1

Israele sta per adottare provvedimenti punitivi contro i palestinesi in seguito agli attacchi mortali a Gerusalemme

Bethan McKernan da Gerusalemme

29 gennaio 2023 – The Guardian

Il primo ministro Benjamin Netanyahu annuncia misure dopo gli attacchi più gravi [negli ultimi] anni.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato una serie di misure punitive contro i palestinesi in seguito all’attacco terroristico più grave a Gerusalemme da anni, nel corso del quale un aggressore armato ha ucciso sette persone davanti a una sinagoga.

In una dichiarazione rilasciata domenica dopo l’incontro settimanale del governo, l’ufficio di Netanyahu ha comunicato che l’agenzia di sicurezza israeliana valuterà “misure di deterrenza addizionali riguardanti le famiglie dei terroristi che esprimano sostegno al terrorismo”, inclusa la revoca del diritto di residenza a Gerusalemme e della cittadinanza israeliana e norme che permetteranno ai datori di lavoro il licenziamento immediato, senza bisogno di un procedimento giudiziario, dei dipendenti che hanno “sostenuto il terrorismo”.

Altri provvedimenti illustrati dal governo includono la privazione per i famigliari degli assalitori di sicurezza sociale e prestazioni sanitarie, modifiche delle norme per facilitare la demolizione delle case dei palestinesi che compiono attacchi terroristici e il “rafforzamento delle colonie” nella Cisgiordania occupata, su cui non sono forniti ulteriori dettagli.

Tutte le misure sono illegali ai sensi del diritto internazionale e probabilmente contribuiranno ad alimentare le tensioni fra la popolazione palestinese e con l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) che controlla parti della Cisgiordania occupata, in un momento in cui la regione è già pericolosamente vicina all’escalation sul campo.

Lo scontro a fuoco di venerdì nel quartiere [in realtà una colonia, ndt.] di Neve Yaakov, nella Gerusalemme Est occupata, costata la vita a sette persone, mentre tre sono rimaste ferite, ha fatto seguito al più grave raid dell’esercito israeliano in Cisgiordania da decenni. L’attacco insolitamente feroce contro combattenti nel campo profughi di Jenin ha causato la morte di nove palestinesi, inclusi due civili, e scatenato un’ondata di violente rappresaglie all’alba di venerdì con lo scambio di razzi fra la Striscia di Gaza, controllata dagli islamisti, e Israele.

Dopo l’attacco della sinagoga sono stati riportati parecchi altri incidenti, fra cui l’attacco con armi da fuoco in cui sono state ferite due persone vicino alla Città Vecchia di Gerusalemme da parte di un tredicenne palestinese, il ricovero in ospedale di quattro palestinesi aggrediti da un colono israeliano vicino a Nablus e la sparatoria di sabato in un ristorante di coloni vicino a Gerico senza vittime, ma in cui l’assalitore è stato ucciso.

Domenica è stato ucciso un palestinese armato che si stava avvicinando a una colonia nell’area di Nablus, mentre case e auto sono state danneggiate e incendiate in vari villaggi palestinesi vicino a Ramallah.

Il primo ministro ha anche annunciato che la sua amministrazione varerà norme per semplificare l’iter per ottenere il porto d’armi per i cittadini israeliani, spiegando che la misura ridurrà la violenza perché “abbiamo visto più e più volte… che civili eroici, armati e addestrati salvano vite”.

Netanyahu ha dichiarato che Israele non cerca l’escalation, ma che fornirà una risposta “potente, rapida e precisa” all’attacco di venerdì a Gerusalemme. In previsione di altri attacchi da emulazione e price tag [attacchi di ritorsione contro palestinesi ad opera di gruppi di coloni, ndt.] nella città contesa e in Cisgiordania sono stati impiegati battaglioni aggiuntivi dell’esercito.

Sabato il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas ha incolpato Israele del picco di violenze. In seguito al raid a Jenin l’ANP ha dichiarato che sospenderà la cooperazione per la sicurezza con Israele, una decisione presa anche in passato con scarso successo.

Domenica all’alba la polizia israeliana ha messo i sigilli e si appresta a demolire la casa della famiglia dell’aggressore alla sinagoga ucciso mentre fuggiva dalla luogo dell’attacco. Si crede che Alqam Khayri, 21 anni, abbia agito da solo; anche se gruppi di militanti palestinesi hanno elogiato la sua azione, nessuno ha rivendicato la responsabilità dell’attacco. Un totale di 42 persone, tra cui suoi famigliari, sono stati arrestate in relazione all’episodio.

Membri del parlamento israeliano minacciano una raffica di provvedimenti che costituiscono una punizione collettiva contro persone innocenti solo perché sono collegate all’uomo che ha commesso un attacco mortale,” ha detto in una dichiarazione HaMoked, un’associazione israeliana no profit che si occupa principalmente dei diritti legali dei palestinesi.

[La legge israeliana] permette di demolire o mettere i sigilli a una casa. Tuttavia l’esercito deve notificarlo in anticipo alla famiglia, permettendo loro di presentare ricorso e, se respinto, di fare appello all’Alta Corte di Giustizia. Nulla di tutto ciò è stato fatto in questo caso.”

La sparatoria alla sinagoga di venerdì è la prima prova per la neoeletta coalizione governativa di estrema destra di Netanyahu, la cui campagna elettorale si è basata sulla promessa di rendere Israele più sicuro dopo la serie di attacchi palestinesi con coltelli e pistole la scorsa primavera. Elementi del nuovo governo hanno anche promesso di annettere la Cisgiordania ed estendere il controllo ebraico sul complesso sacro del Monte del Tempio [la Spianata delle Moschee per i musulmani, ndt.] a Gerusalemme, spesso un focolaio di violenze.

Lunedì Netanyahu riceverà Antony Blinken, Segretario di Stato USA, una visita a Gerusalemme pianificata da tempo, ma che ora sarà dominata dagli sforzi per disinnescare l’infiammabile situazione di sicurezza.

Ci si aspetta che i colloqui tratteranno anche dell’Iran, della posizione di Israele sulla guerra in Ucraina, dello stallo del processo di pace con i palestinesi e delle preoccupazioni internazionali per i piani del governo israeliano per minare i poteri della Corte Suprema del Paese.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Dopo anni di inerzia diplomatica, cosa può offrire l’ICJ[ Corte Internazionale di Giustizia ndt] ai palestinesi?

Hugh Lovatt

1 gennaio 2023 – +972 Magazine

Il voto delle Nazioni Unite favorevole alla richiesta di una sentenza sull’occupazione è un atto d’accusa sull’incapacità di portare Israele di fronte alla giustizia e comporta sia rischi che opportunità.

Questo è stato un anno difficile e sanguinoso per i palestinesi, che hanno sopportato i dodici mesi più letali in Cisgiordania dal 2005 insieme ad una continua emarginazione sulla scena internazionale. L’Assemblea generale delle Nazioni Unite, tuttavia, ha offerto loro una vittoria dell’ultimo minuto, avviando la richiesta di una sentenza ad alto rischio da parte della Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) sulla legalità della prolungata occupazione israeliana dei territori palestinesi. Il voto del 30 dicembre da parte degli Stati membri ha anche chiesto alla Corte di delineare le responsabilità dei Paesi nel porre fine all’occupazione che Israele ha rafforzato profondamente dal 1967. La risposta della Corte potrebbe arrivare già nell’estate del 2023.

Funzionari palestinesi ed esperti di diritto internazionale stavano contemplando un simile passo da diversi anni. Ma la decisione di procedere sembra in gran parte dettata dalla crescente frustrazione del presidente Mahmoud Abbas per l’attuale inerzia diplomatica, il disimpegno degli Stati Uniti e l’elezione di un governo di estrema destra in Israele. Sebbene il parere consultivo non vincolante rischi di non essere all’altezza delle aspettative palestinesi, potrebbe comunque rappresentare un’importante pietra miliare negli sforzi per chiedere conto a Israele ai sensi del diritto internazionale della sua pluridecennale violazione dei diritti dei palestinesi.

L’ICJ è il principale organo giudiziario delle Nazioni Unite, con sede a L’Aja. Istituito nel 1945, è composto da 15 giudici eletti dall’Assemblea Generale e dal Consiglio di Sicurezza. Il tribunale decide sulle controversie tra Stati e può anche fornire pareri consultivi su questioni di diritto internazionale.

Ciò a differenza della Corte Penale Internazionale (ICC), anch’essa con sede a L’Aja, che processa individui per crimini internazionali come genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità ai sensi dello Statuto di Roma. Dal marzo 2021 l’ICC ha portato avanti le proprie lunghe indagini su possibili crimini di guerra commessi nei territori occupati e si avvarrà senza dubbio delle deliberazioni dell’ICJ.

Questa non è la prima volta che l’ICJ approfondisce il conflitto israelo-palestinese. In un parere storico del 2004 la Corte ha ritenuto che la costruzione del muro di separazione israeliano in Cisgiordania e il relativo quadro giuridico avessero de facto annesso il territorio occupato ostacolando il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione. Di conseguenza, i giudici dell’ICJ hanno chiesto a Israele di smantellare la sua barriera e di fornire un risarcimento ai palestinesi come stabilito dal Registro dei danni delle Nazioni Unite (UNRoD). Israele ha rifiutato di conformarsi alla sentenza e ha persino attaccato l’ultimo richiamo come “arma di distruzione di massa palestinese nella loro guerra santa di demonizzazione di Israele”.

L’ipocrisia dell’Occidente

Gli Stati Uniti e Paesi europei come il Regno Unito e la Germania, che hanno votato contro la decisione, sostengono che sarebbe inappropriato per l’ICJ inserirsi in una disputa bilaterale su una questione così controversa senza il consenso di Israele. Questo è diventato un argomento standard che è stato utilizzato anche nel caso del parere espresso nel 2004, e di nuovo nel 2019 in un caso diverso, quando l’Assemblea Generale ha chiesto un parere della Corte Internazionale di Giustizia sulle conseguenze legali del controllo continuato del Regno Unito sulle isole Chagos nell’Oceano Indiano (che il Regno Unito ha separato dalle Mauritius prima di concedere a queste ultime l’indipendenza nel 1968). I giudici della Corte hanno regolarmente e fermamente respinto tali argomentazioni politiche e ci si può aspettare che lo facciano ancora.

