Israele e le politiche di Trump

Analisi: Israele ha ispirato la politica di Trump di separazione dalle famiglie?

Ma’an News

27 giugno 2018

di Ramzy Baroud

Ramzy Baroud è un giornalista, scrittore ed editorialista di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è ” The Last Earth: A Palestinian Story” [L’Ultima terra: una storia palestinese]

Lo scorso maggio il ministro della Giustizia degli Stati Uniti, Jeff  Sessions, ha annunciato la politica della “tolleranza zero” del governo ai posti di frontiera USA. E’ stata questione di qualche settimana prima che la nuova politica iniziasse a produrre tragiche conseguenze. Chi tentava di attraversare illegalmente il confine per entrare negli USA è stato sottoposto a un’incriminazione penale federale, mentre i figli gli sono stati tolti dalle autorità federali, che li hanno messi in strutture simili a gabbie.

Come prevedibile, questa politica ha provocato indignazione e alla fine è stata revocata. Tuttavia molti di quelli che hanno condannato l’amministrazione del presidente Trump sembrano ignorare deliberatamente il fatto che Israele ha portato avanti pratiche molto peggiori contro i palestinesi.

Di fatto molti all’interno della classe dominante americana, sia repubblicani che democratici, sono stati ammaliati per decenni dal modello israeliano. Per anni opinionisti hanno elogiato non solo la presunta democrazia israeliana, ma anche il suo apparato di sicurezza come un esempio da emulare. In seguito agli attacchi dell’11 settembre 2001 è fiorita una rinnovata storia d’amore con le strategie securitarie israeliane, grazie alle quali Tel Aviv ha rastrellato miliardi di dollari dei contribuenti americani in nome dell’aiuto per rendere sicuri i confini USA contro presunte minacce.

Un nuovo, persino più terribile capitolo della continua cooperazione è stato stilato poco dopo che il neo-eletto Trump ha reso noto il suo piano di costruzione di un “grande” muro sul confine USA – Messico. Ancor prima che le imprese israeliane cogliessero l’occasione per costruire il muro di Trump, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha twittato a favore della “grande idea” di Trump, affermando che il muro di Israele è stato un “grande successo” perché “ha bloccato qualunque immigrazione illegale:”

“Uccelli dello  stesso piumaggio fanno uno stormo insieme”, dice un proverbio inglese. Netanyahu e Trump si sono mossi insieme per oltre un anno e mezzo in perfetta armonia. Purtroppo la loro affinità personale, lo stile opportunistico in politica e, in modo più preoccupante, i punti di contatto ideologici hanno peggiorato le cose. Nel caso di Israele, la parola “democrazia” non è certo appropriata. Tutt’al più, la democrazia israeliana può essere descritta come unica. L’ex-presidente della Corte Suprema dello “Stato ebraico”, Aharon Barak, avrebbe detto che “Israele è diverso dagli altri Paesi. Non solo è uno Stato democratico, ma anche ebraico.”

All’inizio di quest’anno, durante una conferenza a Tel Aviv, la controversa  ministra della Giustizia di Israele, Ayelet Shaked, ha proposto la sua personale versione dell’affermazione di Barak. “Israele è uno Stato ebraico,” ha detto. “Non è uno Stato per tutte le sue nazionalità. Cioè, uguali diritti per tutti i cittadini ma non uguali diritti nazionali.”

Per preservare la sua versione della “democrazia”, Israele deve, in base alle parole di Shaked, “conservare una maggioranza ebraica anche a costo di una violazione dei diritti.”

Israele ruota il concetto di democrazia in qualunque direzione gli consenta di garantire la dominazione della maggioranza ebraica a spese dei palestinesi, gli abitanti originari del territorio, il cui crescente numero è spesso visto come una “minaccia demografica”, persino una “bomba”.

A tutt’oggi Israele non ha una costituzione formale. E’ governato da quella che è nota come “Legge fondamentale”. Non avendo un codice etico o un fondamento giuridico in base al quale può essere giudicato il comportamento dello Stato, il parlamento israeliano (la Knesset) è, di conseguenza, libero di stilare e imporre leggi che prendono di mira i diritti dei palestinesi senza doversi confrontare con nozioni quali la minaccia di ‘incostituzionalità’ delle leggi.

Una delle ragioni per cui la legge di Trump di separazione delle famiglie sul confine è fallita è che, nonostante i difetti nel loro sistema democratico, gli USA hanno una costituzione e una società civile relativamente forte che può utilizzare i codici etici e giuridici del Paese per sfidare il terribile comportamento dello Stato.

Invece in Israele questo non succede. Il governo investe molta energia e fondi per garantire la supremazia ebraica e stabilire contatti diretti tra le colonie ebraiche illegali (costruite su terra palestinese sfidando le leggi internazionali) e Israele. Allo stesso tempo investe altrettante risorse per la pulizia etnica dei palestinesi dalla loro terra, mantenendo ovunque le loro comunità separate e frammentate.

La triste verità è che quello a cui gli americani hanno assistito sul loro confine meridionale negli ultimi due mesi è quello che i palestinesi hanno provato come situazione quotidiana da parte di Israele negli ultimi 70 anni.

Il tipo di segregazione e separazione che le comunità palestinesi sopportano va persino oltre le tipiche conseguenze della guerra, dell’assedio e dell’occupazione militare. E’ una cosa sancita dalle leggi israeliane, fatte principalmente per indebolire, persino demolire la coesione della società palestinese.

Per esempio, nel 2003 la Knesset ha votato a favore della legge “Cittadinanza e ingresso in Israele”, che pone gravi limitazioni ai cittadini palestinesi di Israele che facciano richiesta di ricongiungimento familiare. Quando alcuni gruppi per i diritti umani hanno messo in discussione la legge, i loro tentativi sono falliti in quanto all’inizio del 2012 la Corte Suprema israeliana ha sentenziato a favore del governo.

Nel 2007 quella stessa legge è stata modificata per includere coniugi di “Stati ostili” – cioè la Siria, l’Iran, il Libano e l’Iraq. Non sorprende che i cittadini di alcuni di questi “Stati ostili” siano stati inclusi nel divieto di ingresso negli USA di Trump contro cittadini di Paesi in maggioranza musulmani.

E’ come se Trump stesse seguendo un modello israeliano, improntando le sue decisioni ai principi che hanno guidato le politiche israeliane verso i palestinesi per molti anni.

Persino l’idea di rinchiudere bambini in gabbia è israeliana, una pratica che è stata denunciata dal gruppo per i diritti umani “Commissione pubblica contro la tortura in Israele” (PCATI).

La politica, che a quanto si sostiene è stata sospesa,  ha consentito di rinchiudere detenuti palestinesi, compresi minori, in gabbie esterne, persino durante durissime tempeste invernali.

“Mettere in gabbia palestinesi”, tuttavia, è una vecchia prassi. Oggi il muro dell’apartheid israeliano separa i palestinesi dalla loro terra e segrega arabi ed ebrei su base razziale. Riguardo al caso di Gaza, tutta la Striscia, che ospita 2 milioni di persone, per lo più rifugiati, è stata trasformata in un’immensa “prigione a cielo aperto” di muri e fossati.

 

Mentre molti americani sono confortati dalla decisione di Trump di porre fine alla pratica della separazione familiare sul confine, i politici e i media USA dimenticano il destino dei palestinesi che hanno subito terribili forme di separazione per molti anni. Ancora più scioccante è il fatto che molti tra i repubblicani e i democratici vedano Israele non come un ostacolo per una reale democrazia, ma come un fulgido esempio da seguire.

