Il francese Libération censura l’autrice Sarah Schulman su Gaza?

Ali Abunimah  

6 aprile 2021 – Electronic Intifada

Il quotidiano francese Libération è stato co-fondato da Jean-Paul Sartre sulla scia delle proteste radicali del maggio 1968. Pubblicato dal 1973, è ancora orgoglioso di “schierarsi dalla parte dei cittadini e dei loro diritti contro tutte le forme di ingiustizia e discriminazione, individuali e collettive.”

Tuttavia, come per molte istituzioni progressiste, la volontà di sfidare i potenti a favore degli oppressi sembra passare in secondo piano quando si si tratta della Palestina.

Almeno questo è ciò che la pluripremiata autrice americana Sarah Schulman ha scoperto dopo essere stata intervistata per Libération all’inizio di marzo, in occasione della pubblicazione dell’edizione francese del suo libro del 2016 Conflict is not Abuse [Conflitto non significa sopraffazione] .

L’intervista è stata eliminata da Libération, e a Schulman è stato detto che era in parte a causa delle sue critiche agli attacchi di Israele contro Gaza.

Conflict is not Abuse è per circa un terzo sulla Palestina e in particolare sulla guerra a Gaza del 2014″, ha detto Schulman a The Electronic Intifada. “Sarebbe impossibile discutere del libro senza parlare dell’efferatezza israeliana e del sostegno degli Stati Uniti a quelle gravi ingiustizie”.

The Electronic Intifada ha visto le due versioni del testo dell’intervista: una prima bozza e una versione finale. La guida etica di Libération prescrive ai giornalisti di inviare il testo delle interviste agli intervistati prima della pubblicazione per verificarne l’accuratezza.

Gli aggressori si proclamano vittime

Nell’intervista per Libération con il giornalista freelance Cyril Lecerf Maulpoix, Schulman illustra i temi centrali del suo libro, in particolare la sua analisi di metodi riparatori, inclusivi e meno punitivi per risolvere i conflitti e ottenere giustizia.

Sostiene che il conflitto è una lotta per il potere senza la quale le ingiustizie non possono essere superate, anche se le parti hanno un livello diseguale di potere e responsabilità in una data situazione. In un conflitto, tuttavia, le parti hanno ancora la capacità di agire e interagire, anche evitando il ricorso alla violenza.

La sopraffazione, al contrario, è l’esercizio del potere dall’alto. Può essere sperimentato nella sfera personale o familiare, ma esiste anche a un livello più ampio: il razzismo, l’islamofobia o l’antisemitismo sono sopraffazioni sistemiche che nessun individuo può eliminare.

Schulman osserva che gli aggressori spesso cercano di evitare responsabilità invertendo i ruoli: si considerano vittime dipingendo le loro vittime prive di potere come una pericolosa minaccia.

I suoi esempi includono Michael Brown ed Eric Garner, la cui uccisione da parte della polizia americana nel 2014 ha suscitato il movimento Black Lives Matter, e la violenza di Israele contro i palestinesi.

“Volevo dimostrare che dalla scala più privata alla relazione geopolitica tra uno Stato e una popolazione si può vedere lo stesso paradigma, in cui nel contesto di un conflitto l’aggressore si presenta come se fosse stato attaccato semplicemente perché qualcuno gli resiste”, sono le parole di Schulman citate nella bozza finale di Lecerf Maulpoix.

Oltre a parlare delle giustificazioni israeliane alla propria violenza contro i palestinesi, Schulman estende questo quadro alla Francia, dove il presidente Emmanuel Macron sta attualmente conducendo una guerra contro la vessata minoranza musulmana del Paese all’insegna della difesa della laicité – laicismo – contro lo spettro di un islamo-gauchisme – “islamo-sinistra” – e di un presunto separatismo musulmano.

“Stiamo vivendo in un periodo molto repressivo, in cui i fascisti si stanno espandendo ovunque e gli aggressori affermano di essere vittime perché è in corso un cambiamento”, afferma Schulman nella prima bozza.

“Possiamo vederlo anche in Francia, col panico dell’islamo-sinistra”, aggiunge, sottolineando con evidente ironia “Suppongo di essere un’ebrea di islamo-sinistra”.

Tutto questo era evidentemente troppo per Libération.

Troppo radicale”

Una settimana fa, circa tre settimane dopo l’intervista, Schulman ha ricevuto un messaggio di scuse da Lecerf Maulpoix.

“Dopo l’invio di due diverse versioni, alla fine il redattore della rubrica Idées [Idee] ha deciso di non pubblicare l’intervista per ragioni che trovo ancora difficili da capire”, scriveva Lecerf Maulpoix.

“Alcune sono quelle che ho catalogato come politiche (su aspetti che trovano troppo radicali, il ruolo della polizia, Israele e Gaza)”, ha aggiunto.

Il giornalista ha scritto a Schulman della sua frustrazione per essere stato incapace di accogliere le richieste degli editori, nonostante “alcune riscritture per adeguare l’intervista alle loro opinioni”.

Entrambe le bozze viste da The Electronic Intifada, in francese, sono ben scritte e trasmettono le idee di Schulman in modo chiaro e conciso.

La versione finale menziona ancora Israele e Gaza, anche se nel complesso è probabilmente più moderata – forse un riflesso degli sforzi infruttuosi del giornalista per accontentare il giornale.

Cécile Daumas, redattrice della sezione Idee di Libération, non ha risposto alle richieste di The Electronic Intifada di un commento.

In assenza di una spiegazione dal giornale, Schulman si è trovata a trarre le proprie conclusioni.

“So che ci sono sforzi internazionali per equiparare falsamente le critiche a Israele e il sostegno ai diritti dei palestinesi con l’antisemitismo, e presumo che Libération sia caduta in quella palude”, ha detto a The Electronic Intifada.

“Ogni giorno sentiamo parlare di persone palestinesi o che stanno con la Palestina che vengono messe a tacere, e questa repressione è in aumento”.

Ali Abunimah è co-fondatore di The Electronic Intifada e autore di The Battle for Justice in Palestine [La battaglia per la giustizia in Palestina], ora uscito per i tipi di Haymarket Books.

Ha scritto anche One Country: A Bold-Proposal to End the Israeli-Palestinian Impasse [Una Nazione: una proposta audace per porre fine all’impasse israelo-palestinese].