Gli oppositori affermano inoltre che i deferimenti all’ICJ (e all’ICC) danneggiano la prospettiva di rilanciare i negoziati israelo-palestinesi e raggiungere una soluzione a due Stati. Tuttavia, la prima sentenza dell’ICJ nel 2004 non ha impedito i successivi colloqui, anche in vista della conferenza di Annapolis del 2007, durante la quale sono stati compiuti progressi sulle questioni relative allo status finale. Da allora, le prospettive di un significativo processo di pace sono svanite a causa dell’erosione della soluzione dei due Stati, in gran parte a causa dell’incontrollata attività di colonizzazione ed espropriazione dei palestinesi da parte di Israele. Sotto il nuovo governo israeliano queste dinamiche negative sono destinate ad accelerare.

Sullo sfondo della guerra della Russia contro l’Ucraina l’opposizione occidentale al ricorso palestinese al diritto internazionale suona ancora più in malafede. L’Europa in particolare ha fatto riferimento con entusiasmo alle norme internazionali nel respingere l’invasione e l’annessione del territorio ucraino da parte della Russia. Ciò include sanzioni di vasta portata insieme a una proposta dell’UE riguardo l’istituzione di un tribunale speciale per perseguire i crimini russi in Ucraina. Gli Stati occidentali hanno inoltre sostenuto i procedimenti dell’Ucraina contro la Russia.

Come voterà questa volta l’ICJ?

Ovviamente non c’è modo di sapere con certezza cosa deciderà l’ICJ. Ma la sua passata giurisprudenza in casi simili allude sia a rischi che a opportunità per i palestinesi.

Prendiamo, ad esempio, l’attuale elenco dei giudici dell’ICJ, due dei quali si sono opposti in passato ad interventi giudiziari. Durante l’udienza relativa alle Chagos la giudice statunitense Joan Donoghue ha sostenuto che l’ICJ avrebbe dovuto astenersi perché il Regno Unito non aveva acconsentito a una “soluzione giudiziaria” della sua controversia bilaterale con le Mauritius. Sebbene la sua all’epoca fosse una visione isolata, nel frattempo Denoghue è diventata la presidente della Corte.

Allo stesso modo, nel 2004 il giudice francese Ronny Abraham, nella sua precedente veste di rappresentante legale della Francia, ha esortato l’ICJ ad astenersi dall’udienza sul muro perché non sarebbe stata “propizia” alla ripresa del dialogo. Anche se queste opinioni potrebbero non influenzare la maggioranza dei giudici, Israele si avvarrà senza dubbio di qualsiasi dissenso di questo tipo per sfidare l’autorevolezza di un futuro giudizio.

Passando alla sostanza, la corte potrebbe estendere la sua precedente conclusione riguardo un’annessione de facto per comprendere, come minimo, tutta l’Area C [sotto esclusivo controllo israeliano, ndt.] (quasi il 60% della Cisgiordania) data la significativa estensione delle infrastrutture coloniali e l’esistenza di una legislazione nazionale israeliana sull’area dal 2004. Tuttavia, è meno chiaro se la Corte si spingerebbe fino a descrivere ciò come un’annessione de jure in assenza di una proclamazione ufficiale della sovranità israeliana, o una fine formale dell’amministrazione militare israeliana del territorio.

Un’incognita ancora più grande è se l’ICJ sceglie di ribadire le conclusioni, in numero crescente, da parte delle principali organizzazioni per i diritti umani e degli esperti di diritto internazionale, incluso il relatore speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, secondo cui Israele ha imposto un sistema di apartheid contro i palestinesi. La scelta di non farlo darebbe senza dubbio energia alla campagna di Israele per diffamare, come antisemiti, coloro che usano tale terminologia.

Eppure il tribunale potrebbe ancora togliere il terreno da sotto i piedi dell’occupazione da parte di Israele, stabilendo che il suo persistente controllo non è né temporaneo né giustificato da necessità militari, ed è quindi diventato illegale e richiedendogli di porre immediatamente fine all’occupazione. Ciò si allineerebbe a giudizi espressi in altri casi, come le sue conclusioni del 1971 secondo cui la presenza del Sudafrica in Namibia, dove aveva replicato un sistema di apartheid, era illegale e doveva cessare immediatamente. Allo stesso modo nel 2019, quando invitò il Regno Unito a porre fine alla sua “amministrazione illegale” delle Chagos e restituire il territorio alle Mauritius.

Richiamare Israele a rispondere delle sue responsabilità

Tuttavia è soprattutto sulla questione delle responsabilità dello Stato che i palestinesi potrebbero rimanere delusi. La Corte ha storicamente evitato di approfondire troppo la questione, preferendo lasciarla all’Assemblea Generale e al Consiglio di Sicurezza. È quindi altamente improbabile che aderisca alla richiesta di Abbas di un “regolamento delle Nazioni Unite per la protezione internazionale del popolo palestinese”.

Invece, come ha fatto nel 2004, la Corte potrebbe limitarsi a un appello generale agli Stati membri affinché collaborino con le Nazioni Unite per porre fine alla situazione illegale creata da Israele. In tale prospettiva ci si può anche aspettare che riaffermi il dovere degli Stati terzi di non riconoscere o sostenere tali violazioni del diritto internazionale. Questo principio giuridico è sancito dalla risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ed è una pietra miliare di lunga data della politica dell’UE di differenziazione tra Israele e i suoi insediamenti.

L’ICJ non può costringere Israele a porre fine alla sua occupazione attraverso il suo parere consultivo. L’applicazione della legge internazionale in ultima analisi spetta ai membri delle Nazioni Unite, in particolare quelli con un seggio nel Consiglio di Sicurezza. Ma invece di dare ascolto alla prima sentenza della Corte gli Stati Uniti e gli Stati europei hanno cercato di proteggere il progetto di colonizzazione da parte di Israele da qualsiasi meccanismo di responsabilità internazionale – non solo l’ICC e l’ICJ, ma anche il database delle imprese con legami con gli insediamenti coloniali del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite. Il ritorno della Palestina all’ICJ, il tribunale di ultima istanza, circa 20 anni dopo, è di per sé un atto d’accusa contro il continuo fallimento dell’Occidente nel chiedere conto a Israele del suo comportamento illegale.

Sebbene oggi la volontà internazionale sia gravemente carente, i precedenti storici possono offrire un po’ di conforto ai palestinesi riguardo gli sviluppi futuri. La sentenza dell’ICJ del 1971 ha inferto un duro colpo alle rivendicazioni illegali del Sud Africa sulla Namibia e, sebbene ci siano voluti quasi altri due decenni, alla fine ha segnato la fine del regime di apartheid attraverso il quale [il Sud Africa] ha soggiogato il territorio e la sua gente. E anche con l’equilibrio del potere internazionale saldamente a suo favore il rifiuto da parte del Regno Unito della sentenza della Corte del 2019 si è rivelato sempre più insostenibile. Londra alla fine, anche se a malincuore, è stata costretta ad aprire delle trattative con le Mauritius per la consegna delle Isole Chagos. Con il tempo il peso crescente della riprovazione giuridica internazionale potrebbe rivelarsi altrettanto inevitabile per Israele.

Hugh Lovatt è un consulente politico del programma Medio Oriente e Nord Africa presso il Consiglio europeo per le relazioni estere (ECFR).

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il presidente palestinese Abbas si oppone alla riforma dell’OLP e fa il gioco di Israele

Amira Hass

10 novembre 2022 – Haaretz

Mahmoud Abbas ha istituito un nuovo consiglio per rafforzare la presa sul sistema giudiziario e continua la sua tradizionale linea oppressiva rimanendo fedele agli accordi di Oslo

Due provvedimenti separati e apparentemente non correlati compiuti di recente dall’Autorità Nazionale Palestinese e dal suo leader, Mahmoud Abbas sono indicativi della natura sempre più autoritaria e autocratica del regime nelle enclaves palestinesi in Cisgiordania.

Un provvedimento ha a che fare con il sistema giudiziario palestinese e l’altro con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina: entrambi mostrano quanto l’Autorità Nazionale Palestinese rimanga fedele al ruolo essenzialmente assegnatole dagli Accordi di Oslo: mantenere uno status quo fluido e dinamico a danno dei palestinesi e al servizio degli interessi di sicurezza israeliani.

La prima decisione è il decreto presidenziale firmato da Abbas e diffuso venerdì 28 ottobre che annuncia l’istituzione di un “Consiglio supremo degli organi e delle agenzie giudiziarie”. A capo di questo consiglio, il cui scopo dichiarato è discutere i disegni di legge relativi al sistema giudiziario, risolvere questioni amministrative correlate e sovrintendere al sistema giudiziario, non sarà altro che il presidente dell’ANP Abbas, che è anche presidente dell’OLP e di Fatah.

Gli altri membri sono i presidenti e i capi della Corte costituzionale, della Corte Suprema, della Corte di Cassazione, dell’Alta Corte per le questioni amministrative, dei tribunali delle forze di sicurezza e del tribunale della Sharia. Del consiglio faranno parte anche il Ministro della Giustizia, il procuratore generale e il consulente legale del presidente. È previsto che si incontri una volta al mese.

Esperti legali palestinesi e organizzazioni per i diritti umani hanno annunciato la loro ferma opposizione a questo nuovo consiglio supremo, affermando che contraddice il principio di separazione dei poteri – legislativo, giudiziario ed esecutivo – e viola diverse sezioni della Costituzione palestinese e le convenzioni internazionali di cui l’ANP è firmataria.

In diverse interviste ai media esperti e organizzazioni affermano che questa è l’ultima di una serie di decisioni che hanno trasferito l’autorità legislativa al ramo esecutivo e al suo capo, violando anche l’indipendenza del sistema giudiziario e subordinandolo ad Abbas e ai suoi compari.

Poco dopo la vittoria di Hamas alle elezioni palestinesi del 2006, Abbas e Fatah hanno impedito al Consiglio legislativo palestinese di riunirsi regolarmente e svolgere il proprio lavoro. In un primo momento hanno attribuito la colpa agli arresti israeliani di numerosi membri eletti di Hamas, nonché all’assenza del quorum necessario per promulgare la legislazione.

