Un noto chirurgo britannico afferma che alcuni feriti nelle manifestazioni del 2018 a Gaza non sono ancora stati curati

Peter Oborne e Jan-Peter Westad

30 marzo 2020 – Middle East Eye

Terence English parla con MEE del coronavirus, del disinteresse di Israele e dei fallimenti della politica britannica a Gaza

Terence English è un celebre chirurgo britannico. Nel 1979 ha eseguito il primo trapianto di cuore riuscito nel Regno Unito.

Ha ricoperto la carica di presidente del Royal College of Surgeons e della British Medical Association, nonché di rettore del St Catharine’s College di Cambridge. Nel 1991 ha avuto un riconoscimento per i suoi successi chirurgici con la nomina a cavaliere.

Così, quando si è ritirato 20 anni fa con molte onorificenze avrebbe avuto tutto il diritto di riposarsi e di dedicarsi al giardinaggio nella sua casa di Oxford. Invece Terence English è andato a Gaza.

Dapprima si è dedicato alla creazione di programmi di formazione dei medici palestinesi negli interventi di primo soccorso. Quindi lui e suoi colleghi chirurghi hanno contribuito alla realizzazione di vari progetti sanitari e alla formazione dei medici locali.

Uno dei progetti più importanti ha aiutato centinaia di persone bisognose di complessi interventi di ricostruzione degli arti.

Molti di questi pazienti erano adolescenti e giovani colpiti alle gambe dalle forze di sicurezza israeliane mentre prendevano parte alle proteste della Grande Marcia del Ritorno nei pressi della barriera perimetrale che circonda i due milioni di abitanti di Gaza.

Nel corso dei mesi di proteste settimanali almeno 190 persone sono state uccise da colpi d’arma da fuoco, di cui almeno 68 il 14 maggio 2018, quando a Gaza migliaia di persone hanno protestato contro l’apertura dell’ambasciata americana a Gerusalemme.

Nel secondo anniversario dell’inizio di quelle proteste, e con la situazione a Gaza più disperata che mai e complicata dalla diffusione della pandemia da coronavirus, English, ora 87enne, ha deciso per la prima volta di parlare.

Il chirurgo britannico ha una buona rete di contatti, tanto da aver avuto negli ultimi anni la possibilità di esprimere in privato le sue preoccupazioni con importanti ministri del governo britannico. Eppure, dice, i suoi sforzi non hanno dato alcun risultato.

“Gaza ora si trova in una grave crisi umanitaria”, dice English al Middle East Eye.

Le marce a Gaza sono iniziate il 30 marzo 2018, quando Ahmed Abu Artema, un giornalista palestinese, ha invitato i rifugiati palestinesi a radunarsi pacificamente vicino alla recinzione per chiedere il diritto di tornare nelle terre da cui furono costretti a fuggire o furono espulsi durante gli eventi che portarono alla creazione di Israele nel 1948.

La risposta israeliana è stata violenta. “Quando sono iniziate le proteste presso la recinzione c’è stato un numero enorme di feriti”, ricorda English.

“Adolescenti e giovani hanno avuto il ginocchio trapassato dai colpi dei cecchini israeliani dall’altra parte della barriera, che hanno utilizzato proiettili ad alta velocità”.

Egli descrive le orribili ferite caratterizzate da ossa e tessuti maciullati. Altri sono stati uccisi.

Israele ha sostenuto che stesse proteggendo la recinzione da manifestanti e attivisti violenti. English dice che le persone che ha curato erano manifestanti arrabbiati ma pacifici.

“Si immaginava – afferma – che le manifestazioni si svolgessero in tutta la Cisgiordania e a Gaza in segno di protesta per il diritto al ritorno, un bisogno particolarmente forte a Gaza”.

“Ora un numero enorme di palestinesi sono stati resi disabili”.

Per coloro che vengono operati con successo, possono essere necessari fino a sei mesi prima che possano camminare di nuovo, e c’è una lunga lista di attesa.

Ma molti non sono così fortunati. “Ci sono stati altri casi in cui l’unico modo per evitare mesi di sofferenza è stato eseguire un’amputazione”, dice English.

È difficile sapere con precisione quanti abbiano ancora bisogno di un intervento chirurgico, ma si stima che 500 di queste complesse operazioni siano state eseguite, con altre 700 persone ancora in attesa di cure.

Questo è comunque un risultato straordinario, date le condizioni dei servizi sanitari a Gaza.

Dice English: “Il primo problema è il blocco, che rende difficile garantire le risorse mediche necessarie. L’altro problema è che il conflitto ha distrutto gran parte delle infrastrutture. I generatori ospedalieri non sono affidabili, gran parte dell’acqua non è potabile e le scorte sanitarie sono scarse.”

English ricorda di aver chiesto alcuni anni fa al dottor Yousef Abu Reesh, viceministro della sanità di Gaza, quali fossero le gravi carenze da superare nella fornitura di assistenza sanitaria. Reesh rise e rispose: “Tutto!”

Il blocco israeliano di Gaza è in atto da quando Hamas ha assunto il controllo nel 2007, dopo aver vinto le elezioni legislative e poi estromesso dall’enclave costiera [l’organizzazione] Fatah del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas, a seguito di violenti scontri tra le fazioni rivali.

Ora English ritiene che la minaccia del coronavirus, con una serie di casi già segnalati sul territorio, renda ancora più urgente la necessità di revocare il blocco.

“Densamente popolato in una stretta striscia di terra e con un servizio sanitario già sottoposto a uno sforzo enorme, si teme che il virus sarebbe impossibile da controllare e avrebbe effetti catastrofici”, afferma.

La gente di Gaza è molto più vulnerabile. Vivono in condizioni di sovraffollamento e non hanno nessuna possibilità di auto-isolarsi in modo efficace.”

English ritiene che il governo britannico abbia l’obbligo di fare di più per i palestinesi, a causa della sua storica responsabilità per la Dichiarazione Balfour del 1917, in cui si impegnò a sostenere la creazione di un focolare ebraico in Palestina.

“L’ultima frase della Dichiarazione Balfour chiarisce che fornire un focolare nazionale agli ebrei in Palestina non dovrebbe ‘pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina’. Questo chiaramente non è quello che è successo.

“Sono rattristato del fatto che la Gran Bretagna non abbia fatto di più per onorare le proprie responsabilità nei confronti dei palestinesi”.

Il suo messaggio è chiaro: “Dobbiamo fare pressione sui nostri parlamentari affinché sostengano il popolo di Gaza. La Gran Bretagna deve assumersi le sue responsabilità”.

Un modo in cui English crede che il governo britannico possa offrire un aiuto è quello di discutere con Hamas, con l’obiettivo finale di ricostruire una leadership unita in grado di rappresentare tutti i palestinesi in negoziati sostenuti a livello internazionale con Israele.

“È nell’interesse di entrambi i popoli e nel nostro interrompere il ciclo di conflitti e sofferenze a cui abbiamo assistito negli ultimi 50 anni”, sostiene il chirurgo.

Una tale mossa richiederebbe un coraggio diplomatico e politico, dal momento che dal 2001 nel Regno Unito l’ala militare di Hamas è considerata un’organizzazione terroristica messa al bando.

Il governo britannico descrive la sua politica nei confronti della Palestina l’istituzione di “una pace giusta tra uno Stato palestinese democratico stabile e Israele, sulla base sui confini del 1967, che ponga fine all’occupazione di comune accordo”.

Ma English teme che una tale politica rischi di essere superata dagli eventi, in quanto il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, incoraggiato dal sostegno del presidente degli Stati Uniti Donald Trump e con macchinazioni politiche interne che sembrano destinate a tenerlo in carica, minaccia di indebolire ulteriormente le prospettive di un accordo futuro sensato, lasciando ancora una volta i palestinesi nella sofferenza.

“I servizi sanitari dipendono inevitabilmente dalla politica”, dice English.

“Con Trump in carica, Netanyahu crede di poter fare né più né meno ciò che vuole e con lui al potere potrebbe mirare ad annettere ciò che resta della Cisgiordania.”

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Violenza, oppressione e morte: in Cisgiordania l’ANP fa il lavoro sporco per Israele  

Ramzy Baroud

5 marzo 2020 – Middle East Monitor

Solo due settimane dopo che il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas aveva dichiarato che l’ANP avrebbe sospeso ogni “coordinamento per la sicurezza” con Israele, forze dell’ordine palestinesi in Cisgiordania hanno ucciso un ragazzo disarmato, Salah Zakareneh.