Le opinioni espresse sono solo dell’autore.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Orizzonte Palestina: vincere la partita a lungo termine

Richard Falk

21 marzo 2021 – Global Justice in the 21st Century

Il bilancio palestinese: vittorie normative, delusioni geopolitiche

Vincere la partita a lungo termine

Nelle scorse settimane il popolo palestinese ha ottenuto importanti vittorie che potrebbero avere serie conseguenze per Israele se la legge e l’etica governassero il futuro politico. Invece a questi successi si contrappongono sviluppi geopolitici avversi dato che la presidenza Biden ha accolto alcuni dei peggiori aspetti dell’assoluta partigianeria di Trump riguardo a Israele/Palestina. La legge e l’etica incidono sulla reputazione, influenzano la legittimità di politiche contestate, mentre la geopolitica incide più direttamente sui comportamenti. La differenza è meglio compresa separando le politiche simboliche da quelle concrete.

Eppure le conquiste relative alla legittimità non dovrebbero essere scartate solo perché niente che importi sul terreno sembra cambiare, e a volte per vendetta cambia in peggio. Nella lunga partita del cambiamento sociale e politico, soprattutto nel corso degli ultimi 75 anni, il vincitore della guerra per la legittimazione, intrapresa per conquistare terreno sul piano legale ed etico e la ricompensa per l’intensità dell’impegno politico, alla fine lungo il percorso ha per lo più determinato il risultato della lotta per l’autodeterminazione nazionale e per l’indipendenza, superando gli ostacoli geopolitici e la superiorità militare. Finora la dirigenza israeliana, benché preoccupata delle battute d’arresto nel campo di battaglia della guerra per la legittimazione, non si è allontanata dalla strategia americana di concepire la sicurezza attraverso una combinazione di capacità militari e attività regionale, alleandosi contro l’Iran e sovvertendo nel contempo l’unità e la stabilità di Stati vicini potenzialmente ostili.

È fondamentale la grande lezione dell’ultimo secolo che non è stata appresa secondo la quale nella guerra del Vietnam gli USA erano superiori in quanto a potenza militare, eppure sono riusciti a perderla. Perché non è stata appresa? Perché se lo fosse stata, la necessità di un bilancio militare da permanente stato di guerra sarebbe svanita e l’ostinata convinzione mitica che ‘il nostro esercito ci garantisce la sicurezza’ avrebbe perso molta della sua credibilità.

Con il presidente Biden, che riprende una geopolitica conflittuale basata sulle alleanze, la prospettiva è quella di un peggioramento pericoloso e costoso delle relazioni tra le principali potenze economiche e militari mondiali, evitando il tipo di riallocazione delle risorse urgentemente necessaria per affrontare le sfide dell’Antropocene. Possiamo lamentare la disfunzionalità del militarismo globale, ma come possiamo raggiungere la forza politica per sfidarlo? Questa è la domanda che dovremmo fare ai nostri politici, senza distoglierli dall’affrontare le urgenze della politica interna che riguardano salute, rilancio dell’economia e attacchi al diritto di voto.

La lotta dei palestinesi prosegue e offre il modello di una guerra coloniale portata avanti in un’epoca post-coloniale, in cui un potente regime oppressivo sostenuto dal consenso geopolitico è necessario per consentire a Israele di andare controcorrente opponendosi alle potenti maree di libertà della storia. Israele ha dimostrato di essere uno Stato colonialista di insediamento pieno di risorse che ha portato a compimento il progetto sionista per tappe e con il fondamentale aiuto del potere geopolitico e che solo di recente ha iniziato a perdere il controllo del discorso normativo in precedenza controllato attraverso la drammatizzazione della vicenda degli ebrei perseguitati in Europa che meritavano un luogo sicuro, insieme al rifiuto negazionista delle rivendicazioni nazionali dei palestinesi di stare al sicuro nella loro stessa patria. I palestinesi, senza rapporti significativi con la storia dell’antisemitismo, hanno pagato i costi umani inflitti agli ebrei dall’Olocausto, mentre l’Occidente democratico assisteva nel più totale silenzio. Questo discorso unilaterale è stato rafforzato in nome dei benefici della modernità, insistendo sulla sostituzione della sordida arretrata stagnazione araba in Palestina con un’egemonia ebraica dinamica, moderna e fiorente, che in seguito è stata anche considerata come un avamposto occidentale in una regione ambita per le sue riserve di energia e più di recente temuta per il suo estremismo contro l’Occidente e per la rivolta islamista. Il conflitto per la terra e l’identità ideologica dello Stato emergente, sviluppata per un secolo, ha conosciuto molte fasi ed è stata interessata, quasi sempre sfavorevolmente, da sviluppi regionali e interventi geopolitici dall’esterno.

Come nel caso di altre lotte anticoloniali, il destino dei palestinesi prima o poi si invertirà se le lotte del popolo vittimizzato potrà durare più del molteplice potere congiunto dello Stato repressore e, come in questo caso, degli interessi regionali e strategici di attori geopolitici. Può il popolo palestinese garantirsi i diritti fondamentali attraverso la sua stessa lotta condotta contro un insieme di forze interne/esterne, basandosi sulla resistenza palestinese all’interno e sulle campagne di solidarietà internazionali dall’estero? Questa è la natura della partita di lungo termine palestinese e attualmente la sua traiettoria è celata tra le mistificazioni e le contraddizioni di una storia che si sviluppa a livello nazionale, regionale e globale.

Le vittorie normative dei palestinesi

Cinque anni fa nessuna persona sensata avrebbe previsto che B’Tselem, la più autorevole ong israeliana per i diritti umani, avrebbe reso pubblico un rapporto in cui si afferma che Israele ha formato uno Stato unico di apartheid che governa dal fiume Giordano al mare Mediterraneo, che include cioè non solo la Palestina occupata, ma lo stesso Israele. (This is Apartheid: A regime of Jewish Supremacy from the Jordan River to the Mediterranean Sea [Questo è apartheid: un regime di supremazia ebraica dal mare Giordano al mare Mediterraneo], B’Tselem: The Israeli Information Center for Human Rights in Occupied Territory, 12 Jan 2021).[cfr la versione italiana]

Attentamente analizzato, il rapporto mostra che le politiche e le prassi israeliane rispetto all’immigrazione, ai diritti sulla terra, alla residenza e alla mobilità sono state gestite in accordo con un contesto preminente di supremazia ebraica e, in base a questa logica, di sottomissione dei palestinesi (più precisamente dei non ebrei, inclusi i drusi e i cristiani non arabi). Tale assetto politico discriminatorio e di sfruttamento si qualifica come apartheid, come inizialmente instaurato in Sudafrica e poi reso universale come crimine a livello internazionale nella Convenzione Internazionale sull’Eliminazione e la Punizione del Crimine di Apartheid. Questa idea del carattere criminale dell’apartheid è stata portata avanti nello Statuto di Roma, che rappresenta il contesto nel quale la Corte Penale Internazionale dell’Aia svolge le proprie attività. L’articolo 7 dello Statuto di Roma, un trattato tra le parti che regola la CPI, elenca i vari crimini contro l’umanità su cui la CPI esercita la propria autorità giurisdizionale. Nell’articolo 7(j) l’apartheid è definito come tale, benché senza alcuna definizione che l’accompagni, e non c’è mai stata un’indagine della CPI per accuse di apartheid che abbia coinvolto i responsabili israeliani. È significativo che vedere l’‘apartheid’ come crimine contro l’umanità ridurrebbe, rispetto alle accuse di ‘genocidio’, l’onere della prova.