Dopo la breve guerra civile scoppiata a Gaza nel giugno 2007 tra Hamas e Fatah e la divisione dell’autogoverno palestinese tra le due regioni [Gaza e Cisgiordania, ndt.] e le due organizzazioni, il parlamento palestinese ha ufficialmente cessato di funzionare. Tuttavia i rappresentanti di Hamas a Gaza hanno continuato e continuano a riunirsi come consiglio legislativo e approvare leggi che si applicano solo a Gaza.

In Cisgiordania, invece, la “legislazione” si realizza tramite decreti presidenziali. Negli ultimi 15 anni Abbas ha firmato circa 350 decreti presidenziali, molto più degli 80 atti legislativi che sono stati discussi e promulgati dal primo consiglio legislativo durante il suo decennio di esistenza nel 1996-2006.

Abbas si basa su un’interpretazione molto ampia dell’articolo 43 della Costituzione palestinese emendata del 2003 che conferisce a un decreto presidenziale il potere di legge solo “in casi di necessità che non possono essere ritardati e quando il Consiglio legislativo non è in sessione”.

Fino al 2018, alcuni parlamentari in Cisgiordania hanno continuato a incontrarsi in modo non ufficiale e hanno tentato di essere coinvolti nelle discussioni sui “disegni di legge” in discussione al governo e di rappresentare l’opinione pubblica davanti alle autorità. Ma quell’anno, su ordine di Abbas, la Corte costituzionale ha stabilito che il Consiglio legislativo dovesse essere sciolto, nonostante la Costituzione preveda che il suo mandato termini solo quando si terranno nuove elezioni.

Secondo la Costituzione in caso di morte del presidente dell’ANP questi deve essere sostituito dal presidente del parlamento. Questa posizione era ricoperta dal rappresentante di Hamas Aziz Dweik di Hebron. L’opinione generale era che, sciogliendo il parlamento, Abbas e i suoi alleati stessero cercando di contrastare preventivamente un simile scenario. Anche se la Corte Costituzionale aveva ordinato all’epoca di tenere nuove elezioni entro sei mesi, Abbas e i suoi fedeli sono riusciti a rinviarla ripetutamente.

Nel frattempo, durante questo periodo Abbas ha anche aumentato il suo coinvolgimento nel processo di nomine giudiziarie, cercando di garantire la lealtà dei giudici a sé e a Fatah. Inoltre il ramo esecutivo, da lui controllato, spesso non si attiene alle sentenze indipendenti dei giudici, come gli ordini di rilasciare le persone detenute senza processo o gli ordini di riprendere il pagamento degli stipendi e delle varie indennità ai rivali politici di Abbas.

Il Ministro della Giustizia palestinese Mohammed al-Shalaldeh ha promesso che il nuovo Consiglio Supremo del sistema giudiziario non intende violare l’indipendenza del sistema. Ma l’esperienza dell’Egitto – che evidentemente ha ispirato gli autori del decreto presidenziale palestinese – indica che è vero il contrario.

Un consiglio supremo che sovrintende al sistema giudiziario egiziano è stato istituito dal presidente Gamal Abdel Nasser nel 1969. Nel primo decennio di questo secolo, grazie agli sforzi delle organizzazioni per i diritti umani e dei giuristi, il suo potere è stato ridimensionato, ma l’attuale presidente egiziano Abdel -Fattah al-Sissi gli ha conferito un’autorità più ampia e invasiva rispetto al passato.

In una conversazione con Haaretz, avvocati indipendenti hanno ipotizzato che uno dei motivi per l’istituzione di questo consiglio è contrastare la possibile opposizione legale – tramite la Corte costituzionale – all’incoronazione di Hussein al-Sheikh come prossimo presidente dell’ANP. Al-Sheikh, figlio di una famiglia di rifugiati che ha acquisito ricchezza nel corso degli anni come proprietaria di varie imprese e società a Ramallah, è uno dei funzionari di Fatah più vicini ad Abbas – e anche a Israele.

Per quasi 15 anni è stato a capo del Ministero degli affari civili palestinese, che è subordinato e coordinato alla politica del COGAT, l’organismo che coordina le attività di governo del ministero della Difesa israeliano nei territori, e ha svolto il ruolo di collegamento con i funzionari israeliani. A maggio, Abbas lo ha nominato segretario generale del Comitato Esecutivo dell’OLP al posto del defunto Saeb Erekat; da questa posizione dirige anche il dipartimento dei negoziati dell’OLP. Molti palestinesi ritengono che la sua nomina a prossimo presidente dell’ANP sarebbe molto gradita a Israele.

La seconda misura adottata di recente dall’Autorità Palestinese è stata quella di impedire che si tenesse a Ramallah la Conferenza Popolare Palestinese – 14 milioni (chiamata così per il numero di palestinesi nel mondo). L’idea alla base della conferenza era quella di riformare l’OLP, inizialmente tenendo un’elezione pan-palestinese in cui i palestinesi di tutta la diaspora e in tutto il territorio tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo potessero votare per il Consiglio nazionale palestinese, il parlamento dell’OLP. Il convegno si sarebbe dovuto tenere il 5 novembre presso la Cultural Hall di Ramallah, in Giordania e in diverse città in Europa e Sud America.

Gli organizzatori affermano che l’OLP, l’organizzazione che dovrebbe rappresentare i palestinesi in tutto il mondo ed essere la fonte della autorità politica e identità nazionale, è stata essenzialmente inghiottita dall’Autorità Nazionale Palestinese, dalla presidenza di Abbas e dal movimento Fatah. Il suo finanziamento dipende dall’Autorità Palestinese, le sue istituzioni sono state svuotate e Abbas controlla le date dei suoi incontri e la nomina dei suoi rappresentanti.

Gli organizzatori della Conferenza dei 14 milioni sono contrari agli Accordi di Oslo (“una seconda Nakba”, la chiamano alcuni) e sono del parere che solo un’OLP ricostruita e democratica “che non operi come subappaltatore per Israele” possa e debba sviluppare una strategia per combattere l’apartheid e il colonialismo israeliani e quindi servire come fonte di speranza per il popolo [palestinese]. Gli organizzatori sono ancora oggi associati ai vari gruppi palestinesi che compongono l’OLP – da Fatah alle organizzazioni di sinistra – o lo sono stati in passato, mentre alcuni sono indipendenti.

Ma all’inizio della scorsa settimana gli organizzatori della conferenza sono stati sorpresi quando sono stati informati dal Comune di Ramallah che le agenzie di sicurezza palestinesi avevano proibito alla conferenza di procedere. Hanno anche vietato al comune di El Bireh di assegnare una sala agli organizzatori allo scopo di tenere una conferenza stampa.

Nonostante gli ostacoli, gli organizzatori hanno deciso che la conferenza si sarebbe svolta come previsto tramite Zoom e Facebook e che i rappresentanti a Ramallah avrebbero parlato dagli uffici della Coalizione popolare palestinese, un’organizzazione relativamente nuova di attivisti politici di cui molti di lunga data. Sabato mattina le forze di sicurezza [dell’ANP], alcune in abiti civili, sono state dispiegate in gran numero accanto all’edificio dove sono ospitati gli uffici della conferenza, hanno avvertito le persone di non entrare e hanno arrestato l’attivista veterano Omar Assaf e lo hanno trattenuto per diverse ore.

Tuttavia vari relatori hanno potuto pronunciare i loro discorsi tramite Facebook, e hanno scelto di evidenziare diversi punti: aspre critiche all’Autorità Nazionale Palestinese e al coordinamento della sicurezza con Israele; un appello all’azione sulla base della Carta nazionale palestinese del 1968, di cui sono state annullate alcune parti negli anni ’90 a seguito delle pressioni israeliane e statunitensi e la richiesta di adempimento del diritto al ritorno. Ciò che tutti avevano in comune era l’enfasi posta sull’importanza delle elezioni generali democratiche per creare una leadership eletta e rappresentativa per l’intero popolo palestinese: nella Palestina storica su entrambi i lati della Linea Verde e in tutta la diaspora.

L’idea di indire un’elezione diretta per un parlamento panpalestinese nel quadro dell’OLP è stata suggerita per oltre un decennio da attivisti palestinesi in varie organizzazioni in tutto il mondo; gli organizzatori della conferenza hanno sottolineato di aver integrato diverse proposte simili che l’OLP sotto il controllo di Abbas ha costantemente ignorato.

A ulteriore riprova di quanto Abbas e i suoi seguaci siano contrari all’iniziativa di rianimare l’OLP, martedì mattina le forze di sicurezza palestinesi hanno fatto irruzione negli uffici di Ramallah del Bisan Center for Research and Development (una delle ONG che Israele ha dichiarato organizzazione terroristica) e hanno interrotto la conferenza stampa che stavano tenendo gli organizzatori della conferenza.

In questa fase il ripristino dell’OLP come fonte di autorità e potere decisionale sembra difficilmente realizzabile. Non è inoltre chiaro quanto sostegno riceverà l’iniziativa da i giovani che non hanno mai conosciuto l’OLP come quell’organizzazione un tempo percepita dai profughi palestinesi come casa politica e nazionale e motivo di orgoglio. Inoltre è ancora troppo presto per capire come e se Hamas e la Jihad islamica saranno incluse nel processo.

Tuttavia i giovani potrebbero essere entusiasti della prospettiva di indire elezioni generali per un’organizzazione panpalestinese che trascenda i confini di Gaza e della Cisgiordania. Gli organizzatori affermano apertamente che l’attuale leadership non eletta e antidemocratica non è un vero organo rappresentativo ed è incapace di affrontare i pericoli posti dalla politica israeliana.

Le azioni intraprese per sopprimere questa iniziativa tradiscono il timore dell’attuale leadership impopolare di qualsiasi discorso sulle elezioni, per non parlare del loro svolgimento, e sottolineano la riluttanza ad ammettere che gli accordi di Oslo hanno solo peggiorato la situazione dei palestinesi. Le sue azioni mostrano anche quanto questa leadership sia decisa a mantenere i vantaggi materiali e lo status che ha acquisito per sé e per i suoi circoli interni.