Zakareneh non è il primo e, purtroppo, non sarà l’ultimo palestinese ad essere ucciso dalle forze di sicurezza dell’ANP, che negli ultimi anni hanno notevolmente accentuato la loro azione repressiva contro ogni forma di dissenso politico in Palestina.

Il ragazzo diciassettenne è morto poco dopo che le forze dell’ordine dell’ANP erano state inviate nel villaggio di Qabatiya, a sud di Jenin, nella zona settentrionale della Cisgiordania, dove in teoria avrebbero dovuto affrontare una prevista “manifestazione militarizzata”.

La versione ufficiale della vicenda sostiene che, appena le forze dell’ANP sono arrivate a Qabatiya, uomini armati del villaggio hanno aperto il fuoco, mentre altri lanciavano pietre, obbligando i poliziotti dell’ANP a rispondere con proiettili veri e lacrimogeni, causando la morte di Zakareneh e il ferimento di altri. Nessun agente dell’ANP è rimasto ferito da colpi di arma da fuoco.

Non si può negare che negli ultimi mesi in tutti i territori occupati siano cresciuti in modo esponenziale sentimenti avversi all’ANP. L’Autorità di Abbas è corrotta e continua a governare i palestinesi, pur con le possibilità limitate consentite da Israele, senza alcuna legittimità democratica.

Per di più, l’ANP è formata in gran parte da fedeli del partito Fatah di Abbas, che a sua volta è diviso in vari centri di potere.

Nel 2016 l’ANP ha creato a Gerico un ente che riunisce le agenzie di intelligence palestinesi con l’unico obiettivo di reprimere i sostenitori dell’arci-nemico di Abbas, Mohammed Dahlan, attualmente in esilio.

Da quando è stato creato, il nuovo organismo di intelligence, che fa diretto riferimento al presidente, ha esteso il suo mandato e sta reprimendo attivamente ogni individuo, organizzazione o gruppo politico che osi mettere in discussione le politiche di Abbas e del suo partito.

Poco dopo che Abbas aveva affermato durante un discorso alla Lega Araba al Cairo il 1 febbraio che l’ANP interromperà ogni contatto con Israele “compresi i rapporti per la sicurezza”, un importante dirigente dell’ANP ha informato i media israeliani che la cooperazione tra ANP e Israele continua ancora.

Fino ad ora il coordinamento continua, ma i rapporti sono estremamente tesi,” ha detto il dirigente a Times of Israel [quotidiano in rete israeliano, ndtr.].

Il “coordinamento per la sicurezza” è forse l’unica ragione per cui Israele sta consentendo all’ANP di esistere, nonostante il fatto che Israele, con il sostegno degli Stati Uniti, sia venuto meno a tutti gli impegni in base agli accordi di Oslo e a tutte le intese che li hanno seguiti.

È veramente surreale che la dirigenza palestinese di Ramallah, che un tempo prometteva ai palestinesi libertà e liberazione in uno Stato indipendente e sovrano, ora esista soprattutto per garantire la sicurezza dell’esercito israeliano e dei coloni ebrei illegali nella Palestina occupata.

Ora l’ANP e l’occupazione israeliana coesistono in una sorta di rapporto simbiotico. Per garantire la continuazione di questi rapporti vantaggiosi per le due parti, sono entrambi impegnati nell’eliminazione di ogni forma di resistenza, o anche semplice protesta, nella Cisgiordania occupata.

In realtà, che i manifestanti di Qabatiya fossero o meno accompagnati da uomini armati avrebbe fatto ben poca differenza. L’unica forma di protesta o di riunione che attualmente è consentita in Cisgiordania è quella dei fedeli ad Abbas, che scandiscono il suo nome e se la prendono con i suoi nemici.

Lo scorso anno l’Organizzazione Araba per i Diritti Umani [ong che intende difendere i diritti umani nei Paesi arabi, ndtr.] del Regno Unito ha accusato i servizi di sicurezza dell’ANP di utilizzare misure repressive contro attivisti palestinesi e di impiegare torture psicologiche e fisiche contro chi critica. In altre parole, copiano le politiche israeliane nei confronti dei palestinesi.

Il Servizio di Sicurezza Preventiva (SSP) dell’ANP e varie altre agenzia di intelligence prendono spesso di mira studenti e prigionieri dopo che questi sono stati rilasciati.

Nel suo rapporto su Israele e Palestina, Human Rights Watch (HRW) [una delle principali ong per i diritti umani, ndtr.] ha affermato che centinaia di palestinesi sono stati arrestati e torturati dalle forze di sicurezza dell’ANP per i “reati” più insignificanti.

Secondo i dati di HRW “il 21 aprile (2019) l’ANP teneva in detenzione 1.134 persone”. I gruppi per i diritti umani hanno anche informato che “tra il gennaio 2018 e il marzo 2019 (l’ANP) ha arrestato 1.609 persone per aver ingiuriato ‘importanti autorità’ e aver provocato ‘conflitti settari’, imputazioni che di fatto criminalizzano il dissenso pacifico, e 752 per post sulle reti sociali.”

Mentre molti prigionieri palestinesi detenuti illegalmente in Israele intraprendono prolungati scioperi della fame chiedendo l’immediato rilascio o migliori condizioni di detenzione, spesso mancano notizie su prigionieri palestinesi che facciano scioperi della fame nelle prigioni dell’ANP.

Ahmad al-Awartani, 25 anni, è stato uno delle migliaia di palestinesi arrestati con l’accusa di oltraggio; il giovane è stato fermato grazie alla cosiddetta legge sui “Crimini informatici”. È stato arrestato dalla polizia dell’ANP per un solo post su Facebook in cui criticava l’Autorità Nazionale Palestinese.

Nell’aprile 2018 al-Awartani ha iniziato uno sciopero della fame quasi totalmente ignorato dai media palestinesi, arabi e internazionali.

Arresti arbitrari, torture e violenze sono episodi ricorrenti nella Palestina occupata. Mentre Israele è responsabile della maggior parte delle violazioni dei diritti umani dei palestinesi, l’ANP è parte integrante della stessa strategia israeliana.

Benché sia vero che la repressione operata da Abbas è fatta su misura per garantire i suoi interessi personali, le azioni dell’ANP in ultima istanza sono funzionali agli interessi di Israele che intende tenere divisi i palestinesi e sta utilizzando le forze di sicurezza dell’ANP come ulteriore livello di protezione dei suoi soldati e coloni.

Alla luce di ciò la morte di Zakareneh non può essere vista come un fatto marginale nella lotta palestinese contro l’occupazione e l’apartheid israeliane. Infatti l’Autorità Nazionale Palestinese ha fatto capire chiaramente che la sua violenza contro i palestinesi che dissentono non è diversa da quella israeliana che prende di mira ogni forma di resistenza in tutta la Palestina.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




“Il Donald Trump che conosco”: il discorso di Abbas alle Nazioni Unite e la crisi della politica palestinese

Ramzy Baroud

21 febbraio 2020  – palestinechronicle.

Ha sprecato un momento prezioso, il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas, l’11 febbraio scorso quando avrebbe avuto la possibilità di correggere un errore storico e ribadire le priorità nazionali palestinesi al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con un discorso politico che fosse del tutto indipendente da Washington e dai suoi alleati.

Per molto tempo Abbas è stato ostaggio dello stesso discorso che definiva lui e la sua autorità come “moderati” agli occhi di Israele e dell’Occidente. Nonostante l’esplicito rifiuto da parte del leader palestinese dell’ “accordo del secolo” statunitense – che praticamente dichiara nulle le aspirazioni nazionali palestinesi – Abbas è ansioso di mantenere le su credenziali “moderate” il più a lungo possibile.

Certamente Abbas in passato ha tenuto molti discorsi alle Nazioni Unite e non è mai riuscito a impressionare i palestinesi. Questa volta, tuttavia, le cose avrebbero dovuto essere diverse. Washington non ha solo totalmente disconosciuto Abbas e l’ANP, ha anche rottamato il suo discorso politico sulla pace e sulla soluzione di due Stati. Inoltre, l’amministrazione Trump dà ufficialmente la sua benedizione a Israele perché annetta quasi un terzo della Cisgiordania, escluda Gerusalemme dalla trattativa ed elimini il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi.