Poche settimane dopo il rapporto di B’Tselem, il 6 febbraio 2021 è arrivata la tanto attesa decisione della Camera preliminare della CPI. Con una votazione di 2 a 1 la decisione della Camera ha stabilito l’autorità di Fatou Bensouda, la procuratrice generale della CPI, di procedere con un’indagine per crimini di guerra commessi dal 2014 nei territori palestinesi occupati, come definiti geograficamente dai suoi confini provvisori del 1967.

Per raggiungere questo obiettivo la decisione ha dovuto fare due importanti affermazioni: primo, che la Palestina, benché priva di molte attribuzioni della statualità come definita dalle leggi internazionali, si configura come uno Stato per le finalità di questo procedimento della CPI, essendo stata accettata nel 2014 come Stato membro dello Statuto di Roma dopo essere stata riconosciuta dall’Assemblea Generale il 29 novembre 2012 come “Stato osservatore non-membro”; secondo, che la giurisdizione della CPI per indagare crimini commessi nel suo territorio, la Palestina è stata autorevolmente identificata come la Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza, cioè i territori occupati da Israele durante la guerra del 1967.

Con una decisione che intendeva dare l’impressione di autolimitazione giurisdizionale, è stato sottolineato che queste situazioni giudiziarie sono state limitate ai fatti e alle richieste presi in considerazione e non pretendono di giudicare in anticipo la statualità o le rivendicazioni territoriali di Israele o della Palestina in altri contesti. L’opposizione di lunga data a questa impostazione ha rifiutato questo ragionamento, basandosi prevalentemente sull’attuale vigenza degli accordi conclusi dalla diplomazia di Oslo che avrebbe modificato lo status dell’occupazione ed avrebbe la prevalenza, concludendo che la procuratrice generale non ha competenza giuridica per procedere con l’indagine (il futuro di questo procedimento giudiziario è incerto, dato che l’ incarico dell’attuale procuratrice termina nel giugno 2021 e subentra un nuovo procuratore, Karim Khan).

Andrebbe rilevato che questo procedimento preliminare ha insolitamente attirato un interesse generale in tutto il mondo sia per l’identità delle parti che per l’intrigante carattere delle questioni. I giuristi sono stati a lungo interessati alla definizione di statualità in relazione a diversi ambiti giudiziari, e hanno definito dispute legali affrontando questioni sollevate in territori senza confini stabiliti in modo definitivo e in mancanza di una chiara definizione dell’autorità sovrana. Un numero senza precedenti di memorie sono state presentate alla CPI da “amicus curiae” [parti terze che intervengono in un procedimento con considerazioni giuridiche presso un tribunale, ndtr.], anche di eminenti figure di entrambe le parti della controversia. (Io ne ho presentata una con la collaborazione del ricercatore di Al Haq [Ong palestinese per i diritti umani, ndtr.] Pearce Clancy. ‘The Situation in Palestine,’ amicus curiae Submissions Pursuant to Rule 103, ICC-01/18, 16 March 2020). Israele non è uno Stato membro dello Statuto di Roma e si è rifiutato di partecipare direttamente al procedimento, ma le sue posizioni sono state ben articolate da varie memorie di amicus curiae. (Ad esempio di Dennis Ross, che ha guidato i negoziati di pace all’epoca di Clinton tra Israele e Palestina (‘Observations on Issues Raised by Prosecution for a ruling on the Court’s territorial jurisdiction in Palestine,’ ICC-01/18, 16 March 2020).

Dal punto di vista palestinese questa decisione fa ben sperare, in quanto un’esaustiva indagine preliminare condotta dalla procura nel corso degli ultimi sei anni ha già concluso che ci sono molte ragioni per credere che in Palestina siano stati commessi crimini da parte di Israele e di Hamas, soprattutto in riferimento a questi tre contesti: 1) la massiccia operazione militare delle IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.] nel 2014 a Gaza, nota come “Margine protettivo”; 2) l’uso sproporzionato della forza da parte delle IDF in risposta alle proteste per il diritto al ritorno nel 2018; 3) l’attività di colonizzazione in Cisgiordania e a Gerusalemme est.

Ora è stato stabilito dal punto di vista giuridico che la procura può procedere anche all’ identificazione di singoli responsabili che potrebbero essere imputati e chiamati a rispondere delle proprie azioni.

Se ciò avverrà dipende ora dall’approccio adottato da Khan quando in giugno assumerà il ruolo di procuratore, il che rimane un mistero nonostante alcune supposizioni.

Un’ulteriore vittoria dei palestinesi è la defezione di sionisti progressisti molto autorevoli e noti che, per così dire, non sono rinsaviti, ma ne hanno parlato apertamente e regolano l’accesso ai principali media. Peter Beinert è l’esempio più significativo nel contesto americano, ma il suo annunciato scetticismo sulla volontà da parte di Israele di trovare un accordo con i palestinesi su una qualunque base ragionevole è un’ulteriore vittoria nel campo della politica simbolica.

Delusioni geopolitiche

È stato ragionevole per la Palestina e i palestinesi sperare che la più moderata presidenza Biden avrebbe ribaltato le iniziative più dannose prese da Trump e che sembravano compromettere ulteriormente il potere negoziale palestinese, così come hanno violato significativamente i diritti fondamentali dei palestinesi e lo hanno negando l’autorità sia dell’ONU che delle leggi internazionali.

Il segretario di Stato di Biden, Antony Blinken, ha inviato segnali in merito alle questioni più significative che sono sembrati confermare e ratificare piuttosto che invertire o modificare l’attività diplomatica di Trump. Blinken ha affermato quello che Biden ha fatto intendere riguardo allo spostamento dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme e quindi si è unito a Trump nella sfida alla risoluzione dell’assemblea generale dell’ONU del 2017 che affermava che questa iniziativa era “non valida” e priva di effetti giuridici. Blinken ha anche sostenuto l’annessione da parte di Israele delle Alture del Golan, che è un’ulteriore sfida alle leggi internazionali e all’ONU, che ha difeso un saldo principio, in precedenza sostenuto nella storica Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU riguardo all’occupazione israeliana dei territori palestinesi dopo la guerra del 1967. Questo testo confermò che un territorio estero non può essere acquisito con la forza ed ha previsto il ritiro israeliano sui confini del 1967 (modificati da negoziati relativi a trascurabili aggiustamenti di confine in accordo tra le parti).