L’iniziativa per ricostruire l’OLP aspira a superare la spaccatura nella geografia, nella società e nella politica palestinese. Questa divisione è anche uno dei risultati politici più importanti della politica israeliana degli ultimi 30 anni. Le azioni oppressive dell’Autorità Nazionale Palestinese stanno aiutando direttamente a preservare questo risultato a favore di Israele.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Nel discorso di Lapid all’ONU l’unica notizia è che non c’è niente di nuovo

Editoriale

23 settembre 2022 – Haaretz

Il discorso del primo ministro Yair Lapid giovedì all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite non contiene nessuna novità. La sua affermazione più impegnativa è stata che un “accordo con i palestinesi basato sui due Stati per due popoli è la cosa giusta per la sicurezza di Israele, per la sua economia e per il futuro dei nostri figli.” Ciò è vero, e importante da ricordare. Ma non è la prima volta che è stato detto dal podio dell’ONU. Anche l’ex-primo ministro Benjamin Netanyahu l’ha detto, benché egli non abbia mosso un dito per raggiungere tale risultato.

Lapid è il primo ministro ad interim di un Paese di destra, che parla nel mezzo della quinta campagna elettorale in tre anni, nel contesto di una grave crisi politica e l’ascesa del kahanismo [suprematismo ebraico ispirato al pensiero del rabbino Meir Kahane, ndt.]. Di conseguenza non c’era alcuna ragione per aspettarsi niente di più che generiche dichiarazioni di intenti. Tuttavia, persino nelle circostanze che verosimilmente non gli hanno lasciato la possibilità di accompagnare le sue parole con un appello per avviare negoziati diplomatici, vale la pena soffermarsi sul fatto che il suo discorso non era rivolto a nessuno in particolare. Chi si aspettava di sentire Lapid tendere la mano al presidente palestinese Mahmoud Abbas è rimasto deluso.

Deponete le vostre armi e non ci saranno limiti,” ha affermato, come se l’Autorità Nazionale Palestinese non avesse mai abbandonato la lotta armata. “Deponete le armi, lasciate che i nostri figli che sono prigionieri – Hadar e Oron [due soldati israeliani uccisi durante l’operazione militare contro Gaza del 2014, ndt.], che la loro memoria sia benedetta; Avera e Hisham [due cittadini israeliani detenuti da Hamas a Gaza, ndt.], che sono ancora vivi – tornino a casa e costruiremo la vostra economia insieme. Possiamo costruire insieme il vostro futuro, sia a Gaza che in Cisgiordania.” Chiunque non sia esperto del conflitto potrebbe aver concluso da questi riferimenti che il conflitto sia incentrato solo sulla Striscia di Gaza – che non ci sia nessuna Autorità Nazionale Palestinese, che non ci sia nessun coordinamento per la sicurezza con essa e che i rappresentanti del popolo palestinese siano Hamas e la Jihad islamica.

Lapid non ha offerto qualcosa di diverso da Netanyahu neppure riguardo alla minaccia iraniana. “L’unico modo per evitare che l’Iran abbia un’arma nucleare è mettere sul tavolo una credibile minaccia militare,” ha affermato. “E dopo, solo dopo, negoziare un accordo più lungo e più forte con loro.” Oltretutto, ha aggiunto, “deve essere messo in chiaro all’Iran che, se prosegue con il suo programma nucleare, il mondo non risponderà con le parole, ma con la forza militare.”

Il primo ministro in alternanza [con Lapid, ndt.] Naftali Bennett ha rotto il suo lungo silenzio mercoledì per attaccare la presunta intenzione di Lapid di annunciare il proprio appoggio a portare avanti la soluzione a due Stati. Ma Bennett può stare tranquillo: Lapid non ha fatto niente per minacciare l’impegno del cosiddetto governo del cambiamento a non cambiare assolutamente niente.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Diritto al ritorno: la Nakba torna nell’agenda palestinese

Ramzy Baroud

23 maggio 2022 – Middle East Monitor

La Nakba è tornata all’ordine del giorno nei programmi palestinesi.

Per circa trent’anni ai palestinesi è stato detto che la Nakba – o Catastrofe – apparteneva al passato. La vera pace richiede compromessi e sacrifici: perciò il peccato originale che ha portato alla distruzione della loro patria storica doveva essere integralmente rimosso da qualunque discorso politico ‘pragmatico’. Erano esortati ad andare avanti.

Le conseguenze di questo cambiamento nella narrazione sono state molto gravi. Disconoscere la Nakba, l’evento più importante che ha plasmato la moderna storia della Palestina, ha comportato più della divisione politica tra i cosiddetti radicali e i presunti pragmatici amanti della pace, come Mahmoud Abbas e la sua Autorità Nazionale Palestinese. Ha anche portato alla divisione delle comunità palestinesi in Palestina e in tutto il mondo relativamente alle impostazioni politiche, ideologiche e di classe.

Dopo la firma degli Accordi di Oslo nel 1993 divenne chiaro che la lotta dei palestinesi per la libertà si stava totalmente ridefinendo e ridelineando. Non si trattava più di una lotta palestinese contro il sionismo e il colonialismo di insediamento israeliano risalente all’inizio del XX secolo, ma di un ‘conflitto’ tra due parti uguali, con uguali legittime rivendicazioni territoriali, che può essere risolta solo attraverso ‘dolorose concessioni’.

La prima di tali concessioni fu l’esclusione della questione centrale del Diritto al Ritorno per i rifugiati palestinesi espulsi dai loro villaggi e città nel 1947-48. Quella Nakba palestinese spianò la strada all’ ‘indipendenza’ di Israele, che venne dichiarata sulle macerie e il fumo di circa 500 villaggi e città palestinesi distrutti e bruciati.

All’inizio del ‘processo di pace’ ad Israele fu chiesto di onorare il diritto al ritorno dei palestinesi, anche se simbolicamente. Israele rifiutò. I palestinesi furono quindi spinti a rimandare quella questione fondamentale a ‘negoziati sullo status finale’, che non si tennero mai. Ciò significò che milioni di rifugiati palestinesi – molti dei quali vivono tuttora in campi profughi di Libano, Siria e Giordania, come anche nei territori palestinesi occupati – furono totalmente esclusi dal dibattito politico.

Non fosse stato per le costanti attività sociali e culturali degli stessi rifugiati, che insistevano sui loro diritti e insegnavano ai loro figli a fare lo stesso, termini quali Nakba e Diritto al Ritorno sarebbero stati del tutto cancellati dal lessico politico palestinese.

Mentre alcuni palestinesi rifiutarono la marginalizzazione dei rifugiati, sostenendo che il problema fosse politico e non meramente umanitario, altri furono disponibili a procedere come se questo diritto fosse irrilevante. Diversi dirigenti palestinesi legati al ‘processo di pace’ ora defunto affermarono esplicitamente che il Diritto al Ritorno non era più una priorità palestinese. Ma nessuno neppure si avvicinò al modo in cui lo stesso presidente dell’ANP Abbas configurò la posizione palestinese in un’intervista del 2012 al Canale 2 israeliano.

La Palestina oggi per me è quella dei confini del 1967, con Gerusalemme est come sua capitale. Così è ora e per sempre…Questa è per me la Palestina. Io sono un rifugiato, ma vivo a Ramallah”, disse.

Abbas aveva completamente torto, ovviamente. Che lui volesse esercitare il proprio diritto al ritorno o no, quel diritto, in base alla Risoluzione 194 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, è semplicemente “inalienabile”, il che significa che né Israele, né gli stessi palestinesi possono negarlo o rinunciarvi.

Tralasciando la mancanza di integrità intellettuale nel separare la tragica realtà del presente dalla principale causa che ne sta alla radice, Abbas mancò anche di intelligenza politica. Con il suo ‘processo di pace’ in difficoltà e in assenza di qualunque concreta soluzione politica, semplicemente decise di abbandonare milioni di rifugiati negando loro la speranza di vedersi restituire le proprie case, la propria terra o la propria dignità.

Da allora Israele, insieme agli Stati Uniti, ha combattuto i palestinesi su due diversi fronti: primo, negando loro ogni prospettiva politica e, secondo, tentando di annullare i loro diritti storicamente sanciti, soprattutto il Diritto al Ritorno. La guerra di Washington contro l’agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi, UNRWA, rientra nella seconda categoria in quanto lo scopo era, e resta, proprio la distruzione delle infrastrutture giuridiche e umanitarie che consentono ai rifugiati palestinesi di considerarsi un insieme di persone che anelano al rimpatrio, alla riparazione e alla giustizia.

Eppure tutti questi tentativi continuano a fallire. Molto più importante delle personali concessioni di Abbas ad Israele, del bilancio dell’UNRWA in costante calo o dell’insuccesso della comunità internazionale nel ripristinare i diritti dei palestinesi, è il fatto che il popolo palestinese ancora una volta si stia riunificando in occasione dell’anniversario della Nakba, ribadendo così il Diritto al Ritorno per i sette milioni di rifugiati in Palestina e nella diaspora (shattat).

Per ironia della sorte, è stato Israele a riunificare inconsapevolmente i palestinesi intorno alla Nakba. Rifiutando di concedere neanche un metro di Palestina, per non parlare di concedere ai palestinesi di rivendicare alcuna vittoria, un proprio Stato – demilitarizzato o no – o di permettere ad un singolo rifugiato di tornare a casa, ha costretto i palestinesi ad abbandonare Oslo e le sue tante illusioni. L’argomentazione un tempo usuale che il Diritto al Ritorno fosse semplicemente ‘inapplicabile’ non conta più, né per la gente comune di Palestina, né per i suoi intellettuali o le sue elite politiche.

Secondo la logica politica, se qualcosa è impossibile, deve esserci un’alternativa praticabile. Tuttavia, mentre la realtà palestinese va peggiorando sotto il sempre più pesante sistema di colonialismo di insediamento e di apartheid israeliano, ora i palestinesi comprendono di non avere una possibile alternativa se non la loro unità e resistenza e il ritorno ai principi fondamentali della loro lotta. L’Intifada dell’Unità dello scorso maggio è stata l’apice di questa nuova consapevolezza. Inoltre le manifestazioni di commemorazione dell’anniversario della Nakba e gli eventi in tutta la Palestina e nel mondo il 15 maggio hanno ulteriormente contribuito a definire la nuova narrazione secondo cui la Nakba non è più un fatto simbolico e il Diritto al Ritorno è la richiesta collettiva e fondamentale della maggioranza dei palestinesi.

Oggi Israele è uno Stato di apartheid nel vero senso del termine. L’apartheid israeliano, come ogni simile sistema di separazione razziale, mira a proteggere i frutti di quasi 74 anni di folle colonialismo, furto di terra e dominio militare. I palestinesi, ad Haifa, Gaza o Gerusalemme, ora lo comprendono appieno e stanno tornando a lottare sempre più come un’unica nazione.