Invece di parlare subito con i leader dei vari partiti politici palestinesi e fare passi concreti per riattivare istituzioni politiche centrali ma inattive come il Consiglio Nazionale Palestinese (PNC) e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), Abbas ha preferito incontrare a New York l‘ex primo ministro della destra israeliana Ehud Olmert, e continuare a ripetere a pappagallo la sua dedizione nei confronti di un’epoca ormai passata.

Nel suo discorso alle Nazioni Unite, Abbas non ha detto nulla di nuovo – il che, in questo caso, è peggio che non dire nulla.

“Questo è l’esito del progetto che ci è stato presentato”, ha detto Abbas tenendo in mano la mappa di come sarebbe lo Stato palestinese secondo l’“accordo del secolo” di Donald Trump. “E questo è lo Stato che ci stanno dando”, ha aggiunto Abbas, definendo il futuro Stato “gruviera”, ovvero uno Stato frammentato da insediamenti ebraici, tangenziali e zone militari israeliane.

Perfino l’espressione “gruviera”, riportata da alcuni media come fosse una nuova frase in quel discorso assolutamente ridondante, è una vecchia definizione ripetutamente utilizzata dalla stessa leadership palestinese a partire dall’inizio del cosiddetto processo di pace, un quarto di secolo fa.

Abbas si è sforzato di apparire eccezionalmente risoluto, sottolineando alcune parole, come quando ha equiparato l’occupazione israeliana ad un sistema di apartheid. Il suo discorso, tuttavia, appariva poco convincente, carente e, a volte, senza senso.

Abbas ha parlato della sua grande “sorpresa” quando Washington dichiarò Gerusalemme capitale indivisa di Israele, trasferendo successivamente l’ambasciata nella città occupata, come se non ce ne fossero stati chiari segnali e in realtà la mossa dell’ambasciata non fosse uno dei principali impegni di Trump con Israele anche prima della sua inaugurazione nel gennaio 2017.

“E poi hanno tagliato gli aiuti finanziari che ci davano”, ha detto Abbas con voce lamentosa, riferendosi alla decisione nell’agosto 2018 degli Stati Uniti di tagliare i suoi aiuti all’ANP. “Ci sono stati tagliati 840 milioni di dollari”, ha detto. “Non so chi stia dando a Trump un consiglio così orribile. Trump non è così. Il Trump che conosco non è così,” ha detto con una singolare esclamazione Abbas, come per inviare un messaggio all’amministrazione Trump che l’Autorità Nazionale Palestinese ha ancora fiducia nell’opinione del Presidente degli Stati Uniti.

“Vorrei ricordare a tutti che abbiamo partecipato alla conferenza di pace di Madrid, ai negoziati di Washington e all’accordo di Oslo e al vertice di Annapolis sulla base del diritto internazionale”, ha raccontato Abbas, manifestando un rinnovato impegno in quella stessa agenda politica che non ha raccolto alcun risultato per il popolo palestinese.

Abbas ha poi continuato dipingendo una realtà immaginaria, dove la sua Autorità starebbe costruendo le “istituzioni nazionali di uno Stato rispettoso della legge, moderno e democratico, fondato sui valori internazionali, basato su trasparenza, responsabilità e lotta alla corruzione “.

“Sì”, ha sottolineato Abbas guardando il suo pubblico con serietà teatrale, “Siamo uno dei più importanti Paesi (al mondo) che sta combattendo la corruzione”. Il leader dell’ANP, quindi, ha invitato il Consiglio di Sicurezza a inviare una commissione per indagare sulle accuse di corruzione all’interno dell’ANP, un invito sconcertante e inutile, considerando che è la leadership palestinese che dovrebbe far appello alla comunità internazionale perché collabori a far rispettare le leggi internazionali e a por fine all’occupazione israeliana.

Si è proseguito così, con Abbas indeciso tra la lettura di note pre-scritte che non propongono nuove idee o strategie, e invettive inutili che riflettono il fallimento politico dell’ANP e la mancanza di immaginazione di Abbas.

Il presidente dell’ANP, ovviamente, si è premurato di offrire la sua abituale condanna del “terrorismo” palestinese promettendo che i palestinesi non faranno “ricorso alla violenza e al terrorismo indipendentemente dall’atto di aggressione contro di noi”. Ha assicurato al suo pubblico che la sua Autorità crede nella “pace e nella lotta alla violenza”. Senza pensarci, Abbas ha dichiarato la sua intenzione di proseguire sulla strada di una “resistenza popolare e pacifica” che, di fatto, non esiste da nessuna parte.

Questa volta il discorso di Abbas alle Nazioni Unite è stato particolarmente inappropriato. In effetti, è stato un fallimento sotto ogni aspetto. Il minimo che il leader palestinese avrebbe potuto fare sarebbe stato articolare un discorso politico palestinese potente e collettivo. Invece, le sue affermazioni sono state semplicemente un triste omaggio alla sua stessa eredità, piena di delusioni e inettitudine.

Presumibilmente, Abbas è tornato a Ramallah per salutare ancora una volta i suoi fan, sempre pronti e impazienti di sollevare manifesti del leader che invecchia, come se il suo discorso alle Nazioni Unite fosse riuscito a spostare fondamentalmente la dinamica politica internazionale a favore dei palestinesi.

Bisogna dire che il vero pericolo dell’ “accordo del secolo” non sono le effettive clausole di quel piano sinistro, ma il fatto che la leadership palestinese probabilmente troverà modo di coesistere con esso, a spese del popolo palestinese oppresso, finché i soldi dei donatori continueranno a fluire e finché Abbas continuerà a chiamarsi presidente.

– Ramzy Baroud è giornalista e redattore di The Palestine Chronicle. È autore di cinque libri. Il suo ultimo è These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons” [Queste catene saranno rotte: storie palestinesi di lotta e ribellione nelle carceri israeliane], (Clarity Press, Atlanta). Il dr. Baroud è ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA), Istanbul Zaim University (IZU).

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Perché l’Autorità Nazionale Palestinese non è in grado di mobilitare il suo popolo?

Mariam Barghouti

4 febbraio 2020 – Al Jazeera

Per decenni l’ANP ha represso le proteste palestinesi e minato la mobilitazione di massa palestinese.

Con l’annuncio il 28 gennaio dell’ “accordo del secolo” dell’amministrazione Trump, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) è entrata in azione. A poche ore dalla cerimonia alla Casa Bianca, durante la quale il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha divulgato i dettagli del suo piano, il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha dichiarato “mille no all’accordo del secolo”.

L’ANP ha quindi proceduto a rilasciare una serie di minacce, tra cui ancora una volta quella di rompere gli accordi con i corpi di sicurezza israeliani, e un appello a manifestazioni di massa contro l’accordo proposto.

Nonostante tutti i suoi affanni retorici, tuttavia, la leadership palestinese non è riuscita a radunare una forte reazione all’oltraggiosa violazione dei diritti dei palestinesi che è in realtà la proposta di Trump. Non è riuscita nemmeno a mobilitare la propria gente. Perché?

Perché da oltre 20 anni l’ANP ha partecipato attivamente alla repressione del popolo palestinese, mantenendo uno stretto rapporto con le forze di sicurezza israeliane. Il suo atteggiamento, i suoi discorsi e le politiche passate e presenti sono sempre stati diretti non a proteggere i diritti e il benessere del popolo palestinese, ma a mantenere il potere a tutti i costi.

L’ “accordo del secolo” ha smascherato la duplicità dell’ANP e il costo che ha rappresentato per la mobilitazione di massa palestinese.

Reprimere il dissenso palestinese

Dalla sua istituzione nel 1994 a seguito dei disastrosi accordi di Oslo, l’ANP ha fatto poco altro che aiutare Israele a pacificare i palestinesi mentre la loro terra, proprietà e risorse venivano confiscate dai coloni ebrei. Per garantirsi il potere, la leadership palestinese ha portato avanti una stretta cooperazione con Israele, torturando i dissidenti palestinesi e fornendo informazioni sugli attivisti palestinesi.

