Ramzy Baroud
11 aprile 2019, Ma’an News
Le violenze che stanno prendendo di mira i detenuti nelle prigioni israeliane sono iniziate il 2 gennaio. E’ stato allora che il ministro israeliano della Pubblica Sicurezza Gilad Erdan ha dichiarato che “la festa è finita”.
“Ogni tanto compaiono esasperanti fotografie di detenuti che cucinano nei bracci riservati ai terroristi. Questa festa sta per finire”, questa la citazione di Erdan sul Jerusalem Post.
Quindi la cosiddetta Commissione Erdan ha raccomandato diverse misure volte a porre termine alla presunta “festa”, che hanno incluso la limitazione dell’uso dell’acqua per i prigionieri, il divieto di cucinare nelle celle e l’installazione di dispositivi di disturbo per bloccare il presunto utilizzo di telefoni cellulari fatti entrare illegalmente.
In particolare quest’ultima misura ha suscitato l’indignazione dei detenuti, poiché quei dispositivi sono stati messi in relazione a forti emicranie, svenimenti ed altri sintomi protratti.
Erdan ha fatto seguire alla sua decisione la promessa di “usare tutti i mezzi a disposizione (di Israele)” per controllare qualunque protesta dei prigionieri in risposta alle nuove restrizioni.
Il Sistema Penitenziario Israeliano (SPI) “continuerà ad agire con estrema durezza” contro “sommosse” nelle carceri, ha detto, come riportato dal Times of Israel.
Quella “estrema durezza” è stata dispiegata il 20 gennaio nel carcere militare di Ofer vicino a Ramallah, in Cisgiordania, dove una serie di incursioni israeliane ha provocato il ferimento di oltre 100 prigionieri, molti dei quali mostravano ferite da proiettile.
Anche le prigioni di Nafha e Gilboa sono state bersaglio degli stessi metodi violenti.
I raid sono proseguiti, causando ulteriori violenze nel carcere di Naqab il 24 marzo, questa volta da parte delle forze dell’SPI note come unità Metzada.
Metzada è una squadra dell’SPI “per operazioni speciali di recupero ostaggi” ed è nota per le sue tattiche molto violente contro i prigionieri. Il suo attacco a Naqab ha provocato il ferimento di molti prigionieri, di cui due in condizioni critiche. I prigionieri palestinesi hanno reagito, secondo quanto riferito, pugnalando due agenti penitenziari con oggetti acuminati.
Il 25 marzo sono stati compiuti altri raid simili, sempre da parte di Metzada, che hanno riguardato le prigioni di Ramon, Gilboa, Nafha e Eshel.
In risposta, la leadership dei prigionieri palestinesi ha adottato diverse misure, compreso lo scioglimento dei comitati di regolamentazione e di ogni altra forma di rappresentanza dei detenuti all’interno delle prigioni israeliane.
Il decentramento delle azioni palestinesi nelle prigioni israeliane renderà molto più difficile per Israele controllare la situazione e consentirà ai prigionieri di attuare qualunque forma di resistenza che ritengano adeguata.
Ma perché Israele sta provocando questi scontri, quando i prigionieri palestinesi sono già sottoposti alla più orribile esistenza e a numerose violazioni del diritto internazionale?
E, altrettanto importante, perché adesso?
Il 24 dicembre il primo ministro Benjamin Netanyahu, sotto attacco, ed altri leader del governo israeliano di destra hanno sciolto la Knesset (il parlamento) e indetto elezioni anticipate per il 9 aprile.
Una delle migliori strategie per i politici israeliani in periodi come questo è normalmente aumentare le ostilità contro i palestinesi nei Territori Occupati, compresa la Striscia di Gaza assediata.
E’ senza dubbio esploso un festival dell’odio, che ha coinvolto molti dei principali candidati di Israele, alcuni dei quali hanno invocato la guerra contro Gaza, altri il dare una lezione ai palestinesi annettendo la Cisgiordania, e così via.