 

(traduzione di Amedeo Rossi)




Una conferenza europea sull’attività di colonizzazione dichiara Israele un “regime di apartheid”

Ma’an News

10 novembre 2017

Betlemme (Ma’an) – Rappresentanti da 24 Paesi europei, compresi parlamentari, giuristi, giornalisti e attivisti, si sono incontrati a Bruxelles all’inizio della settimana nella prima conferenza europea sull’attività di colonizzazione di Israele, concordando una dichiarazione che accusa Israele di aver costituito un “regime di apartheid” in Cisgiordania.

Secondo un comunicato stampa, il testo approvato è stato denominato la “Dichiarazione di Bruxelles” e condivide le seguenti clausole:

1. Israele, il potere occupante dei territori palestinesi dal 1967, continua la sua politica di confisca, ebraicizzazione della terra palestinese e costruzione di colonie su di essa. Queste colonie, con il passare del tempo, sono diventate l’incubatrice di “organizzazioni terroristiche” di coloni come HiiltopYouth, Paying the Price and Revenge [rispettivamente “I giovani delle colline”, “Pagare il prezzo” e “Vendetta”, gruppi di coloni estremisti e violenti, ndt.].

2. Pertanto, con questa politica predeterminata di espansione delle colonie, è improprio parlare di smantellamento di colonie politiche o per la sicurezza, ma piuttosto occorre inquadrare questo movimento come una politica coloniale strutturale in grado di colonizzare una larga parte della Cisgiordania, non meno del 60% della sua estensione. Questa politica, di fatto, ha costituito un regime di apartheid, che viola la Quarta Convenzione di Ginevra del 1949, lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, che nel suo articolo 8 stabilisce che le colonie sono un crimine di guerra, il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia emesso il 9 luglio 2004 riguardo al Muro dell’apartheid, che è stato definito una grave violazione delle leggi internazionali, e le risoluzioni ONU, soprattutto la risoluzione 2334 (2016) del Consiglio di Sicurezza. Questa risoluzione afferma chiaramente che ogni attività israeliana di colonizzazione nei Territori Palestinesi Occupati, compresa Gerusalemme est, è illegale in base alle leggi internazionali e costituisce un ostacolo alla costituzione di uno Stato palestinese contiguo, sostenibile e pienamente sovrano.

3. La conferenza di Bruxelles, prendendo nota dei fatti summenzionati, considera che la continuazione delle attività di colonizzazione pone fine a ogni possibilità per una soluzione dei due Stati e piuttosto concretizza il sistema di apartheid attuato dalla politica di occupazione. La conferenza chiede la fine immediata di ogni attività di colonizzazione perseguita dallo Stato occupante nei territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme est.

4. La conferenza di Bruxelles chiede alla comunità internazionale di assumersi le responsabilità giuridiche opponendosi a queste politiche razziste del potere occupante e imporre una seria pressione su di esso per il rispetto delle fondamentali leggi internazionali. L’Unione Europea, che ha intense relazioni e un accordo di associazione con lo Stato israeliano occupante, dovrebbe fare pressione su Israele in modo che essa [l’UE] si assuma la responsabilità di superare la differenza tra le sue parole e le sue azioni nel contesto della politica israeliana di colonizzazione, attivando l’articolo 2 dell’Accordo di Associazione per esercitare pressioni su Israele affinché rispetti i suoi obblighi in quanto potere occupante.

5. La conferenza di Bruxelles chiede anche ai Paesi dell’UE di far seguire alle parole i fatti, non solo rilasciando dichiarazioni di denuncia e di condanna, ma adottando piuttosto misure concrete per rendere Israele responsabile, imponendo un divieto assoluto su ogni attività finanziaria, economica, commerciale e di investimenti, diretta o indiretta, con le colonie israeliane finché non si atterranno alle leggi internazionali.

6. I partecipanti a questa conferenza, mentre condannano la politica di colonizzazione nei territori palestinesi occupati come una violazione del diritto internazionale, sottolineano al contempo l’importante ruolo che può essere giocato da forze politiche, parlamenti, organizzazioni dei diritti umani e della società civile nei Paesi dell’UE per opporsi ai progetti israeliani di espansione e di costruzione di colonie. Chiedono anche ai governi dell’UE e alle loro istituzioni costituzionali di rispettare le proprie responsabilità in base alla responsabilità collettiva di rifiutare le violazioni da parte di Israele dei diritti dei cittadini palestinesi sotto occupazione, in modo da obbligare Israele almeno a rispettare i suoi obblighi in base all’Accordo di Associazione e da non permettere ai coloni e ai loro dirigenti di entrare nei Paesi dell’UE e da portarli davanti alla giustizia internazionale come criminali di guerra nel caso lo facciano.

7. I partecipanti alla conferenza chiedono ai popoli del mondo e alle loro forze democratiche amanti della pace di partecipare attivamente al movimento internazionale per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni, noto come BDS, e di fare pressione su Israele perché rispetti il diritto internazionale.

8. La conferenza afferma anche il proprio totale sostegno all’iniziativa palestinese di deferire alla Corte Penale Internazionale come crimini di guerra la costruzione di nuove colonie, l’espansione di quelle esistenti e la violenza dei coloni contro i palestinesi.

9. I partecipanti alla conferenza plaudono alla crescente solidarietà con il popolo palestinese e con la sua giusta causa. Elogiano anche il rifiuto da parte dei popoli del mondo delle politiche israeliane di pulizia etnica e di apartheid perseguite dallo Stato occupante israeliano.

10. I partecipanti alla conferenza chiedono di contrastare questa politica costituendo un comitato europeo di Paesi partecipanti rappresentati in questa conferenza per denunciare le continue violazioni da parte delle forze di occupazione e per rafforzare la pressione per perseguire i criminali di guerra israeliani finché Israele non rispetterà il diritto internazionale.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Hamas e Fatah devono cambiare per parlare a nome dei palestinesi

Ramzy Baroud

24 ottobre 2017, Ma’an News

L’accordo di riconciliazione siglato al Cairo il 12 ottobre tra i partiti palestinesi rivali, Hamas e Fatah non è stato un accordo di unità nazionale, almeno non ora. Perché quest’ultima si possa realizzare, il patto avrebbe dovuto rendere prioritari gli interessi del popolo palestinese al di sopra dei programmi di ogni fazione.

La crisi di leadership non è nuova in Palestina. Precede di decenni Fatah e Hamas.

Dalla distruzione della Palestina e dalla creazione di Israele nel 1948, e persino ancora più indietro nel tempo, i palestinesi si sono trovati vincolati al gioco delle potenze internazionali e regionali, senza essere in grado di controllare o persino di esercitare un’influenza [su di esse].

Il più grande risultato di Yasser Arafat, il defunto ed emblematico dirigente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), è stato sapere promuovere un’identità politica palestinese indipendente e un movimento nazionale di cui, sebbene ricevesse il sostegno degli arabi, non si è appropriato nessun particolare Paese arabo.

Gli accordi di Oslo, tuttavia, sono stati la fine di quel movimento. Gli storici potranno discutere se Arafat, l’OLP e Fatah il suo principale partito politico, non avessero nessun altra opzione se non impegnarsi nel cosiddetto “processo di pace”. Tuttavia, a posteriori, possiamo sicuramente sostenere che Oslo è stata la drastica cancellazione di ogni successo politico dei palestinesi, almeno dalla guerra del 1967.

Nonostante la sonora sconfitta dei Paesi arabi da parte di Israele e dei suoi potenti alleati occidentali in quella guerra, è nata la speranza di un nuovo inizio. Israele rivendicò Gerusalemme est, la Cisgiordania e Gaza ma, involontariamente, unificò i palestinesi come nazione, per quanto oppressa ed occupata.

Inoltre le profonde ferite sofferte dai Paesi arabi in conseguenza della disastrosa guerra, diedero ad Arafat e a Fatah l’opportunità di utilizzare i nuovi spazi che si erano aperti in conseguenza del ritiro arabo.