E Blinken ha soprattutto appoggiato gli accordi di normalizzazione tra Israele e quattro Stati musulmani (EAU, Bahrain, Sudan, Marocco) raggiunti da Trump con metodi vessatori e il perseguimento di interessi personali. Ci sono state vittorie principalmente simboliche di Israele relative all’accettazione a livello regionale e a credenziali di legittimità, così come il contenimento regionale e prese di posizione di rifiuto contro l’Iran. Per molti aspetti esse ampliano precedenti sviluppi di fatto con un impatto minimo sulle dinamiche tra Israele e Palestina.

Valutare vittorie e sconfitte

Finora l’ira israeliana contro la CPI prevale sulle sconfitte geopolitiche palestinesi, essendo queste ultime ridotte probabilmente dalle chiare speranze persistenti di un rapporto parzialmente migliore tra l’ANP, gli Usa e i Paesi dell’UE. E ci sono state alcune giuste modifiche, compresa l’annunciata volontà di riaprire i centri di informazione dell’OLP negli USA, la ripresa dei contatti diplomatici tra Washington e l’Autorità Nazionale Palestinese, e qualche dichiarazione che suggerisce un ritorno alla diplomazia in contrasto con il tentativo di Trump di dettare i termini di una vittoria israeliana presentata come “l’accordo del secolo”.

Eppure le prime iniziative di Biden in questioni politiche meno controverse per rimediare il più possibile ai danni di Trump a livello internazionale, dal ritorno all’Accordo di Parigi sul Cambiamento Climatico, all’OMS e al Consiglio ONU per i Diritti Umani per esprimere l’intenzione di ribadire la cooperazione internazionale e un redivivo internazionalismo, contrastano con il fatto di lasciare immutati i peggiori aspetti del tentativo di Trump di infrangere le speranze dei palestinesi. Che ciò possa essere spiegato con la forza dell’appoggio bipartisan negli USA al rapporto incondizionato con Israele o da fattori strategici regionali è oggetto di congetture.

Forse la spiegazione più plausibile è il passato filoisraeliano dello stesso Biden, insieme al suo proclamato impegno per unificare l’America, lavorando il più possibile con i repubblicani. Il suo motto totemico sembra essere “insieme possiamo fare tutto”, che finora non ha ricevuto molto incoraggiamento dall’altro schieramento.

Ciò che potrebbe far sperare in parte i palestinesi è il livello in cui questi due sviluppi sono stati un terreno di scontro per quanti difendono Israele in ogni modo. Persino Jimmy Carter è stato umiliato come “antisemita” perché nel titolo il suo libro del 2007 suggerisce semplicemente che Israele deve fare la pace con i palestinesi o rischia di diventare uno Stato di apartheid. Si ricordi che l’osservazione piuttosto banale di John Kerry secondo cui Israele aveva ancora due anni per fare la pace con i palestinesi nel contesto di Oslo per evitarsi un futuro di apartheid ha incontrato una reazione talmente ostile che egli è stato portato a chiedere scusa per queste considerazioni, rinnegando più o meno ciò che sembrava così plausibile quando lo aveva affermato.

Nel 2017 uno studio accademico commissionato dall’ONU, che ho scritto insieme a Virginia Tilley e che confermava le accuse di apartheid, è stato denunciato al Consiglio di Sicurezza come un documento diffamatorio indegno di essere associato all’ONU. Le affermazioni critiche sono state accompagnate da velate minacce americane di ritirare finanziamenti all’ONU se il nostro rapporto non fosse stato sconfessato, ed esso è stato diligentemente tolto dal sito web dell’ONU per ordine del Segretario Generale [il socialista portoghese António Guterres, ndtr.]. Ormai nei contesti internazionali persino la maggior parte dei militanti sionisti preferisce il silenzio piuttosto che organizzare attacchi contro B’Tselem, una volta molto apprezzata dai sionisti progressisti come prova tangibile che Israele è “l’unica democrazia del Medio Oriente.”

Le reazioni alla decisione della CPI da parte di Israele raggiungono livelli apodittici di intensità. La furibonda risposta di Netanyahu è stata ripresa da tutto lo spettro della politica israeliana. Secondo la vergognosa calunnia contro la CPI: “Quando la CPI indaga su Israele per falsi crimini di guerra ciò è puro e semplice antisemitismo.” Ed ha aggiunto: “Lotteremo con tutte le nostre forze contro questa perversione della giustizia.” In quanto così smodati, questi commenti dimostrano che a Israele interessano molto le questioni di legittimità, e a ragione. Le leggi internazionali e l’etica possono essere sfidate come Israele ha fatto ripetutamente nel corso degli anni, ma è profondamente sbagliato supporre che alla dirigenza israeliana non interessino. Mi pare che i leader israeliani comprendano che il razzismo sudafricano è crollato in buona misura perché ha perso la guerra per la legittimità. Forse alcuni dirigenti israeliani hanno iniziato a capirlo. La decisione della CPI potrebbe risultare un punto di svolta proprio come il massacro di Sharpeville del 1965 [in realtà nel 1960. La polizia sudafricana uccise 70 persone e oltre 180 furono ferite, ndtr.]. Potrebbe essere così persino se, come è probabile, neppure un israeliano venisse portato davanti alla CPI per essere giudicato.

RICHARD FALK

Richard Falk è uno studioso di Diritto Internazionale e Relazioni Internazionali che ha insegnato per quarant’anni all’università di Princeton. Dal 2002 vive a Santa Barbara, California, ha insegnato Studi Globali e Internazionali nel campus dell’università della California e dal 2005 presiede il consiglio della Fondazione per la Pace nell’Epoca Nucleare. Ha iniziato questo blog in parte per festeggiare i suoi 80 anni.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Dopo l’accusa calunniosa di “antisemitismo” di Netanyahu l’UE sostiene la CPI

Ali Abunimah

4 marzo 2021 – The Electronic Intifada

L’Unione Europea sembra respingere le denunce di Benjamin Netanyahu contro la Corte Penale Internazionale dopo che mercoledì la procuratrice capo Fatou Bensouda ha confermato l’avvio di un’indagine formale sui crimini di guerra in Palestina.

