Nel 2018 finalmente è caduta la maschera di Israele

Gideon Levy

1 gennaio 2018, Middle East Eye

Avendo consolidato dal punto di vista legislativo la sua natura di apartheid, Israele ha creato la copertura giuridica per l’annessione formale dei territori occupati al di là delle frontiere riconosciute dello Stato

Il 2018 non è stato un buon anno per Israele. Ovviamente per i palestinesi è stato persino peggiore.

In apparenza non è stato un anno particolarmente drammatico – solo un po’ più del solito, senza nuove guerre significative e senza molto spargimento di sangue, se confrontato con gli anni precedenti. Le cose sembrano bloccate. L’occupazione è continuata senza ostacoli, come l’impresa di colonizzazione. Gaza ha cercato di resistere energicamente da dentro la sua miserabile gabbia, facendo uso delle sue misere e limitate forze.

Il mondo ha distolto gli occhi dall’occupazione, come ha fatto solitamente negli ultimi anni, e si è concentrato totalmente su altre cose.

Gli israeliani, come il resto del mondo, non si sono interessati dell’occupazione, come ormai hanno fatto da decenni. Hanno silenziosamente continuato con la loro vita quotidiana ed è buona, prospera. L’obiettivo dell’attuale governo – il più di destra, religioso e nazionalista nella storia di Israele – di conservare lo status quo in ogni modo è stato totalmente raggiunto. Non è successo niente che interferisse con la cinquantennale dura occupazione.

Verso un’annessione formale

Tuttavia sarebbe un grave errore pensare che ogni cosa sia rimasta uguale. Non c’è nessuno status quo riguardo all’occupazione o all’apartheid, anche se a volte così sembra.

Il 2018 è stato l’anno in cui è stata predisposta l’infrastruttura giuridica per quello che sta per avvenire. Un passo alla volta, con una legge dopo l’altra, sono state poste le fondamenta della legislazione per una situazione che esiste già in pratica da molto tempo. Poche proposte di legge hanno provocato una discussione, a volte persino con un dissenso chiassoso – ma anche questo non ha lasciato traccia.

Sarebbe un errore occuparsi separatamente di ogni iniziativa legislativa, per quanto drastica e antidemocratica. Ognuna è parte di una sequenza calcolata, funesta e pericolosa. Il suo obiettivo: l’annessione formale dei territori, iniziando dall’Area C [più del 60% della Cisgiordania, in base agli accordi di Oslo sotto totale ma temporaneo controllo di Israele, ndtr.]

Finora le fondamenta pratiche sono state poste sul terreno. La Linea Verde è stata cancellata molto tempo fa, i territori sono stati annessi di fatto. Ma ciò non è sufficiente per la Destra, che ha deciso che dovessero essere prese iniziative giuridiche e legislative per rendere permanente l’occupazione.

Prima hanno costruito colonie, in cui ora risiedono più di 700.000 ebrei, compresa Gerusalemme est, per creare una situazione irreversibile nei territori. Questa impresa è stata completata, e la vittoria dei coloni e dei loro sostenitori è chiara ed inequivocabile. Lo scopo delle colonie – sventare ogni prospettiva di fondazione di uno Stato palestinese nei territori occupati nel 1967 ed eliminare dalle trattative una soluzione dei due Stati – è stato pienamente raggiunto: hanno vinto. Ora, vogliono che questa situazione irrevocabile debba essere anche inserita nella legge, per neutralizzare l’opposizione all’annessione.

Contrastare l’opposizione

Questo è il principale obiettivo di ogni legge discriminatoria e nazionalista approvata nel 2018 dalla ventesima Knesset [parlamento, ndtr.] israeliana. Ognuna di esse intende contrastare ciò che resta dell’opposizione all’annessione dei territori.

Ci si aspettava una resistenza da parte del sistema giuridico israeliano e anche dai piccoli e rinsecchiti resti della sinistra nella società civile. Contro entrambi è stata dichiarata una guerra per indebolirli e sconfiggerli una volta per tutte, mentre ci avviciniamo all’annessione. Fino a quel momento, e se questa tendenza continuerà nel prossimo governo, non ci sarà nessuna ulteriore resistenza significativa nella società civile, e Israele potrà continuare a mettere a punto il suo nuovo regime.

L’apartheid è stata istituita nei territori da molto tempo e ora sarà anche nelle leggi. Quelli che negano che ci sia un’apartheid israeliana – i propagandisti pro-sionisti che affermano che, a differenza del Sud Africa, in Israele non ci sono leggi razziste o una discriminazione istituzionalizzata dal punto di vista legislativo – non saranno più in grado di diffondere i loro argomenti privi di fondamento.

Alcune delle leggi approvate quest’anno e quelle in via di approvazione, minano l’affermazione che Israele sia una democrazia egualitaria. Eppure tali norme hanno anche un aspetto positivo: queste leggi e quelle che arriveranno strapperanno la maschera e una delle più lunghe finzioni nella storia finalmente avrà termine. Israele non sarà più in grado di continuare a definirsi una democrazia – “l’unica del Medio Oriente”.

Con leggi come queste non sarà in grado di smentire l’etichetta di apartheid. Il prediletto dell’Occidente svelerà il suo vero volto: non democratico, non egualitario, non l’unico in Medio Oriente. Non è più possibile fingere.

L’apparenza dell’uguaglianza

È vero che una delle prime leggi mai adottate in Israele – e forse la più importante e funesta di tutte, la Legge del Ritorno, approvata nel 1950 –ha segnato molto tempo fa la direzione nella maniera più chiara possibile: Israele sarebbe stato uno Stato che privilegia un gruppo etnico sugli altri. La Legge del Ritorno era rivolta solo agli ebrei.

Ma la parvenza di uguaglianza in qualche modo ha resistito. Neppure i lunghi anni di occupazione l’hanno alterata: Israele ha sostenuto che l’occupazione era temporanea, che la sua fine era imminente e non faceva quindi parte dello Stato egualitario e democratico che era stato così orgogliosamente fondato. Ma dopo i primi 50 anni di occupazione, e con la massa critica di cittadini ebrei che sono andati a vivere nei territori occupati su terre rubate ai palestinesi, l’affermazione riguardo alla sua provvisorietà non avrebbe più potuto essere presa sul serio.

Fino a poco tempo fa i tentativi di Israele erano soprattutto diretti a fondare ed allargare le colonie, reprimendo al contempo la resistenza dei palestinesi all’occupazione e rendendo il più possibile penose le loro vite, nella speranza che ne traessero le necessarie conclusioni: alzarsi e andarsene dal Paese che era stato il loro. Nel 2018 fulcro di questi sforzi è passato al contesto giuridico.

La più importante è la legge dello Stato-Nazione, approvata in luglio. Dopo la Legge del Ritorno, che automaticamente consente a qualunque ebreo di immigrare in Israele e una legislazione che consente al Fondo Nazionale Ebraico di vendere terra solo agli ebrei, la legge dello Stato-Nazione è diventata la prima della lista per lo Stato di apartheid che sta arrivando. Essa conferisce formalmente uno status privilegiato agli ebrei, anche alla loro lingua e ai loro insediamenti, rispetto ai diritti dei nativi arabi. Non contiene nessun riferimento all’uguaglianza, in uno Stato in cui in ogni caso non ce n’è affatto.

Contemporaneamente la Knesset ha approvato qualche altra legge ed ha iniziato alcune ulteriori misure nella stessa ottica.

Prendere di mira i sostenitori del BDS

In luglio è stato approvato un emendamento alla legge sull’educazione pubblica. In Israele è chiamata la legge di “Breaking the Silence” [“Rompere il silenzio”, associazione di militari ed ex militari che denuncia quanto avviene nei territori occupati, ndtr.], perché il suo vero proposito è impedire alle organizzazioni di sinistra di entrare nelle scuole israeliane per parlare agli studenti. Ha come scopo spezzare la resistenza all’annessione.

Allo stesso modo un emendamento alla legge sul boicottaggio, che consente di intraprendere un’azione legale contro israeliani che abbiano appoggiato pubblicamente il movimento Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), renderà possibile intentare una causa per danni contro sostenitori del boicottaggio, anche senza dover dimostrare un danno economico.

Un altro governo di destra come questo e sarà vietato appoggiare il boicottaggio in Israele, punto. Quindi verrà vietato anche criticare i soldati israeliani o il loro ingiusto comportamento nei territori. Proposte di legge come queste stanno già circolando e il loro giorno arriverà piuttosto rapidamente.

Un’altra legge approvata quest’anno trasferisce i ricorsi da parte di palestinesi contro gli abusi dell’occupazione dalla Corte Suprema Israeliana, che comunque non gli è poi stata così d’aiuto, al tribunale distrettuale di Gerusalemme, dove ci si aspetta che riceveranno un sostegno legale ancora minore.

Una legge per espellere le famiglie di terroristi ha superato la prima lettura alla Kensset, contro il parere della procura generale; consentirà punizioni collettive nei territori, solo per gli arabi. Stanno anche discutendo della pena di morte per i terroristi.

Ed è stata approvata anche la legge sugli accordi, che legalizza decine di avamposti delle colonie che sono illegali persino secondo il governo israeliano. Solo la legge sulla lealtà culturale, il livello legislativo più basso, che intende imporre la fedeltà verso lo Stato come precondizione per ottenere finanziamenti governativi a istituzioni culturali e artistiche, per il momento è stata congelata – ma non per sempre.

Copertura legale

Le leggi approvate quest’anno non devono essere viste solo come norme antidemocratiche che compromettono la democrazia in Israele, come la situazione viene di solito descritta dai circoli progressisti in Israele. Sono pensate per fare qualcosa di molto più pericoloso. Non intendono solo minare la fittizia democrazia, per imporre ulteriori discriminazioni contro i cittadini palestinesi di Israele e trasformarli per legge in cittadini di seconda classe. Il loro vero scopo è fornire una copertura legale per l’atto di annessione formale dei territori oltre i confini riconosciuti dello Stato di Israele.

Nel 2018 Israele si è avvicinato alla realizzazione di questi obiettivi. La calma relativa che è prevalsa nel Paese è ingannevole. Sta iniziando lo Stato di apartheid di diritto, non solo di fatto.

– Gideon Levy è un editorialista di Haaretz e membro del comitato di redazione del giornale. Levy ha iniziato a collaborare con Haaretz nel 1982, ed è stato per quattro anni vice-direttore del giornale. Nel 2015 è stato insignito dell’Olof Palme human rights [premio Olof Palme per i diritti umani] e destinatario dell’Euro-Med Journalist Prize [Premio per il Giornalista Euro-mediterraneo] del 2008; del Leipzig Freedom Prize [Premio Leipzig per la Libertà] nel 2001; dell’ Israeli Journalists’ Union Prize [Premio dell’Unione dei Giornalisti Israeliani] nel 1997; dell’ Association of Human Rights in Israel Award [Premio dell’Associazione per i Diritti Umani in Israele] nel 1996. Il suo libro The Punishment of Gaza [La punizione di Gaza] è stato pubblicato da Verso nel 2010.

Le opinioni espresso in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Perché Netanyahu ha insistito davvero per un cessate il fuoco a Gaza

Meron Rapoport

Mercoledì 14 novembre 2018,Middle East Eye

Per la prosecuzione della sua strisciante ma sicura politica di annessione, il primo ministro israeliano ha bisogno di tranquillità, non di guerra.

Arrendevole di fronte al terrorismo” e “vigliacco” – questi sono stati i termini usati da Avigdor Lieberman per descrivere il comportamento del governo israeliano e del primo ministro Benjamin Netanyahu e per giustificare le sue dimissioni da ministro della Difesa.

Si potrebbe ragionevolmente supporre che le dimissioni di Lieberman riguardino principalmente considerazioni politiche. Con le elezioni che si avvicinano vuole essere visto come uno che non si arrende ad Hamas. Lieberman, uno sperimentato animale politico, capisce che identificare Netanyahu come un codardo può essere sfruttato per i propri fini.

Non è l’unico. Martedì a Sderot [città del sul di Israele colpita dal lancio di razzi da Gaza, ndtr.] centinaia di manifestanti si sono riuniti all’entrata in città, bruciando pneumatici e gridando: “Bibi vattene.” Sembrava che avessero preso per buono il ritratto di Netanyahu come un leader vigliacco. Al contempo, il ministro dell’Educazione Naftali Bennett ha sottolineato che la decisione del governo di accettare il cessate il fuoco a Gaza non è stata di suo gradimento.

Non è una novità. Fin dall’attacco del 2014 contro Gaza [l’operazione “Margine Protettivo”, ndtr.] Bennett ha cercato di presentare Netanyahu come un primo ministro indeciso che non ha il coraggio di “fare la cosa giusta”, cioé distruggere Hamas.

Un “uomo di pace”?

Ma non è stato solo a destra che Netanyahu è stato dipinto come un leader debole. Yair Lapid di Yesh Atid [partito di centro, ndtr.], Avi Gabbay del partito Laburista e altri hanno fatto a gara per criticare la “mancanza di coraggio” di Netanyahu di fronte ad Hamas. “Netanyahu è fallimentare e ha ceduto ad Hamas sotto attacco,” ha detto l’ex primo inistro Ehud Barak [del partito Laburista, ndtr.] in risposta alla decisione del cessate il fuoco.