L’OLP, che in origine era gestita dal defunto presidente egiziano, Jamal Abdul Nasser, divenne un organismo esclusivamente palestinese. Fatah, che si era formato pochi anni prima della guerra, divenne il partito che ne prese il comando.

Quando Israele occupò il Libano nel 1982, il suo obiettivo era l’annientamento del movimento nazionale palestinese, specialmente da quando Arafat stava aprendo nuovi canali di dialogo, non soltanto con i Paesi musulmani e arabi, ma anche a livello internazionale. Le Nazioni Unite, insieme ad altre istituzioni internazionali, cominciarono a riconoscere i palestinesi non come rifugiati sfortunati bisognosi di assistenza, ma come un serio movimento nazionale che doveva essere ascoltato e rispettato.

A quel tempo, Israele era ossessionato dall’idea di impedire ad Arafat di trasformare l’OLP in un potenziale governo. Nel breve periodo Israele ottenne il suo principale obiettivo. Arafat fu mandato in Tunisia con la dirigenza del suo partito e gli altri combattenti dell’OLP vennero dispersi nel Medio Oriente, ancora una volta cadendo ostaggi dei capricci e delle priorità arabe.

Tra il 1982 e gli accordi di Oslo del 1993, Arafat combattè per mantenere una certa importanza. L’esilio dell’OLP divenne particolarmente evidente quando i palestinesi scatenarono la Prima Intifada (la rivolta del 1987). Una generazione totalmente rinnovata di dirigenti palestinesi cominciò a profilarsi; fu plasmata un’identità diversa, che venne concepita nelle prigioni israeliane e alimentata nelle strade di Gaza e Nablus. Più aumentavano i sacrifici e il numero di morti, più cresceva quel senso [di appartenenza] a un’identità collettiva.

Il tentativo dell’OLP di appropriarsi dell’Intifada fu una delle principali cause del perché la sollevazione alla fine si spense. La conferenza di Madrid nel 1991 fu la prima volta in cui i veri rappresentanti de popolo palestinese dei Territori Occupati avrebbero occupato una tribuna internazionale per parlare a nome dei palestinesi in patria.

Quel sostegno ebbe breve vita. Alla fine Arafat e Mahmoud Abbas (oggi il capo dell’Autorità Nazionale Palestinese – ANP) negoziarono in segreto un accordo alternativo a Oslo. L’accordo mise ampiamente da parte l’ONU e permise agli Stati Uniti di reclamare la sua posizione di autoproclamato “ mediatore imparziale” in un “processo di pace” sponsorizzato dagli USA.

Mentre ad Arafat e alla fazione tunisina venne permesso di ritornare per governare i palestinesi sotto occupazione con un mandato limitato concesso dal governo e dall’esercito israeliani, la società palestinese cadde in uno dei suoi più dolorosi dilemmi dopo molti anni.

Mentre l’OLP , che rappresentava tutti i palestinesi, veniva messa da parte per fare spazio all’ANP, che rappresentava gli interessi solo di una fazione all’interno di Fatah in una ridotta zona autonoma, i palestinesi vennero divisi in gruppi.

Infatti, il 1994, che vide la nascita ufficiale dell’ANP, fu l’anno nel quale è realmente iniziato l’attuale conflitto palestinese. L’ANP, sotto la pressione di Israele e degli USA, represse i palestinesi oppositori di Oslo e che legittimamente respingevano il “processo di pace”.

La repressione coinvolse molti palestinesi che avevano avuto un ruolo di primo piano durante la Prima Intifada. La mossa di Israele funzionò alla perfezione. La dirigenza palestinese in esilio fu fatta ritornare per reprimere la dirigenza dell’Intifada, mentre Israele stava in disparte e assisteva al triste spettacolo.

Hamas, che era lui stesso un prodotto della Prima Intifada, si trovò a scontrarsi frontalmente con Arafat e la sua autorità. Per anni Hamas si è posizionato come maggior gruppo dell’opposizione che respingeva la normalizzazione con l’occupazione israeliana. Ciò conquistò ad Hamas un’ ampia popolarità tra i palestinesi, specialmente quando divenne chiaro che Oslo era stato un inganno e che il “processo di pace” stava andando verso un punto morto.

Quando Arafat morì, dopo avere passato anni a Ramallah sotto l’assedio dell’esercito israeliano, salì al potere Abbas. Tenendo presente che Abbas era la mente che stava dietro Oslo e della sua mancanza di carisma e di capacità dirigenziali, Hamas prese l’iniziativa con una manovra politica che si è dimostrata onerosa: partecipò alle elezioni legislative per l’ANP nel 2006. Peggio ancora, le vinse.

Emergendo come il principale partito politico in un’elezione che era in sé il risultato di un processo politico che Hamas aveva vigorosamente respinto per anni, Hamas divenne una vittima del proprio successo.

Come c’era da aspettarsi, Israele si mosse per punire i palestinesi. In seguito alle richieste ed alle pressioni degli USA, l’Europa fece lo stesso. Il governo di Hamas venne boicottato, Gaza venne sottoposta a un continuo bombardamento da parte di Israele e le casse palestinesi iniziarono a prosciugarsi.

Nell’estate del 2007 ne seguì una breve guerra civile tra Hamas e Fatah , con centinaia di morti e la separazione politica e amministrativa di Gaza dalla Cisgiordania.

Ufficialmente, i palestinesi hanno avuto due governi, ma nessun Stato. Che un promettente progetto di liberazione nazionale abbia abbandonato la liberazione e si sia concentrato principalmente a regolare i conti in sospeso [fra] le fazioni mentre milioni di palestinesi soffrivano l’assedio e l’occupazione militare e milioni ancor più soffrivano l’angoscia e l’umiliazione dello “shattat” – l’esilio dei rifugiati all’estero, è stata una beffa.

Molti tentativi sono stati fatti e sono falliti per riconciliare i due partiti negli ultimi 10 anni. Sono falliti principalmente perché, ancora una volta, i dirigenti palestinesi hanno affidato il processo decisionale alle potenze regionali e internazionali. L’epoca d’oro dell’OLP è stata sostituita dagli anni bui delle divisioni di fazione.

Tuttavia, il recente accordo di riconciliazione al Cairo non è il risultato di un nuovo impegno nei confronti del progetto nazionale palestinese. Sia Hamas che Fatah sono a corto di alternative. La loro politica regionale è stata un fallimento, e il loro programma politico ha smesso di essere convincente per i palestinesi, che si sentono orfani e abbandonati.

Perché l’unità Hamas -Fatah possa diventare una reale unità nazionale vanno cambiate completamente le priorità, in modo che gli interessi dei palestinesi, tutti, ovunque siano, divengano ancora una volta di primaria importanza, al di sopra degli interessi di una fazione o due, alla ricerca di una limitata legittimità, di una falsa sovranità e di sussidi americani.

Ramzy Baroud is an internationally syndicated columnist, author, and the founder of PalestineChronicle.com. His latest book is My Father Was a Freedom Fighter: Gaza’s Untold Story.

Ramzy Baroud è un editorialista, scrittore e fondatore di PalestineChronicle.com stimato a livello internazionale. Il suo ultimo libro è “Mio padre era un combattente per la libertà: la storia non raccontata di Gaza.”

( Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Hamas ribadisce: il braccio armato non è oggetto di discussione nei colloqui di riconciliazione

Ma’an News

7 ottobre 2017

GAZA (Ma’an) – Un portavoce del movimento Hamas ha ribadito sabato che il futuro del braccio armato del gruppo non è oggetto di discussione nei colloqui di riconciliazione che stanno per iniziare con il movimento Fatah, previsti per martedì al Cairo.