Il primo ministro israeliano ha definito le indagini come “l’essenza dell’antisemitismo” e altri leader israeliani si sono scagliati contro con termini analoghi.

Alla domanda di The Electronic Intifada sulla reazione dell’UE ai commenti di Netanyahu, il portavoce dell’Unione Peter Stano non ha risposto in modo diretto riguardo al leader israeliano.

Tuttavia Stano ha affermato che “la CPI è un’istituzione giudiziaria indipendente e imparziale senza obiettivi politici da perseguire”.

Ha anche ribadito che l’UE “rispetta l’indipendenza e l’imparzialità della corte” – un rimprovero implicito alle stravaganti accuse di Israele di pregiudizi antiebraici.

Stano ha osservato che la Corte Penale Internazionale è “un tribunale di ultima istanza, una rete di sicurezza fondamentale per aiutare le vittime a ottenere giustizia laddove ciò non è possibile a livello nazionale, quindi quando lo Stato coinvolto è veramente riluttante o incapace di svolgere le indagini o l’azione penale. “

L’UE ha anche esortato “gli Stati aderenti allo Statuto di Roma e gli Stati non aderenti” – questi ultimi con un chiaro riferimento a Israele, che non ha firmato lo statuto istitutivo della corte – “a stabilire un dialogo” con la CPI che dovrebbe essere “non conflittuale, non politicizzato e basato sulla legge e sui fatti.”

Dato il lungo passato della UE di sostegno virtualmente incondizionato a Israele, è rimarchevole che essa abbia tenuto saldo il suo sostegno alla Corte Penale Internazionale nel momento in cui finalmente il tribunale ha preso in esame le impudenti violazioni dei diritti dei palestinesi da parte di Israele.

L’inchiesta della CPI riguarderà presunti crimini dal giugno 2014, un periodo che comprende la guerra di Israele del 2014 a Gaza e la costruzione di colonie in corso sui territori palestinesi occupati.

La posizione della UE rappresenta una rottura con alleati come Stati Uniti, Canada e Australia che si sono apertamente opposti ad indagini da parte del tribunale su presunti crimini di guerra nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza.

Nonostante il sostegno della UE alla CPI, i lobbisti israeliani si stanno consolando per il fatto che alcuni singoli Stati membri della UE, in particolare la Germania, si oppongono a un’inchiesta sui crimini di guerra.

L’opposizione degli Stati Uniti alla giustizia

Mercoledì, il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha ribadito che l’amministrazione Biden “si oppone fermamente” alla [ricerca di] giustizia e responsabilità nei confronti delle vittime palestinesi dei crimini di guerra israeliani.

Questa opposizione non sorprende dal momento che l’amministrazione Obama-Biden ha rifornito Israele di munizioni nel corso del bombardamento di Gaza dell’estate del 2014, che ha ucciso più di 2.200 palestinesi tra i quali più di 550 bambini.

La posizione di Biden allieterà Netanyahu e altri importanti leader israeliani tra cui il ministro della difesa Benny Gantz, che probabilmente saranno gli obiettivi delle indagini della Corte Penale Internazionale. Gantz era a capo dell’esercito israeliano al momento dell’attacco israeliano del 2014 a Gaza.

Tuttavia, dopo anni di ritardo e decenni di attesa per la giustizia, i palestinesi stanno finalmente osservando che il loro impegno affinché Israele sia ritenuto responsabile e i suoi crimini assodati sta recando i suoi frutti.

(tradotto dall’inglese da Aldo Lotta)




La CPI (Corte Penale Internazionale) ha stabilito di avere l’autorità di indagare sui presunti crimini di guerra di Israele e di Hamas

Redazione di MEE

5 febbraio 2021 – Middle East Eye

Le conclusioni aprono la strada perché la procuratrice capo prosegua le indagini su presunti crimini di guerra commessi a partire dal bombardamento di Gaza da parte di Israele nel 2014.

Venerdì [5 febbraio 2021] i giudici della Corte Penale Internazionale (CPI) hanno stabilito di avere “giurisdizione territoriale” all’interno delle zone occupate da Israele dal 1967, aprendo la strada per una possibile indagine riguardo a presunti crimini di guerra.

Nel gennaio 2020 un collegio giudicante preliminare presso la corte con sede all’Aia è stato incaricato di stabilire l’ambito di competenza giurisdizionale della CPI riguardo a Israele e Palestina, posto che lo Stato di Israele, a differenza dell’Autorità Nazionale Palestinese, non è membro della CPI.

La Palestina ha…accettato di sottomettersi alle condizioni dello Statuto di Roma della CPI e ha il diritto di essere trattato come qualunque altro Stato membro per le materie riguardanti l’applicazione dello Statuto,” ha affermato venerdì la CPI in un comunicato.

Il primo ministro palestinese Muhammad Shtayyeh ha accolto positivamente la decisione, definendo la sentenza della CPI “una vittoria della giustizia e dell’umanità.” Ha anche chiesto alla corte di “accelerare le procedure giudiziarie” riguardo ai casi relativi ai palestinesi.

L’ambito giurisdizionale della CPI includerebbe le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata, generalmente considerate illegali in base alle leggi internazionali.

La convenzione di Ginevra stabilisce che una potenza occupante non può trasferire legalmente parte della propria popolazione nel territorio che occupa, e nel 2004 la Corte Internazionale di Giustizia ha emanato un parere consultivo affermando che costruendo le colonie Israele ha violato i suoi obblighi in base alle leggi internazionali.

Israele ha tassativamente rigettato qualunque forma di giurisdizione della CPI sui propri cittadini.

L’iniziativa è stata contestata anche dagli USA, i più stretti alleati di Israele, che venerdì hanno affermato di essere “seriamente preoccupati riguardo ai tentativi della CPI di esercitare la propria giurisdizione sul personale israeliano.”

Una base ragionevole” per avviare un’indagine

La corte ha preso in considerazione la questione della giurisdizione territoriale dopo che la procuratrice generale, Fatou Bensouda, ha annunciato che esistevano i presupposti per aprire un’indagine complessiva riguardo a presunti crimini di guerra commessi all’interno dei territori occupati.

All’epoca Bensouda aveva sottolineato che, avendo stabilito che c’era “una base ragionevole per avviare un’inchiesta sulla situazione in Palestina,” era comunque necessario che prima la corte definisse la giurisdizione. La sua decisione era arrivata dopo cinque anni di indagini preliminari ed analisi delle prove.

Venerdì, pur notando che problemi di confine e questioni di sovranità non rientrano nell’ambito di competenza della corte, la CPI ha autorizzato Bensouda a procedere con un’indagine esaustiva.