Più o meno ogni 5 minuti qualcuno ha postato su Facebook il video in cui Netanyahu, come capo dell’opposizione nel 2009, prometteva di “distruggere il regime di Hamas”, presentando questa clip come ulteriore prova della distanza tra le sue dichiarazioni bellicose e il suo carattere indeciso e vigliacco.

In un recente articolo su “Haaretz” [giornale israeliano di centro-sinistra, ndtr.] l’editorialista Gideon Levy ha messo in evidenza il lato positivo di Netanyahu, descrivendolo come un “uomo di pace”. E’ stato scritto pochi giorni prima dell’inizio dell’attuale serie di violenze, ma immagino che la rapida approvazione del cessate il fuoco con Hamas non faccia che rafforzare i suoi argomenti principali.

Levy ci ricorda, e a ragione, che durante i suoi 12 anni in carica – compreso il suo primo periodo come primo ministro dal 1996 al 1999 – Netanyahu ha iniziato solo una guerra, rispetto alle due che Olmert fece in modo di scatenare in tre anni come primo ministro. Netanyahu, nota Levy, è stato “uno dei primi ministri più pacifisti che abbiamo mai avuto.”

Tuttavia sia alla critica riguardo alla vigliaccheria di Netanyahu che agli elogi per la sua moderazione sfugge il punto principale del suo comportamento. Netanyahu è un ideologo – un ideologo della “Terra di Israele”. Dal momento in cui per la prima volta assunse l’incarico di primo ministro nel 1996, e sicuramente dal suo ritorno al potere nel 2009, è stato molto deciso nell’evitare la formazione di uno Stato palestinese indipendente tra il fiume Giordano e il Mediterraneo.

Politica di annessione

Netanyahu la vede come una missione storica, tramandatagli da suo padre, che a sua volta l’ha ricevuta dal defunto leader sionista Zeev Jabotinsky. Nella Terra di Israele la sovranità ebraica è l’unica possibile, con l’esclusione di qualunque altra. Evitare una sovranità straniera nella Terra di Israele è fondamentale per l’esistenza del popolo ebraico e, indirettamente, della civiltà occidentale. La legge dello “Stato-Nazione” è una manifestazione di questo processo ideologico.

Ma Netanyahu non è un fanatico. Capisce la realtà. Comprende che la comunità internazionale non accetterebbe l’annullamento degli accordi di Oslo insieme allo smantellamento dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e all’annessione della Cisgiordania da parte di Israele. Persino sotto Donald Trump, che ha fatto più di qualunque altro precedente presidente USA per incoraggiare questo progetto, il riconoscimento internazionale di un processo che porti alla distruzione della sovranità palestinese è praticamente impossibile.

Quindi quello che Netanyahu deve fare è guadagnare tempo – da una parte, per iniziare un processo politico che crei un congelamento, e dall’altra per continuare l’impresa di colonizzazione e la creazione di fatti sul terreno in Cisgiordania e a Gerusalemme est, sperando che nei prossimi 10, 20 o 30 anni non ci saranno altre opzioni che uno Stato di Israele con il potere esclusivo sulla storica Terra di Israele.

Per continuare questa strisciante ma certa annessione, Netanyahu ha bisogno di tranquillità. L’annessione totale fa rumore, per cui vi si oppone, anche al costo di attacchi velenosi da parte di Bennett e di dirigenti all’interno dello stesso Likud. Una guerra fa rumore, per cui lavora per ridurre il conflitto, anche se ciò significa che un sergente della riserva come Lieberman lo dipinga come un vigliacco.

La divisione tra Hamas e Fatah

L’atteggiamento di Netanyahu verso Hamas dev’essere visto in questo contesto. Netanyahu si è quasi sempre tenuto lontano da una guerra totale di annichilimento contro il potere di Hamas a Gaza – ma non perchè sia timoroso della prospettiva della violenza o di una esibizione di potenza. Al contrario – dal suo punto di vista, una esibizione di potenza è più importante dei principi.

Le altre Nazioni rispettano fino ad un certo punto i principi, ma rispettano molto di più la potenza,” ha detto solo pochi giorni fa durante un incontro della sua fazione nel Likud. Ma Netanyahu non vuole rumore. Soldati che muoiono a Gaza fanno rumore; migliaia di civili palestinesi morti fanno rumore; l’occupazione della Striscia di Gaza è un terremoto che porterebbe l’attenzione di tutto il mondo sulla situazione dei palestinesi, sull’occupazione, sul fatto che i negoziati sono congelati. Questa è l’ultima cosa che Netanyahu vuole.

Ma c’e un’altra questione in ballo, qualcosa di più profondo. Netanyahu ha “ereditato” la divisione tra Hamas e Fatah, tra la Cisgiordania e Gaza, quando ha ripreso il lavoro di primo ministro nel 2009. Dal suo punto di vista, questa divisione è una fondamentale risorsa politica.

Dall’inizio degli anni ’90 Israele ha aspirato a tagliare fuori Gaza dalla Cisgiordania rifiutando permessi di uscita e imponendo il blocco, e poi con il suo assedio alla Striscia di Gaza. L’idea era che finchè le due parti del corpo politico palestinese sono separate tra loro, le possibilità dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e dei palestinesi in generale di chiedere uno Stato si riducono.

Il fatto che oggi ci siano due governi separati che operano a Gaza e in Cisgiordania è una miniera d’oro politica per chiunque desideri far fallire un qualunque processo che possa portare ad uno Stato palestinese indipendente. E Netanyahu, come abbiamo visto, è esattamente quell’uomo.

La “ricostruzione” di Gaza

Quindi dal punto di vista di Netanyahu conservare il potere di Hamas a Gaza è un vantaggio strategico di prim’ordine. Secondo lui qualunque processo che possa probabilmente portare alla fondazione di uno Stato palestinese indipendente a Gaza, separato dalla Cisgiordnaia, è una benedizione. Se Gaza diventa il suo “emirato”, come piace chiamarlo alla gente di destra, questo sarebbe un colpo mortale alle pretese di Mahmoud Abbas, o di qualunque suo potenziale successore, di rappresentare il popolo palestinese nei negoziati per porre fine all’occupazione e fondare uno Stato indipendente.

Questo concetto spiega l’improvvisa preoccupazione di Netanyahu per la “ricostruzione” di Gaza – e sottolinea anche la ragione per cui ha accettato l’ingresso, davanti alle telecamere, di valigie piene di 15 milioni di dollari dal Qatar, destinati unicamente a pagare i dipendenti di Hamas a Gaza.

Spiega anche perché Netanyahu ha evitato un’occupazione di Gaza. Se un simile passo militare dovesse in qualche modo accadere senza costare le vite di centinaia di israeliani e di migliaia o forse decine di migliaia di palestinesi – e senza diventare una catastrofe mediatica a livello internazionale – Israele alla fine si troverebbe a dover consegnare Gaza ad Abbas e all’ANP, rafforzando così la loro presenza nel mondo. E’ esattamente quello che Netanyahu sta cercando di evitare.

Ciò non significa che Hamas sia una creazione di Netanyahu o di Israele, come gente di Fatah afferma in ogni conversazione privata, e ogni tanto anche in pubblico. Hamas è una spina nel fianco di Israele. Nell’ultimo periodo di violenze Hamas ha di nuovo dimostrato di poter tranquillamente paralizzare la vita quotidiana in vaste aeree di Israele. L’impressione che ha dato è che le sue capacità militari siano solo migliorate e che in futuro sarà ancora più pericolosa – forse non come Hezbollah, ma non lontana dal suo livello.

Il dilemma di Netanyahu

Tuttavia Netanyahu si trova in una posizione difficile. Da una parte, per tutte le ragioni succitate, è molto importante per lui mantenere Hamas al potere a Gaza. Dall’altra, finchè Hamas governa a Gaza, Netanyahu non è in grado di trasmettere una sensazione di sicurezza a centinaia di migliaia di israeliani nel sud del Paese. E inoltre, poichè si oppone per principio a qualunque negoziato con i palestinesi, Netanyahu non ha un percorso verso un accordo a lungo termine che tranquillizzi la situazione. Non ha altra possibilità che essere d’accordo a farla finita con Hamas.

Hamas capisce bene il dilemma di Netanyahu. La fazione palestinese sa che Netanyahu sa che non cercherà di eliminarla. Quindi nelle attuali circostanze Hamas può lanciare centinaia di razzi contro Israele, sapendo che alla fine Netanyahu accetterà un cessate il fuoco appena Hamas, attraverso la mediazione egiziana, glielo offre. Nell’ultima fase di violenze Hamas ha sfruttato questo circolo vizioso per raggiungere una chiara vittoria politica, e così facendo ha messo in luce la debolezza di Netanyahu.

Netanyahu deve essere cosciente di questo circolo vizioso, ma, data quella che egli vede come la sua missione storica di evitare la formazione di uno Stato palestinese indipendente, è pronto a pagare il prezzo politico per quello che l’opinione pubblica potrebbe vedere come mancanza di coraggio e codardia. Il prezzo politico questa volta è stato particolarmente alto.

E’ ragionevole supporre che le dimissioni di Lieberman spingeranno a nuove elezioni e alla fine del quarto governo Netanyahu, che, fino a non molto tempo fa, sembrava così stabile. Sarebbe sicuramente ironico se fosse Hamas, che Netanyahu ha lavorato così duramente per tenere in vita e per difendere dalle minacce di Abbas, che in conclusione porterà alla fine del regno di Netanyahu.

  • Meron Rapoport  è un giornalista e scrittore israeliano, vincitore del “Premio internazionale Napoli per il Giornalismo” per un’inchiesta sul furto di ulivi a danno di proprietari palestinesi. E’ stato capo della redazione notizie di Haaretz ed ora è un giornalista indipendente.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Dovremmo rendere omaggio alla Striscia di Gaza

Gideon Levy

15 luglio 2018, Haaretz

Lo spirito di Gaza non è stato spezzato da nessun assedio e soffia un alito di vita nella disperata e perduta causa della lotta palestinese.

Se non fosse per la Striscia di Gaza, l’occupazione sarebbe stata da tempo dimenticata. Se non fosse per la Striscia di Gaza, Israele avrebbe cancellato la questione palestinese dalla sua agenda e proseguito tranquillamente con i suoi crimini e le sue annessioni, con la sua routine, come se 4 milioni di persone non stessero vivendo sotto il suo tallone. Se non fosse per la Striscia di Gaza, anche il mondo avrebbe dimenticato. In gran parte lo ha già fatto. Ecco perché noi adesso dobbiamo rendere omaggio alla Striscia di Gaza – soprattutto allo spirito della Striscia di Gaza, l’unico che ancora soffia un alito di vita nella disperata e perduta causa della lotta palestinese per la libertà.

La lotta risoluta della Striscia di Gaza dovrebbe destare ammirazione anche in Israele. La manciata di persone dotate di coscienza che è rimasta qui dovrebbe ringraziare l’indomito coraggio della Striscia di Gaza. Il coraggio della Cisgiordania è svanito dopo il fallimento della Seconda Intifada, come anche quello del campo della pace israeliano – gran parte del quale si è da tempo disgregato. Solo il coraggio della Striscia di Gaza rimane saldo nella sua lotta.

Perciò, chiunque non voglia vivere per sempre in un Paese malvagio, deve rispettare le braci che il giovane popolo della Striscia di Gaza sta ancora cercando di attizzare. Se non fosse per gli aquiloni, i fuochi, i razzi Qassam, i palestinesi sarebbero completamente usciti dalla consapevolezza di tutti in Israele. Solo la Coppa del mondo e il Festival europeo della canzone desterebbero qualche interesse. Se non fosse per i campi incendiati nel sud, ci sarebbe un’enorme bandiera bianca a sventolare non solo sopra la Striscia di Gaza, ma sull’intero popolo palestinese. Gli amanti della giustizia, anche in Israele, non possono desiderare questo genere di asservimento.

È difficile, persino arrogante, scrivere queste parole da una tranquilla e sicura Tel Aviv, dopo un’altra notte insonne e da incubo nel sud, ma tutti i giorni e le notti nella Striscia di Gaza sono molto più difficili a causa della disumana politica di Israele, sostenuta dalla maggior parte dei suoi cittadini, compresa la gente che vive nel sud. Non meritano di portarne il peso, ma ogni lotta esige un prezzo di vittime innocenti, che ci auguriamo non diventino dei morti. Bisognerebbe ricordare che solo i palestinesi vengono uccisi. Sabato la 139ma vittima del fuoco israeliano lungo il confine è morta. Aveva 20 anni. Venerdì è stato ucciso un ragazzo di 15 anni. La Striscia di Gaza paga l’intero prezzo di sangue. Questo non la fa desistere. Quello è il suo spirito. Non si può che provare ammirazione.

Lo spirito della Striscia di Gaza non è stato domato da nessun assedio. I cattivi di Gerusalemme chiudono il valico di confine di Kerem Shalom, e Gaza spara [i razzi]. I malvagi nel complesso governativo di Kirya [grattacielo che ospita uffici pubblici, ndtr.] a Tel Aviv vietano ai giovani di essere curati in Cisgiordania per evitare di avere le gambe amputate.

Per anni hanno impedito a pazienti oncologici, comprese donne e bambini, di ricevere terapie salvavita. L’anno scorso è stato approvato solo il 54% delle richieste di uscire dalla Striscia di Gaza per ragioni mediche, rispetto al 93% nel 2012. È una crudeltà. Si dovrebbe leggere la lettera scritta in giugno da 31 medici oncologi israeliani, che chiedevano che si ponesse fine alla violenza verso le donne di Gaza affette da tumore, le cui domande di permesso di uscita impiegano mesi di tempo per essere esaminate, segnando il loro destino.