Hazem Qassem ha detto a Ma’an che “le armi della resistenza sono legali. Servono a proteggere i palestinesi e liberare le loro terre (dall’occupazione israeliana) – perciò questo non dovrebbe essere un argomento di discussione.”

Il portavoce di Hamas ha detto che in realtà ciò che dovrebbe essere discusso è il “rafforzamento” del potere di Hamas in quanto movimento di resistenza armata.

Comunque Qassem ha affermato che tutti gli argomenti che “ostacolano la riconciliazione” dovrebbero essere discussi martedì, compresa l’assunzione del controllo della Striscia di Gaza da parte del Governo di Consenso Nazionale; poi lo spostamento dell’attenzione della riconciliazione da Gaza alla Cisgiordania; ed infine lo svolgimento di elezioni presidenziali, legislative e del Consiglio Nazionale per governare entrambe le parti dei territori occupati.

Giovedì Hamas ha detto che il governo palestinese di consenso nazionale era subentrato ufficialmente al movimento come autorità amministrativa nella Striscia di Gaza sotto assedio, che è stata governata de facto da Hamas dal 2007.

Fatah, il partito principale del governo dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) nella Cisgiordania occupata, ed Hamas sono stati coinvolti in un conflitto fin dalla vittoria di Hamas nelle elezioni legislative del 2006, scatenando una lotta violenta tra I due movimenti, con il consolidamento da parte di Hamas, un anno dopo, del suo controllo sul territorio.

Il primo ministro palestinese Rami Hamdallah ha detto al consiglio dei ministri, che si è riunito per la prima volta in tre anni a Gaza martedì, che il suo governo assumerà la piena responsabilità di tutti i settori della vita a Gaza “in totale coordinamento e partnership con tutte le fazioni e le forze palestinesi.”

Tuttavia, il controllo sulla sicurezza da parte di Hamas e la sua natura di movimento di resistenza armata ha costituito un ostacolo per l’ANP, che coopera con Israele sulle questioni connesse alla sicurezza, come stabilito negli accordi di Oslo – una politica ripetutamente condannata da Hamas, che accusa l’ANP di prendere di mira i suoi aderenti in Cisgiordania arrestandoli per ragioni politiche ed in coordinamento con Israele.

Poiché Hamas ha invitato il governo di consenso a prendere il controllo di Gaza, il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas ha detto di non essere disponibile ad accettare che Hamas mantenga il suo braccio armato, le Brigate Izz al-Din al-Qassam. “Non accetterò che si riproduca l’esperienza di Hezbollah in Libano” a Gaza, ha detto Abbas in un’intervista con i media egiziani. Hezbollah fa parte del governo libanese, ma conserva il proprio esercito.

Abbas ha detto che, nonostante il suo “forte desiderio di vedere andare in porto questa riconciliazione”, questo non avverrà a meno che l’ANP non “governi la Striscia di Gaza esattamente come governa la Cisgiordania.”

I passaggi sul confine, la sicurezza e tutti i ministeri devono essere sotto il nostro controllo”, pare abbia detto. Hamas tuttavia ha detto più volte che consegnare le armi non è oggetto di discussione nel processo di riconciliazione.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Un attacco a mano armata in una colonia illegale lascia un bilancio di un palestinese e tre israeliani morti

Ma’an News

26 settembre 2017

Betlemme (Ma’an) – Martedì mattina le forze israeliane hanno ucciso un palestinese dopo che il trentasettenne aveva sparato all’ingresso della colonia israeliana illegale di Har Adar nella Cisgiordania occupata, uccidendo due guardie della sicurezza e un ufficiale della polizia di frontiera.

Secondo il portavoce della polizia israeliana Micky Rosenfeld, l’attacco è stato perpetrato da un palestinese del villaggio di Beit Surik, nel distretto di Gerusalemme della Cisgiordania, in seguito identificato come Nimr Mahmoud Ahmed Jamal.

Luba al-Samri, portavoce in arabo della polizia israeliana, ha aggiunto che Jamal era arrivato alla colonia insieme a un gruppo di lavoratori palestinesi. Quando i palestinesi hanno iniziato ad entrare nel posto di blocco israeliano all’ingresso della colonia, le forze di polizia israeliane gli hanno chiesto di fermarsi dopo essersi insospettite del palestinese, che allora ha estratto un’arma e ha sparato agli agenti.

Dopo un scambio a fuoco, Jamal è stato colpito a morte, mentre tre degli agenti sono stati uccisi. Nel contempo anche un altro israeliano, il coordinatore della sicurezza della colonia, è stato ferito gravemente. Rosenfeld ha confermato che il palestinese ucciso era in possesso di un permesso di lavoro israeliano.

Al-Samri ha informato che l’agente israeliano ucciso è il ventenne Soloman Gabariya. In seguito all’attacco la polizia israeliana ha chiuso la zona nei pressi della colonia. Il quotidiano israeliano “Haaretz” ha identificato le due guardie di sicurezza come Yussef Utman, abitante del villaggio di Abu Gosh, nei pressi di Gerusalemme, e Or Arish, 25 anni, di Har Adar. Secondo la documentazione di Ma’an, Jamal è diventato il cinquantaseiesimo palestinese ucciso dagli israeliani dall’inizio dell’anno durante attacchi, presunti attacchi, scontri o incursioni mortali per operare arresti.

Dall’inizio del 2017 sedici israeliani, quasi tutti agenti in uniforme o israeliani che vivevano nelle colonie israeliane in violazione delle leggi internazionali, sono stati uccisi da palestinesi. Spesso i palestinesi hanno citato le frustrazioni quotidiane e la continua violenza dei soldati israeliani, imposta dalla quasi cinquantennale occupazione israeliana del territorio palestinese, come i principali moventi degli attuali attacchi politici contro israeliani.

In seguito all’attacco Husam Badran, portavoce del movimento Hamas, ha rilasciato un comunicato che definisce “eroico” l’attacco, aggiungendo che esso è un segno che l’intifada sta continuando – in riferimento all’incremento di violenze nei territori palestinesi occupati e in Israele che è scoppiato per la prima volta due anni fa.

La resistenza intende porre fine all’oppressione e all’occupazione della terra palestinese (da parte di Israele),” ha detto nel comunicato. I palestinesi “continueranno con ogni mezzo di liberazione e resistenza, non importa con quanto sacrificio,” ha aggiunto.

Nel contempo anche Munir al-Jaghoub, un funzionario di Fatah, ha rilasciato una dichiarazione, affermando che “solo Israele è responsabile delle reazioni palestinesi ai crimini dell’occupazione, e se continua con le sue aggressioni contro il popolo palestinese.”

Ha aggiunto che Israele “deve essere ben consapevole delle conseguenze della sua continua spinta verso la violenza, della politica di demolizione delle case, delle espulsioni degli abitanti di Gerusalemme e del susseguirsi di incursioni di coloni nel complesso della moschea di Al Aqsa.”

Al-Jaghoub ha detto che, se gli israeliani credono nella pace, devono porre fine “alla violenza e alle quotidiane umiliazioni dei palestinesi” e cessare la loro continua violazione delle leggi e degli accordi internazionali, che hanno portato alla prosecuzione dell’espansione delle colonie israeliane sul territorio palestinese.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Hamas si impegna a sciogliere il comitato amministrativo e a tenere elezioni

Ma’an News – 17 settembre 2017

Betlemme (Ma’an) – Hamas, il partito che di fatto governa la Striscia di Gaza, si è impegnato a sciogliere il proprio comitato amministrativo, che gestisce l’enclave costiera assediata, ed ha affermato di essere pronto a tenere elezioni generali, come passo per la riconciliazione con l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) guidata da Fatah.