Ha anche represso violentemente qualsiasi protesta pubblica che minacciasse la sua stretta sul potere o fosse considerata una “minaccia” dagli israeliani. Ha ripetutamente schierato la guardia nazionale, la polizia antisommossa e gli scagnozzi fedeli a Fatah, il partito che controlla l’ANP, per reprimere il dissenso.

La mia prima esperienza con le maniere forti dell’ANP è stata nel 2011, durante una manifestazione in piazza Manara a Ramallah di solidarietà con le rivoluzioni dei vicini Paesi arabi. Centinaia di giovani si sono riuniti pacificamente, scandendo slogan politici, chiedendo l’unità tra Fatah e Hamas contro le regole di Oslo. Nel giro di poche ore siamo stati attaccati, malmenati e arrestati.

Nel 2012, siamo scesi in strada per una protesta contro la prevista visita a Ramallah del vice primo ministro israeliano Shaul Mofaz, un uomo accusato di aver commesso innumerevoli crimini contro i palestinesi, incluso il massacro di Jenin durante la seconda Intifada e l’assassinio di vari leader palestinesi.

Abbiamo considerato il suo incontro con Abbas un altro atto di complicità dell’ANP con il progetto di insediamento coloniale israeliano. Siamo usciti in massa per protestare, ma siamo stati duramente picchiati dalla polizia dell’ANP. Più tardi, l’intelligence dell’ANP ci ha seguiti e assaliti per strada, ha chiamato le nostre famiglie minacciandole. Peggio ancora, siamo stati calunniati dai lealisti dell’ANP sulle piattaforme dei social media come “traditori” che avrebbero lavorato per una “agenda straniera”.

Nel 2018, siamo scesi in strada per manifestare contro la complicità dell’ANP nel blocco israeliano su Gaza, che ormai ha reso la Striscia invivibile. L’ANP aveva tagliato lo stipendio ai dipendenti di Gaza, cancellato i trasferimenti per cure mediche e l’assistenza finanziaria a centinaia di famiglie bisognose. A causa dei loro meschini interessi di parte, due milioni di palestinesi soffrono condizioni di vita insopportabili. La nostra protesta è stata di nuovo brutalmente attaccata, siamo stati picchiati, trascinati per le strade di Ramallah e arrestati mentre cercavamo di farci curare le ferite in ospedale.

Questi sono solo alcuni esempi della campagna sistematica dell’ANP per mettere a tacere e placare i palestinesi in modo da fornire a Israele un “senso di sicurezza”. Questo non vuol dire che Hamas sia un attore senza colpe; anch’esso ha commesso la sua buona parte di repressione contro la popolazione palestinese a Gaza e ha cercato di mettere a tacere le critiche.

Basta leadership palestinese

Oltre a reprimere il dissenso palestinese, la leadership palestinese, sia in Cisgiordania che a Gaza, ha cercato anche di strumentalizzare la mobilitazione di massa per i suoi miopi obiettivi politici.

Ogni volta che c’è la dichiarazione di un organismo internazionale che minacci la posizione dell’Autorità Nazionale Palestinese come rappresentante del popolo palestinese (e non è stata eletta), assistiamo a una serie di discorsi e dichiarazioni di politici palestinesi che chiamano alla protesta.

L’ANP e le altre fazioni e partiti politici palestinesi considerano la protesta palestinese un’arma che possono usare ogni volta che lo desiderano. Vogliono una mobilitazione di massa solo quando gli fa comodo, non quando è meglio per l’interesse del popolo palestinese.

Il problema è che questo atteggiamento, insieme ad anni di repressione del dissenso e angherie nei confronti della società civile, ha aggiunto un altro livello di repressione – oltre all’occupazione israeliana – lasciando i palestinesi disillusi e danneggiando la loro capacità di mobilitarsi efficacemente per la loro lotta.

Nel corso degli anni, molti hanno smesso di vedere una ragione per scendere in piazza, perché la loro protesta sarebbe stata brutalmente repressa o cooptata da forze politiche che considerano illegittime.

Non c’è da stupirsi quindi se, quando l’ANP ha chiesto la mobilitazione di massa nelle strade contro “l’accordo del secolo”, sono arrivati in pochi. Oggi l’ANP è in grado di mobilitare solo chi è fedele alle sue strutture politiche e al suo braccio armato – Fatah. Per radunare una folla a Ramallah, deve portare in bus le persone da fuori città.

Ormai molti palestinesi hanno perso fiducia nella loro leadership. Molti sanno che le minacce dell’ANP di tagliare i legami con le agenzie di intelligence israeliane sono false. L’ultima volta che l’ha fatto, nel 2017, è venuto poi fuori che il 95% del coordinamento per la sicurezza con Israele era stato mantenuto.

Ma nonostante il fallimento politico e morale dei loro leader, i palestinesi non sono disperati. Continuano la loro lotta per la giustizia, i diritti e la fine dell’occupazione israeliana e dell’apartheid. Continuano a mobilitarsi nonostante i loro leader e la loro complicità con Israele.

Lo spirito della piazza palestinese è vivo, ma non può più essere invocato da forze politiche disoneste. Si manifesterà solo in difesa della legittima lotta del popolo palestinese.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Mariam Barghouti è una scrittrice palestinese americana residente a Ramallah.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




L’Autorità Nazionale Palestinese annuncia la chiusura di tutti i rapporti con Israele e gli Stati Uniti

Redazione di Middle East Eye

1 febbraio 2020 MEE

Il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas ha affermato che “che non ci sarà più alcun rapporto” con Israele e gli Stati Uniti

Sabato Mahmoud Abbas ha dichiarato che l’Autorità Nazionale Palestinese ha interrotto tutti i rapporti con Stati Uniti e Israele dopo aver respinto la controversa proposta di Trump per Israele e Palestina.

“Abbiamo informato la controparte israeliana … che non ci sarà più alcun rapporto con loro e con gli Stati Uniti, nemmeno gli accordi sulla sicurezza”, ha detto Abbas in una riunione straordinaria della Lega Araba al Cairo in cui ha ribadito il suo “totale” rifiuto del piano.

Sabato, anche la Lega Araba ha respinto il piano. Il piano prevede la creazione di uno Stato palestinese smilitarizzato, con ampie aree della Cisgiordania occupata annesse a Israele.

Negoziato tra Israele e gli Stati Uniti, il piano non contiene contributi palestinesi.

L’ANP aveva stretto accordi sulla sicurezza con Israele con cui collabora nelle aree controllate della Cisgiordania occupata che sono sotto il controllo palestinese. Anche gli accordi di condivisione dell’intelligence stipulati dall’ANP con la CIA potrebbero ora essere in pericolo.

Alla riunione del Cairo, alla quale hanno partecipato i ministri degli esteri arabi, Abbas ha dichiarato di essersi rifiutato di discutere il piano con Trump. “Mi hanno detto che Trump voleva inviarmi l’accordo del secolo perché lo leggessi, ho detto che non lo avrei fatto”, ha detto sabato Abbas alla riunione dei ministri degli Esteri della Lega Araba.

“Trump mi ha chiesto di parlargli al telefono, ma io ho detto ‘no’ e che voleva mandarmi una lettera, e mi sono rifiutato di riceverla.”La reazione al piano da parte dei paesi arabi non è stata univoca; alcuni Stati del Golfo hanno partecipato alla presentazione a Washington e altri, come la Giordania, lhanno decisamente rifiutato. Il capo della Lega araba, Ahmed Aboul-Gheit, ha dichiarato mercoledì che il piano “ha ignorato i legittimi diritti dei palestinesi nei territori”.

Ad agosto, l’ANP ha minacciato di interrompere le relazioni con Israele per via delle demolizioni [israeliane] nella cittadina occupata di Sur Bahir, nella Gerusalemme Est occupata, che hanno prodotto decine di sfollati palestinesi.

(Traduzione dall’inglese di Carlo Tagliacozzo)




Trump rivela il suo piano per il Medio Oriente, rifiutato dai palestinesi

Al Jazeera

28 gennaio 2020 Al Jazeera

I palestinesi respingono la proposta di Trump in Medio Oriente, definendola una “cospirazione” che “non passerà”.

Dopo molti rinvii, martedì il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha esposto il suo piano per il Medio Oriente – una proposta che i leader palestinesi hanno definito una “cospirazione” che “non passerà”.