I 31 razzi lanciati venerdì notte su Israele dalla Striscia di Gaza sono una risposta moderata a questa crudeltà. Non sono altro che un muto richiamo al destino della Striscia di Gaza, rivolto a coloro che pensano che 2 milioni di persone possano essere trattate così per oltre 10 anni continuando come se nulla stesse accadendo.

La Striscia di Gaza non ha scelta. E nemmeno Hamas. Ogni tentativo di gettare la colpa sull’organizzazione – che io vorrei solo fosse più laica, più femminista e più democratica – è un’elusione di responsabilità. Non è stato Hamas a chiudere la Striscia di Gaza. Né vi si sono chiusi dentro i suoi stessi abitanti. Israele (e l’Egitto) lo hanno fatto. Ogni timido tentativo da parte di Hamas di fare qualche passo avanti con Israele riceve un immediato e automatico rifiuto da Israele. E neanche il resto del mondo vuole parlare con loro, chissà perché.

Tutto ciò che gli resta sono gli aquiloni [incendiari], che potrebbero portare ad un’altra serie di spietati bombardamenti e lanci di granate da parte di Israele, che Israele ovviamente non vuole. Ma quale scelta ha la Striscia di Gaza? Una bandiera bianca di resa sui suoi confini, come quella che hanno alzato i palestinesi in Cisgiordania? Il sogno di una verde isola al largo del Mediterraneo, che il ministro israeliano dei Trasporti Yisrael Katz costruirà per loro? La lotta è la sola strada che resta, una strada che dovrebbe ricevere rispetto, anche se si è un israeliano che potrebbe esserne vittima.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Dopo aver ucciso Razan al-Najjar, Israele assassina il suo personaggio

Gideon Levy

10 giugno 2018, Haaretz

Quando non c’è più onestà, ciò che rimane non è altro che propaganda

Poche parole – “Razan al-Najjar non è un angelo della misericordia” – riassumono la profondità della propaganda israeliana. Avichay Edraee, il portavoce in lingua araba dell’esercito israeliano, che parla anche in mio nome, è il rappresentante di un esercito della misericordia che ora si è autonominato giudice del livello di misericordia di una dottoressa che curava un ferito palestinese sul confine di Gaza con Israele e che i soldati dell’esercito israeliano hanno ucciso senza misericordia. Dopo averla uccisa, era anche necessario assassinare il suo personaggio.

La propaganda è uno strumento a disposizione di molti Paesi. Meno le loro politiche sono giuste, più incrementano i propri sforzi propagandistici. La Svezia non ha bisogno di propaganda. La Corea del Nord sì. In Israele viene chiamata ‘hasbara’ – diplomazia pubblica – in quanto: perché avrebbe bisogno di propaganda? Recentemente la sua propaganda è scesa a una bassezza talmente deprecabile che niente può dimostrare meglio di così che le sue giustificazioni sono esaurite, le sue scuse finite, che la verità è la nemica e che ciò che rimane sono menzogne e calunnie.

Si rivolge soprattutto al consumo interno. Nel resto del mondo pochi abitanti di Gaza ci crederebbero in ogni caso. Ma come parte del disperato tentativo di continuare con la repressione e la negazione psicologiche, nell’incapacità di dirci la verità e nell’elusione di ogni responsabilità – tutto è accettabile quando si tratta di questi sforzi.

Una dottoressa con un camice da infermiera è stata uccisa con un colpo di fucile da cecchini dell’esercito israeliano – come hanno fatto con giornalisti con i giubbotti con la scritta “stampa” e con un invalido senza gambe su una sedia a rotelle. Se ci fidiamo dei cecchini dell’esercito israeliano per sapere cosa stanno facendo, contando su di loro per essere i più corretti al mondo, allora queste persone sono state uccise deliberatamente. Sicuramente se l’esercito credesse alla giustezza della campagna militare che sta combattendo a Gaza, si sarebbe preso la responsabilità di queste uccisioni, manifestando rincrescimento e offrendo un risarcimento.

Ma quando la terra scotta sotto i nostri piedi, quando sappiamo la verità e capiamo che sparare contro manifestanti e ucciderne più di 120 e rendere centinaia di altri disabili assomiglia di più a un massacro, non si può chiedere scusa e esprimere rincrescimento. E allora l’aggressiva, goffa, imbarazzante e vergognosa macchina della propaganda del portavoce dell’esercito entra in azione – una fragorosa voce dal ministero della Difesa che aggrava semplicemente quello che è stato fatto. Martedì il maggiore Edraee ha reso pubblico un video in cui si vede da dietro un’infermiera, forse Najjar, mentre lancia lontano un lacrimogeno che i soldati avevano sparato verso di lei. Lo stesso Edraee avrebbe fatto altrettanto, ma quando si tratta di una propaganda disperata, è una prova inconfutabile: Najjar è una terrorista. Ha anche detto di essere uno scudo umano. Sicuramente un medico è un difensore di esseri umani.

Un’inchiesta militare israeliana, basata ovviamente solo su testimonianze dei soldati, dimostra che non è stata colpita volontariamente. Chiaro. La macchina della propaganda è andata oltre ed ha suggerito che potrebbe essere stata uccisa da armi da fuoco palestinesi, che sono state usate molto di rado durante gli ultimi due mesi.

Forse si è sparata da sola? Tutto è possibile. E ci ricordiamo forse di una qualunque inchiesta dell’esercito israeliano che abbia dimostrato il contrario? L’ambasciatore israeliano a Londra, Mark Regev, che è un altro grande, raffinato propagandista, è stato veloce nel twittare in merito alla “dottoressa volontaria” tra virgolette, come se una palestinese non potesse essere una dottoressa volontaria. Invece, ha scritto, la sua morte è “un ulteriore dimostrazione della brutalità di Hamas.”

L’esercito israeliano uccide un medico in camice bianco, durante una vergognosa violazione delle leggi internazionali, che garantiscono protezione al personale medico in zone di conflitto. E ciò nonostante il fatto che il confine di Gaza non costituisca una zona di guerra. Ma è Hamas che è brutale.

Uccidimi, signor ambasciatore, ma chi potrebbe mai seguire questa logica contorta, malata? E chi può credere a questa propaganda a buon mercato se non qualche membro del Consiglio dei Deputati degli Ebrei Britannici – la più grande organizzazione rappresentativa dell’ebraismo britannico – insieme a Merav Ben Ari [del partito di centro Kulanu, all’opposizione, ndt.], la deputata della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] che ha subito approfittato dell’occasione e ha dichiarato: “Risulta che la dottoressa, proprio quella, non era solo un medico, come vedete.” Sì, quella. Come vedete.

Israele avrebbe dovuto essere scioccato dall’uccisione della dottoressa. Il volto innocente di Najjar avrebbe dovuto toccare ogni cuore israeliano. Organizzazioni di medici avrebbero dovuto esprimersi. Gli israeliani avrebbero dovuto nascondere la faccia per la vergogna. Ma sarebbe potuto succedere solo se Israele avesse creduto alla giustezza della propria causa. Quando non c’è più onestà, ciò che rimane non è altro che propaganda. E da questo punto di vista, forse questa caduta ancora più in basso annuncia novità positive.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La sinistra sionista di estrema destra israeliana

Gideon Levy

27 maggio 2018, Haaretz

Eitan Cabel, del partito Laburista, non propone la pace ma l’annessione. I suoi palestinesi non avrebbero uno status né diritti, e ovviamente sono da ritenere responsabili per questo.

È un peccato che Eitan Cabel non sia segretario del partito Laburista. Se lo fosse, il partito Laburista potrebbe affermare ufficialmente di essere arrivato alla fine del suo percorso. Ma anche così, il suo editoriale sull’edizione di Haaretz in ebraico di venerdì rispecchia adeguatamente le posizioni del suo partito e più in generale quelle della più ampia “Unione Sionista” [coalizione elettorale di cui il partito Laburista è la componente principale ed attualmente all’opposizione, ndt.]. Di fatto il partito Laburista non ha posizioni diverse da quelle che Cabel ha precisato. Perciò dovremmo essere grati al coraggioso parlamentare della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.]: ha esposto la verità sul suo partito e sull’intera sinistra sionista.

Sul problema più grave la sinistra sionista non fa altro che imitare le posizioni della destra. La novità di Cabel è che queste sono le posizioni dell’estrema destra. Cabel e Naftali Bennett [ministro dell’Educazione e leader del partito di estrema destra “Casa Ebraica”, ndt.] sono fratelli, “Casa Ebraica” e ”Unione Sionista” sono gemelli, non c’è più nessuna differenza tra loro. Il vuoto e ipocrita “carro” – una metafora dei valori e del patrimonio ideale – della sinistra sionista è arrivato alla fine del suo percorso. Quanto meno un membro coraggioso addirittura se ne vanta.

Cabel propone un’iniziativa sobria. Non pace ma annessione. Non un’annessione come quella che c’è stata finora, ma un’annessione totale. I palestinesi di Cabel non hanno uno status né diritti passati, presenti o futuri; è persino dubbio che essi esistano. Ovviamente sono da ritenere responsabili di questo e gli ebrei devono avere tutta la terra.

Solo una cosa terrorizza il socialdemocratico di Rosh Ha’ayin [cittadinia del centro di Israele, ndt.] – che, il cielo non voglia, nella Knesset ci saranno 30 deputati arabi. I suoi genitori non sono immigrati dallo Yemen per questo. Shoshana e Avshalom non sono venuti qui per vivere con gli arabi. Quello ce l’avevano già in Yemen. Essi e il loro figlio vogliono uno Stato razzialmente puro. Se un quarto dei deputati fosse arabo ciò distruggerebbe il loro sogno. Il compagno di partito di Bennett Bezalel Smotrich [noto per le posizioni particolarmente estremiste, ndt.] non avrebbe potuto dirlo in termini più razzisti.

Cabel vuole che si faccia qualcosa. Sa che non c‘è una controparte palestinese e non ci sarà mai. Quindi avanti, prendiamo l’iniziativa. Possiamo pensare a un trasferimento, indubbiamente un’iniziativa, atroce quanto l’annessione, ma anche di più, però almeno ciò garantirebbe una soluzione finale. Comunque, Cabel non ci è ancora arrivato. Forse presto farà carriera nei ranghi del partito. Nel frattempo Cabel ne ha abbastanza della limitazione dei blocchi di colonie, il più grande imbroglio della sinistra sionista, su cui c’è un presunto consenso generale.

Una breve storia dei blocchi, proprio come una breve storia delle colonie: prima si trattava di annettere Gerusalemme est. Ciò non poteva essere fatto senza un “confine di sicurezza”, per cui la valle del Giordano è stata aggiunta alle zone intoccabili. Poi è arrivato il blocco di Gush Etzion [gruppo di colonie israeliane nei territori occupati fondato a partire dal 1967, ndt.] in perenne espansione, senza cui Israele non può essere immaginato, e come possiamo lasciare fuori Ma’aleh Adumim [grande colonia nei pressi di Gerusalemme, riconosciuta come città dal governo israeliano, ndt.], che è stata fondata per tagliare in due la Cisgiordania? E cosa ne sarà, fratelli ebrei, della città universitaria di Ariel [colonia nel centro della Cisgiordania, dove sorge la prima università nelle colonie, ndt.]?

Queste sono state tutte aggiunte alla lista non dalla destra ma dalla sinistra sionista, che ha sostenuto la fondazione di uno Stato palestinese, certamente uno Stato palestinese tra Jenin e il suo campo profughi. Ora Cabel sta annettendo anche Karnei Shomron, e cosa dire di Shavei Shomron, Yitzhar e Itamar? Rehelim, Havat Gilad e Baladim [altre colonie in Cisgiordania, ndt.]? Perché no? Il destino dei coloni, che stanno vivendo sotto la “legge marziale”, spezza il cuore di Cabel, perciò, perché non annettere anche loro? Non sono esseri umani? Non sono ebrei? Cabel è un uomo con una coscienza, il suo cuore è sempre dalla parte degli oppressi.

Cabel è uno dei dirigenti del campo della pace, e come dice il nome del suo campo, offre ai palestinesi negoziati prima o poi, quando si comporteranno correttamente. Nel 1948 hanno perso il 78% del loro Paese, ed ora Cabel sta sezionando i resti di ciò che rimane e rubando per sé i blocchi [di colonie], un prezzo per il ladro e il colono.

Ma la Palestina non è perduta. Cabel, di sinistra, vuole discutere di quello che resta. C’è una possibilità che rinunci al campo profughi di Al-Fawwar [a sud di Hebron, ndt.]. Se ci sarà una dirigenza palestinese all’altezza, che mangi con coltello e forchetta, in un giorno di particolare generosità Cabel e il suo partito le offriranno persino il campo profughi di Al-Arroub [sulla strada tra Hebron e Gerusalemme, ndt.]. Dai tempi del Mahatma Gandhi non c’è più stato un uomo di pace come Cabel, da quelli di Nelson Mandela non c’è più stato un simile combattente per la giustizia.