Un’inchiesta complessiva della CPI potrebbe portare a incriminazioni di singole persone, ma non di Stati.

Ora si prevede che Bensouda inizi a indagare funzionari e politici israeliani e di Hamas riguardo a presunti crimini di guerra nei territori occupati a iniziare dal 2014, durante il quale i bombardamenti aerei israeliani contro la Striscia di Gaza provocarono la morte di 2.251 palestinesi, in maggioranza civili. Durante lo stesso periodo vennero uccisi anche 74 israeliani, quasi tutti soldati.

Nel 2015 un rapporto di una commissione ONU stabilì che durante il conflitto sia Israele che gruppi armati palestinesi potrebbero aver commesso crimini di guerra.

Il rapporto della Commissione per i Diritti Umani dell’ONU (UNHRC) affermò che, mentre sia israeliani che palestinesi erano stati “profondamente colpiti” dalla guerra, a Gaza “le dimensioni delle devastazioni erano state senza precedenti”. Sostenne che tra i morti c’erano 551 minori palestinesi e se ne contavano altre migliaia tra gli 11.231 feriti dalle azioni israeliane.

Tra gli israeliani che potrebbero essere indagati dalla CPI ci potrebbero essere: il primo ministro Benjamin Netanyahu, gli ex-ministri della Difesa Moshe Yaalon, Avigdor Lieberman e Naftali Bennett, gli ex-capi di stato maggiore delle Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.] Benny Gantz e Gadi Eisenkot, l’attuale capo di stato maggiore Aviv Kochavi e sia l’ex che l’attuale capo del servizio di sicurezza interno Shin Bet, rispettivamente Yoram Cohen e Nadav Argaman.

Gli USA sanzionano funzionari della CPI

In giugno anche un gruppo di palestinesi della Cisgiordania occupata ha presentato una denuncia alla CPI, chiedendo un’indagine contro importanti politici israeliani e statunitensi che hanno autorizzato il piano “Pace verso la Prosperità” dell’ex-presidente USA Donald Trump.

All’epoca un rappresentante del gruppo ha affermato che c’erano “prove ragionevoli” in base alle quali importanti funzionari USA, compreso Trump, erano stati “complici di azioni che potrebbero rappresentare crimini di guerra riguardanti il trasferimento di popolazione nei territori occupati e l’annessione di territorio sotto la sovranità dello Stato di Palestina.”

Israele e gli USA sono due dei pochi Stati ad essersi opposti alla nascita della CPI, mentre 123 Paesi ne hanno accettato la giurisdizione.

A settembre gli Stati Uniti, sotto Trump, hanno imposto sanzioni contro Bensouda e Phakiso Mochochoko, un altro importante funzionario della procura, per le inchieste su Afghanistan e Palestina. All’epoca Trump sottolineò che la corte non aveva “giurisdizione sul personale degli Stati Uniti e di alcuni dei suoi alleati,” in riferimento ad Israele.

L’amministrazione Biden ha affermato che prevede di rivedere le sanzioni contro i funzionari della CPI. “Per quanto siamo in disaccordo con le azioni della CPI relative ai casi afghano e israelo-palestinese, le sanzioni saranno comunque riesaminate mentre decideremo i nostri prossimi passi,” ha affermato in un comunicato il portavoce del Dipartimento di Stato durante la prima settimana del mandato di Biden.

Il portavoce ha aggiunto che la nuova amministrazione appoggia riforme “che aiutino la corte a realizzare più efficacemente la propria principale missione di punire e scoraggiare atrocità” e in “casi eccezionali” potrebbe collaborare con la CPI.

In seguito alla decisione di venerdì, il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price ha affermato che gli USA sono “seriamente preoccupati” riguardo ai tentativi della CPI di stabilire la propria giurisdizione su personalità israeliane.

Non crediamo che i palestinesi siano uno Stato sovrano e di conseguenza non sono legittimati a ottenere l’ammissione come Stato o a partecipare in tale veste ad organismi, entità o incontri internazionali, compresa la CPI,” ha affermato Price.

Gli Stati Uniti hanno sempre adottato la posizione secondo cui la giurisdizione della corte dovrebbe essere riservata ai Paesi che vi aderiscono o che sono indicati dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Gli effetti catastrofici dell’assedio di Gaza: l’UE deve agire ora per fermare questo crimine

Gli effetti catastrofici dell’embargo a Gaza

Dal 2007, gli abitanti palestinesi della Striscia di Gaza, attualmente 2 milioni di persone, sono stati sottoposti a un blocco da Israele.

Questo blocco condiziona tutti gli aspetti della quotidianità della popolazione e consolida la frammentazione territoriale e politica della Palestina, minando una vita dignitosa e l’autodeterminazione del popolo nella costruzione di uno Stato democratico e indipendente.

La popolazione palestinese di Gaza ha anche patito tre devastanti attacchi militari dalle forze israeliane, nel 2008-2009, 2012 e 2014, che hanno prodotto ingenti danni in termini umani e materiali. La Marcia del Ritorno, tenutasi tra marzo 2018 e la fine del 2019, è stata violentemente repressa. I soldati israeliani hanno sparato contro pacifici manifestanti munizioni vere e proiettili invalidanti, uccidendo 308 persone (inclusi medici, paramedici, giornalisti, donne e bambini) e ferendone 36.143, di cui circa 300 hanno poi subito amputazioni. Oggi, il 2,4% della popolazione di Gaza è disabile.

Il crescente impatto del blocco nella crisi economica, politica e sociale di Gaza è stato documentato da fonti ufficiali e ONG. La riduzione dei redditi ha generato un alto livello di dipendenza verso i sussidi per il cibo, offerti dai programmi delle Nazioni Unite, attualmente all’80% della popolazione, e un serio aumento della povertà e malnutrizione, colpendo primariamente i bambini (50% della popolazione). La mancanza di rifornimenti vitali, come acqua ed elettricità, insieme col deteriorarsi dell’ambiente, ha reso Gaza un luogo inabitabile.

Il settore sanitario è stato particolarmente colpito dal blocco. Negli ultimi 14 anni, non c’è mai stata disponibilità di strumenti (medicinali, dispositivi, strumenti medici e parti di macchinari per reparti diagnostici e laboratori) in quantità e tipologie sufficienti per operazioni ordinarie, né con un rifornimento regolare. Spesso i farmaci salvavita per neonati, quelli contro il cancro e altre malattie progressive non sono disponibili.