Una dichiarazione del movimento Hamas ha affermato che la decisione è una risposta ai recenti sforzi diplomatici dell’Egitto per riconciliare le fazioni rivali, mentre il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas ha chiesto ad Hamas di porre fine al comitato amministrativo, di restituire il controllo del piccolo territorio all’ANP e di tenere elezioni presidenziali e legislative.

Hamas e l’ANP guidata da Fatah sono stati coinvolti in un conflitto più che decennale dal 2006, quando Hamas vinse le elezioni legislative palestinesi e scoppiò un sanguinoso conflitto tra i due gruppi.

Nonostante numerosi tentativi di riconciliarli, i dirigenti palestinesi hanno ripetutamente mancato di dare seguito alle promesse di riappacificazione e di tenere le elezioni a lungo attese, in quanto entrambi i movimenti si sono spesso incolpati a vicenda dei numerosi errori politici.

Il movimento Hamas domenica ha affermato di aver sciolto il comitato amministrativo, formato all’inizio di quest’anno con grande indignazione dell’ANP, di accettare per la prima volta dal 2006 di tenere elezioni generali, di iniziare colloqui con Fatah e consentire al governo di riconciliazione nazionale di gestire Gaza.

Nell’aprile 2014 Hamas ha firmato un accordo di riconciliazione con l’OLP, che doveva preparare la strada ad elezioni generali entro la fine del 2014. Tuttavia quell’anno un devastante attacco israeliano di 50 giorni contro Gaza, così come una disputa sul pagamento dei salari a decine di migliaia di [membri delle] forze di sicurezza di Hamas, hanno bloccato subito il proseguimento dell’accordo verso la riconciliazione.

La crisi politica palestinese da allora non ha fatto che continuare a peggiorare, ed Hamas ha detto di aver formato il comitato dopo che il governo di intesa non si era preso la responsabilità dell’amministrazione di Gaza. L’ANP ha sostenuto che Hamas stava cercando di formare un “governo ombra” per rendere Gaza indipendente dalla Cisgiordania.

Negli ultimi mesi l’ANP è stata anche accusata di aver fatto cadere deliberatamente l’impoverita Striscia di Gaza ancor più in una catastrofe umanitaria – tagliando i finanziamenti per il combustibile da Israele, le medicine e i salari degli impiegati civili e degli ex-prigionieri – per strappare ad Hamas il controllo sul territorio.

Lo scorso mese Abbas ha minacciato di intraprendere ulteriori misure repressive contro il territorio impoverito se Hamas non avesse ottemperato senza condizioni alle richieste dell’ANP per porre fine al comitato amministrativo, restituire il controllo dell’enclave all’ANP e tenere elezioni presidenziali e legislative.

In seguito all’accettazione di queste condizioni basilari da parte di Hamas domenica, l’importante dirigente di Fatah Mahmoud Aloul ha detto all’agenzia di stampa Reuters di accogliere favorevolmente ma con cautela la posizione di Hamas. “Se questa è la dichiarazione di Hamas, allora si tratta di un segnale positivo,” avrebbe detto. “Noi del movimento Fatah siamo pronti a mettere in atto la riconciliazione.”

L’agenzia di stampa “Wafa”, dell’ANP, ha detto che anche il membro del comitato centrale di Fatah Azzam al-Ahmed ha plaudito alla decisione di Hamas di sciogliere il comitato amministrativo.

Al-Ahmed, che attualmente si trova al Cairo per i colloqui di riconciliazione con Hamas condotti dall’Egitto, ha detto a “Wafa” che si è tenuta una lunga riunione tra la delegazione di Fatah al Cairo e il capo dei servizi segreti egiziani, il ministro Khaled Fawzi, in cui hanno rinnovato i continui sforzi esercitati dall’Egitto per porre fine alla divisione interna palestinese.

Secondo il reportage di “Wafa” Al-Hamed ha confermato notizie secondo cui la delegazione di Fatah si è incontrata con i dirigenti di Hamas e “ha salutato l’appello di Hamas per un governo di unità che riprenda il suo lavoro normale a Gaza, così come il suo accordo per tenere elezioni presidenziali e legislative.”

Wafa” ha detto che il dirigente di Fatah ha anche affermato che ci saranno incontri bilaterali tra dirigenti di Fatah e di Hamas, seguiti da una riunione di tutte le fazioni palestinesi che hanno siglato l’accordo di riconciliazione del maggio 2011 “al fine di iniziare passi concreti per mettere in atto l’accordo,” ed ha espresso la speranza che nei prossimi giorni si possa “assistere a passi concreti e tangibili.”

Anche Nickolay Mladenov,  coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il processo di pace in Medio Oriente, ha rilasciato una dichiarazione in cui ha accolto positivamente l’annuncio di Hamas. “Plaudo al recente comunicato di Hamas in cui annuncia lo scioglimento del comitato amministrativo a Gaza e il consenso a permettere al governo di unità nazionale di prendere il controllo a Gaza,” ha affermato.

Mi congratulo con le autorità egiziane per i loro incessanti sforzi per determinare questa situazione positiva. Tutti i partiti devono cogliere questa opportunità per ristabilire l’unità ed aprire una nuova pagina per il popolo palestinese,” ha proseguito l’inviato dell’ONU. “Le Nazioni Unite sono pronte ad assistere qualunque tentativo a questo proposito. E’ fondamentale che la grave situazione umanitaria a Gaza, in particolare la durissima crisi elettrica, sia affrontata come una priorità.”

Questo sviluppo è arrivato inoltre dopo che la scorsa settimana il capo del comitato centrale del movimento Hamas Ismail Haniyeh ed altri importanti membri di Hamas si sono incontrati con funzionari dell’intelligence egiziana al Cairo, con colloqui centrati sulla disponibilità di lavorare per l’unità nazionale.

La dirigenza di Hamas ha detto agli egiziani di essere disposta a consentire al governo di riconciliazione nazionale palestinese di farsi carico di Gaza e di svolgere le elezioni, purché tutte le fazioni palestinesi tengano una conferenza al Cairo dopo l’elezione di un governo nazionale che si faccia carico della Cisgiordania, della Striscia di Gaza e di Gerusalemme est.

Una fonte egiziana vicina ai servizi di sicurezza ha detto al giornale israeliano “Haaretz” che Hamas sta cercando di dimostrare all’Egitto che non sta ostacolando la riconciliazione e sta accogliendo le richieste, sperando di raccoglierne i frutti se e quando i colloqui dovessero essere messi in dubbio da parte dell’ANP.

Negli scorsi mesi Hamas ha cercato di migliorare i rapporti con il Cairo, incrementando la sicurezza sulle frontiere, compresa la costituzione di una zona cuscinetto militare, nella speranza che l’Egitto attenui l’applicazione del brutale assedio decennale israeliano del territorio ed apra il valico di Rafah.

Sabato anche una delegazione di Fatah inviata da Abbas al Cairo ha discusso dei tentativi egiziani per riconciliare i palestinesi.

Nel contempo domenica Abbas è arrivato a New York per partecipare ai lavori della settantaduesima sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Mercoledì, prima del discorso del presidente palestinese giovedì all’ONU, incontrerà il presidente USA Donald Trump.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La polizia israeliana attacca manifestanti e ne arresta 5 durante proteste a Sheikh Jarrah

Ma’an News

9 settembre 2017

Gerusalemme (Ma’an) – Venerdì la polizia israeliana ha arrestato almeno cinque manifestanti, tra cui due minorenni palestinesi, durante una protesta non violenta fuori dalla casa della famiglia Shamasna nel quartiere di Sheikh Jarrah di Gerusalemme est occupata, presa martedì da coloni israeliani, e nel contempo una madre è stata ferita mentre cercava di impedire l’arresto del figlio quattordicenne.