“Oggi Israele ha fatto un passo da gigante verso la pace”, ha dichiarato Trump con a fianco il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

“Il mio progetto presenta una soluzione vantaggiosa per entrambe le parti”, ha affermato, aggiungendo che i leader israeliani hanno dichiarato che avrebbero appoggiato la proposta.

Prima che fosse annunciata, i palestinesi l’avevano dichiarata già morta, dicendo che si tratta di un tentativo di “liquidare” la causa palestinese.

In seguito all’annuncio di Trump, il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha dichiarato i suoi “mille no” al piano.

Nel frattempo, Netanyahu ha detto trattarsi di un “giorno storico” e ha ringraziato Trump per la sua proposta. Ha detto che se i palestinesi accettano il piano, Israele sarà disposto a negoziare “subito”.

Gerusalemme “capitale indivisa”

L’iniziativa di Trump, il cui autore principale è suo genero Jared Kushner, segue una lunga serie di sforzi per risolvere uno dei problemi più irresolubili del mondo. I colloqui di pace israelo-palestinesi sono falliti nel 2014.

I palestinesi si sono rifiutati di confrontarsi con l’amministrazione Trump e hanno condannato la prima fase della proposta – un piano di risanamento economico di 50 miliardi di dollari annunciato lo scorso giugno.

Il piano politico di 50 pagine riconosce la sovranità israeliana sui principali gruppi di colonie illegali nella Cisgiordania occupata, a cui quasi sicuramente i palestinesi si opporranno. Trump ha dichiarato che a Israele verrà concesso il controllo di sicurezza della Valle del Giordano nella Cisgiordania occupata.

Trump ha detto che Gerusalemme resterà “capitale indivisa” di Israele. Ma ha anche detto che, secondo il piano, “Gerusalemme est” sarebbe la capitale di uno Stato di Palestina. Non ha approfondito cosa intendesse per Gerusalemme est. In seguito ha dichiarato su Twitter che una capitale palestinese potrebbe essere da qualche parte a “Gerusalemme est”.

Trump aveva già riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, trasferendovi l’ambasciata americana da Tel Aviv.

In replica al piano, Abbas ha dichiarato: “Gerusalemme non è in vendita; tutti i nostri diritti non sono in vendita e non sono un affare”.

Sami Abu Zhuri, funzionario di Hamas [portavoce di Hamas nella Striscia di Gaza], ha affermato che la dichiarazione di Trump è “un’aggressione e scatenerà molta rabbia”.

“La dichiarazione di Trump su Gerusalemme è una sciocchezza e Gerusalemme sarà sempre terra dei palestinesi”, ha detto Zhuri all’agenzia di stampa Reuters . “I palestinesi si opporranno a questo accordo e Gerusalemme rimarrà terra palestinese”.

Martedì scorso, migliaia di palestinesi hanno manifestato nella Striscia di Gaza assediata per protestare contro l’atteso piano. Ci sono state proteste anche a Ramallah, nella Cisgiordania occupata.

Marwan Bishara, capo analista politico di Al Jazeera, ha affermato che “In questo caso il diavolo non è nei dettagli “.

“Il diavolo è nei titoli”, ha detto Bishara. “Ciò che abbiamo qui è un riconfezionamento – ingegnoso, molto intelligente e diabolico – dei problemi cronici di Israele e in Palestina per promuoverli come soluzioni”.

Conseguenze pericolose”

La maggior parte dei leader della regione ha stracciato il piano, ma altri hanno prudentemente incoraggiato israeliani e palestinesi a sedersi al tavolo dei negoziati.

La Giordania ha messo in guardia contro “l’annessione delle terre palestinesi” con l’allarme del ministro degli esteri del regno per le “pericolose conseguenze di misure israeliane unilaterali che mirano a imporre nuove realtà sul terreno “.

Anche Numan Kurtulmus, vicepresidente del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AK) al potere in Turchia, ha rigettato le dichiarazioni di Trump su Gerusalemme, dicendo: “No, Trump! Gerusalemme è capitale dello Stato palestinese e cuore del mondo islamico!”

Secondo Al Manar TV, il movimento libanese Hezbollah ha definito la proposta “l’accordo della vergogna”, aggiungendo che si tratta di un passo molto pericoloso che avrebbe conseguenze negative sul futuro della regione,.

Ha dichiarato anche che non ci sarebbe stata questa proposta senza “complicità e tradimento” da parte di diversi stati arabi.

L’Egitto ha esortato israeliani e palestinesi a “studiare attentamente” la proposta. Il ministero degli Esteri ha affermato in una dichiarazione che il piano favorisce una soluzione che ripristina tutti i “diritti legittimi” del popolo palestinese attraverso la creazione di uno “Stato indipendente e sovrano sui territori palestinesi occupati”.

L’ambasciatore in USA degli Emirati Arabi Uniti ha dichiarato che gli Emirati Arabi Uniti credono che palestinesi e israeliani possano raggiungere una pace duratura e un’autentica convivenza con il sostegno della comunità internazionale.

Le Nazioni Unite hanno dichiarato di essere impegnate ad aiutare israeliani e palestinesi a discutere la pace sulla base delle risoluzioni delle Nazioni Unite, del diritto internazionale, degli accordi bilaterali e della visione di due Stati basati sui confini pre-1967. Una di queste risoluzioni delle Nazioni Unite è stata adottata dal Consiglio di sicurezza un mese prima dell’entrata in carica di Trump nel gennaio 2017. La risoluzione chiede la fine delle colonie israeliane, con 14 voti a favore e l’astensione dell’amministrazione dell’ex presidente americano Barack Obama.

Mediatore onesto?

I palestinesi avevano precedentemente affermato che gli Stati Uniti non possono essere un onesto mediatore per la pace nella regione, accusandoli di pendere a favore di Israele.

Oltre a spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme, l’amministrazione Trump ha anche tagliato centinaia di milioni di dollari in aiuti umanitari ai palestinesi e riconosciuto la sovranità israeliana sulle alture del Golan occupate da Israele.

A novembre, con l’annuncio del segretario di Stato Mike Pompeo, che Washington non considerava più gli insediamenti israeliani sulle terre occupate della Cisgiordania come incompatibili con il diritto internazionale, l’amministrazione Trump ha ribaltato decenni di politica americana.

Kushner ha detto ad Al Jazeera che gli Stati Uniti credono che la proposta di Trump sia “l’ultima possibilità per i palestinesi di avere uno Stato”.

“È tempo [per i palestinesi] di lasciar andare le vecchie fiabe che a dirlo chiaramente non si realizzeranno mai”, ha aggiunto.

La proposta giunge proprio quando Trump e Netanyahu si trovano ad affrontare problemi politici in patria.

Trump ha ricevuto l’impeachment alla Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti il mese scorso ed è sotto processo al Senato per abuso di potere. Anche lui dovrà affrontare la rielezione a novembre. Netanyahu è accusato di corruzione e le elezioni nazionali saranno il 2 marzo, la sua terza volta in meno di un anno. Entrambi negano di aver commesso un illecito.

Il rivale elettorale di Netanyahu, Benny Gantz, anche lui a Washington questa settimana, ha affermato di aver lui pure appoggiato la proposta.

“Il piano di pace del presidente è una pietra miliare significativa e storica”, ha detto Gantz ai giornalisti lunedì.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




La Cisgiordania era ed è ancora il principale campo di battaglia di Israele

Adnan Abu Amer

24 gennaio 2020 – Middle East Monitor

Circoli israeliani hanno accusato Hamas di continuare ad aggravare il conflitto contro l’esercito e i coloni in Cisgiordania al fine di destabilizzare la sicurezza interna. Questo si è trasformato in crescenti tensioni da parte di Israele, soprattutto in quanto uno dei motivi degli accresciuti timori israeliani è quello di una lotta per la successione di Mahmoud Abbas alla presidenza dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Alla luce di tali timori il servizio di sicurezza [interno] Shin Bet ha annunciato di aver sventato nel 2019 560 importanti operazioni, compresi sei attentati kamikaze, quattro rapimenti di soldati e coloni e oltre 300 uccisioni. L’esercito ha neutralizzato circa 12 cellule armate palestinesi, che avevano programmato di condurre operazioni violente usando esplosivi.