La richiesta di Cabel di essere sobri è un importante contributo al dibattito politico. Tornate sobri, amici di Cabel, non avete niente da offrire. Siete di destra, persino di estrema destra, ed ora siete senza la maschera che avete portato per 50 anni. Eliminate le elezioni in Israele. Dopotutto, (quasi) tutti sono per l’occupazione.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Le truppe israeliane hanno sparato prima alla gamba sinistra di un giornalista di Gaza, poi alla destra. E non si sono fermate qui.

Gideon Levy e Alex Levac

27 aprile 2018, Haaretz

L’amputazione della gamba sinistra di Yousef Kronz, 19enne fotografo di Gaza, avrebbe potuto essere evitata se Israele gli avesse permesso di ricevere cure mediche tempestive in Cisgiordania.

La sua gamba sinistra è stata amputata nell’ospedale di Shifa nella Striscia di Gaza, e ora sono in corso gli sforzi, nell’Istituto Ospedaliero Arabo Istishari in Cisgiordania, per assicurarsi che la sua gamba destra non subisca lo stesso destino. Più di due settimane sono passate tra l’amputazione della prima gamba – che anch’essa avrebbe potuto essere evitata – e gli sforzi intrapresi per salvare l’altra. Tempo prezioso in cui Israele ha rifiutato a Yousef Kronz, il primo Palestinese gravemente ferito durante le recenti proteste settimanali nella Striscia di Gaza, il permesso di essere trasferito nell’ospedale alla periferia di Ramallah. L’Alta Corte di Giustizia alla fine ha costretto il Ministero della Difesa a porre fine a questa vergognosa condotta e consentire il trasferimento dello studente e giornalista 19enne del campo profughi di Bureij, in quella struttura più attrezzata.

Venerdì 30 marzo, Kronz è stato colpito da un cecchino delle forze di difesa israeliane, prima alla gamba sinistra e poi, pochi secondi dopo, quando ha cercato di alzarsi, alla gamba destra, da un secondo cecchino. Secondo Kronz, i proiettili che gli hanno colpito le gambe e gli hanno frantumato la vita provenivano da due diverse direzioni. In altre parole, è stato colpito da due diversi tiratori, mentre si trovava a 750 metri dal reticolato che segna il confine di Gaza, armato solamente della sua macchina fotografica, con indosso un gilet con su scritto “Stampa”, cercando di documentare il fuoco incessante dei cecchini israeliani contro i manifestanti palestinesi disarmati. Dopo essere stato colpito, ci dice ora, ha visto sempre più persone cadere sulla sabbia, sanguinando, “come uccelli”. L’incidente è avvenuto nella Giornata della Terra, il primo giorno delle Marce del Ritorno di fronte al confine di Gaza.

L’ospedale Istishari è situato in alto nel villaggio di Surda, a nord di Ramallah. È una grande, nuova, sofisticata struttura privata, lussuosa e scintillante. Kronz ha una stanza privata, spaziosa e ben illuminata, con un letto regolabile, un televisore, pareti con pannelli in legno ed una vista mozzafiato. Israele non ha permesso a nessuno della sua famiglia di accompagnare Kronz in Cisgiordania o di badare a lui, eccetto a suo nonno, Mohammed Kronz, che ha 85 anni, e che, dopo pochi giorni, è stato costretto ad andare a casa di parenti nel lontano campo profughi di Aroub, vicino a Betlemme, per riposarsi. Ora Yousef, che soffre di forti dolori al moncone e alla sua gamba rimanente, viene assistito con devozione infinita da un cugino, Ghassan Karnaz, anch’egli di Aroub. The two cou sins had never met before.I due cugini non si erano mai incontrati prima. Come tutti i giovani di Gaza, Kronz non era mai stato fuori dalla Striscia. Ora ha violato l’assedio di Gaza – senza una gamba.

Studente di comunicazione del primo anno all’Università Al-Azhar di Gaza, è di una famiglia originaria di Faluja, nel Negev. Suo padre riceve uno stipendio dall’Autorità Palestinese come funzionario della polizia di Gaza. Kronz era attivo nei social network, dove scriveva sulla situazione nella Striscia. Qualche mese fa, ha acquistato una macchina fotografica Canon 5D per 5.000 dollari, metà dai suoi risparmi e il resto da suo padre, e ha iniziato a lavorare per l’agenzia di stampa locale Bureij.

Kronz è stato il primo giornalista ferito durante il mese delle manifestazioni, anche se non l’ultimo. Conosceva Yaser Murtaja, un giornalista ucciso a sangue freddo da cecchini israeliani il 6 aprile. Come Kronz, anche Murtaja proveniva da un campo profughi di Gaza – Jabalya.

Il 30 marzo, Kronz ha camminato per circa un chilometro e mezzo da casa sua al luogo delle dimostrazioni per fotografarle per la sua agenzia di stampa. Ha recitato le preghiere del mezzogiorno nella tenda dei giornalisti allestita lì. I 25 reporter locali hanno quindi discusso di come avrebbero coperto lo svolgersi delle proteste che stavano documentando. L’atmosfera era tesa, ricorda ora; tutti si aspettavano un numero elevato di vittime.

Pensava che le forze di difesa israeliane avrebbero usato munizioni vere? “Le forze di difesa israeliane usano sempre le munizioni vere.” La sua faccia è contorta dal dolore, ma Kronz è ben curato, nonostante le sue condizioni. Guarda costantemente lo specchio o la telecamera nel suo cellulare, per essere sicuro che il suo taglio di capelli alla moda sia a posto. Dopo le preghiere, continua, la gente inizia a incendiare i pneumatici. Cartelli predisposti dagli organizzatori indicavano la direzione per i servizi igienici e per le varie tende e anche la distanza dal recinto di confine in ogni punto. Così Kronz sapeva di essere a 750 metri dalla barriera. Il giorno prima, le forze di difesa israeliane avevano lanciato dei volantini nella vicina Jabalya, avvertendo che chiunque si fosse avvicinato a più di 300 metri dalla recinzione avrebbe rischiato la vita. Dopo anni di esperienza, gli abitanti di Gaza prendono sul serio questi avvertimenti. Gli organizzatori hanno contrassegnato una zona consentita e una zona rossa proibita e pericolosa. Karnaz dice che era a centinaia di metri fuori dal confine della zona rossa.

Alle 2 del pomeriggio, la situazione si è surriscaldata. Le truppe dell’esercito israeliano hanno iniziato a lanciare granate lacrimogene mentre alcuni giovani si avvicinavano a 100 metri dalla recinzione. Hanno usato fionde per lanciare sassi contro i soldati, ma erano troppo lontani per colpirli. Kronz dice di aver visto alcune dozzine di soldati di fronte a lui dall’altra parte della barriera; tre jeep e la canna di un carro armato stavano sbirciando da dietro un terrapieno. Anche lui ha trovato un piccolo cumulo di terra e si è appollaiato dietro di esso, posizionando il treppiede con la sua fotocamera su di un lato e il suo zaino sull’altro. Si è inginocchiato sulla sabbia, le gambe incrociate davanti a lui. La nuvola di gas lacrimogeni si è fatta più intensa, i soldati hanno iniziato a sparare le granate a raffica e il cielo si è riempito di gas denso e irritante. Il vento portava il gas nella sua direzione; i manifestanti usavano le cipolle per proteggersi.

Kronz ha scattato circa 950 foto.

Ricorda di aver guardato il suo orologio alle 15:00. Più tardi quel pomeriggio, un amico, Bilal Azara, si sarebbe sposato a Bureij; quindi pensò che avrebbe dovuto andare a casa, farsi una doccia e cambiarsi. Kronz prese la sua macchina fotografica e lo zaino e si alzò in piedi. In quel preciso istante, il primo proiettile lo colpì. Non sentì nulla tranne un dolore bruciante. La fotocamera cadde dalle sue mani e lui collassò a terra, quindi cercò immediatamente di alzarsi. In quel momento il secondo proiettile squarciò l’altra gamba. Il primo è entrato cinque centimetri sotto il ginocchio, il secondo a sette centimetri sopra l’altro ginocchio. Paralizzato, cercò di gridare aiuto ma la sua voce lo tradì. Dice di essersi sentito sentirsi come fulminato. La sua macchina fotografica è stata abbandonata nelle sabbie di Gaza.

A pochi metri c’era un giovane della stessa età, Ahmed al-Bahar, un assistente di uno degli altri fotografi. Bahar corse da Kronz e cercò di sollevarlo, ma proprio in quel momento anche lui fu colpito a una gamba e cadde a terra sanguinando.

A questo punto della nostra conversazione, lontani parenti dell’11enne Abed al-Rahman Nufal, che ha perso anche lui una gamba a Gaza ed è ricoverato qui all’Istishari, entrano nella stanza per salutare. Nufal è uno degli unici tre altri abitanti di Gaza feriti che Israele ha permesso di trasportare qui, su 1.500 feriti nelle manifestazioni fino ad oggi. La famiglia, ex abitanti di Gaza che ora vivono in Cisgiordania, è venuta per vedere come sta il ragazzo.

Alcuni giovani hanno trasportato Kronz e Bahar all’unica ambulanza della zona. In breve tempo il veicolo era pieno zeppo di sei feriti distesi l’uno accanto all’altro; Kronz era il ferito più grave. I soldati continuavano a lanciare gas lacrimogeni; Kronz si sentiva come se stesse soffocando nell’ambulanza. Un paramedico gli ha messo una maschera di ossigeno sul viso, ma l’affollamento all’interno gli ha impedito di fermare l’emorragia dalle gambe di Kronz. Semi-incosciente, Kronz è stato portato all’ospedale Al-Aqsa a Dir al-Balah.

All’ospedale ha visto la sua gamba sinistra per la prima volta; era frantumata, l’osso sporgente, la carne lacerata. Alla sua vista è svenuto. È stato anestetizzato e trasferito immediatamente in un ospedale più grande, l’ospedale Shifa di Gaza City, a causa della gravità delle ferite. A Shifa ha subito un intervento chirurgico di sei ore per fermare l’emorragia.

Dopo quattro giorni a Shifa la condizione della gamba sinistra di Kronz si è deteriorata e i medici sono stati costretti ad amputarla sopra il ginocchio. Ha ricevuto 24 trasfusioni di sangue. La richiesta di trasferirlo a Ramallah per il trattamento è stata presentata a Israele poche ore dopo che era stato ferito, ma è stata respinta dalle autorità. Anche la situazione della gamba destra sembrava disperata.

Nove giorni dopo la ferita di Kronz, l’8 aprile, due gruppi per i diritti umani – Adalah, il Centro Legale per i Diritti delle Minoranze Arabe in Israele e il Centro al-Mezan per i Diritti Umani di Gaza – hanno presentato una petizione all’Alta Corte israeliana per consentire a Kronz e a un altro abitante di Gaza ferito, Mohammed Alajuri, di essere trasferiti urgentemente a Ramallah per le cure. A quanto pare il tribunale non ha visto alcuna reale urgenza nel trattare il caso e ha aspettato quattro giorni prima di deliberare sulla petizione, per la quale i giudici avevano richiesto una risposta dallo stato entro quattro giorni.

“Le amputazioni delle membra di entrambi i giovani avrebbero potuto essere evitate se lo stato avesse adempiuto ai propri obblighi secondo il diritto umanitario internazionale”, ha detto Sawsan Zahar, un avvocato di Adalah, ai giudici.

Gli avvocati dello stato, da parte loro, hanno detto alla corte che “Apparentemente, la condizione dei firmatari sembra soddisfare il criterio medico per il rilascio di un permesso [per il trasferimento a Ramallah], ma i funzionari responsabili hanno deciso di non accettare le loro richieste. La motivazione principale del rifiuto deriva dal fatto che la loro condizione sanitaria è il risultato della loro partecipazione alle manifestazioni”.

Il 16 aprile, i giudici Uri Shoham, George Karra e Yael Willner hanno dichiarato di non essere persuasi che il governo avesse pienamente valutato se le circostanze nel caso di Kronz giustificassero una deviazione dalla procedura normale. “Non c’è discussione sul fatto che le cure mediche di cui il firmatario ha bisogno per impedire l’amputazione della sua gamba non siano disponibili nella Striscia di Gaza”, hanno scritto. “Pertanto, il firmatario è incluso tra i casi in cui l’ingresso in Israele deve essere consentito ai fini del passaggio a Ramallah.”

I giudici si sono inoltre degnati di dichiarare che Kronz non rappresenta un rischio per la sicurezza di Israele. Quello stesso giorno fu trasferito all’ospedale Istishari. (Per quanto riguarda Alajuri, prima che la corte arrivasse a emettere una sentenza sul suo caso, i medici a Gaza non hanno avuto altra scelta che amputargli la gamba. Lui rimane a Gaza.)

Yousef Kronz sta attraversando un periodo difficile, adattandosi con difficoltà al suo stato di amputato. Quattro giorni dopo essere stato portato all’ospedale di Ramallah ha subito un intervento chirurgico alla gamba destra, le cui condizioni sembrano essersi stabilizzate. Ora, tuttavia, deve affrontare una lunga riabilitazione, che durerà almeno quattro mesi, in un ospedale di Beit Jala, vicino a Betlemme.

Prima di congedarci, ci chiede se pensiamo che sarà mai in grado di camminare su una gamba sola.

Traduzione di Maurizio Bellotto

su AssopacePalestina

 




Un bambino palestinese è rimasto orfano del padre disabile ucciso dall’esercito israeliano

Gideon Levy, Alex Levac

16 marzo 2018, Haaretz

A Hebron i soldati hanno ucciso Mohammed Jabri, un uomo mentalmente disabile incapace di parlare, che stava crescendo da solo il figlio di quattro anni.