Testimoni hanno raccontato a Ma’an che la polizia israeliana ha aggredito e spinto dimostranti palestinesi durante una manifestazione a Sheikh Jarrah dopo che palestinesi avevano recitato le preghiere del venerdì fuori dalla casa di proprietà della famiglia Shamasna da 53 anni, con un’azione di protesta non violenta contro l’espulsione.

La famiglia è stata cacciata dalla casa durante un’espulsione unanimemente condannata dopo che coloni israeliani hanno sostenuto di esserne proprietari.

Durante la protesta le forze israeliane hanno arrestato Mutaz Mahmoud al-Sau, di 14 anni, e suo fratello Muhammad, di 12.

Mentre Mutaz stava per essere arrestato, sua madre ha tentato di impedirlo abbracciandolo e aggrappandosi a lui. Mahmoud, il padre del ragazzo, ha detto a Ma’an che sua moglie ha subito ferite sulla nuca dalla polizia israeliana che la spingeva via. E’ stata portata in ospedale per essere curata.

Mahmoud ha raccontato a Ma’an che la polizia israeliana ha rilasciato Mutaz senza condizioni. Tuttavia Muhammad è stato liberato a condizione che rimanga agli arresti domiciliari per cinque giorni. Ha anche il divieto di avvicinarsi per due settimane alla via della casa della famiglia Shamasna, nonostante viva a pochi metri di distanza.

Testimoni hanno detto a Ma’an che un attivista straniero è stato ferito alla testa dopo che le forze israeliane lo hanno spinto durante la protesta.

Salih Thiab, un attivista del posto, ha detto a Ma’an che le forze israeliane hanno arrestato lui e due militanti della solidarietà internazionale pochi minuti dopo che la manifestazione è stata allontanata [dalla casa dei Shamasna]. Ha aggiunto che qualche ora dopo lo hanno rilasciato, dopo essere stato interrogato come indagato per aver violato la legge. Anche a Thiab è stato vietato di recarsi nella parte occidentale di Sheikh Jarrah per due settimane.

I due attivisti stranieri, secondo Thiab, sono rimasti nel carcere israeliano dopo essere stati accusati di “aver attaccato la polizia israeliana e i coloni.”

Non è stato possibile contattare sul momento un portavoce della polizia israeliana per un commento.

I militanti locali hanno sottolineato che manifestazioni settimanali saranno organizzate ogni venerdì per protestare contro l’occupazione da parte dei coloni della casa degli Shamasna e contro altre espulsioni guidate dai coloni che sono in corso nel quartiere.

La famiglia Shamasna è stata l’ultima famiglia palestinese ad essere espulsa dal quartiere dal 2009 in base ad una legge israeliana che consente ad ebrei israeliani di rivendicare il possesso di proprietà che in precedenza erano di ebrei prima del 1948, quando in migliaia fuggirono da Gerusalemme est durante la guerra arabo-israeliana.

Tuttavia questa legge non si estende ai palestinesi, centinaia di migliaia dei quali nel 1948 furono espulsi dalle loro terre e case in quello che oggi è Israele.

Sheikh Jarrah è diventato un obiettivo fondamentale per le rivendicazioni di proprietà degli ebrei, in quanto una volta il quartiere sarebbe stato la zona in cui viveva la comunità ebraica nel XIX° secolo.

Nel 2009 le famiglie Um Kamel al-Kurd, Ghawi e Hanoun sono state definitivamente espulse dalle loro case, mentre i coloni israeliani hanno in parte occupato la casa della famiglia al-Kurd, che da anni vive ancora di fianco a loro. Più di 60 palestinesi sono stati espulsi durante l’ondata di sgomberi del 2009.

Domenica altre sei famiglie palestinesi hanno ricevuto notifiche di fratto, che ordinano loro di lasciare le loro case entro 30 giorni a causa di reclami dei coloni israeliani sulle loro proprietà.

Secondo la comunità internazionale, ogni colonia israeliana costruita a Gerusalemme est occupata è illegale in base alle leggi internazionali, nonostante l’annessione de facto del territorio da parte di Israele.

L’ONU ha comunicato che 180 famiglie palestinesi – che comprendono 818 persone, 372 delle quali bambini – sono a rischio di sfratto forzato a Gerusalemme est a causa di espulsioni promosse dai coloni. L’UNRWA [l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, ndt.] ha sottolineato che a Sheikh Jarrah il 60% delle persone a rischio di espulsione è composto da rifugiati palestinesi.

(traduzione di Amedeo Rossi)




“L’ANP ora può arrestare chiunque”: giornalisti palestinesi dichiarano lo sciopero della fame.

13 agosto 2017, Ma’an News

Betlemme (Ma’an) – Mentre le critiche interne ed internazionali contro l’Autorità Nazionale Palestinese di Ramallah che sta reprimendo la libertà di espressione nella Cisgiordania occupata, continuano ad aumentare, sette giornalisti palestinesi imprigionati dall’ANP hanno iniziato uno sciopero della fame dopo essere stati arrestati in base alla controversa legge sui reati informatici approvata dal presidente palestinese Mahmoud Abbas lo scorso mese.

Secondo una dichiarazione rilasciata da Omar Nazzal, membro del sindacato dei giornalisti palestinesi ed ex prigioniero di Israele, i giornalisti palestinesi Mamduh Hamamra, corrispondente di Al-Quds News, Tariq Abu Zeid, della televisione Al-Aqsa e il giornalista freelance Qutaiba Qassem giovedì hanno dichiarato uno sciopero della fame subito dopo che il loro arresto è stato prolungato fino a 15 giorni.

Issam Abdin, avvocato e responsabile del patrocinio legale dell’ong palestinese al-Haq, ha confermato a Ma’an che altri quattro giornalisti – il corrispondente Ahmad Halayqa di Al-Quds News, quello dell’agenzia Shehab News Amer Abu Arafa, ed i giornalisti Islam Salim e Thaer al-Fakhouri – giovedì hanno annunciato uno sciopero della fame per protestare contro la loro detenzione.

Secondo Abdin tutti i giornalisti erano stati arrestati parecchi giorni prima per presunte violazioni dei termini della nuova legge.

Tutti i sette giornalisti lavorerebbero per media che sono tra i 30 siti bloccati a giugno dall’ANP – tutti quanti sarebbero legati al movimento Hamas, il partito che governa nella Striscia di Gaza assediata che per 10 anni è stato coinvolto in una dura rivalità con l’ANP guidata da Fatah o con il rivale politico di Abbas da molto tempo, Muhammad Dahlan.

Mentre l’iniziativa di bloccare i siti web in Cisgiordania è stata condannata a suo tempo come una violazione senza precedenti della libertà di stampa nei territori palestinesi, lo scorso mese Abbas ha portato il giro di vite sui media ad un altro livello approvando con decreto presidenziale la legge contro i reati informatici.

Una legge draconiana”

Giovedì in una dichiarazione Nazzal ha affermato che almeno sei dei giornalisti imprigionati – non citando al-Fahouri – erano stati arrestati in base ad accuse di aver violato l’articolo 20 della legge sui reati informatici.

L’articolo afferma che una persona può essere condannata ad almeno un anno di prigione o essere punita con un’ammenda di almeno 1.410 dollari per “aver creato o gestito un sito web o una piattaforma informativa che possa danneggiare l’integrità dello Stato palestinese, l’ordine pubblico o la sicurezza interna o internazionale dello Stato.”

Nel contempo in base alle nuove leggi “ogni persona che diffonda con ogni mezzo il tipo di notizie succitate, anche con trasmissioni radiotelevisive o pubblicandole” rischia fino a un anno di prigione o un’ammenda da 282 a 1.410 dollari.