Questi dati israeliani confermano che col passare del tempo le tensioni in Cisgiordania stanno aumentando e che l’opinione prevalente è che un’operazione armata, simile a quella di agosto nella colonia Dolev vicino a Ramallah, in cui è stata uccisa una colona israeliana con un ordigno esplosivo, può avere un buon esito dopo che la cellula che ha condotto l’operazione è riuscita a eludere il sistema di controllo israeliano. Comunque l’identificazione da parte dello Shin Bet della cellula che ha eseguito l’operazione ha svelato una vasta infrastruttura militare.

L’esercito israeliano e i suoi servizi segreti si concentrano su ciò che definiscono l’importante ruolo ricoperto all’interno di Hamas dalla sua struttura in Cisgiordania, che è responsabile della direzione delle operazioni in Cisgiordania. Sta operando su più vasta scala e con maggiore intensità per destabilizzare la sicurezza e per prendere di mira soldati e coloni. Vale la pena sottolineare che alcune delle recenti decisioni prese a livello politico israeliano relativamente ai palestinesi non fanno che gettare benzina sul fuoco, scatenando ulteriori tensioni.

Quindi lo stato di allerta dell’esercito israeliano in Cisgiordania è recentemente aumentato in previsione della possibilità di un improvviso allontanamento di Abbas dalla scena politica. La ragione è che la lotta per la successione potrebbe portare ad una resistenza popolare che sconfini in resistenza armata, dato che la maggioranza dei candidati alla successione ha iniziato ad accumulare armi, sollevando gravi preoccupazioni in Israele.

Il principale fattore che influirà sulla situazione della sicurezza in Cisgiordania restano le elezioni israeliane e la parallela diffusione di messaggi provocatori da parte dei politici israeliani riguardo al futuro della Cisgiordania. Questi includono l’annessione della Valle del Giordano, di importanti blocchi di colonie, il divieto di costruzione per i palestinesi in area C ed altre decisioni arbitrarie.

Tutti questi orientamenti politici e comportamenti israeliani sul campo non faranno che esacerbare le tensioni per la sicurezza in Cisgiordania, suscitando reazioni negative tra i palestinesi, ed hanno un effetto dannoso sul coordinamento per la sicurezza con l’Autorità Nazionale Palestinese, che contribuisce ampiamente alla stabilità dell’esercito e dei coloni. Questo richiede che Israele sia preparato ad ogni sorpresa che possa verificarsi in Cisgiordania.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Cosa c’è dietro il riavvicinamento tra Russia e Hamas?

Adnan Abu Amer

27 novembre 2019 – Al Jazeera

Hamas spera che la Russia possa essere d’aiuto per uscire dall’isolamento internazionale. Ma funzionerà?

Nelle ultime settimane c’è stato un considerevole aumento del numero di scambi ufficiali ad alto livello tra il governo russo e Hamas. Ma quest’intensificazione delle relazioni potrebbe aiutare a spezzare il recente isolamento imposto dagli Stati Uniti e dai loro alleati?

A luglio Mousa Abu Marzouk, vice-presidente dell’ufficio politico di Hamas, ha guidato una delegazione in visita a Mosca e ha incontrato Mikhail Bogdanov, vice-ministro degli esteri russo e inviato speciale per il Medio Oriente e l’Africa.

A metà ottobre si sono nuovamente incontrati a Doha, in Qatar, e poi alcune settimane più tardi l’inviato russo ha avuto una conversazione telefonica con Ismail Haniya, il leader di Hamas.

Secondo le due parti in queste conversazioni si è discusso del cosiddetto “accordo del secolo” del presidente USA Donald Trump e dei motivi del rifiuto di Hamas. 

Le dichiarazioni di vari funzionari russi che sembrano criticare “l’accordo del secolo ” sono state ben accolte sia a Gaza che a Ramallah. A metà ottobre, il presidente russo Vladimir Putin ha detto che avrebbe appoggiato ogni patto che avesse portato la pace, ma ha definito la proposta di Washington “piuttosto vaga”.

La Russia sembra voler rivaleggiare con gli USA nella mediazione fra Israele e la Palestina. Per questo motivo è ansiosa di coinvolgere non solo l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), ma anche Hamas.

L’impegno russo con il movimento non è sorto dal nulla, dato che negli ultimi dieci anni si sono mantenute delle relazioni con i suoi dirigenti. Mentre gli USA e l’Unione Europea hanno etichettato fin da subito Hamas come ” gruppo terroristico “, la Russia ha mantenuto contatti di alto livello fin dal 2006 quando, dopo la sua vittoria nelle elezioni parlamentari, assunse il controllo a Gaza.

 

La Russia ha giustificato questa scelta dicendo che Hamas è il rappresentante eletto di un settore significativo della società palestinese ed è rappresentato nel Consiglio Legislativo Palestinese e nei governi palestinesi.

 Negli anni Mosca ha anche ospitato parecchie sessioni di negoziati volte a forgiare una riconciliazione fra il gruppo di Gaza e il partito “Fatah” del presidente palestinese Mahmoud Abbas. 

Anche se Hamas ha goduto da lungo tempo di cordiali relazioni con la Russia, ha ancora molto da guadagnare rafforzando ulteriormente questo legame.

La Russia è una grande potenza con un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Fa anche parte del Quartetto per il Medio Oriente [composto anche da ONU, USA e UE, ndtr.] che lavora per risolvere il conflitto israelo-palestinese. Inoltre la Russia mantiene strette relazioni con i tre interlocutori che più interessano ad Hamas: Israele, l’Autorità Nazionale Palestinese e l’Egitto. La Russia quindi potrebbe aiutare Hamas non solo a tener testa nell’arena internazionale a Trump e al suo “accordo del secolo “, ma anche a risolvere i suoi problemi con l’ANP e l’Egitto.

I leader a Gaza sanno che le relazioni russo-israeliane si sono ulteriormente rafforzate in seguito all’intervento russo in Siria nel 2015 e dopo l’apertura di un centro di coordinamento delle operazioni degli eserciti russo e israeliano per prevenire incidenti sul campo.

Nonostante ciò, Hamas non considera le relazioni tra la Russia e Israele un ostacolo nello stabilire delle relazioni più strette con Mosca. Al contrario, Hamas crede che Mosca possa usare i suoi legami con Israele per aiutare il movimento a prevenire attacchi politici e militari di Israele a Gaza.

Inoltre Hamas vuole che la Russia aiuti a ristabilire le relazioni con il regime siriano che si sono interrotte nel 2012, quando [Hamas] ha dato il suo appoggio alle proteste contro il regime siriano.

In questo contesto, l’intensificarsi delle attività fra Mosca e Gaza sembra essere una grande vittoria per Hamas, che crede possa porre fine al suo isolamento politico permettendole di unirsi al gruppo dei rappresentanti legittimi del popolo palestinese agli occhi della comunità internazionale.

Ci sono comunque dei motivi per andar cauti nella valutazione sul significato e sulla durata di questo riavvicinamento.

La Russia è interessata a esercitare un influsso maggiore in Medio Oriente in generale, e in Palestina in particolare. Essa crede che spezzare il monopolio americano nel processo di pace sia la chiave per ripristinare il suo controllo dell’intera regione. Vuole avere delle relazioni più strette con Hamas perché considera il movimento un attore chiave in Palestina estraneo all’influsso USA.
Inoltre, Mosca vuole usare Hamas per sviluppare delle relazioni più strette con altri movimenti politici islamici della regione, come la Fratellanza Musulmana.

Non si può valutare l’avvicinamento della Russia a Hamas indipendentemente dalla sua alleanza nella regione con l’Iran. Mosca vuole avere dalla propria parte quante più potenze possibili nella regione per fronteggiare gli USA e pensa che Hamas possa prendere posto nell’asse guidato dall’Iran contro gli alleati degli USA.

Tutto ciò comunque non significa che Mosca sia sulla stessa lunghezza d’onda quando si parla della sua visione del futuro della Palestina. A differenza di Hamas, Mosca sostiene la soluzione dei due Stati e si oppone alla resistenza armata. E inoltre, come membro del Quartetto del Medio Oriente, vuole il riconoscimento di Israele da parte di tutte le fazioni palestinesi.

Tutto ciò fa sorgere serie domande circa le prospettive di una collaborazione a lungo termine fra la Russia e Hamas che possa offrire dei reali benefici politici a quest’ultimo.