E poiché la Nakba e la successiva pulizia etnica dei rifugiati palestinesi sono il denominatore comune di tutte le sofferenze dei palestinesi, il termine e le sue fondamenta tornano ad essere al centro di ogni significativa discussione sulla Palestina, come avrebbe sempre dovuto essere.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Per i palestinesi in Cisgiordania, [gli attacchi armati]sono eventi eccezionali, non un'”ondata di terrorismo”

Amira Hass

2 aprile 2022 Haaretz

Sebbene l’opinione pubblica palestinese comprenda le motivazioni degli aggressori, la stragrande maggioranza non sceglie questa strada, che non favorisce la loro causa, e ha delle riserve sul prendere di mira i civili. Ma condannare? Che prima gli israeliani condannino la violenza che esercitano contro i palestinesi

I tre atti di omicidio-suicidio perpetrati da quattro palestinesi – da entrambi i lati della Linea Verde – in meno di due settimane evidenziano solo l’assenza di un organo politico dirigente palestinese riconosciuto, con un’unica strategia chiara e unificante. Gli attacchi riflettono divisioni interne e la dolorosa consapevolezza della debolezza e dell’incapacità palestinese di agire di fronte alla potenza di Israele. D’altra parte, il fatto che così pochi scelgano questa strada, nonostante sia disponibile, indica una più ampia comprensione politica del fatto che tali attacchi non promuovono la causa palestinese.

La stragrande maggioranza sta “votando con i piedi sa che gli attacchi dei lupi solitari spinti dalla disperazione o dalla vendetta non hanno, né costituiscono in sé, un obiettivo e non porteranno a nulla. Non cambieranno l’equilibrio di potere. Il popolo palestinese in Cisgiordania lo capisce senza bisogno di direttive dall’alto, senza un discorso pubblico aperto sull’argomento e mentre le sue organizzazioni politiche, principalmente quelle dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina e dell’Autorità Palestinese, sono al loro punto più basso in termini di potere e di fiducia della gente – e sono più che mai in conflitto e in competizione tra loro.

Ogni palestinese, su entrambi i lati della linea verde, ha molte ragioni per desiderare che gli israeliani provino dolore, perché sono loro e non solo il loro governo ad essere responsabili della difficile situazione dei palestinesi. È probabile che questo fosse il desiderio dei quattro assassini suicidi, indipendentemente dal loro background, dalle circostanze familiari o dal carattere di ciascuno di loro. Gli israeliani sanno subito, poiché esiste un intero apparato che diffonde tali informazioni, quali sono gli aggressori arrestati in precedenza, dopo quale attacco sono stati distribuiti dolci [per celebrare l’attacco, ndt] e accanto alla casa di quale assalitore i giovani hanno festeggiato (con totale mancanza di rispetto per il dolore della famiglia). Ma gli israeliani, nel complesso, non sono interessati alla misura in cui Israele, e loro stessi, in quanto suoi cittadini, hanno costantemente e per molti decenni causato sofferenza ai palestinesi, come individui e come popolo.

Questo enorme divario tra conoscenza specifica [dei palestinesi, ndt] e ostinata mancanza di conoscenza [degli israeliani, ndt] è sufficiente a spiegare perché l’opinione pubblica palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza sia indifferente ai recenti attacchi da parte di individui, siano essi commessi da cittadini israeliani o da abitanti della Cisgiordania, e non obbedisca alle richieste israeliane di condannare gli omicidi. Ciò che è degno di nota non è che gli aggressori siano sfuggiti all’attenzione dello Shin Bet, ma che, nonostante la loro comprensione delle motivazioni degli assalitori, la stragrande maggioranza dei palestinesi non scelga di intraprendere questa strada.

Migliaia di palestinesi senza permesso di lavoro entrano apertamente in Israele ogni giorno attraverso molteplici varchi nel muro di separazione. Questo va avanti da anni, con la piena conoscenza dell’esercito e della polizia. Come tutti sanno, c’è una notevole quantità di armi e munizioni tra i palestinesi in Israele e in Cisgiordania. Questi due fatti avrebbero potuto portare molti altri attacchi per vendetta da parte di individui che non potevano essere scoperti in anticipo, sia cittadini palestinesi di Israele che residenti in Cisgiordania. Anche se nelle prossime settimane si verificheranno alcune imitazioni, come l’attacco con il cacciavite di giovedì, per i palestinesi il numero di questi attacchi impallidisce rispetto all’entità e alla natura sistematica dell’ingiustizia inflitta loro da Israele.

Ogni palestinese ha buone ragioni per desiderare di infrangere la falsa normalità di cui godono i cittadini ebrei, che in generale ignorano il fatto che il loro Stato agisce instancabilmente, giorno e notte, per espropriare un maggior numero di palestinesi delle loro terre e dei loro diritti storici e collettivi come popolo e società. Per raggiungere questo obiettivo, Israele mantiene un regime continuo di oppressione. Ciò include: la violenza burocratica come i divieti di costruzione, sviluppo e movimento che discriminano i palestinesi a favore degli ebrei, nel Negev, in Galilea e in Cisgiordania, la violenza disciplinare attraverso la sorveglianza, le incursioni notturne e gli arresti e violenze fisiche come torture durante gli interrogatori e la detenzione, attacchi regolari da parte dei coloni e lesioni e morte per mano principalmente di soldati e poliziotti, ma anche per mano di civili israeliani. Il fatto che gli autori siano lo Stato, le sue istituzioni e i cittadini, non rende questa violenza accettabile, legittima o giustificata agli occhi dei palestinesi, che costituiscono metà della popolazione che vive tra il fiume Giordano e il Mediterraneo.

Al contrario. La natura meticolosamente pianificata di questa violenza e il numero infinito di israeliani che vi prendono parte danno ai palestinesi un diverso senso delle proporzioni quando un’azione violenta è intrapresa dai loro compatrioti. Quella che è considerata un'”ondata di terrorismo” dagli ebrei israeliani è vista dai palestinesi come un’eccezione, composta da pochi giovani che si sono stufati dell’impotenza di tutti, compresi se stessi, scegliendo invece di uccidere e farsi uccidere. Molti più giovani diventano dipendenti da antidolorifici e altri farmaci per le stesse ragioni, oppure seguono i propri sogni ed emigrano.

In conversazioni private i palestinesi in Cisgiordania e a Gaza esprimono dolore per la morte di civili. Sembra che gli attacchi con il coltello e l’omicidio di donne e anziani, come accaduto a Be’er Sheva, siano più scioccanti degli spari contro i passanti, che includono poliziotti e soldati in uniforme. Alcune persone sottolineano il fatto che gli assalitori ad Hadera hanno sparato solo contro gli agenti della polizia di frontiera e, secondo testimoni israeliani, hanno deliberatamente evitato di sparare contro donne e bambini. In un rapporto in arabo questa distinzione tra persone in uniforme e civili è attribuita – per errore o apposta, chi può dirlo – all’aggressore [che ha agito] a Bnei Brak, anche se ha sparato indiscriminatamente contro i civili.

Per vari motivi, il dolore e le riserve personali non si traducono in condanna pubblica (tranne che da parte di Mahmoud Abbas, che è così impopolare che la sua opinione non conta). Innanzitutto perché gli attacchi di un “lupo solitario” non rappresentano la collettività in generale, che non ne è responsabile, ma anche perché l’uso delle armi ha un’aura di santità e legittimità storica difficile da scrollarsi di dosso. In secondo luogo, nasce dalla compassione istintiva per un palestinese che ha scelto di essere ucciso. Terzo, non vi è alcuna condanna pubblica da parte di Israele dopo ogni atto di violenza da parte dello stato o da parte di elementi ufficiali o privati ​​contro i palestinesi. Una condanna palestinese appare quasi collaborazionista perché non tiene conto di un equilibrio di potere così sbilanciato.

La facciata di normalità israeliana potrebbe essersi incrinata per alcuni giorni, con l’isteria e la paura alimentate dai media israeliani e da Hamas, dalla Jihad islamica e da Hezbollah, che lodano questi attacchi per il loro tornaconto politico. Anche le persone consapevoli dell’inutilità e dell’inefficacia di tali atti di disperazione e vendetta non lo affermano pubblicamente per non offendere le famiglie degli aggressori uccisi. In ogni caso l’attenzione dei palestinesi si è concentrata sugli attacchi dei coloni e dell’esercito e l’istigazione di destra contro tutti gli arabi scatenata subito dopo gli attacchi dei lupi solitari.

Nonostante il tradizionale sostegno emotivo alla resistenza armata, la stragrande maggioranza sa che per ora, anche se questo tipo lotta dovesse riprendere (e non solo da parte di singoli), e anche se dovesse essere meglio pianificata rispetto al precedente della seconda Intifada, non potrebbe  sconfiggere Israele o migliorare la sorte dei palestinesi. Proprio come la diplomazia, il movimento BDS e le sanguinose dimostrazioni a Beita e Kafr Qaddum non sono riusciti e non stanno riuscendo a bloccare la costante e quotidiana acquisizione di spazio da parte degli ebrei israeliani e l’espulsione dei palestinesi verso enclave sovraffollate che possono essere chiuse in un attimo da un pugno di soldati.

(traduzione dell’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Israele: cinque morti nella sparatoria alla periferia di Tel Aviv

Lubna Masarwa, Huthifa Fayyad

29 marzo 2022 – Middle East Eye

Dopo l’attacco di un palestinese armato proveniente dalla Cisgiordania occupata Israele alza il livello di allerta al livello più alto da maggio dello scorso anno

Martedì un uomo armato ha ucciso cinque persone nel corso di una sparatoria nella periferia della città israeliana di Tel Aviv, pochi giorni dopo che due attacchi simili hanno provocato la morte di sei persone e diversi feriti.

L’assalitore, identificato come Diya Hamarshah, 27 anni, è stato successivamente colpito a morte dalla polizia.

I media locali hanno riferito che Hamarshah era un ex prigioniero palestinese della città occupata di Yabad, in Cisgiordania, vicino a Jenin.

La sparatoria sarebbe avvenuta in due posti diversi a Bnei Brak, un’area ebraica ultra-ortodossa.

Haaretz ha riferito che l’aggressore ha colpito un giovane in un minimarket con un fucile d’assalto, prima di sparare a un’altra persona in bicicletta e poi a un’auto di passaggio.