Abdin ha detto a Ma’an che questi “articoli generici”, attraverso i quali persone rischiano il carcere per aver semplicemente pubblicato certi articoli sui loro account sui media sociali, ha messo le basi per l’arresto di giornalisti palestinesi e “per distruggere la libertà del lavoro giornalistico in Palestina.”

Nadim Nashif, cofondatore e direttore del gruppo digitale di sostegno palestinese ed arabo “7amleh”, ha definito la legge “terribile” e “draconiana”.

E’ la legge peggiore nella storia dell’ANP,” ha detto Nashif a Ma’an. “Essa consente all’ANP di arrestare chiunque in base a definizioni vaghe.”

Nashif sottolinea che la legge non solo criminalizza la creazione, la pubblicazione e la diffusione di certe informazioni ritenute pericolose dall’ANP, ma stabilisce anche che persone colte ad aggirare i controlli dell’ANP sui siti web attraverso proxy server o reti private virtuali (VPN) possono rischiare condanne a tre mesi di prigione.

Nashif ha detto a Ma’an che la legge ha trascinato “indietro” la Palestina.

Nonostante l’occupazione decennale della Cisgiordania da parte di Israele e la più che decennale divisione politica con Hamas, “in genere i media e i siti web sono stati lasciati in pace,” ha detto Nashif. “Non hanno fatto parte di questa lotta politica.”

E’ come se l’ANP stesse infrangendo gli ultimi spazi di libertà di parola,” ha affermato.

I giornalisti palestinesi intrappolati nella divisione tra Hamas e ANP

I gruppi per i diritti umani hanno prontamente condannato la detenzione dei giornalisti, affermando che la nuova legge intende eliminare il dissenso politico contro Abbas e l’ANP – presumibilmente con gli auspici del coordinamento dell’ANP per la sicurezza con lo Stato di Israele universalmente condannato, anche se l’ANP ha ripetutamente affermato di aver posto fine a questa politica da luglio.

Secondo il gruppo per i diritti dei detenuti “Addameer”, un ufficiale della sicurezza dell’ANP inizialmente ha detto che almeno cinque dei giornalisti incarcerati sono stati arrestati per “aver passato informazioni e di essere in comunicazione con partiti ostili.”

Tuttavia, ha aggiunto “Addameer”, il sindacato dei giornalisti palestinesi mercoledì mattina ha contattato forze della sicurezza palestinese e gli è stato detto che i giornalisti erano stati arrestati “per fare pressione su Hamas affinché rilasci un altro giornalista detenuto nella Striscia di Gaza,” in riferimento a Fouad Jaradeh, un corrispondente del canale ufficiale di notizie dell’ANP “Palestine TV” che è stato incarcerato a Gaza per più di due mesi.

Sia Hamas che l’ANP sono stati criticati per aver condotto azioni di rappresaglia contro persone affiliate al gruppo opposto, soprattutto sotto forma di arresti e incarcerazioni per motivi politici.

Abdin ha detto a Ma’an che i giornalisti palestinesi si sono “ritrovati in mezzo alla divisione tra Hamas e Fatah,“ in quanto entrambi i gruppi hanno preso di mira giornalisti per reprimere un’opposizione che potrebbe danneggiare il loro controllo rispettivamente nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania.

Mercoledì in un comunicato il “Centro Palestinese per lo Sviluppo e le Libertà dei Media” (MADA) ha affermato che gli arresti di giornalisti sono “parte di un marcato incremento delle violazioni contro le libertà dei mezzi di informazione” sia in Cisgiordania che a Gaza.

Tuttavia la nuova legge e le iniziative di Abbas per soffocare il dissenso contro l’ANP sono “non solo problematiche per i giornalisti,” ha detto Nashif a Ma’an. “Ogni attivista o singolo individuo che l’ANP ritenga essere un oppositore può ora essere arrestato senza un motivo chiaro.”

L’ANP è stata anche accusata di condurre una generalizzata campagna di arresti contro gli abitanti della Cisgiordania militanti di Hamas, mentre l’ANP ha aumentato negli ultimi mesi le misure per fare pressione su Hamas perché ceda il controllo della Striscia di Gaza.

Uno studio del gruppo di ricerca palestinese “al-Shabaka” ha documentato le conseguenze delle campagne dell’ANP sulla sicurezza, “il cui scopo evidente è stato di ristabilire legge ed ordine,” ma sono state percepite dagli abitanti come una criminalizzazione della resistenza contro Israele.

E’ illegale in base alla legge palestinese”

Abdin sottolinea che sia il blocco dei siti web che la nuova legge sui reati informatici hanno violato l’articolo 27 della legge fondamentale palestinese, che protegge la libertà di stampa dei cittadini palestinesi, compresi i loro diritti di fondare, stampare, pubblicizzare e distribuire ogni forma di media. La legge garantisce anche la protezione dei cittadini che stanno lavorando nel campo del giornalismo.

L’articolo vieta anche la censura dei media, affermando che “nessun ammonimento, sospensione, confisca, cancellazione o restrizione può essere imposto ai media,” salvo che una legge che viola queste condizioni superi un processo di deliberazione giuridica.

Tuttavia, secondo Abdin, Abbas non ha ricevuto il via libera dal sistema giudiziario per approvare queste gravi restrizioni sulla stampa.

Da quando Hamas ha vinto le elezioni parlamentari nel 2006, il Consiglio Legislativo Palestinese [il parlamento palestinese, ndt.] non è stato convocato a Ramallah, il che significa che la grande maggioranza delle leggi approvate dall’ANP negli ultimi 10 anni è stata approvata da Abbas, che nel 2009 ha esteso la sua presidenza a tempo indeterminato, attraverso decreti presidenziali.

Al-Haq ha evidenziato che la nuova legge viola il diritto internazionale, compreso l’articolo 19 della “Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici” (ICCPR).

Gruppi per i diritti umani, attivisti e giornalisti hanno chiesto che l’ANP modifichi la legge per rispettare la preesistente legislazione palestinese, revochi il blocco dei siti di notizie e ponga fine alla pratica di arrestare sistematicamente attivisti, scrittori, giornalisti ed altri palestinesi per le loro opinioni politiche.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Coloni israeliani incendiano auto e distruggono proprietà durante un’aggressione contro un villaggio nella zona di Ramallah

Ma’an News

Mercoledì 9 agosto 2017

Betlemme (Ma’an) – Mercoledì durante un attacco coloni israeliani hanno dato fuoco a due veicoli di proprietari palestinesi nel villaggio di Umm Safa, nella zona centrale del distretto di Ramallah nella Cisgiordania occupata presumibilmente per vendicare tre coloni israeliani che il mese scorso sono stati uccisi da un palestinese nella vicina colonia di Halamish.

L’agenzia di notizie palestinese Wafa ha raccolto la testimonianza di Marwan Sabah, il capo del consiglio di villaggio, che ha detto che i coloni israeliani hanno dato fuoco ai veicoli verso le 2.30 del mattino.

Sabaha ha detto che, mentre i soldati israeliani, secondo quanto riportato, si trovavano di notte all’ingresso del villaggio, dopo che se ne sono andati i coloni hanno attaccato case alla periferia del villaggio.

Peraltro di rado i soldati israeliani sono in grado di controllare i coloni israeliani, e spesso emergono racconti di soldati israeliani che stanno a guardare gli attacchi dei coloni contro palestinesi senza intervenire. Se i soldati prendono qualche iniziativa, si tratta in genere di sparare “mezzi per il controllo della folla”, come gas lacrimogeni e proiettili rivestiti di gomma o spesso letali contro i palestinesi.