Molti pazienti possono ricevere cure solo fuori dalla Striscia di Gaza, ma subiscono costanti divieti, limiti e ritardi per ottenere permessi da Israele, frequentemente con conseguenze letali. I divieti sono spesso esercitati contro il personale medico in partenza per corsi di formazione all’estero, e contro medici specialisti che vengono da fuori i confini.

Dopo esser stato tenuto fuori da Gaza, grazie alle rigide misure di quarantena, il Covid-19 ha colpito la comunità ad agosto e oggi è in costante crescita (fine dicembre 2020). Un primo totale confinamento in ottobre sarebbe stato insostenibile per una popolazione in cui il 60% delle famiglie vive al di sotto della soglia di povertà e il numero di bambini malnutriti è aumentato drammaticamente. Il distanziamento sociale resta comunque difficile in ogni caso data la situazione abitativa (in media 4 figli per famiglia e la coabitazione di più famiglie nella stessa casa). La cifra di 15.000 casi positivi alla fine di ottobre è aumentata a 33.594 il 12 dicembre e 69 decessi in ottobre sono diventati 260. Non vi è alcun segno che il modello di aumento stia cessando, nonostante i confinamenti del fine settimana.

Gli esperti sanitari locali e l’OMS hanno inviato allarmi sul sovraffollamento degli ospedali e sulla mancanza di strumenti medici essenziali per i malati, tra cui ossigeno e kit di analisi. È assolutamente necessario un supporto immediato ea lungo termine. Inoltre, soprattutto nel caso di un altro confinamento completo che potrebbe essere inevitabile nel prossimo futuro, sarà necessario un maggiore sostegno economico e alimentare alla popolazione.

L’UE deve agire, adesso

L’assedio di Gaza è una punizione collettiva imposta da Israele al popolo palestinese di Gaza, illegale secondo il diritto internazionale. Nel frattempo, gli attacchi militari contro la popolazione e le infrastrutture possono essere qualificati come crimini di guerra. L’attuale divisione tra i partiti palestinesi ha peggiorato la situazione, ma ciò non può ridurre la responsabilità primaria della potenza occupante, ovvero Israele, né essere una scusa per lasciare la situazione del popolo palestinese a Gaza così com’è.

Nel contesto di un ulteriore deterioramento della situazione dovuto alla pandemia, l’Unione europea non può limitarsi a fare dichiarazioni o fornire dell’assistenza.

Chiediamo pertanto all’UE di intraprendere le seguenti azioni:

  • Imporre sanzioni (taglio agli aiuti militari e al commercio, fondi per la ricerca e sospensione degli accordi commerciali preferenziali) contro Israele, fintanto che persiste in gravissime violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani della popolazione, che l’UE non può continuare a ignorare . Finché l’assedio di Gaza non verrà revocato, l’UE, in conformità con le proprie regole e principi, dispone degli strumenti per imporre sanzioni.
  • Aprire un dialogo diretto con l’attuale governo di Gaza e allo stesso tempo favorire tutti gli sforzi per raggiungere un accordo di unità nazionale tra le parti palestinesi.
  • Lavorare per la rimozione dell’assedio di Gaza con l’apertura di una rotta marittima, rinnovando il precedente e concordato progetto di costruzione di un porto commerciale in modo che le merci prodotte a Gaza possano raggiungere i mercati esterni e lavorare per l’apertura di un corridoio diretto alla Cisgiordania (accordi di Oslo).
  • Preparare immediatamente un piano di intervento sanitario per Gaza con l’apertura di una linea di finanziamento dedicata e un meccanismo per fornire, in modo stabile e continuo, quantomeno i medicinali salvavita necessari che cronicamente mancano. Questo oltre a fornire supporto immediato per l’emergenza Covid19.
  • Rimuovere i vincoli posti all’erogazione di fondi alle ONG palestinesi. L’UE deve anche richiedere a Israele di accettare missioni politiche e tecniche dell’UE e di rilasciare permessi di ingresso affidabili per avere un ufficio dell’UE a Gaza il prima possibile.

Il blocco di Gaza: una crisi cronica dovuta all’occupazione e all’assedio

La Striscia di Gaza, 365 chilometri quadrati di terra, ospita oltre 2 milioni di persone, di cui il 70% ha meno di 30 anni. Dal 2007 è stata recintata e soggetta al blocco dello Stato di Israele, che ha la responsabilità principale della disastrosa situazione. Israele è l’agente della depressione dell’economia, dell’impoverimento e dell’insicurezza alimentare delle persone, nella maggioranza dei bambini, e del de-sviluppo nella fornitura di cure mediche.

L’Egitto ha aderito al blocco nel 2013, mentre l’attuale divisione tra i partiti palestinesi ha peggiorato la situazione. Il ruolo svolto dall’Autorità Palestinese nell’abbandono e nel boicottaggio economico non ha aiutato a rilasciare la pressione sulla popolazione di Gaza. Inoltre, nel 2017, gli Stati Uniti hanno tagliato i fondi a UNWRA e UNFP e chiuso i progetti dello USAID, peggiorando le condizioni per Gaza, fortemente dipendente da loro, a causa dello stretto blocco al passaggio di persone e merci su terra e mare, e la repressione militare che impediscono alle persone di utilizzare anche le proprie risorse primarie come l’agricoltura e la pesca.

La mancanza di approvvigionamento energetico ha peggiorato tutti gli aspetti della vita quotidiana colpiti dal blocco. Almeno per un decennio, l’alimentazione elettrica è stata di 4 ore e mai superiore a 15 ore al giorno. I bombardamenti israeliani hanno demolito due volte l’unica centrale elettrica di Gaza (che produceva 140 MW e il 30% della quantità necessaria per una fornitura di 15 ore al giorno), e la fornitura da Israele è stata periodicamente tagliata mentre la fornitura dall’Egitto (30 MW) era instabile. Ciò è stato accompagnato da una distribuzione precaria di benzina per i generatori da parte di Israele e dal passaggio limitato di dispositivi solari. La mancanza di energia blocca la produzione locale di tutti i tipi, commercio, conservazione del cibo, riduce drasticamente la fornitura di acqua alla popolazione e impedisce la gestione delle acque reflue, ha ostacolato gravemente i servizi ospedalieri e innescato un collasso totale di tutti gli standard di vita.

Il crescente impatto del blocco sulla crisi economica, politica e sociale a Gaza è stato segnalato da fonti ufficiali e da ONG. Recentemente, l’UNCTAD ha calcolato il costo dell’assedio come una perdita per l’economia di Gaza di almeno 17 miliardi di dollari (6 volte il PIL di Gaza) e ha quantificato il tasso di disoccupazione risultante al 52% (64% per le persone sotto i 30 anni). La diminuzione delle entrate ha generato un aumento della dipendenza dai sussidi alimentari dei programmi delle Nazioni Unite, rivolti ora all’80% della popolazione e un forte aumento della povertà e della malnutrizione, colpendo principalmente i bambini (50% della popolazione).