Zain, poco più di 4 anni, fissa lo spazio nella sua piccola stanza con occhi spenti, senza emettere alcun suono. È seduto sulle ginocchia della nonna – anche se pensa che sia sua madre, perché così gli è stato detto. Ora gli hanno detto anche che suo padre è stato ucciso, anche se è improbabile che sia in grado di cogliere l’enormità della nuova catastrofe che lo ha colpito.

Tre anni fa, appena neonato, ha perso sua madre. Lo scorso venerdì ha perso anche suo padre, un giovane mentalmente disabile incapace di parlare. Con un gesto insensato, i soldati delle Forze di Difesa Israeliane, usando veri proiettili, gli hanno sparato al petto da una distanza di 20 metri, uccidendolo.

Abbiamo incontrato Zain tre giorni dopo la tragedia, seduto in silenzio in grembo alla nonna. A causa della terribile situazione economica della famiglia, il bimbo finirà probabilmente in un orfanotrofio, dice la nonna, che promette di andare regolarmente a trovarlo.

Mancano le parole in questa casa di dolore; è un momento di angoscia e lacrime. La casa è una struttura in pietra nella città vecchia di Hebron, sopra la Tomba dei Patriarchi e il quartiere dei coloni, ma in H1 – l’area che dovrebbe essere sotto il controllo palestinese. La penombra regna in casa.

Mentre gli occhi si abituano all’oscurità, una realtà incredibile prende forma. In questa casa vivono una coppia ed i loro 12 figli, quattro dei quali sono disabili, insieme ad alcuni giovani nipoti, tutti stretti in tre piccole stanze. I figli disabili soffrono di una varietà di problemi, tra cui malattia mentale e epilessia.

In questa casa viveva anche la giovane madre, morta a 18 anni di cancro, circa un anno dopo la nascita del suo unico figlio. E in questa casa viveva suo marito, Mohammed Jabri, 24 anni, che stava crescendo il loro giovane figlio, Zain, da solo. Adesso anche il padre è morto. Ucciso dalle forze di difesa israeliane.

Nel dimesso soggiorno vanno e vengono gli abitanti della casa, dando vita a scene indescrivibili. Ci sono il ventunenne Iyad, che ha l’epilessia e anche un handicap mentale; le sorelle Anwar, 20 anni, e Isra, 17, entrambe incapaci di parlare e che emettono solo suoni incomprensibili, esattamente come il loro fratello morto.

Ora sono tutti sconvolti dal dolore per Mohammed, figlio e fratello, ucciso vicino al recinto del liceo femminile in King Faisal Street a Hebron. Tre soldati, nascosti dietro il tronco di un ulivo secolare, stavano tendendo un agguato ai lanciatori di pietre nel cortile della scuola; improvvisamente sono balzati fuori dal loro nascondiglio e hanno sparato a Mohammed. Suo padre dice che non era in grado di cogliere un pericolo in arrivo.

“Mohammed era un semplice. Non si sarebbe accorto, per esempio, del pericolo di soldati che sparavano.” dice il padre Zain, col cui nome è stato chiamato il nipote. Né conosceva la differenza tra una banconota da cinquanta shekel e una moneta da mezzo shekel, in questa casa poverissima. “Per lui tutto era mezzo shekel”, aggiunge Zain.

A Hebron tutti conoscevano Mohammed a causa del suo strano comportamento, ed era chiamato “Akha, Akha” – un’eco dei suoni privi di significato che emetteva. “Akha, Akha” era ciò che abitualmente gridava ai soldati israeliani, alcuni dei quali sapevano anche chi fosse. Spesso li scherniva ai checkpoint tra le due parti della città, urlando loro suoni gutturali, a volte anche tirando pietre.

Era già stato arrestato due volte, ma in entrambe le occasioni fu rapidamente trasferito alla custodia dell’Autorità Nazionale Palestinese, che lo ha riportato a casa dai suoi genitori a causa delle sue condizioni. L’ultima volta è successo un anno e mezzo fa. È stato anche ferito tre volte da spari alle gambe mentre lanciava pietre, ma le ferite non erano gravi.

Quindi “Akha, Akha” ha continuato a provocare i soldati, come lo scorso venerdì, in quello che si rivelò essere l’ultimo giorno della sua vita. “Il governo israeliano e l’esercito sapevano esattamente chi era Mohammed. Dopo tutto, lo hanno arrestato e rilasciato” ci dice Zain, durante la nostra visita di questa settimana.

Ablaa, la madre, piange mentre suo marito racconta la storia. Hanno entrambi 51 anni. Zain lavora in un garage nel villaggio di Husan, i cui clienti provengono per la maggior parte dal grande insediamento ultra-ortodosso di Betar Ilit, nelle vicinanze. Mohammed faceva occasionalmente lavori saltuari come la pavimentazione stradale, per quanto consentito dalle sue disabilità. Dopo che Duah, sua moglie e madre del piccolo Zain, morì, si risposò, ma la sua seconda moglie, Amal, lo lasciò dopo un anno. Probabilmente trovava difficile vivere insieme al marito disabile in questa triste e affollata casa di tragedie.

Solo il padre e una delle sue sorelle, Asma, riuscivano a capire cosa c’era nel cuore di Mohammed e a decifrare le sue strane espressioni. Mohammed non sapeva nemmeno leggere o scrivere, e comunicare con lui era difficile.

Suo padre racconta che Mohammed era triste dopo che Amal lo aveva lasciato e aveva mandato degli intermediari alla sua famiglia, per convincerla a tornare; chiese anche a Zain di riportarla indietro, ma fu inutile. Ablaa ricorda che l’ultima sera della sua vita Mohammed era particolarmente triste. Andò a dormire prima del solito e si alzò più tardi del solito il giorno seguente. Era così preoccupata per lui che andò a controllarlo alcune volte durante la notte per assicurarsi che stesse ancora respirando, dice ora tra le lacrime.

Erano già passate le 10 venerdì quando Mohammed si è svegliato. Suo padre era da tempo andato al lavoro al garage; sua madre mandò Mohammed a comprare del pollo. Dopo di che è andato alla moschea per pregare, ma non è mai tornato. Ablaa ricorda che aveva preparato il maqluba, un piatto tradizionale a base di carne e riso; poiché era in ritardo per il pranzo, gli aveva tenuto la sua porzione sul tavolo.

“Era così sensibile”, dice ora. “Non sapevi mai dove fosse.”

Mohammed non era ancora tornato quando Zain tornò a casa dal lavoro, si lavò le mani e si sedette a mangiare. Un parente chiamò Asma per dire che Mohammed era stato ferito alle gambe. “Possa Dio avere pietà di lui”, esclamò il padre sentita la notizia, aggiungendo adesso che aveva già il sentore che la situazione fosse più seria. Lui e Ablaa andarono in fretta all’ospedale Alia di Hebron, mentre lui recitava sottovoce i versetti da pronunciare in caso di morte: “Possa Dio compensarci.” Sua moglie cercava di calmarlo. Adesso dice: “Possa Dio punire i soldati che hanno ucciso Mohammed!” e ricomincia a piangere.

Dozzine di residenti locali stavano già affollando il pronto soccorso quando sono arrivati all’ospedale. Zain dice di essere stato l’ultimo a conoscere la verità sulle condizioni di suo figlio.

Lasciata la macchina in mezzo alla strada, era corso dentro. I medici gli chiesero chi fosse e lui si identificò. In quel momento stavano ancora cercando di rianimare suo figlio. Zain dice di non aver mai visto una cosa simile: l’intero corpo di suo figlio era coperto di sangue, anche il viso. Anche il pavimento era intriso di sangue. Riusciva a malapena a identificare Mohammed e chiese ai dottori di dirgli la verità. Uno di loro disse: “Possa Dio compensarti”.

In seguito, ricorda Zain, i soldati dell’ esercito israeliano sono arrivati in ospedale per arrestare Mohammed. La famiglia in fretta e furia ha fatto uscire di nascosto il corpo su un’auto privata e l’ha trasportato nell’altro ospedale della città, Al-Ahli.

L’unità portavoce dell’esercito ha dichiarato, in risposta a una domanda di Haaretz: “Venerdì 9 marzo 2018 è scoppiato un violento disordine nella città di Hebron, con dozzine di partecipanti palestinesi che lanciavano pietre, macigni e bottiglie molotov alle forze dell’esercito.

“Da una prima indagine, sembra che durante l’evento, i soldati abbiano sparato a un dimostrante che ha sollevato una bottiglia Molotov da distanza ravvicinata con l’intenzione di colpirli. Il dimostrante fu ferito dagli spari e in seguito, all’ospedale, fu dichiarato morto. Si continua a investigare sulle circostanze dei fatti.

“Diversamente da quanto affermato [nell’articolo], in nessun momento le forze dell’esercito sono venute in ospedale in merito al corpo del defunto.”

In lutto, il fratello epilettico di Mohammed, Iyad, arriva nella stanza. Quanti anni hai? Iyad risponde “Ho 16 anni”, in realtà ne ha 21. Sembra sconvolto. “Ho perso Mohammed, ho perso Mohammed”, mormora in continuazione, e si siede. Qualche minuto dopo si alza, evidentemente agitato – molto agitato, anche se non minaccioso – finché il padre non riesce a calmarlo.

Dice Zain: “Quando vogliono uccidere qualcuno, non fanno differenza tra ricchi e poveri, sani e malati, normali e malati di mente. Avrebbero potuto arrestarlo, avrebbero potuto sparargli alle gambe, ma hanno deciso di colpirlo con quel proiettile.

Si capisce che Mohammed è stato colpito da una pallottola vera entrata nel petto sul lato destro e uscita dalla schiena sul lato sinistro. Zain dice di voler sporgere denuncia alle autorità militari per l’uccisione di suo figlio, ma teme di veder confiscare i permessi di lavoro israeliani ad alcuni membri della famiglia.

Siamo quindi andati sul luogo dell’uccisione. Alcune ragazze vagano nel campo di basket della scuola. Bisogna ricordare che questa parte di Hebron non è controllata da Israele. I soldati hanno invaso il sito, come al solito, all’inseguimento di persone che lanciavano pietre dal tetto di una casa sul vicino posto di blocco.

L’insediamento di Tel Rumeida si staglia sulla collina di fronte. King Faisal Street, via principale e rumorosa. Secondo Musa Abu Hashhash, ricercatore sul campo dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, che ha indagato sull’incidente, erano solo Mohammed e altri tre o quattro giovani a fronteggiare i soldati in quel fatidico giorno, non di più.

Si vede un foro di proiettile sul cancello di ferro grigio argento della scuola femminile. Sulla strada c’è una macchia di sangue, ora secca.

(Traduzione di Luciana Galliano)




Insegnante palestinese dilaniato da un cane dell’esercito israeliano mentre i soldati stavano a guardare

Gideon Levy, Alex Levac

16 febbraio 2018, Haaretz

Dopo aver fatto irruzione nella casa di un insegnante a notte fonda, i soldati gli hanno aizzato contro il loro cane. Il cane lo ha azzannato e bloccato, mentre i suoi familiari assistevano inorriditi

Non è un bello spettacolo. Sua moglie ci mostra le foto sul suo telefonino: il suo braccio ferito, malconcio e sanguinante, morsicato e lacerato, deturpato in tutta la sua lunghezza. Lo stesso vale per la sua gamba. È il risultato della notte di orrore che ha trascorso, insieme a sua moglie e ai suoi bambini.

Immaginatevi: la porta d’ingresso viene sfondata in piena notte, i soldati irrompono con violenza in casa e gli scatenano contro un cane. Lui cade sul pavimento, terrorizzato, mentre il feroce animale addenta la sua carne per un quarto d’ora. Per tutto il tempo, sia lui che sua moglie e i bambini gridano in modo straziante. Poi, ferito e sanguinante, viene ammanettato e arrestato dai soldati, gli vengono negate per ore cure mediche, finché viene portato in ospedale, dove questa settimana lo abbiamo incontrato insieme alla moglie. Anche là è rimasto agli arresti, costretto a giacere incatenato al letto.

Quel semilinciaggio è stato perpetrato da soldati dell’esercito israeliano nei confronti di Mabruk Jarrar, un insegnante arabo trentanovenne del villaggio di Burkin, vicino a Jenin, nel corso della brutale caccia all’uomo seguita all’assassinio, il 9 gennaio, del rabbino Raziel Shevach della colonia di Havat Gilad. E, come se non bastasse, pochi giorni dopo quella notte di terrore i soldati sono tornati nel cuore della notte. Le donne della casa sono state costrette a svestirsi completamente, compresa l’anziana madre di Jarrar e sua sorella muta e disabile, a quanto pare per cercare denaro.

Reparto ortopedico dell’ospedale Haemek di Afula, lunedì: una piccola stanza con tre letti. In quello di mezzo c’è Jarrar, che è qui da circa due settimane. Domenica mattina l’insegnante era ancora legato al letto con catene di ferro ed i soldati impedivano alla moglie di avvicinarsi. Se ne sono andati a mezzogiorno dopo che il tribunale militare ha ordinato il rilascio incondizionato di Jarrar.

Non è chiaro perché sia stato arrestato né perché i soldati gli abbiano aizzato contro il cane.

