomento contro la causa primaria, per delegittimare la richiesta di un intero popolo per i diritti umani fondamentali: “I palestinesi sono divisi, per cui devono rimanere imprigionati.”

L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) a Ramallah sta rapidamente perdendo credibilità tra i palestinesi, a causa delle prolungate accuse di corruzione, con molti che chiedono che il leader dell’ANP dia le dimissioni (tecnicamente il suo mandato è scaduto nel 2009).

Lo scorso dicembre il nuovo presidente USA Donald Trump ha accentuato l’isolamento dell’ANP, riconoscendo Gerusalemme come capitale di Israele, sfidando le leggi internazionali e il consenso dell’ONU. Molti vedono questa come nient’altro che la prima di una serie di mosse destinate a marginalizzare ulteriormente l’ANP.

L’Autorità Nazionale non è l’unica fazione palestinese che sta diventando sempre più isolata.

Hamas – in origine un movimento di base nato nei campi di rifugiati di Gaza durante la Prima Intifada – ora è altrettanto indebolita dall’isolamento politico.

Per oltre un decennio, fin dalla sua sanguinosa presa del potere a Gaza nel 2007, la dirigenza di Hamas ha compiuto infinite manovre politiche per rompere l’assedio di Gaza, ma ha ripetutamente fallito. Finalmente ha iniziato a capire di non poter essere utile a quella causa nell’isolamento politico ed ha cominciato a prendere iniziative per la riconciliazione con Fatah. Più di recente, nell’ottobre dello scorso anno i due partiti hanno firmato al Cairo un accordo di riconciliazione.

Come precedenti tentativi di riconciliazione, quest’ultimo ha iniziato quasi subito a vacillare. Il principale ostacolo si è manifestato il 13 marzo, quando il corteo del primo ministro dell’ANP Rami Hamdallah è stato bersaglio di un apparente tentativo di assassinio. Hamdallah stava andando a Gaza attraverso un posto di frontiera israeliano. Subito l’ANP ha incolpato Hamas dell’attacco. Quest’ultimo l’ha fermamente smentito. La politica palestinese è tornata al punto di partenza.

Ma poi c’è stato il 30 marzo. Quando migliaia di palestinesi hanno camminato nella mortale “zona di sicurezza” lungo il confine di Gaza, cioè pacificamente e consapevolmente nel mirino dei cecchini israeliani, la loro intenzione era chiara: essere visti dal mondo come cittadini comuni, che finora sono rimasti invisibili dietro i politici.

I gazawi hanno eretto tende, cantato insieme e sventolato bandiere palestinesi – non quelle delle varie fazioni. Famiglie si sono riunite, bambini hanno giocato, sono comparsi persino dei clown da circo ed hanno fatto spettacoli. È stato un raro momento di unità.

La risposta dell’esercito israeliano è stata, bisogna dirlo, “degna del personaggio”. Uccidendo 17 manifestanti disarmati e ferendo migliaia di persone in un solo giorno, utilizzando le più moderne tecnologie in pallottole esplosive, hanno pensato di poter impartire una lezione ai palestinesi. Si è trattato del manuale 101 delle guardie carcerarie: picchiali, e picchiali di nuovo. Uccidili. Uccidili di nuovo. Persino giornalisti che hanno semplicemente cercato di informare il mondo su questo eroico ma tragico momento sono stati colpiti, feriti e uccisi.

Condanne per questo massacro sono piovute da personaggi rispettati di tutto il mondo come papa Francesco ed organizzazioni come Human Right Watch. Questo barlume di attenzione può aver fornito ai palestinesi un’opportunità di portare l’ingiustizia dell’assedio fino all’ordine del giorno della politica globale, ma sarà una magra consolazione per le famiglie delle vittime.

Consapevole di trovarsi al centro dell’attenzione internazionale, Fatah ha approfittato dell’opportunità di attribuirsi il merito di questo atto spontaneo di resistenza popolare. Il vice presidente, Mahmoud al-Aloul, ha affermato che i manifestanti si sono mobilitati per appoggiare l’ANP “di fronte alle pressioni ed alle cospirazioni architettate contro la nostra causa,” riferendosi senza dubbio alla strategia di isolamento contro l’ANP controllata da Fatah da parte di Trump. Anche Hamas ha cercato di sfruttarla allo stesso modo.

Ma niente potrebbe essere più lontano dalla verità. Questa volta è il popolo palestinese, sono gli audaci ragazzi e ragazze di Gaza che stanno forgiando la propria strategia, indipendentemente dalle fazioni, di fatto a dispetto delle divisioni. E questa volta dobbiamo ascoltare, smettere di dare lezioni e forse imparare da questi giovani uomini e donne che stanno a petto nudo davanti a cecchini e assassini solo con i loro slogan per la libertà e la loro fede in una vittoria sicura.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente l’orientamento redazionale di Al Jazeera.

(traduzione di Amedeo Rossi)