Infatti la Russia ha già deluso il movimento su parecchi fronti. Per esempio, l’ufficio di Hamas nella capitale russa non è ancora “ufficiale”, nonostante le ripetute richieste dei suoi funzionari. Ha inoltre fino ad ora fatto poco per alleviare il suo isolamento internazionale.

Anche se senza dubbio Hamas ci guadagnerà ad avere relazioni più strette con una superpotenza, è difficile che Mosca possa offrire tutto quello di cui il movimento ha bisogno, a meno che il movimento stesso non sia d’accordo ad arrivare a dei compromessi, incluso l’accordo a favore di uno Stato palestinese entro la Linea Verde [cioè i confini tra Israele e Cisgiordania del 1967, ndtr.]. Questo potrebbe avere un notevole costo politico sul campo e danneggiare la sua popolarità fra i palestinesi, ma aiuterebbe a farlo uscire dall’isolamento internazionale e a mettere in discussione l’etichetta di “terrorista”.

I segnali del miglioramento delle relazioni con la Russia costituiscono già una svolta importante per il movimento. Ma per essere in grado di massimizzare i vantaggi di questa relazione e rafforzare ancora di più i suoi legami con la Russia, Hamas dovrebbe adottare un approccio pragmatico alla politica internazionale. 

Le opinioni contenute in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente quelle della redazione di Al Jazeera.

 

Il dottor Adnan Abu Amer è il direttore del Dipartmento di Scienze Politiche dell’Università della Ummah [la comunità dei fedeli musulmani, ndtr.] a Gaza.

(Traduzione di Mirella Alessio)




I palestinesi condannano il ribaltamento della politica USA sulle colonie israeliane

Al Jazeera e agenzie di informazione

19 novembre 2019 – Al Jazeera

Gli USA dicono di non considerare più illegali le colonie israeliane, provocando aspre critiche da parte dei palestinesi e delle associazioni per i diritti

Palestinesi, associazioni per i diritti, politici ed altri hanno aspramente criticato l’amministrazione Trump dopo l’annuncio che gli Stati Uniti non considerano più le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata come “incompatibili” con il diritto internazionale.

Dopo aver studiato attentamente tutti gli aspetti del dibattito legale, questa amministrazione concorda ….che l’insediamento di colonie civili israeliane in Cisgiordania non è di per sé in contrasto con il diritto internazionale”, ha detto lunedì il Segretario di Stato USA Mike Pompeo quando ha dato l’annuncio.

Ha detto che l’amministrazione del presidente USA Donald Trump non si atterrà più all’opinione legale del Dipartimento di Stato del 1978 che affermava che le colonie erano “contrarie al diritto internazionale”.

Secondo diverse Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU, la più recente nel 2016, le colonie israeliane sono illegali in base al diritto internazionale, in quanto violano la Quarta Convenzione di Ginevra, che vieta ad una potenza occupante di trasferire la propria popolazione nell’area da essa occupata.

L’annuncio USA, l’ultimo di una serie di iniziative dell’amministrazione Trump a favore di Israele, ha sollevato critiche immediate da parte di palestinesi, associazioni per i diritti e politici in tutto il mondo.

Un portavoce del presidente palestinese Mahmoud Abbas ha detto che la decisione degli USA “è totalmente contraria al diritto internazionale.”

Washington “non è qualificata né autorizzata ad annullare le risoluzioni del diritto internazionale e non ha il diritto di concedere legittimità ad alcuna colonia israeliana”, ha dichiarato il portavoce della presidenza palestinese Nabil Abu Rudeinah.

Hanan Ashrawi, una importante negoziatrice palestinese e membro del comitato esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ha scritto su Twitter, di fronte alla dichiarazione di Pompeo, che l’iniziativa rappresenta un altro colpo “al diritto internazionale, alla giustizia e alla pace.”

Il Ministro degli Esteri della Giordania, Ayman Safadi, ha avvertito che il cambiamento di posizione degli USA potrebbe comportare “pericolose conseguenze” sulle prospettive di riavviare il processo di pace in Medio Oriente.

Safadi ha detto in un tweet che le colonie israeliane nel territorio sono illegali ed annientano la prospettiva di una soluzione con due Stati, in cui uno Stato palestinese dovrebbe esistere a fianco di Israele, cosa che i Paesi arabi ritengono essere l’unica via per risolvere il pluridecennale conflitto arabo-israeliano.

‘Un regalo a Netanyahu’

Più di 600.000 israeliani vivono attualmente in colonie nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme est occupata. Vi risiedono circa 3 milioni di palestinesi.

Le colonie sono state considerate per molto tempo un gravissimo ostacolo ad un accordo di pace israelo-palestinese.

Gruppi di monitoraggio hanno detto che, da quando Trump è diventato presidente, Israele ha accelerato la creazione di colonie.

L’annuncio di lunedì ha segnato un’altra significativa tappa in cui l’amministrazione Trump si è schierata a favore di Israele e contro le posizioni dei palestinesi e degli Stati arabi ancor prima di svelare il suo piano di pace israelo-palestinese a lungo rinviato.

Nel 2017 Trump ha riconosciuto Gerusalemme capitale di Israele e nel 2018 gli USA hanno aperto ufficialmente un’ambasciata nella città. La posizione politica USA precedentemente era stata che lo status di Gerusalemme doveva essere definito dalle parti in conflitto.

Nel 2018 gli USA hanno anche annunciato la cancellazione dei finanziamenti all’UN Relief and Works Agency [Agenzia ONU per l’Aiuto e il Lavoro] (UNRWA), l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi.

E in marzo Trump ha riconosciuto l’annessione israeliana delle Alture del Golan occupate nel 1981, facendo un favore al Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, cosa che ha provocato una dura risposta da parte della Siria, che un tempo deteneva lo strategico territorio.

Lunedì Netanyahu ha plaudito al cambio di politica, dicendo che la mossa degli USA “corregge uno storico errore”.

Yousef Munayyer, direttore esecutivo della Campagna per i diritti dei palestinesi, ha definito l’annuncio di Pompeo “un altro regalo a Netanyahu e un semaforo verde ai leader israeliani per accelerare la costruzione di colonie e anticipare un’ annessione formale.”

Attualmente Netanyahu sta subendo pressioni interne su due fronti, dopo che all’inizio dell’anno in Israele si sono svolte elezioni inconcludenti. Il suo principale rivale politico, l’ex capo di stato maggiore Benny Gantz, ha due giorni per cercare di formare un governo per sostituire Netanyahu, che sta anche affrontando una possibile incriminazione in tre casi di corruzione.

Nell’ultima campagna elettorale Netanyahu ha promesso di annettere ampie parti della Cisgiordania, una mossa che metterebbe ulteriormente a rischio una soluzione con due Stati.

Gantz ha accolto positivamente l’iniziativa statunitense, dicendo in un tweet che “il destino delle colonie dovrebbe essere deciso da accordi che rispettino le esigenze di sicurezza e promuovano la pace.”

Pompeo ha negato la volontà di dare sostegno a Netanyahu, dicendo: “La tempistica di questo (annuncio) non è collegata a niente che abbia a che fare con politiche interne in Israele o altrove.”

Reazioni

Un portavoce dell’Ufficio ONU per i Diritti Umani (OHCHR) ha detto di “condividere la posizione da tempo adottata dall’ONU sulla questione che le colonie israeliane violano il diritto internazionale.”

Rupert Colville ha detto anche che ci sono diverse risoluzioni ONU, come anche sentenze della Corte Internazionale di Giustizia (CIG) che si riferiscono alla questione.

Il 9 luglio 2004 la CIG nel suo parere consultivo ha affermato che la costruzione da parte di Israele del muro di separazione e l’espansione delle colonie sono illegali ed alterano la composizione demografica dei Territori Palestinesi Occupati (TPO), compromettendo in tal modo gravemente la possibilità per i palestinesi di esercitare il proprio diritto all’autodeterminazione”, ha detto martedì ai giornalisti.

Al contempo l’Unione Europea ha detto di continuare a credere che l’attività di colonizzazione israeliana nei territori palestinesi occupati sia illegale in base al diritto internazionale e vanifichi le prospettive di una pace duratura.