Il suo braccio sinistro e la sua gamba sinistra sono bendati, il dolore acuto che ancora accompagna ogni movimento è chiaramente visibile sul suo viso. Sua moglie Innas, di 37 anni, è accanto a lui. Si sono sposati appena 45 giorni fa, il secondo matrimonio per entrambi. I suoi due bambini nati dal primo matrimonio – Suheib, di nove anni, e Mahmoud, di cinque – sono stati testimoni di ciò che i soldati ed il loro cane hanno fatto al padre. I bambini adesso stanno con la loro madre a Jenin, ma il loro sonno è disturbato, come ci dice Jarrar: si svegliano con gli incubi, chiamandolo e bagnando il letto per la paura.

Jarrar insegna arabo nella scuola elementare Hisham al-Kilani di Jenin. Venerdì 2 febbraio lui e sua moglie sono andati a dormire circa a mezzanotte. Nella stanza accanto stavano dormendo i suoi due figli, che trascorrono con lui i fine settimana. Intorno alle 4 del mattino la famiglia è stata svegliata da un’esplosione proveniente dalla porta d’ingresso. Parecchie finestre sono state distrutte dalla potenza dell’esplosione. Jarrar è balzato dal letto ed è corso dai bambini. Fuori dalla casa erano ferme delle jeep dell’esercito. Secondo la coppia, un grosso cane, probabilmente dell’“Oketz”, l’unità cinofila dell’esercito, è stato portato dentro la casa, seguito da almeno 20 soldati. È facile immaginare il terrore che ha assalito loro ed i bambini.

Il cane si è lanciato su Jarrar, affondando i denti nel suo fianco sinistro, gettandolo a terra e trascinandolo sul pavimento. All’inizio i soldati non hanno fatto niente. Sua moglie è corsa verso di lui con una coperta, cercando di coprire il cane e salvare suo marito. I bambini guardavano e piangevano mentre i genitori gridavano aiuto; adesso dicono che le loro grida erano molto forti. Innas non è riuscita a liberare il marito dalla presa del cane.

Ci sono voluti alcuni minuti, ricordano, prima che anche i soldati cercassero di trattenere il cane, ma l’animale non gli obbediva. Mabruk era certo che stesse per essere fatto a pezzi ed ucciso; anche Innas temeva il peggio.

I soldati hanno strappato via i vestiti di Jarrar, a quanto pare nel tentativo di liberarlo dalle fauci del cane, ed alla fine ci sono riusciti – dopo circa un quarto d’ora, secondo la sua impressione. Poi uno dei soldati lo ha colpito due volte in faccia. Lui era ferito e barcollava per lo spavento ed in quello stato i soldati gli hanno legato le mani dietro la schiena. Lo hanno portato di sotto e a quel punto è arrivato un ufficiale che ha chiesto a Jarrar il suo nome, lo ha liberato dalle manette ed ha fotografato le sue ferite. L’ufficiale, ci dice ora Jarrar, è sembrato anche lui sconvolto dalle ferite sanguinanti, dal braccio e dalla gamba dilaniati.

Dopo essere stato nuovamente ammanettato, l’insegnante è stato portato con un veicolo militare al centro di detenzione di Salem, vicino a Jenin, dove dice di essere rimasto per circa tre ore senza nessuna assistenza medica. Alla fine è stato portato all’ospedale Haemek, dove è arrivato circa alle 10,30 del mattino. A quel punto era in arresto, anche se non era chiaro per quale motivo.

Quella stessa notte sono stati arrestati anche i suoi due fratelli, Mustafa e Mubarak Jarrar. Mubarak è stato rilasciato, Mustafa resta detenuto. Hanno tutti lo stesso cognome della persona ricercata per l’assassinio del rabbino Shevach, Ahmed Jarrar, che è stato in seguito ucciso dall’esercito.

Sempre quella stessa notte è accaduto un evento simile, che ha coinvolto altre forze dell’esercito, nel villaggio di Al-Kfir, vicino a Jenin. Circa alle 4 del mattino i soldati hanno fatto irruzione nella casa di Samr e Nour Adin Awad, genitori di quattro bambini piccoli. Insieme ai soldati è stato fatto entrare in camera da letto un cane dell’unità “Oketz”, che ha azzannato e ferito entrambi i genitori.

Come ha spiegato Nour a Abd Al-Karim a-Saadi, ricercatore sul campo dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem: “Stringevo al petto mio figlio Karem di due anni, che piangeva. Ho aperto la porta, su cui i soldati stavano picchiando, ed un cane mi ha attaccata, saltandomi addosso. Karem è caduto dalle mie braccia. Poi ho visto che mio marito lo ha sollevato da terra. Ho cercato di cacciare via il cane dopo che mi ha morsicato il petto. Sono riuscita ad allontanarlo, ma poi ha afferrato coi denti la mia gamba sinistra. Con tutte le mie forze sono riuscita a scacciarlo. In quel momento i soldati guardavano il cane, ma non facevano niente. Per tutto quel tempo mio marito pregava i soldati di togliermi il cane di dosso. Un soldato ha parlato al cane in ebraico e allora esso mi ha afferrato per il braccio sinistro tenendomi stretta per alcuni minuti, finché è arrivato un soldato da fuori e lo ha allontanato. Io sanguinavo ed avevo molto male.”

La seconda irruzione dei soldati è avvenuta qualche giorno dopo, l’8 febbraio. C’erano solo donne e bambini in casa Jarrar: Innas, i due figli di suo marito ed anche sua madre e sua sorella, che vivono nello stesso edificio. Erano le 3,30 di notte. Secondo Innas, circa 20 soldati, maschi e femmine, hanno preso parte al raid. Le hanno detto che nella casa c’era del denaro di Hamas e che loro erano venuti per confiscarlo. Hanno calpestato i letti, ignorando le preghiere di Innas di fermarsi. Hanno chiesto dove fosse Mabruk – probabilmente non sapendo che era già detenuto dall’esercito in ospedale.

Poi ci sono state le perquisizioni corporali. Una donna soldato ha portato le tre donne – la moglie di Jarrar, sua madre di 75 anni e sua sorella cinquantenne disabile – in una stanza ed ha loro ordinato di spogliarsi completamente. La ricerca non ha portato a niente: niente soldi, niente Hamas. Di conseguenza i soldati hanno dato ad Innas un permesso di ingresso in Israele, per visitare suo marito ad Afula. Dice che le hanno detto che lui si trovava nel carcere di Megiddo. Vi si è recata il giorno dopo, solo per scoprire che lui non era là. Ha chiamato Abed Al-Karim a-Saadi di B’Tselem, che lei descrive come il suo gentile salvatore. Lui ha fatto qualche telefonata e ha scoperto che Mabruk era in realtà in ospedale ad Afula. Era ancora in arresto quando lei vi è arrivata e le è stato permesso solo di fargli visita per 45 minuti.

In risposta alla richiesta di una dichiarazione, il portavoce dell’esercito ha detto questa settimana ad Haaretz: “Il 3 febbraio 2018 le forze di sicurezza sono arrivate nel villaggio di Burkin, alla casa di Mabruk Jarrar, che è sospettato di attività dannose alla sicurezza in Giudea e Samaria (la Cisgiordania). Una volta giunti alla casa, i soldati lo hanno invitato ad uscire. Dopo ripetuti richiami e dato che non usciva, i soldati hanno agito secondo la procedura ed è stato inviato un cane a cercare la gente dentro casa. Il sospettato si era chiuso in una stanza al piano superiore dell’edificio insieme alle donne della sua famiglia.

Quando si è aperta la porta, il cane ha azzannato il sospettato, ferendolo. Egli ha ricevuto immediata assistenza dai medici dell’esercito fino a quando è stato trasferito all’ospedale. In seguito sono state svolte altre attività di ricerca di individui ricercati. Sottolineiamo che, contrariamente a quanto si sostiene nell’articolo, le donne della casa non sono state denudate dalle forze dell’esercito.”

Jarrar è seduto sul suo letto d’ospedale, parla con difficoltà, ogni movimento gli costa fatica. Innas viene ogni giorno da Burkin. “Come pensate che mi sentissi?”, risponde alla domanda su come si sentisse mentre il cane lo aggrediva. “Ho pensato che stavo per morire.”

Data la composizione etnica di medici, pazienti, infermieri e visitatori, questo è effettivamente un ospedale bi-nazionale ebreo-arabo – come molti degli ospedali nel nord del Paese. Ma un addetto alla manutenzione ebreo entra improvvisamente nella stanza, fremente di rabbia. “Perché state intervistando degli arabi? Perché non degli ebrei?”, chiede. L’uomo minaccia di chiamare l’ufficiale di sicurezza dell’ospedale, perché il ferito e straziato Mabruk Jarrar stava parlando con noi.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La polemica su Shaked e sul sionismo

Nota redazionale: le dichiarazioni della ministra della Giustizia Ayelet Shaked hanno innescato una dura polemica sul giornale israeliano di centro-sinistra “Haaretz” tra le posizioni espresse dallo storico israeliano Daniel Blatman, da Gideon Levy, una delle firme più note del quotidiano, e dalla sua collega Ravit Hecht.

Riteniamo interessante per il lettore riportare lo scambio di opinioni tra gli editorialisti non solo per la questione specifica del giudizio sulle esternazioni di Shaked, quanto soprattutto perché evidenziano una visione radicalmente diversa del sionismo e della sua natura, sintetizzata in questi articoli di fondo e rappresentativa della divisione all’interno della sinistra israeliana. Blatman ritiene che la visione di Shaked rappresenti una novità nel campo sionista, Levy che si tratti di una manifestazione esplicita di quello che il sionismo è sempre stato come ideologia razzista basata su criteri etnico-religiosi, Hecht invece ritiene che si tratti di una sua degenerazione ideologica e politica propugnata dall’estrema destra israeliana. Infine Levy ribadisce la sua opinione, sostenendo che tra le posizioni di Hecht e di Shaked c’è una differenza di forma ma non di sostanza.

  1. Il nuovo sionismo nazionalista

La visione del mondo della ministra della Giustizia Shaked ricorda la xenofobia razzista degli Stati del sud degli USA dagli anni ’30 in poi

 Daniel Blatman, 1 settembre 2017 , Haaretz

La ministra della Giustizia Ayelet Shaked si pone sempre più come leader del nuovo sionismo. Ciò non è solo la conseguenza della rivoluzione costituzionale che sta conducendo, cercando di cambiare l’immagine della Corte Suprema, o della serie di proposte di legge che sta promuovendo, compresa la legge sullo Stato-Nazione. Queste sono solo manifestazioni concrete di una coerente e consolidata visione del mondo, incentrata sull’attuazione di una trasformazione ad ampio raggio delle fondamenta ideologiche su cui è stato fondato lo Stato di Israele.

Il sionismo di Shaked non è solo un’ulteriore variazione ebraica dell’idea liberale nazionalista europea della seconda metà del XX secolo, della scuola di Theodor Herzl, Chaim Weizmann, Ze’ev Jabotinsky ed altri. Il nuovo sionismo di Shaked è una sintesi rivoluzionaria dell’etica colonialista del movimento laburista e delle componenti ebree etnocentriche-razziste, che insieme portarono ad un’importante revisione delle definizioni fondamentali dello Stato ebraico. Shaked sta essenzialmente cercando di sostituire l’idea sionista – la quale, al di là delle dispute che si sono create tra le sue varie componenti, era incentrata sulla sovranità ebraica come necessità esistenziale di un popolo perseguitato – con una basilare consapevolezza che definisce lo Stato di Israele come uno Stato uni-etnico, che attuerà la visione ebraica antiliberale del colonialismo. Le sue dichiarazioni di questa settimana alla conferenza dell’ordine degli avvocati israeliani [Israel Bar Association] a Tel Aviv sono state un’altra tappa della messa a punto di questa ideologia.

Shaked ha già pubblicato recentemente i principi della sua visione del mondo in un articolo della rivista “Hashiloach”, e questo è anche il concetto centrale della proposta di legge sullo Stato-Nazione che sta promuovendo.

Lo Stato ebraico perciò è lo Stato del popolo ebreo. E’ diritto naturale del popolo ebreo vivere come ogni altra nazione,” scrive. “Uno Stato ebraico è uno Stato la cui storia è intrecciata e intessuta nella storia del popolo ebreo, la cui lingua è l’ebraico e le cui principali festività rappresentano la sua rinascita nazionale. Uno Stato ebraico è uno Stato per il quale l’insediamento di ebrei nei suoi campi, città e villaggi è una preoccupazione di primaria importanza. Uno Stato ebraico è uno Stato che favorisce la cultura ebraica, l’educazione ebraica e l’amore per il popolo ebreo. Uno Stato ebraico è la realizzazione di generazioni di aspirazioni per il riscatto ebreo. Uno Stato ebraico è uno Stato i cui valori derivano dalla sua tradizione religiosa, in cui la bibbia è il libro fondamentale ed i profeti di Israele il fondamento morale. Uno Stato ebraico è uno Stato in cui la legge ebraica riveste un ruolo importante. Uno Stato ebraico è uno Stato per il quale i valori della Torah di Israele, i valori della tradizione ebraica ed i valori della legge ebraica sono tra i suoi valori fondamentali.”