Solo una settimana dopo l’annuncio della data delle elezioni sono iniziati i raid nelle prigioni. Per Israele, è stato come un esperimento politico in totale sicurezza e sotto controllo. Le immagini video delle forze israeliane che picchiano sventurati prigionieri, accompagnate da dichiarazioni rabbiose rilasciate da alti ufficiali israeliani, hanno catturato le fantasie di una società militante decisamente di destra.
E questo è esattamente ciò che è inizialmente successo. Tuttavia, il 25 marzo una fiammata di violenza a Gaza ha condotto ad una guerra circoscritta e non dichiarata.
Una vera e propria guerra israeliana contro Gaza sarebbe un grave azzardo in un periodo elettorale, soprattutto perché eventi recenti indicano che il tempo delle guerre facili è finito. Mentre Netanyahu ha vestito i panni del leader decisionista, molto determinato a schiacciare la resistenza di Gaza, in realtà le sue opzioni sul terreno sono molto limitate.
Anche dopo che Israele ha accettato i termini mediati dall’Egitto del cessate il fuoco con le fazioni di Gaza, Netanyahu ha continuato a usare parole dure.
“Posso dirvi che siamo pronti a fare molto di più”, ha detto, riferendosi all’attacco israeliano a Gaza, in un discorso video inviato ai suoi sostenitori a Washington il 26 marzo.
Ma per una volta non ha potuto farlo e questo insuccesso, da un punto di vista israeliano, ha dato fiato agli attacchi verbali dei suoi rivali politici.
Netanyahu ha “perso la presa sulla sicurezza”, ha proclamato il capo del partito ‘Blue and White’ Benny Gantz.
L’accusa di Gantz è stata solo un altro insulto in una montagna di simili attacchi al vetriolo che mettono in dubbio la capacità di Netanyahu di controllare Gaza.
Infatti, un sondaggio condotto dal canale TV israeliano Kan il 27 marzo, ha rilevato che il 53% degli israeliani ritiene che la risposta di Netanyahu alla resistenza di Gaza sia “troppo debole”.
Impossibilitato a contrattaccare con maggiore violenza, almeno per ora, il governo Netanyahu ha reagito aprendo un altro fronte, questa volta nelle prigioni israeliane.
Attaccando i prigionieri, soprattutto quelli legati ad alcune fazioni di Gaza, Netanyahu spera di inviare un messaggio di forza e di rassicurare il suo nervoso elettorato sulla propria prodezza.
Consapevole della strategia israeliana, il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, ha messo in relazione il cessate il fuoco alla questione dei prigionieri.
“Siamo pronti a qualsiasi scenario”, ha detto Haniyeh in una dichiarazione.
In verità, la guerra di Netanyahu e Erdan contro i prigionieri palestinesi è folle e impossibile da vincere. E’ stata scatenata sul presupposto che una guerra di questo genere avrebbe rischi limitati, dato che i prigionieri sono, per definizione, isolati e incapaci di controffensiva.
Al contrario, i prigionieri palestinesi hanno dimostrato senza alcun dubbio la propria tenacia e capacità di trovare modi di resistenza all’occupante israeliano nel corso degli anni. Ma, cosa ancor più importante, questi prigionieri non sono affatto isolati.
Di fatto, i quasi 6000 prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane rappresentano una parvenza di unità tra i palestinesi che trascenda le fazioni, le politiche e l’ideologia.
Considerando l’impatto diretto della situazione nelle prigioni israeliane sulla psicologia collettiva di tutti i palestinesi, qualunque ulteriore mossa avventata da parte di Netanyahu, Erdan e dei loro sgherri del Sistema Penitenziario Israeliano avrà come risultato una più ampia resistenza collettiva, una lotta che Israele non può soffocare facilmente.
Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Ma’an News Agency.
Ramzy Baroud è giornalista, autore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story [L’ultima terra: una storia palestinese] (Pluto Press, Londra, 2018). Ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è studioso non residente presso il Centro Orfalea per gli studi globali e internazionali, UCSB.
(Traduzione di Cristiana Cavagna)