Un’abitante di Bnei Brak, che vive vicino al luogo dell’attacco e ha preferito non dire il suo nome, ha detto a Middle East Eye che la sparatoria l’ha lasciata “spaventata e triste”.

“Mi sento in pericolo. Non posso credere che sia successo così vicino a noi. Sono sempre scioccata nel vedere incidenti come questo, ma quando è così vicino ha un effetto diverso”, afferma.

“Non credo ci sia un futuro in Israele. Le lancette dell’orologio stanno tornando indietro. Non ho nessuna speranza”.

Alle 22:00 ora locale il primo ministro israeliano Naftali Bennett ha tenuto una riunione con il ministro della Difesa Benny Gantz e altri funzionari della difesa per valutare la situazione della sicurezza.

La polizia ha annunciato di aver alzato il livello di allerta al livello più alto da maggio dello scorso anno.

Il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas si è affrettato a condannare l’attacco, affermando che “l’uccisione di civili palestinesi e israeliani porterà solo a un deterioramento della situazione in un momento in cui stiamo cercando di raggiungere una stabilizzazione alla vigilia del mese di Ramadan.”

Ha condannato l’attacco anche Ayman Odeh, capo della Lista Comune, alleanza politica palestinese in Israele.

“Oggi cinque civili sono stati uccisi – ognuno un mondo a sé stante. Si uniscono ai 51 palestinesi uccisi dall’inizio dell’anno – ognuno un mondo a sé“, ha detto Odeh.

Condanno fermamente qualsiasi danno nei confronti di civili, sia palestinesi che israeliani, insieme a qualsiasi offesa a persone innocenti”, ha aggiunto.

È tempo di porre fine alla fonte dell’odio che consiste nella maledetta occupazione e di stabilire una pace che porti sicurezza e vita normale a entrambi i popoli”

“Israele deve incolpare sé stesso

L’assalto di martedì arriva pochi giorni dopo due attacchi simili da parte di cittadini palestinesi di Israele a Beersheba e Hadera, che hanno provocato la morte di un totale di sei persone, inclusi due agenti di polizia. Tutti e tre gli assalitori sono stati uccisi.

L’assalto arriva anche un giorno prima del 46° anniversario del primo Land Day. I palestinesi celebrano la Giornata della Terra ogni 30 marzo dal 1976, quando i cittadini palestinesi di Israele protestarono contro la politica israeliana di furto della terra e discriminazione.

L’analista israeliano Meron Rapoport ha detto a MEE che gli assalti probabilmente porranno il governo israeliano in una situazione molto difficile.

“Israele è molto sconcertato di fronte a questa situazione perché non ha nessuno contro cui combattere. Non è possibile occupare città palestinesi come nel 2002 perché sono già occupate, né può “occupare” Umm al-Fahm [nel Distretto di Haifa, con 45.000 abitanti quasi tutti palestinesi, ndtr.] perché sono cittadini israeliani”, afferma Rapoport.

“Israele potrebbe essere soddisfatto che l’Occidente e gli Stati arabi abbiano cessato di interessarsi alla causa palestinese, e il vertice del Negev [incontro sul Medio Oriente organizzato da Israele il 27 marzo 2022 a Sde Boker, nel Negev, con Egitto, Emirati Arabi Uniti, Bahrain e Marocco, con lobiettivo di dare vita a unarchitettura di sicurezza regionale, ndtr.] avrebbe dovuto esserne una prova. Ma – come ha detto il professor Menachem Klein [docente della facoltà di Scienze Politiche dell’Università israeliana di Bar-Ilan, ndtr.] nel corso di una conversazione personale – la questione palestinese è stata trasformata in una mera questione interna israeliana, ed è esattamente ciò che sta accadendo ora. Israele può incolpare solo se stesso”.

La violenza sarà tuttavia sfruttata dall’estrema destra israeliana, avverte Rapoport.

Poco dopo l’attacco decine di israeliani si sono radunati sulla scena dove si potevano sentire cantare slogan anti-palestinesi, tra cui “morte agli arabi”. Alcuni chiedevano le dimissioni di Bennett.

Negli ultimi anni è cresciuta l’influenza dell’estrema destra all’interno delle forze di polizia e in generale nella politica israeliane.

Quelle forze, spiega Rapoport, ora useranno questi eventi per smantellare il governo, che è una fragile alleanza di compagini di destra, sinistra e centro, oltre che di rappresentanze palestinesi.

“L’estrema destra ha paura che Israele diventi una vera democrazia, quindi vuole rimuovere i palestinesi dalla vita politica”.

Tensioni nel Ramadan

A Yabad, citata come città natale di Hamarshah, dopo l’attacco la folla è scesa in piazza per mostrare solidarietà alla famiglia in vista delle scontate incursioni dell’esercito.

Raed Bakr, un abitante di Yabad, ha detto a MEE che dopo l’attacco è stato chiuso il posto di blocco di Dotan, situato a sud di Yabad, sulla strada che collega Jenin a Tulkarm.

“I giovani, in previsione delle incursioni israeliane, hanno bloccato l’ingresso di Yabad usando massi e bidoni della spazzatura”, dice Bakr.

“Al momento tutto è calmo ma la gente si aspetta da un momento all’altro incursioni dell’esercito”.

Aouni al-Mashni, un’importante figura politica palestinese di Betlemme, ha detto a MEE che i recenti eventi sono una prevedibile reazione alle continue aggressioni israeliane contro i palestinesi.

“La violenza usata da Israele, uno Stato razzista, contro i palestinesi in Cisgiordania e all’interno di Israele, avrà come ovvia contropartita una risposta violenta da parte dei palestinesi”, ha detto al-Mashni a MEE in un’intervista telefonica.

“L’espulsione dei residenti del Naqab [estesa zona desertica meridionale chiamata in ebraico Negev, ndtr.] la ebraificazione di Gerusalemme, gli attacchi a Sheikh Jarrah, le provocazioni alla moschea di al-Aqsa, le uccisioni quotidiane in Cisgiordania – tutto questo porta naturalmente alla contro-violenza. Questa violenza è esclusiva responsabilità di Israele”, ha aggiunto.

“E’ presto per arguire che stiamo entrando in una nuova fase, ma ci troviamo certamente in una fase caratterizzata da violenza e deterioramento”.

La tensione è aumentata nelle ultime settimane in vista del primo anniversario dell’offensiva di 11 giorni di Israele su Gaza [dal 10 al 20 maggio 2021, ndtr.].

Le violenze sono scoppiate lo scorso Ramadan quando Israele ha cercato di espellere delle famiglie palestinesi dal quartiere occupato di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est per far posto ai coloni israeliani.

Ciò ha provocato proteste diffuse in tutta la Cisgiordania occupata e nella comunità palestinese all’interno di Israele, scatenando nel maggio 2021 l’operazione militare su vasta scala di Israele sulla Striscia di Gaza assediata.

Secondo Axios [organo di informazione online israeliano in lingua inglese, ndtr.], i funzionari statunitensi si sono adoperati per mantenere la calma a Gerusalemme, in vista dell’anniversario del conflitto in cui più di 260 palestinesi sono stati uccisi a Gaza, 29 nella Cisgiordania occupata e 13 persone in Israele.

“I leader arabi sono avulsi dalla realtà

All’inizio di questa settimana, i ministri degli Esteri di Marocco, Egitto, Bahrain, Emirati Arabi Uniti (EAU) e Stati Uniti si sono incontrati in Israele per un vertice di due giorni a Naqab (Negev) per discutere di questioni regionali.

Nel frattempo, il re di Giordania Abdullah ha incontrato lunedì a Ramallah il capo dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) Mahmoud Abbas.

La serie di incontri ad alto livello tra leader regionali nelle ultime settimane è stata vista come un tentativo di allentare le tensioni in vista del mese sacro del Ramadan, che dovrebbe iniziare la prossima settimana.

“I leader palestinesi e arabi sono chiaramente avulsi dalla realtà. Sono avulsi dalla lotta del popolo palestinese e dal fatto che le relazioni israelo-palestinesi si sono deteriorate”, ha affermato al-Mashni [figura politica palestinese, attivista del partito Fatah, ndtr.], riferendosi agli incontri regionali.

Nonostante gli sforzi per ridurre le tensioni i coloni israeliani hanno continuato a prendere d’assalto la moschea di al-Aqsa. Sono previste altre marce dei coloni ad al-Aqsa il prossimo Ramadan, che si sovrapporrà alle festività ebraiche.

Israele ha occupato Gerusalemme Est, dove si trova la Moschea di al-Aqsa, durante la guerra del 1967. Ha annesso l’intera città nel 1980 con una mossa mai riconosciuta dalla comunità internazionale.

La Giordania è stata la custode dei luoghi santi musulmani di Gerusalemme dagli anni ’20. La moschea, che si trova su un altopiano alberato nella Città Vecchia, è venerata anche dagli ebrei che la chiamano Monte del Tempio.

Gli attivisti israeliani di estrema destra hanno ripetutamente spinto per una maggiore presenza ebraica nel sito e alcuni hanno sostenuto la distruzione della moschea di al-Aqsa per far posto a un Terzo Tempio.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Mahmoud Abbas si è recato a casa del ministro della Difesa israeliano per colloqui

Redazione di MEE e agenzie

29 dicembre 2021 – Middle East Eye

La riunione nella residenza di Benny Gantz a Rosh HaAyin è stata il primo incontro formale in Israele del presidente palestinese dal 2010.

Martedì [28 dicembre] il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas ha fatto una inusuale visita in Israele, che secondo gli israeliani ha riguardato la sicurezza e questioni civili, per colloqui con il ministro della Difesa Benny Gantz.

I media israeliani hanno informato che l’incontro ha avuto luogo nell’abitazione di Gantz nella città di Rosh HaAyin, che si trova nella zona centrale del Paese, e segna il primo incontro formale di Abbas in Israele dal 2010.

Il giornale israeliano Haaretz ha informato che inizialmente la riunione si sarebbe dovuta tenere la scorsa settimana, ma Abbas ha chiesto chiarimenti a Israele sulla violenza dei coloni e sul fatto che alcune Ong palestinesi sono state messe fuorilegge. Gantz ha detto ad Abbas che intende “continuare a promuovere azioni per rafforzare la fiducia sul piano economico e civile, come stabilito durante i loro ultimi incontri,” ha affermato un comunicato del ministero della Difesa israeliano.