Nonostante Shaked si sforzi di presentare la sua visione del mondo come fondata sui principi classici neoconservatori e tenda ad usare citazioni di Milton Friedman [economista e teorico ultraliberista, ndt.], la sua visione del mondo proviene da zone molto più oscure. Più che il conservatorismo americano della fine del XX secolo, la sua visione del mondo ricorda la xenofobia razzista del sud degli Stati Uniti dagli anni ’30 in poi, e la destra razzista ostile all’immigrazione, che prospera oggi nei Paesi creati dal colonialismo europeo. La sua dichiarazione secondo cui “il sionismo non deve continuare, e non continuerà, a chinare la testa di fronte ad un sistema di diritti individuali interpretati in termini universalistici”, lo testimonia chiaramente.

Negli anni ’30, quelli della grande depressione e della nascita dei regimi totalitari in Europa, l’idea universalistica di diritti individuali affrontò una grave crisi negli Stati Uniti. Il rischio di guerra e di tensioni interrazziali creò difficoltà per gli attivisti dei diritti umani, soprattutto visti gli appelli a ridefinire l’essenza dell’ “americanismo” e lo status delle minoranze del Paese, definito attraverso la razza, il colore della pelle, la religione o la provenienza etnica. L’attacco ai diritti di queste minoranze si intensificò anche a causa della crescente popolarità del fascismo europeo, che propugnava la definizione di Stato come una comunità selettiva e collettiva, che escludeva chiunque non appartenesse alla collettività. Questo valeva specialmente negli Stati del sud dell’America e si manifestava attraverso le leggi a favore della segregazione razziale della regione.

La visione di Shaked dello Stato ebraico è parallela a ciò che i sudisti negli anni ’30 chiamavano “preservare lo stile di vita americano”. Per preservare questo concetto, non solo si potevano emanare leggi che lo sostenessero e lo difendessero dal doversi inchinare ai diritti umani; si poteva anche difenderlo con la violenza. Centinaia di casi di linciaggi e violenze contro i neri sono la prova più lampante di quanto fossero profondamente radicate queste concezioni. Israele non è così distante da fenomeni simili di violenza aggressiva non statale, per esempio contro i richiedenti asilo o contro i palestinesi. Ma ciò che caratterizzava in ultima istanza il sud americano era il suo sistema legale di segregazione razziale unico. A questo punta Shaked.

Tuttavia bisogna ricordare che la separazione geografica non è mai stata il principale obiettivo dei bianchi nel sud americano. Certamente essi accettavano la realtà, forse anche la necessità, che i bianchi e i neri vivessero gli uni accanto agli altri, interagendo tra loro e mantenendo relazioni basate su interessi economici o esigenze occupazionali. Tutto era soggetto ai dettami della gerarchia razziale, o ciò che un ricercatore ha definito “l’era del capitalismo razzista.”

A questo conduce la visione sionista di Shaked. Invece della supremazia bianca, avremo la supremazia ebraica, insieme ad una visione etnocentrica-razzista che consentirà alcune prassi economiche vitali. Dopotutto, lo Stato ebraico di Shaked non intende separarsi dai palestinesi e certamente non vuole renderli cittadini. Proprio come nel sud americano la segregazione e la discriminazione politica contro i neri ha creato un ordine sociale e politico brutale e razzista, così sarà nel nuovo Stato nazional-sionista di Shaked, che non accetterà di inchinarsi alle definizioni universali dei diritti individuali e continuerà ad opprimere brutalmente le minoranze, la cui unica difesa contro la tirannia ideologica che lei propugna sono proprio quelle definizioni universali.

All’interno di questa visione dobbiamo inserire anche la paura dei rifugiati e il desiderio di espellerli dal Paese ad ogni costo. L’atteggiamento razzista nei loro confronti è un fenomeno familiare nelle società con un passato ed una tradizione coloniali, di cui Israele fa parte. Dietro all’approccio che considera i rifugiati una minaccia c’è la necessità di preservare la superiorità etnica della maggioranza coloniale, la cui presa sul territorio in cui vive non ha ancora superato l’esame della legittimazione storica a lungo termine. Ecco perché la necessità di controllare rigidamente le frontiere – quelle territoriali, ma soprattutto quelle etniche e razziali – è così cruciale. I migranti e i rifugiati spezzano questi confini; sono diversi per colore, per religione e stile di vita e quindi non solo recano danno all’egemonia etnica, ma potrebbero anche annacquare le caratteristiche umane della maggioranza della società e trasformarla in un’entità etnica e culturale differente da quella originaria.

Si tratta di un concetto nuovo dello Stato di Israele. Il concetto di Shaked di superiorità etnica ebrea poggia non solo su un’ideologia rigidamente chiusa, ma sulle politiche della paura. L’arena politica israeliana è oggi controllata da partiti che propugnano una politica della paura e Shaked vi ricopre un ruolo importante. Il messaggio principale di questa politica della paura è la necessità di mantenere l’identità ebraica dello Stato contro il mondo minaccioso che potrebbe sopraffarla ed eliminarla. Le componenti arabe, islamiche ed africane che circondano lo Stato ebraico da ogni lato potrebbero spazzarla via se essa non si rafforzerà per impedire una simile tremenda invasione.

Proprio come l’estrema destra in Australia o negli Stati Uniti cerca di erigere un muro di leggi, supportato da una potente flotta o da veri e propri muri lungo i confini a protezione della patria (quella coloniale, ricordiamoci) da ogni parte dalle infiltrazioni dal Messico o dall’Afghanistan, allo stesso modo Shaked ed i suoi colleghi stanno promuovendo una legislazione supportata da barriere, checkpoint e da un potente esercito che blinda i confini israeliani dalle orde minacciose delle masse nere. Questa combinazione di superiorità etnico-razziale, legislazione apposita e castrazione del sistema giudiziario in modo che non possa proteggere ciò che Shaked disprezza tanto – le definizioni universalistiche dei diritti universali – sta dando luogo al nuovo nazional-sionismo, il successore del sionismo storico.

Il professor Blatman è uno storico dell’università ebraica di Gerusalemme.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

  1. La ministra israeliana della verità

    La ministra israeliana della Giustizia ha detto chiara e forte la verità: il sionismo si contrappone ai diritti umani, e quindi è proprio un movimento ultranazionalista, colonialista e forse razzista

 Gideon Levy, 1 settembre 2017,Haaretz

Grazie, Ayelet Shaked, per aver detto la verità. Grazie per aver parlato onestamente. La ministra della Giustizia ha dimostrato ancora una volta che l’estrema destra israeliana è meglio degli impostori del centrosinistra: parla con sincerità.

Se nel 1975 Chaim Herzog [all’epoca ambasciatore israeliano all’ONU, ndt.] stracciò platealmente una copia della Risoluzione 3379 dell’Assemblea Generale dell’ONU che metteva sullo stesso piano sionismo e razzismo, la ministra della Giustizia ha ora ammesso la veridicità di quella risoluzione (che venne in seguito revocata). Shaked ha detto, forte e chiaro: il sionismo è in contrasto con i diritti umani e quindi è in realtà un movimento ultranazionalista, colonialista e forse anche razzista, come i fautori della giustizia sostengono in tutto il mondo.

Shaked predilige il sionismo rispetto ai diritti umani, la suprema giustizia universale. Crede che noi abbiamo un diverso tipo di giustizia, superiore a quella universale. Il sionismo al di sopra di tutto. E’ già stato detto prima, in altre lingue e da altri movimenti nazionalisti.

Se Shaked non avesse contrapposto tra loro questi due principi, avremmo continuato a credere ciò che ci è stato inculcato fin dall’infanzia: il sionismo è un movimento giusto e moralmente ineccepibile. Santifica l’uguaglianza e la giustizia: basta vedere la nostra dichiarazione d’indipendenza. Abbiamo imparato a memoria: “l’unica democrazia del Medio Oriente”, “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, “tutti sono uguali nello Stato ebraico”; abbiamo appreso della giustizia della Corte Suprema araba e del ministro del governo druso. Che cosa possiamo volere di più? E’ tutto così giusto, così equo, potremmo esclamare.

Se tutto ciò fosse vero, Shaked non avrebbe motivo di ergersi a difesa del sionismo nei confronti dei diritti umani. Per lei e per la destra, la discussione sui diritti umani e civili è antisionista, addirittura antisemita. Mira a indebolire e a distruggere lo Stato ebraico.

Quindi Shaked crede, come tanti in tutto il mondo, che Israele sia edificato su fondamenta di ingiustizia e che perciò debba essere difeso dal discorso ostile sulla giustizia. In quale altro modo si potrebbe spiegare il rifiuto di discutere sui diritti? I diritti individuali sono importanti, lei dice, ma non quando sono slegati dall’ “impresa sionista”. E nuovamente: l’impresa sionista è in realtà in contraddizione con i diritti umani.

Quali sono oggi le sfide sioniste? “Giudaizzare” il Negev e la Galilea, eliminare gli “infiltrati”, coltivare il carattere ebraico di Israele e preservare la sua maggioranza ebraica. L’occupazione, le colonie, il culto della sicurezza, l’esercito – che è essenzialmente un esercito d’occupazione – questo è il sionismo nel 2017 circa. Tutti i suoi elementi sono il contrario della giustizia. Dopo che ci è stato detto che sionismo e giustizia sono fratelli gemelli, che nessun movimento nazionale è più giusto del sionismo, arriva Shaked e dice: è proprio il contrario. Il sionismo non è giusto, è contrario alla giustizia, ma noi dobbiamo stringerci ad esso e preferirlo alla giustizia, perché è la nostra identità, la nostra storia e la nostra missione nazionale. Nessun militante del movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni potrebbe dirlo più nettamente. Ma nessuna Nazione ha il diritto di rifiutare i principi universali e di inventarsi i propri principi, che chiamano giorno la notte, definiscono l’occupazione giusta e la discriminazione uguaglianza.

Il sionismo è la religione fondamentalista di Israele e, come in ogni religione, è proibito negarla. In Israele, “non sionista” o “antisionista” non sono insulti, sono ordini sociali di espulsione. Non c’è niente del genere in nessuna società libera. Ma adesso che Shaked ha messo a nudo il sionismo, ha messo la mano sul fuoco ed ha ammesso la verità, possiamo finalmente pensare al sionismo in modo più libero. Possiamo ammettere che il diritto degli ebrei ad uno Stato è in contraddizione con il diritto dei palestinesi alla propria terra, e che il sionismo di destra ha dato origine ad un terribile errore nazionale che non è mai stato sanato; che ci sono modi per risolvere e riparare a questa contraddizione, ma gli israeliani sionisti non saranno d’accordo.

Adesso quindi è tempo per una nuova divisione, più coraggiosa e più onesta, tra gli israeliani che sono d’accordo con le affermazioni di Shaked e quelli che non lo sono. Tra i sostenitori del sionismo ed i sostenitori della giustizia. Tra i sionisti ed i giusti. Shaked non ha contemplato una terza opzione.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

Quando Gideon Levy si è innamorato di Ayelet Shaked

Il mio collega Gideon Levy preferisce gli estremisti di destra alla sinistra perché dicono la verità; cioè, esprimono sinceramente opinioni pericolose ma popolari tra la gente

 Ravit Hecht – 1 settembre 2017, Haaretz

 

Nel suo pezzo di ieri [in realtà del 1 settembre, ndt.], Gideon Levy ha ringraziato la ministra della Giustizia Ayelet Shaked per aver detto la verità; Shaked ha detto che il sionismo non si inchinerà più alla Corte Suprema. La ministra sta quindi continuando con la sua campagna di provocazione contro la Corte, una campagna che sta prosperando in tutta la destra.

Dal testo di Levy emana un aroma di amore vero per la sua onesta ed audace principessa. Il suo editoriale trasmette un messaggio di ammirazione tra  radicali che dicono le cose come stanno nella loro corsa a fare danni.

E danni sono stati fatti. Che rivoluzione. Apocalypse now. La corte aggressivamente intimidita, e presto i media saranno finalmente addomesticati e messi a tacere. Il razzismo sta avendo un’impennata con l’incoraggiamento dei dirigenti e la corruzione dilaga, senza bisogno di travestirsi, per la semplice ragione che nessuno se ne vergogna più.

Tutto ciò si aggiunge alla calamità dell’occupazione – effettivamente una grande calamità –, che è l’unica cosa che Levy vede. Per quanto lo riguarda, senza risolvere questo disastro, ogni altra cosa potrebbe essere e sarà distrutta. Ciò include, per esempio, il suo diritto fondamentale di dire la sua opinione su Israele, o semplicemente di vivere qui senza essere spedito in un campo di rieducazione se rifiuta di giurare fedeltà al capo della coalizione David Bitan [della destra del Likud, ndt.].

Il danno dell’alleanza di Levy con gente come Shaked è la sua opinione secondo cui quello che Shaked, il ministro del Turismo Yariv Levin e quelli come loro stanno proponendo è il sionismo. Non lo è. E’ una sadica distorsione che interpreta la giustificata difesa degli ebrei attraverso la fondazione di una patria come una selvaggia aggressione verso l’esterno (contro i palestinesi) e verso l’interno (contro chi critica il governo). Chaim Herzog [all’epoca dell’episodio citato ambasciatore di Israele all’ONU, ndt.] aveva ragione a stracciare la risoluzione ONU che sosteneva che il sionismo era una forma di razzismo, perché il sionismo è stato una risposta al razzismo, alla persecuzione degli ebrei ovunque nel mondo e alla reale minaccia alla loro esistenza.