La UE chiede ad Israele di porre fine all’attività di colonizzazione, in conformità con i suoi obblighi in quanto potenza occupante”, ha detto il capo della politica estera europea Federica Mogherini in una dichiarazione in seguito all’iniziativa USA.

Kenneth Roth, direttore esecutivo di Human Rights Watch, ha tweettato: “La fittizia dichiarazione di Pompeo non cambia niente. Trump non può spazzare via con questo annuncio decenni di diritto internazionale consolidato secondo cui le colonie israeliane sono un crimine di guerra.”

Anche il senatore USA Bernie Sanders, uno dei più importanti candidati democratici alle elezioni presidenziali USA, , ha detto la sua su Twitter: “Le colonie israeliane nei territori occupati sono illegali.

Risulta chiaro dal diritto internazionale e da molte risoluzioni delle Nazioni Unite. Ancora una volta il signor Trump sta isolando gli Stati Uniti e compromettendo la diplomazia per assecondare la propria base [elettorale] estremista”, ha detto Sanders.

 

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 

 




Un “attacco” contro i mezzi di comunicazione: il blocco di siti web da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese suscita indignazione

Shatha Hammad – RAMALLAH, Territori palestinesi occupati (Cisgiordania)

Venerdì 25 ottobre 2019 – Middle East Eye

Giornalisti e difensori dei diritti umani affermano che la rivolta popolare libanese ha spinto l’Autorità Nazionale Palestinese a soffocare la libertà d’espressione

In seguito a una richiesta del procuratore generale l’Autorità Nazionale Palestinese ha bloccato 59 siti e pagine palestinesi d’informazione sulle reti sociali, una decisione che, secondo i giornalisti e i militanti della società civile, intende soffocare il dissenso e le critiche nei confronti del governo dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP).

L’ANP accusa i siti vietati di insultare i suoi responsabili, di pubblicare articoli e foto che mettono a rischio la “sicurezza nazionale” e la “pace civile” palestinesi e che nuocciono all’opinione pubblica palestinese.

Evocando le recenti rivolte popolari in Libano e altrove nella regione, chi critica la decisione afferma che questa repressione nei confronti dei mezzi di comunicazione è un tentativo da parte dell’ANP inteso a garantire che i palestinesi non facciano altrettanto.

Il divieto è stato in primo luogo segnalato da Maan, un’agenzia di stampa palestinese strettamente legata all’ANP.

Prende di mira siti web e pagine sulle reti sociali che criticano l’Autorità Nazionale Palestinese o che sono percepiti come sostenitori di Mohammed Dahlan, il rivale esiliato del presidente palestinese Mahmoud Abbas.

Secondo Maan l’ordinanza del tribunale per bloccare l’accesso ai siti è arrivata lunedì, dopo una richiesta della procura in base all’articolo 39 comma 2 della legge relativa ai reati informatici.

I provider e le imprese di telecomunicazioni palestinesi hanno applicato la decisione fin dal suo annuncio.

Nel 2017 l’ANP è stata oggetto di vivaci critiche quando, con un decreto esecutivo, è stata adottata la legge relativa alla criminalità informatica, i cui critici accusavano il governo con sede in Cisgiordania di cercare di soffocare le voci dell’opposizione e le critiche per le sue scelte sia politiche che economiche, compresa l’attuale cooperazione con Israele in materia di sicurezza.

Lunedì “Samidoun”, la rete palestinese di solidarietà con i prigionieri, ha dichiarato che la decisione di vietare i siti “rivela il timore (da parte dell’ANP) di un’esplosione popolare simile alle rivoluzioni arabe, l’ultima delle quali si sta svolgendo attualmente in Libano.”

I siti vietati sono tutti considerati oppositori dell’ANP, e tra questi figurano “Quds News Network” e “Arab48”.

Per Ahmed Jarrar, direttore di “Quds News”, è la seconda volta che l’ANP blocca l’accesso al sito web del canale informativo. Creata nel 2013, la rete è seguita da più di 7,8 milioni di persone sulle reti sociali.

Jarrar dice a Middle East Eye che il personale di “Quds News” è spesso molestato dalle forze di sicurezza israeliane e dell’ANP, che impediscono in particolare di informare sulle manifestazioni ed effettuano regolarmente dei controlli di sicurezza.

Definisce la decisione di bloccare i siti “un massacro contro i media palestinesi. Ci siamo già rivolti alla giustizia palestinese e ci torneremo, nonostante la nostra sensazione che non si tratti di una decisione giudiziaria. Comunque contatteremo le istituzioni per i diritti dell’uomo e quelle internazionali perché ci sostengano e facciano annullare questa decisione,” insiste Jarrar.

Il blocco è un crimine”

Dall’applicazione del divieto, alcuni giornalisti difensori dei diritti dell’uomo e avvocati palestinesi si sono uniti nella campagna telematica spontanea con lo slogan “Il blocco è un crimine”, per chiedere l’annullamento dell’ordinanza.

Omar Nazzal, membro della segreteria generale del sindacato dei giornalisti palestinesi (PJS), ritiene che la decisione di bloccare i siti sia scioccante e che si tratti di una giornata nera per la stampa palestinese.

Questa decisione è un attentato alla libertà d’opinione ed espressione, come anche al diritto dei cittadini di informarsi attraverso fonti diversificate,” ha dichiarato a MEE.

Inoltre sottolinea che il PJS aveva già messo in guardia contro gli effetti distruttivi della legge sulla criminalità informatica per i media palestinesi: “Avevamo già avvertito che questa legge era una spada di Damocle per i giornalisti.”

A Gaza alcuni giornalisti hanno organizzato una manifestazione davanti al locale ufficio del sindacato dei giornalisti per esprimere il proprio rifiuto del blocco.

Secondo loro questa decisione è legata al timore dell’ANP che i palestinesi possano scendere in piazza – in linea con le “rivoluzioni arabe” che si manifestano in tutta la regione – per protestare contro le loro specifiche difficoltà politiche ed economiche.

Un portavoce del sindacato di Gaza, Ahmad Zoabar, dice a MEE che il blocco dei siti è una decisione politica che serve ad Israele, impedendo ai giornalisti palestinesi di mettere in evidenza la corruzione dell’Autorità Nazionale Palestinese.

L’ Autorità Nazionale Palestinese teme che la stampa ne denunci la corruzione, cosa che potrebbe portare a un’esplosione popolare simile a quella che sta avvenendo il Libano,” ritiene.

Questo mese migliaia di manifestanti libanesi sono scesi in strada per protestare contro la corruzione dello Stato e la disastrosa situazione economica del Paese. Inoltre chiedono la cacciata del governo libanese e dei membri della classe dirigente.

Una legge adottata in segreto

La legge riguardante la criminalità informatica è stata adottata per la prima volta nel 2017, “in segreto” e senza prendere in considerazione i contributi forniti all’ANP dalle istituzioni della società civile palestinese, spiega Issam Abdeen, consigliere politico del gruppo palestinese di difesa dei diritti umani “Al-Haq”.

Dopo una generalizzata reazione di rifiuto, è stata modificata e adottata di nuovo l’anno dopo.

Ciononostante questi “emendamenti sono stati insufficienti”, dichiara Abdeen a Middle East Eye. Secondo Abdeen, l’articolo 39 della legge è particolarmente problematico, in quanto “consente ai servizi di sicurezza di presentare al procuratore generale una richiesta di bloccare i siti web, che in seguito viene inviata al tribunale, il cui unico compito è di esaminarla e prendere una decisione entro 24 ore.”

I siti web e i link possono essere bloccati se le autorità decidono che essi “potrebbero minacciare la sicurezza nazionale, la pace civile, l’ordine pubblico o la moralità pubblica,” stabilisce l’articolo.

Al-Haq” e altre organizzazioni palestinesi di difesa dei diritti dell’uomo hanno chiesto che l’articolo 39 e altri articoli della legge vengano modificati, ma Abdeen sostiene che le loro richieste sono state respinte. Ciò “ci ha spinti a congelare la nostra adesione al comitato formato per modificare la legge,” precisa.

Questa legge è una delle più gravi e più pericolose per la libertà d’opinione e d’espressione, per le libertà dei mezzi di informazione e le libertà digitali, così come per l’accesso alle informazioni,”

Mohammed al-Hajjar ha contribuito a questo articolo da Gaza.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)