I due uomini hanno discusso di sicurezza e questioni civili,” ha aggiunto.

Il ministero afferma che Gantz ha approvato l’iscrizione all’anagrafe come residenti in Cisgiordania di circa 6.000 persone che abitavano irregolarmente in quel territorio, occupato da Israele dalla guerra del 1967.

Il ministero sostiene che anche altre 3.500 persone di Gaza riceveranno i documenti di residenti. Inoltre il ministero ha annunciato una serie di quelle che ha descritto come “misure per costruire la fiducia”, che faciliteranno l’ingresso di centinaia di uomini d’affari palestinesi tra la Cisgiordania e Israele. Secondo Haaretz si è convenuto che a importanti funzionari dell’ANP verranno concesse decine di cosiddetti permessi per VIP.

Il giornale afferma che Israele ha anche accettato di consegnare all’ANP 100 milioni di shekel (circa 28 milioni di euro) come anticipo sulle tasse che Israele riscuote in sua vece.

Dopo la riunione Gantz ha twittato: “Abbiamo discusso della messa in pratica di misure economiche e civili e sottolineato l’importanza di approfondire la collaborazione sulla sicurezza e prevenire il terrorismo e la violenza, per il benessere sia degli israeliani che dei palestinesi.”

L’incontro di Gantz con Abbas segue una visita nella regione del consigliere per la sicurezza nazionale USA Jake Sullivan.

Il Likud e Hamas condannano l’incontro

A fine agosto Gantz aveva visitato il quartier generale dell’ANP a Ramallah, nella Cisgiordania occupata, per colloqui con Abbas, il primo incontro ufficiale a un tale livello da parecchi anni.

Ma dopo quelle riunioni il primo ministro israeliano Naftali Bennett aveva sottolineato che non c’era in corso “e che non ci sarà in futuro” alcun processo di pace con i palestinesi.

Mercoledì il ministro palestinese delle Questioni Civili Hussein al-Sheikh ha twittato: “La riunione (di martedì) ha riguardato l’importanza di creare un orizzonte politico che porti a una soluzione politica in base alle risoluzioni internazionali.”

I due hanno anche discusso “della pesante situazione sul terreno a causa delle azioni dei coloni”, così come di “molte questioni relative a sicurezza, economiche e umanitarie.”

Il partito israeliano di opposizione di destra Likud ha condannato l’ultimo incontro, affermando che “concessioni pericolose per la sicurezza di Israele sono solo questione di tempo.”

Il Likud ha aggiunto un riferimento sprezzante alla coalizione di governo di Bennett, che include Raam, un partito che rappresenta parte dei cittadini palestinesi di Israele. “Il governo israeliano-palestinese ha ridato priorità ai palestinesi e ad Abbas… ciò è pericoloso per Israele,” ha sostenuto il Likud.

Hamas, il movimento che governa la Striscia di Gaza assediata ed è rivale del Fatah di Abbas, ha affermato che la visita del presidente dell’ANP è andata contro lo “spirito nazionale del nostro popolo palestinese”.

Questo comportamento da parte della dirigenza dell’Autorità Nazionale Palestinese approfondisce le differenze politiche, complica la situazione palestinese, incoraggia quanti nella regione vogliono normalizzare i rapporti con l’occupante e indebolisce il rifiuto palestinese della normalizzazione,” ha affermato il portavoce di Hamas Hazem Qassem.

Qassem alludeva al Bahrein e agli Emirati Arabi Uniti, così come a Marocco e Sudan, che all’inizio di quest’anno hanno firmato con Israele accordi di normalizzazione mediati dagli USA durante la presidenza di Donald Trump.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Le forze armate israeliane hanno ucciso cinque palestinesi durante incursioni nei pressi di Jenin e Gerusalemme.

Shatha Hammad ,Lubna Masarwa

26 Settembre 2021,Middle East Eye

Secondo le notizie Israele trattiene i corpi di quattro dei palestinesi uccisi dopo l’operazione nel corso della quale due soldati israeliani sono stati gravemente feriti.

Domenica le forze armate israeliane hanno ucciso almeno cinque palestinesi durante raid militari nella Cisgiordania occupata vicino alla città di Jenin e a nord-ovest di Gerusalemme

Il quotidiano israeliano Haaretz ha scritto che durante i raid sono rimasti gravemente feriti due soldati israeliani un ufficiale e un soldato dell’unità Dovdovan [reparto che agisce sotto copertura in abiti civili travestendosi da palestinesi ndt].

Secondo quanto riferito, raid israeliani con scontri a fuoco hanno avuto luogo a Burqin, Qabatiya, Kafr Dan, Biddu e Beit Anan.

Tre dei cinque palestinesi, tutti di Biddu, sono stati uccisi nel villaggio di Beit Anan.

Gli uomini sono stati identificati dalle loro famiglie come Ahmad Zahran, Mahmoud Hmaidan e Zakariya Badwan.

Uno sciopero generale di un giorno è stato dichiarato domenica a Beit Anan e Biddu per protestare contro queste morti.

Le forze armate israeliane hanno anche ucciso almeno due palestinesi vicino a Jenin.

Dalle notizie raccolte si apprende che Israele trattiene quattro corpi dei palestinesi uccisi, i tre di Beit Anan e uno di quelli vicino a Jenin.

Appello per l’unità

Funzionari locali hanno detto che una delle persone uccise vicino a Jenin era un palestinese di 22 anni chiamato Osama Sobh del villaggio di Burqin, a sud-ovest della città di Jenin.

Muhammad al-Sabah, il sindaco di Burqin, ha detto a MEE che Sobh è deceduto per le ferite riportate dopo essere stato portato all’ospedale di Jenin. È stato sepolto a Burqin più tardi domenica.  

Sabah ha anche dichiarato che l’esercito israeliano ha ferito altri sei palestinesi che sono stati portati all’ospedale

Il gruppo armato Jihad Islamica ha dichiarato che Sobh era un membro dell’ala militare del gruppo, le Brigate al-Quds.

“Chiediamo a tutte le fazioni di agire insieme e in cooperazione con le Brigate al-Quds per combattere il nemico sionista”, si legge in seguito nella dichiarazione. 

Immagini pubblicate online mostrano soldati israeliani che portano via un cadavere da Beit Anan.

“Inseguito da settimane”

Il portavoce dell’esercito israeliano Amnon Scheffler ha affermato che tutte le vittime erano combattenti di Hamas.

Il primo ministro israeliano Naftali Bennett, in viaggio verso le Nazioni Unite a New York, ha affermato che le truppe israeliane hanno agito in Cisgiordania contro i combattenti di Hamas “che stavano per sferrare attacchi nell’immediato”.

Il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) Mahmoud Abbas ha condannato le uccisioni e ha affermato che “l’uccisione di cinque palestinesi nell’area di Gerusalemme e Jenin è un efferato crimine commesso da Israele”.

Ma, secondo Quds.net, la famiglia di Zahran ha accusato l’ANP di aver aiutato l’operazione dell’esercito israeliano che ha ucciso il loro parente. 

“L’Autorità Palestinese è quella che ci ha mandato gli israeliani”, ha detto la madre di Zahran, che ha sottolineato che le forze israeliane lo stavano inseguendo da settimane e hanno interrogato e arrestato membri della famiglia prima di ucciderlo.

Incursioni alle prime ore del mattino.

Il sindaco di Beit Anan, Muhammad Ragheb Rabie, ha detto a MEE che le truppe dell’unità mobile dell’esercito israeliano hanno preso d’assalto il villaggio intorno alle 3 del mattino e si sono poi dirette verso l’area di Ein Ajab, nel nord-ovest di Gerusalemme.

“Potevamo sentire i suoni dei combattimenti da quest’area, che è una zona industriale che contiene allevamenti di pollame e frantoi”, ha detto Rabie.

Ha detto che l’esercito israeliano è stato visto trasportare le vittime durante il suo ritiro.

Ha aggiunto che nell’area si potevano vedere sangue e residui del raid dell’esercito israeliano e ha sottolineato che gli israeliani avevano impedito ai residenti di entrare e uscire dal villaggio.

Sabah [il sindaco di Burqin, vedi sopra ndt] ha detto che le forze dell’esercito israeliano hanno preso d’assalto anche Burqin alle 3 del mattino e hanno circondato la casa di Muhammad al-Zareini, un abitante del villaggio.

“Le forze israeliane hanno sparato all’impazzata sulla casa di Muhammad al-Zareini, dove vivevano sua moglie e i suoi figli, prima di ritirarsi alle 7 del mattino dopo averlo arrestato”, ha detto Sabah.

“Le forze di occupazione irrompono continuamente con violenza nel mio villaggio e, quando lo fanno, gli israeliani spesso sparano proiettili veri contro le case e i civili della zona”.

Il mese scorso, l’esercito israeliano ha ucciso quattro palestinesi nel campo profughi di Jenin durante un’operazione che ha portato a scontri armati.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




L’Autorità Nazionale Palestinese sta perdendo il controllo sulla Cisgiordania

Lubna Masarwa, Dania Akkad

30 agosto 2021 – Middle East Eye

Mesi di crescente repressione e di arresti portano a interrogarsi sul suo imminente collasso persino i sostenitori dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Il 23 agosto, vedendo che le forze di sicurezza arrestavano circa una trentina di manifestanti che esigevano risposte riguardo alla morte di Nizar Banat, un oppositore di Mahmoud Abbas deceduto dopo un’irruzione di agenti della sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) in casa sua, un membro dell’ANP si è ricordato di quello che era avvenuto in Egitto quarant’anni fa.

“Ciò mi ricorda gli ultimi giorni di (Anwar) Sadat,” ha confidato a Middle East Eye, a condizione di rimanere anonimo per una questione di sicurezza personale. Nelle settimane che nel 1981 precedettero l’assassinio del presidente egiziano, Sadat aveva fatto arrestare 1.600 egiziani di ogni orientamento politico. “Avevano cominciato ad arrestare tutti quanti, come giornalisti e scrittori, e chiunque si ribellasse a Sadat.”

I suoi membri e alcuni osservatori affermano che la fragilità dell’ANP è al centro dell’attenzione da mesi. Ciò è iniziato in aprile, quando il presidente Mahmoud Abbas ha rinviato le elezioni politiche. In maggio l’ANP è rimasta ai margini quando Israele ha bombardato Gaza.