Senza sminuire la tragedia del popolo palestinese nel 1948, senza discolpare il partito Mapai, il predecessore del partito Laburista, per i suoi errori storici, e senza nulla togliere al ruolo del Likud nel fomentare le colonie e nell’accentuare la divisione tra israeliani, la disastrosa destra che è cresciuta negli ultimi anni è una questione completamente diversa. Non è un’evoluzione inevitabile del sionismo o una sua veritiera manifestazione, come sostiene Levy, ma un’espressione di pulsioni malefiche e pericolose – parte di un contesto globale avvelenato – che dirigenti normali ed accettabili hanno l’obbligo di frenare.

Levy preferisce la leadership di Shaked, di Miki Zohar [dirigente della destra del Likud, ndt.] e di Bezalel Smotrich [del partito di estrema destra “Casa ebraica”, ndt.] ai dirigenti del Likud liberali, sicuramente agli abominevoli dirigenti del Mapai, perché essi dicono la verità; cioè, esprimono sinceramente sentimenti popolari tra la gente. Non per fare un paragone diretto, ma anche Hitler diceva la verità, esprimendo i desideri segreti di molti, tedeschi e non solo. Né si faceva molti scrupoli nel metterli in pratica. Nei testi di storia era meglio lui dei dirigenti del suo tempo che dimostravano moderazione?

E’difficile ignorare il tango perfetto danzato da Shaked e Levy. Lei vuole un Israele più grande come parte della fantasia di una dominazione ebraica sancita dalla Bibbia, e lui vuole uno Stato binazionale come parte di un’esotica incursione nel campo del radicalismo selvaggio. Lei vede gli ebrei come una razza dominatrice con privilegi e gli arabi come una spina nel nostro fianco, mentre lui vede gli ebrei come i cattivi e gli arabi come carini Tamagogi senza responsabilità storiche per la loro difficile situazione.

Adesso quindi è tempo per una nuova divisione, più coraggiosa e più onesta, tra gli israeliani che concordano con le affermazioni di Shaked, e quelli che discordano. Tra i sostenitori del sionismo ed i sostenitori della giustizia. Tra i sionisti ed i giusti. Shaked non ha contemplato una terza opzione,” sintetizza Levy .

Ci sono ancora alcuni fautori della giustizia in Israele che credono nel principio fondamentale del sionismo del diritto degli ebrei ad avere una patria in Israele e al contempo aborrono nel profondo l’affermazione di Shaked. Né lei né Gideon Levy li faranno scomparire.

(traduzione di Amedeo Rossi)

Il tango sionista

Perché l’onesto razzismo del ministro della Giustizia Ayelet Shaked è preferibile alle false opinioni della sinistra israeliana.

 Gideon Levy – 3 settembre 2017, Haaretz

Ravit Hecht , nel suo editoriale “Quando Gideon Levy si è innamorato di Ayelet Shaked”, mi attribuisce un “aroma di amore vero” per la mia “onesta ed audace principessa”, la ministra della Giustizia Shaked. Hecht sa che i miei gusti in fatto di donne sono leggermente diversi, e che, nonostante quello che lei scrive, non so ballare il tango. Ma il mio apprezzamento per Shaked e per gente come lei è che non deludono: riconoscono apertamente il loro nazionalismo ed il loro razzismo. 

Non nascondono le loro opinioni secondo cui i palestinesi sono un popolo inferiore, abitanti indigeni che non si guadagneranno mai i diritti che gli ebrei hanno sulla terra di Israele-Palestina; che nessuno Stato palestinese vi sarà mai fondato; che Israele alla fine si annetterà tutti i territori occupati, come ha già fatto nella pratica; che gli ebrei sono il popolo eletto; che il sionismo è in contraddizione con i diritti umani ed è superiore a essi; che la spoliazione è redenzione; che i diritti biblici di proprietà sono eterni; che non esiste un popolo palestinese e non vi è un’occupazione; che l’attuale situazione durerà  per sempre.

Molte di queste opinioni sono diffuse anche tra la sinistra sionista, il campo ideologico di Hecht. L’unica differenza è che la sinistra sionista non le ha mai ammesse. Sviluppa le proprie opinioni nella luccicante carta da regalo dei colloqui di pace, della separazione e nel vuoto discorso dei due Stati, parole che non ha realmente inteso dire e che ha fatto ben poco per realizzare.

Questa è la ragione per cui preferisco Shaked. Con lei, quello che vedi è quello che hai – razzismo. Nelle sue azioni e nei suoi fatti, la sinistra sionista ha fatto di tutto per mettere in pratica le opinioni di Shaked, solo con parole ben educate e senza ammetterlo. La sinistra sionista è in imbarazzo per le cose di cui Shaked e i suoi colleghi non si vergognano. Ciò non rende la sinistra più morale o giusta. Nelle sue azioni è semplicemente stata quasi come Shaked.

L’occupazione non è stata meno crudele sotto i governi della sinistra israeliana, che è stata il padre fondatore dell’impresa di colonizzazione. Questi prìncipi della pace, Shimon Peres e Yitzhak Rabin, hanno fondato più colonie di Shaked e provocato la morte di più arabi. La sinistra ha entusiasticamente difeso ogni operazione militare che Israele ha condotto e ogni azione brutale commessa dall’esercito israeliano. Non è semplicemente rimasta in silenzio di fronte a queste azioni, le ha appoggiate. Sempre.

Le operazioni “Piombo fuso “ e “Margine protettivo” contro Gaza (nel 2008-09 e nel 2014, rispettivamente) hanno implicato migliaia di morti senza senso, e la maggioranza della sinistra sionista le ha appoggiate. La maggioranza di quelli di sinistra ha appoggiato l’assedio di Gaza, le esecuzioni ai posti di blocco, i rapimenti notturni, le detenzioni amministrative, gli abusi, la spoliazione e l’oppressione – durante questi fatti la sinistra è rimasta totalmente silenziosa.

Ma la verità è che non si tratta di Shaked e non si tratta della sinistra. E’ il sionismo. Danni sono stati fatti, come ha scritto la stessa Hecht. Ma invece di cercare di riparare le fondamenta instabili, tutto Israele – e non solo la destra – ha fatto il possibile per indebolirle ancor di più.

Sì, questo riguarda la guerra d’indipendenza del 1948 [definizione israeliana della guerra contro i palestinesi ed i Paesi arabi da cui è nato Israele, ndt.], di cui bisogna discutere anche se è imbarazzante. Lo spirito del 1948 non ha mai smesso di soffiare qui e, a questo proposito, Shaked e Hecht sono dalla stessa parte. Secondo il loro punto di vista c’è solo un popolo qui che deve essere preso in considerazione, solo una vittima, e ha il diritto di fare tutto il danno che vuole all’altro popolo. Questa è l’evoluzione sostanziale del sionismo.

Ciò avrebbe potuto e dovuto essere modificato, senza venir meno al diritto degli ebrei ad avere uno Stato. Ma la sinistra sionista non lo ha mai fatto. Non ha mai riconosciuto la Nakba [l’espulsione dei palestinesi nel 1947-48 dal territorio che sarebbe diventato Israele, ndt.] patita dai palestinesi, e non ha mai fatto niente per espiare i propri crimini. Ciò non è mai avvenuto perché la sinistra sionista crede esattamente in quello in cui crede Shaked.

E’ vero, ci sono molte altri problemi per cui la destra provoca disastri nazionali che la sinistra non avrebbe mai creato. Ma dall’altra parte della frontiera vive un popolo che negli ultimi 50 anni – in realtà negli ultimi 100 – ha sofferto ed è stato oppresso. Non passa un giorno senza che crimini orrendi vengano commessi contro di lui. Non possiamo dire: “Abbiate pazienza. Al momento siamo impegnati con lo status della Corte Suprema.”

E sul problema veramente fondamentale che oscura tutti gli altri, Shaked e Hecht stanno danzando un tango perfetto insieme, con un aroma di vero amore che emana da entrambe – un tango sionista.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Chi è favorevole a un massacro a Gaza?

Gideon Levy, 15 giugno 2017, Haaretz

Un’altra ora senza elettricità a Gaza e verrà dato il segnale: razzi Qassam. Ancora una volta Israele sarà la vittima ed il massacro avrà inizio.

Israele e Gaza non sono di fronte ad un’altra guerra, né stanno gridando ad un’altra “operazione” o “attacco”. Questa mistificante terminologia ha lo scopo di fuorviare e banalizzare ciò che rimane della coscienza.

Ciò che è in questione ora è il rischio di un altro massacro nella Striscia di Gaza. Sotto controllo, misurato, non troppo massiccio, ma pur sempre un massacro. Quando dirigenti, politici e commentatori israeliani parlano di “prossimo round”, stanno parlando del prossimo massacro.

Non si farà una guerra a Gaza perché là non c’è nessuno che possa combattere contro uno degli eserciti più potentemente armati del mondo, anche se in televisione il commentatore sulle questioni militari Alon Ben David dice che Hamas può mettere in campo quattro divisioni. Non ci sarà neppure alcuna prodezza (israeliana) a Gaza, perché non vi è niente di eroico nell’attaccare una popolazione indifesa. Ed ovviamente non ci sarà moralità o giustizia a Gaza, perché non c’è moralità o giustizia nell’attaccare una gabbia chiusa piena di prigionieri che non hanno nemmeno dove fuggire, se potessero.

Allora chiamiamo le cose con il loro nome: questo è un massacro. E’ di questo che si parla adesso in Israele. Chi è per un massacro e chi è contrario? Sarà un bene per Israele? Contribuirà alla sua sicurezza ed ai suoi interessi o no? Abbatterà il governo di Hamas o no? Sarà vantaggioso per la “base” del Likud o no? Israele ha un’alternativa? Ovviamente no. Qualunque attacco a Gaza finirà in un massacro. Nulla può giustificarlo, perché un massacro non può essere giustificato. Perciò dobbiamo domandarci: siamo a favore o contro un altro massacro a Gaza?

I piloti stanno già scaldando i motori in pista, altrettanto pronti sono gli artiglieri e le soldatesse che brandiscono i comandi a distanza. Un’altra ora senza elettricità a Gaza e verrà dato il segnale: razzi Qassam. Ancora una volta Israele sarà la vittima, e milioni di israeliani torneranno nei rifugi. Siamo usciti da Gaza e guardate che cosa abbiamo ottenuto. Oh, Hamas, il più crudele di tutti, che ama la guerra.

Quale altro modo ha Gaza per ricordare al mondo la propria esistenza e la sua sofferenza disumana, se non i razzi Qassam? Sono stati tranquilli per tre anni e adesso sono i soggetti della ricerca coordinata di Israele e dell’Autorità Nazionale Palestinese: un grande esperimento sugli esseri umani. Un’ora di elettricità è sufficiente per l’esistenza umana? Forse lo sono 10 minuti? E che cosa accade agli umani del tutto senza elettricità? L’esperimento è al suo culmine, gli scienziati trattengono il respiro. Quando cadrà il primo razzo? Quando seguirà il massacro?

Sarà più tremendo dei due precedenti, perché la storia insegna che ogni “operazione” israeliana a Gaza è peggiore della precedente. Confrontiamo l’ “Operazione Piombo Fuso” (a fine 2009), con 1300 morti palestinesi, 430 dei quali bambini e 111 donne, con l’ “Operazione Margine Protettivo” (estate 2014), con 2.200 morti, 366 dei quali bambini, di cui 180 neonati e 247 donne. Complimenti per il progresso e l’aumento del numero di bambini uccisi. La nostra forza aumenta da un’operazione all’altra. Avigdor Lieberman ha promesso che questa volta si avrà la vittoria decisiva. In altre parole, questa volta il massacro sarà più tremendo di tutti i precedenti, se è mai possibile prendere sul serio qualunque cosa dica questo ministro della Difesa.

Non è il caso di dilungarsi sulle sofferenze di Gaza, comunque non interessano a nessuno. Per gli israeliani Gaza era ed è un covo di terroristi. Non ci sono persone come loro laggiù. Queste sono le menzogne che diciamo su Gaza. Là l’occupazione è finita, ha ha ha. Tutti i suoi abitanti sono assassini. Costruiscono tunnel per il terrorismo invece di inaugurare impianti ad alta tecnologia. No, davvero, come mai Hamas non ha sviluppato Gaza? Come osano? Come hanno potuto non impiantare un’industria sotto assedio, non sviluppare l’agricoltura in prigione e l’alta tecnologia in una gabbia?

Ed un’altra bugia che diciamo su Gaza – abbatteremo il governo di Hamas. Non è possibile e inoltre Israele non lo vuole veramente.

I numeri dei morti appaiono sistematicamente sui nostri schermi, senza significato per nessuno. Centinaia di bambini morti, chi può concepire una cosa simile? L’assedio non è un assedio e nemmeno il pensiero di un’ora di blocco dell’elettricità a Tel Aviv nel caldo asfissiante dell’estate provocherebbe un briciolo di empatia verso coloro che vivono quasi del tutto senza elettricità, ad un’ora di distanza da Tel Aviv.

Quindi continuiamo ad occuparci dei fatti nostri – la parata del gay pride, le agevolazioni edilizie per le giovani famiglie, l’insegnante pedofilo. E quando cade un razzo Qassam faremo finta di stupirci e, per la nostra sacra auto-vittimizzazione, i bravi piloti decolleranno all’alba, verso il prossimo massacro.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)