Secondo quanto riferito, i coloni hanno anche scritto sui muri del villaggio slogan di odio, invocando attacchi vendicativi contro i palestinesi in risposta all’aggressione mortale del mese scorso, quando un palestinese del villaggio di Kobar, nella zona di Ramallah, è entrato nella colonia di Halamish ed ha accoltellato a morte tre coloni israeliani.

Secondo l’esercito israeliano dell’incidente si occuperà la polizia israeliana. Tuttavia non è stato possibile reperire nessun portavoce della polizia israeliana per un commento.

Secondo Sabah, la mattina dopo l’attacco sono arrivate forze israeliane “per ispezionare la zona.” Una portavoce dell’esercito israeliano ha detto a Ma’an che avrebbe preso in considerazione ogni rapporto su quanto avvenuto.

Nelle prime ore dell’alba di mercoledì le forze israeliane hanno fatto irruzione nel villaggio di Kobar, arrestando il padre e lo zio dell’aggressore di Halamish, il diciannovenne Omar al-Abed. Anche altre tre persone del villaggio sono state arrestate durante scontri che hanno lasciato 15 feriti, alcuni con ferite da arma da fuoco.

La scorsa settimana circa 200 coloni dell’insediamento di Halamish hanno attaccato il villaggio di Kobar. Le forze israeliane hanno risposto reprimendo violentemente gli scontri scoppiati tra i coloni ed i residenti palestinesi, con un bilancio di un palestinese ferito da proiettili veri sparati dall’esercito israeliano. Più di circa 600.000 coloni israeliani abita nei territori palestinesi occupati in violazione delle leggi internazionali. La comunità internazionale ha ripetutamente definito la loro presenza e la loro popolazione in aumento il principale impedimento per una possibile pace nella regione.

Sabato l’ONU ha informato che dopo una riduzione delle aggressioni dei coloni contro i palestinesi durante tre anni, la prima metà del 2017 ha mostrato il maggiore aumento di questi attacchi, con 89 incidenti documentati finora nell’anno.

“Su base mensile ciò rappresenta un incremento dell’88% rispetto al 2016,” ha detto l’ONU. Gli attacchi durante questo periodo hanno comportato la morte di tre palestinesi.

I media israeliani hanno informato che anche lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interna israeliano, ha messo in guardia il governo israeliano sull’allarmante tendenza e gli ha “chiesto di adottare urgenti misure per evitare un’ulteriore peggioramento,” secondo l’ONU.

Attivisti e gruppi per i diritti umani palestinesi hanno a lungo accusato Israele di favorire una “cultura dell’impunità” per i coloni ed i soldati israeliani che commettono violenze contro i palestinesi.

Secondo l’ong israeliana Yesh Din, negli ultimi tre anni le autorità israeliane hanno incriminato solo nell’8,2% dei casi i coloni israeliani che hanno commesso reati contro i palestinesi nella Cisgiordania occupata.

Al contempo palestinesi che avrebbero o hanno attaccato israeliani sono spesso uccisi sul posto, cosa nella quale i gruppi per i diritti umani hanno ravvisato “esecuzioni extragiudiziarie”, o hanno affrontato lunghe condanne alla prigione.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Hamas è disponibile a sciogliere il comitato amministrativo se l’ANP interrompe ogni misura punitiva a Gaza.

Ma’an News

3 agosto 2017

Gaza (Ma’an) – In un tentativo di raggiungere la riconciliazione nazionale tra le fazioni palestinesi di Hamas e Fatah in lotta tra loro e di ridurre una grave crisi umanitaria nella Striscia di Gaza, il movimento Hamas ha annunciato giovedì [3 agosto]di essere pronto ad abolire il suo comitato amministrativo [il governo che di fatto gestisce il potere nella Striscia, ndt.] a Gaza, se l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) dominata da Fatah dovesse ritirare ogni misura punitiva imposta negli ultimi mesi all’enclave costiera assediata.

In un comunicato il membro del comitato centrale di Hamas Salah al-Bardwil ha affermato che una volta che l’ANP “abbia assunto tutte le responsabilità a Gaza,” Hamas scioglierà il suo comitato amministrativo, che ha formato all’inizio dell’anno tra l’indignazione dell’ANP, che ha accusato Hamas di tentare di formare un governo ombra e rendere Gaza indipendente dalla Cisgiordania occupata.

Dopo l’annuncio [della formazione] del comitato amministrativo, l’ANP con sede a Ramallah è stata accusata di far precipitare deliberatamente l’impoverita Striscia di Gaza in una catastrofe umanitaria per impossessarsi del controllo del territorio togliendolo ad Hamas.

L’ANP ha deciso di ridurre drasticamente i finanziamenti per il carburante israeliano destinato all’enclave costiera, e nel contempo le autorità israeliane hanno acconsentito alle richieste dell’ANP di ridurre drasticamente la fornitura di elettricità a Gaza, che era già colpita dalla mancanza di disponibilità di elettricità e carburante.

Altre politiche messe in atto dall’ANP avrebbero incluso il presunto blocco dei trasferimenti per ragioni sanitarie dei pazienti di Gaza per ricevere trattamenti medici fuori dal territorio e il taglio dei finanziamenti al settore sanitario dell’enclave assediata, che ha visto il bilancio usuale di 4 milioni di dollari mensili del ministero della salute di Gaza crollare ad appena 500.000 dollari, che hanno anche gravemente esacerbato la drammatica situazione degli abitanti di Gaza.

Scatenando forse la maggior indignazione, ad aprile l’ANP ha fatto notevoli tagli agli stipendi dei suoi dipendenti a Gaza, dal 30% al 70% dei salari precedenti.

Giovedì Al-Bardwil ha chiesto che tutti questi interventi che sono stati imposti come ritorsione per la formazione del comitato amministrativo, una volta che questo venga sciolto, [siano ritirati e che] l’ANP si prenda la responsabilità di assumere e gestire gli attuali membri del comitato.

Ha chiesto a tutte le fazioni palestinesi di “iniziare immediatamente un dialogo nazionale per giungere ad un governo che rappresenti l’unità nazionale e dia al Consiglio Legislativo Palestinese (CLP) il potere per svolgere il proprio compito.

Al-Bardwil ha anche chiesto di organizzare elezioni presidenziali e legislative “da cui emerga il meglio per il popolo palestinese.”

“La posizione di Hamas è una risposta alla voce del popolo a Gerusalemme ed ovunque e la conferma dell’impegno di Hamas per l’ interesse nazionale e i precedenti accordi,” ha affermato al-Bardwil.

La dichiarazione di Al-Bardwil è arrivata un giorno dopo che il presidente Mahmoud Abbas si è incontrato a Ramallah con una delegazione di Hamas in Cisgiordania per discutere della riconciliazione nazionale.

Durante l’incontro Abbas avrebbe detto alla delegazione che “se Hamas scioglie il comitato amministrativo che ha formato per governare la Striscia di Gaza e consente al governo del primo ministro Rami Hamdallah di lavorare liberamente a Gaza, allora tutte le misure recentemente applicate alla Striscia di Gaza saranno ritirate.”

Rinnovati appelli per una riconciliazione nazionale sono sorti sull’onda di una massiccia campagna di disobbedienza civile di massa tra i palestinesi di Gerusalemme occupata per protestare contro le misure israeliane nel complesso della moschea di Al-Aqsa.

In passato sono stati fatti numerosi tentativi di riconciliare Hamas e Fatah da quando si sono violentemente scontrati nel 2007, poco dopo la vittoria di Hamas nelle elezioni generali del 2006 nella Striscia di Gaza.

Tuttavia la dirigenza palestinese ha ripetutamente mancato di portare a compimento le promesse di riconciliazione, mentre entrambi i movimenti si sono spesso scambiati l’accusa dei numerosi fallimenti.

(traduzione di Amedeo Rossi)