Durante l’estate l’ANP ha reagito con l’arresto di decine di attivisti alle manifestazioni che criticavano le sue iniziative, e persino quelle in solidarietà con i palestinesi di Gaza, rimanendo nel contempo in silenzio mentre le forze di sicurezza israeliane uccidevano una quarantina di palestinesi nella Cisgiordania occupata.

Per gli attivisti e il membro dell’ANP gli arresti dello scorso fine settimana sono l’ultimo segnale in ordine di tempo dell’indebolimento dell’ANP, il che li porta a chiedersi se non stia per perdere il controllo della Cisgiordania.

Sul piano politico sono finiti”

Qualche ora dopo le dimostrazioni, cui hanno partecipato studenti universitari, registi e poeti, durante una veglia di protesta contro gli arresti le forze dell’ordine dell’ANP hanno arrestato un altro manifestante, Khader Adnan, celebre per i suoi scioperi della fame senza uguali durante le sue varie incarcerazioni in detenzione amministrativa nelle prigioni israeliane.

Fadi Quran, difensore dei diritti umani ed esperto di diritto internazionale che era tra gli arrestati, ha detto di essere stato interrogato sulla ragione per la quale ha distribuito bandiere palestinesi e, durante un’udienza, ha chiesto al giudice di condannarlo per essere il primo palestinese sanzionato per il possesso della bandiera nazionale.

L’assurdità della situazione e l’inasprimento dell’ANP di fronte alle critiche portano molti a chiedersi se si tratti di un ultimo attacco disperato: “Ci sono tutti gli elementi per un collasso dell’Autorità Nazionale Palestinese,” afferma Jamal Juma’a, direttore della campagna Stop the Wall [Stop al muro, ndtr.], con sede a Ramallah.

“Sul piano politico sono finiti. Come progetto nazionale, sono finiti. Aggiungi a questo la corruzione generalizzata e ci sono tutte le condizioni per un crollo dell’ANP.” Da parte sua il membro dell’ANP afferma: “Non posso dire se l’Autorità Nazionale Palestinese collasserà a breve, ma sicuramente attraversa una crisi profonda e non sono sicuro di sapere dove questo porterà.”

Jenin è un buon punto di partenza per vedere a cosa potrebbe assomigliare un’ANP che perde il controllo della Cisgiordania.

Negli ultimi due mesi ci sono state parecchie sparatorie nel campo profughi di Jenin tra giovani abitanti armati e le forze di sicurezza israeliane che fanno regolarmente irruzione nel campo.

Dopo due incidenti a luglio e agosto, durante i quali le forze di sicurezza israeliane hanno ferito due palestinesi a Jenin, la scorsa settimana hanno ucciso quattro palestinesi quando un’irruzione nel campo si è trasformata in uno scontro a fuoco.

In risposta il primo ministro palestinese Mohammed Shtayyeh ha criticato le forze israeliane e chiesto all’ONU e alle organizzazioni internazionali di fornire una protezione al popolo palestinese.

Ma Shatha Hamaysha, giornalista freelance di Jenin che collabora con MEE, racconta che la sparatoria della scorsa settimana era stata scatenata dai maldestri tentativi dell’ANP di cercare di controllare la situazione a Jenin.

Secondo lei l’ANP ha proposto di fare da intermediaria tra gli israeliani e i giovani combattenti armati e poco prima dello scontro a fuoco ha arrestato parecchi abitanti che avevano rifiutato di adeguarsi a questo piano.

Quelli che hanno combattuto respingono l’ingerenza dell’ANP, soprattutto alcuni giovani che recentemente si sono uniti ai combattenti a causa della frustrazione provocata dall’ANP.

Precisa che l’ANP ha cercato di risolvere la situazione a Jenin “a modo suo”, diffondendo l’immagine secondo cui controlla la situazione, ma la realtà in città è molto diversa. “A Jenin l’Autorità ha perso la sua presenza sociale e tenta in vari modi di controllare la sicurezza, di imporre l’ordine e di ripristinare la calma,” afferma Hamaysha.

Un’opinione pubblica che non ha più paura

Precisa comunque che si continua a gettare benzina sul fuoco. La settimana scorsa le forze israeliane hanno messo in atto esercitazioni militari nei posti di controllo che circondano Jenin “per inviare un velato messaggio a Jenin e ai suoi giovani.”

A livello locale queste esercitazioni sono considerate come vane dimostrazioni di forza. Per il membro dell’ANP l’incapacità delle forze di sicurezza a proteggere gli abitanti dagli israeliani o di controllare i gruppi armati nel campo profughi è un chiaro segnale. “L’ANP è sempre molto debole. Non può entrare in un luogo come Jenin,” sostiene. Quello che succede a Jenin si estenderà? È la domanda che molti si pongono in Cisgiordania.

MEE ha chiesto all’ANP se ha fatto da intermediaria tra i giovani armati e gli israeliani; se ha arrestato persone ricercate dagli israeliani; se ha svolto attività prima della sparatoria della settimana scorsa e se ha perso il controllo di Jenin. Al momento della pubblicazione [di questo articolo] l’ANP non aveva ancora risposto.

Altro segnale che indica che all’ANP sfugge il controllo sono le persone che sono state arrestate. Non si tratta di sostenitori di Hamas, bersaglio abituale dell’ANP, ma di attivisti laici, persino di alcuni che fino a poco tempo fa sostenevano l’ANP.

Mazin Qumsiyya, docente di biologia alle università di Betlemme e Bir Zeit e attivista politico, era tra i manifestanti di Ramallah. Durante le proteste sono stati arrestati 17 suoi amici, racconta.

Secondo lui questi arresti riflettono un’ANP che non sa cosa deve fare, perché le sue solite strategie sono inefficaci con un’opinione pubblica che non ha più paura.

“Pensavano che quella di Nizar Banat sarebbe diventata una storia vecchia, ma non è stato così. Si sta allargando,” sostiene. “La gente non sta zitta e reagisce sempre di più.”

“Penso che ci si avvii verso il collasso dell’ANP, in particolare riguardo alla sicurezza. Le persone non hanno più paura dell’ANP. Nemmeno quelli che vengono arrestati hanno paura. Quando si supera l’ostacolo della paura tutto è possibile.”

Hani al-Masri, direttore generale di Masarat (Centro Palestinese di Ricerche Politiche e di Studi Strategici) a Ramallah, afferma che il recente comportamento dell’ANP è il riflesso di un’istituzione che reprime perché non sa che altro fare dopo aver perso il sostegno popolare.

“L’Autorità Nazionale Palestinese si è trovata impreparata dopo aver perso le fonti di legittimità interne: legittimità rivoluzionaria, legittimità della resistenza e del consenso nazionale, legittimità delle urne e legittimità dei risultati raggiunti,” elenca.

“Non le restano che le fonti di legittimità esterne: legittimità del potere e della sicurezza. Dopo il fallimento del suo progetto politico, non ne ha adottato uno nuovo.”

Continua: “Ha abbandonato la direzione del suo popolo in tutte le manifestazioni dell’Intifada di Gerusalemme ed ha l’impressione che gli avvenimenti l’abbiano sopraffatta. Ha voluto prendere l’iniziativa arrestando più di 120 persone dal maggio scorso, per inviare un messaggio forte: nessuno, qualunque sia la sua età, può sfuggire agli arresti.”

Un peso per il popolo palestinese

Un sondaggio dei primi di giugno del Palestinian Center for Policy and Survey Research [Centro Palestinese per la Politica e la Ricerca] e della fondazione Konrad-Adenauer appena dopo il rinvio delle elezioni da parte di Abbas mostra che più del 56% dei palestinesi ritiene che l’ANP sia un peso per il popolo palestinese.

Secondo il membro dell’ANP non è nell’interesse degli Stati Uniti o degli israeliani lasciare che l’ANP collassi. Ma dice di prevedere un periodo molto confuso per l’organizzazione, divorata da lotte intestine.

“La sostituzione di Abu Mazen (Mahmoud Abbas) è fonte di conflitti, ma ci sono anche diatribe riguardanti gli incarichi ministeriali,” afferma questa fonte. “Oggi Fatah [principale organizzazione dell’ANP, ndtr.] è disunito. Ci sono divisioni e molti non sono d’accordo con quello che succede sul terreno, in particolare con gli arresti.”

Nel frattempo, avverte, in Cisgiordania circolano dappertutto armi sulle quali l’ANP non ha alcun controllo.

Come Qumsiyya, Juma’a è convinto che i palestinesi abbiano bisogno di un’alternativa politica forte per sostituire l’ANP, di alternative prima di metterla seriamente in discussione.

“Succede di tutto e l’ANP arresta dei palestinesi. Ma dove sono le fazioni politiche? Cosa fanno per porvi termine?” si interroga Juma’a.

“L’Olp deve agire e intervenire. Le fazioni politiche nell’ANP devono dare le dimissioni [dagli incarichi governativi, ndtr.] invece di servire da copertura.”

Secondo Qumsiyya il problema è che i palestinesi pensano di non avere che due possibilità davanti a sé: Hamas o Abbas.

“Ma non è vero. Abbiamo numerose scelte. Molti gruppi si presentavano alle elezioni e in uno di essi c’era lo stesso Nizar Banat. Non faceva parte né di Fatah né di Hamas,” continua.

“La gente vuole un cambiamento profondo, non solo superficiale. Vuole che Abu Mazen e tutto il suo sistema spariscano.”

Tra i manifestanti arrestati il 23 agosto si preparano già piani per nuove dimostrazioni.

Dopo essere stato liberato, sulla sua pagina Facebook il regista Mohammed Alatar ha ringraziato le persone che hanno inviato messaggi di solidarietà al momento del suo arresto.

“Di fatto mi vergogno, perché in Palestina eravamo soliti festeggiare quando eravamo (liberati) dalle prigioni dell’occupazione. Ormai festeggiamo l’uscita dalle nostre stesse prigioni,” scrive.

“Spero che presto tutto questo caos finisca e che ci concentriamo di nuovo sulla nostra fondamentale missione, che consiste nel sbarazzarci dall’occupazione ed essere liberi.”

Poi invita le persone a tornare in piazza Manara a Ramallah, teatro degli arresti di sabato, per una nuova manifestazione.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)