Il blocco ha un impatto su tutti gli aspetti della vita quotidiana della popolazione e consolida la frammentazione territoriale e politica della Palestina, minando la vita dignitosa e l’autodeterminazione del popolo verso la costruzione di uno Stato democratico e indipendente.

Dall’inizio del blocco, i palestinesi a Gaza hanno subito tre devastanti attacchi militari da parte delle forze israeliane, nel 2008-2009, 2012 e 2014, provocando gravi perdite umane e materiali.

 

Piombo Fuso (2008 -2009)

Pilastro Difesa (2012)

Margine protettivo (2014)

Durata (in giorni)

22

8

55

Palestinesi uccisi

1.409 167 2.251

Civili palestinesi disarmati uccisi

1.172 87 1.462

Bambini palestinesi uccisi

348 32 551

Palestinesi feriti

5.380 5000 11.231

Soldati israeliani uccisi

10

Na

67

Civili israeliani uccisi

3

Na

6

Case distrutte/colpite

14.000 2.174 18.000

Persone sfollate

28.000 10.000 500.000

N. persone senza accesso all’acqua

ND

ND

450.000

Sistema elettrico distrutto

SI

No

SI

 

Tuttavia, l’abuso di violenza letale sugli abitanti di Gaza è permanente. La Marcia del Ritorno, svoltasi tra marzo 2018 e la fine del 2019, è stata violentemente repressa. I soldati israeliani hanno sparato a manifestanti pacifici con munizioni vere e proiettili invalidanti, uccidendo 308 persone (tra cui medici, paramedici, giornalisti, donne e bambini) e ferendone 36.143, di cui circa 300 hanno subito amputazioni. Oggi il 2,4% delle persone a Gaza è disabile. Giornalmente, la sorveglianza da parte di droni e attacchi aerei crea una sensazione permanente di insicurezza tra le persone. Presso la Corte Penale Internazionale è in corso un’indagine sull’eccesso di violenza contro la popolazione civile da parte dello Stato di Israele.

Smantellare il sistema sanitario come strumento dell’occupazione

A Gaza, il principale organismo responsabile della salute pubblica in tutte le sue specialità è il Ministero della Salute con 13 ospedali e 50 cliniche, mentre l’UNRWA, con 21 cliniche e alcune ONG, offre servizi parziali. Negli ultimi 14 anni il Ministero della Salute non ha mai avuto disponibilità di strumenti (medicinali, dispositivi, strumenti medici e parti di macchinari per reparti diagnostici e laboratori) in quantità e natura sufficienti per il normale funzionamento, né con flusso regolare. Spesso i farmaci salvavita per neonati, quelli contro i tumori e altre malattie progressive non sono disponibili. La carenza cronica di elettricità e combustibile per i gruppi elettrogeni, nonché la mancanza di fondi per mantenere personale adatto, ha gravemente compromesso la capacità della popolazione di accedere a diagnosi e cure adeguate. Persone con alcune patologie specifiche non hanno mai avuto alcuna possibilità di cura.

Questa situazione impone ad alcuni pazienti la necessità di farsi curare all’estero, ma subiscono divieti, limiti o ritardi costanti nel ricevere i permessi di uscita da Israele, che hanno avuto anche conseguenze letali. Vengono inoltre esercitati divieti contro il personale sanitario in partenza per formazione all’estero e contro i medici specialisti provenienti da fuori i confini.

Ogni attacco militare ha provocato una catastrofe per le strutture sanitarie che, già impoverite, non avevano le capacità in termini di personale, spazio, farmaci e altri rifornimenti, per far fronte all’ondata quotidiana di feriti. Pertanto, l’offerta sanitaria per la popolazione nel suo complesso ha subito gravi colpi, con ritardi negli interventi chirurgici non di emergenza e ogni altro intervento non traumatologico (fonte Ministero della Salute di Gaza). Tuttavia, anche nella situazione di crisi medica dovuta ad attacchi militari, gli strumenti medici e le medicine essenziali (anestetici, antibiotici, antidolorifici, suture, bende, strumenti chirurgici e di laboratorio, squadre di supporto medico / infermieristico) non sono stati forniti o autorizzati da Israele a entrare per tempo nel territorio e far fronte alle emergenze. Molto spesso, a persone non curabili a Gaza è stato impedito di lasciare la Striscia per cure, provocando ulteriori dolori, amputazioni e in molti casi la morte dei pazienti. A seguito di ognuna di queste crisi, il livello dei rifornimenti sanitari controllati da Israele è diminuito.

Per concludere, nel tempo, il rifiuto israeliano di fornire adeguati mezzi per offrire cura e salute pubblica è stato un mezzo per sottomettere il popolo di Gaza, a dispetto del diritto internazionale umanitario (Quarta Convenzione di Ginevra) e della condanna di organizzazioni e comunità internazionali.

Una nuova emergenza anche per Gaza: la pandemia di Covid 19

Il Covid19 è stato tenuto fuori da Gaza per 5 mesi grazie a costose misure preventive del Ministero della Salute: la creazione di nuovi 16 centri di quarantena nei 5 governatorati per coloro che potevano rientrare a Gaza; con personale dedicato per la sorveglianza e la cura dei posti in quarantena. Ciononostante, Covid19 ha colpito la comunità ad agosto e oggi è in costante crescita (20 dicembre). Un primo blocco totale in ottobre ha avuto effetti moderati nel ridurre la diffusione, ma era insostenibile per una popolazione con l’80% di dipendenza dal cibo e il 60% delle famiglie che vivono al di sotto della soglia di povertà. Le famiglie che riuscivano a malapena a nutrire i propri figli con il lavoro occasionale, non erano più in grado di acquistare cibo a sufficienza. Di conseguenza, il numero di bambini malnutriti sta aumentando notevolmente. Inoltre, purtroppo, nella realtà di Gaza, la distanza sociale è comunque difficile data la situazione abitativa (in media 4 figli per famiglia e coabitazione tra famiglie allargate). L’ acqua pulita non è disponibile per la maggior parte della popolazione, rendendo molto difficile la cura sanitaria richiesta. La cifra di 15.000 casi positivi alla fine di ottobre è aumentata a 33.594 il 12 dicembre e 69 decessi in ottobre sono diventati 260. Non vi è alcun segno che il modello di aumento stia cessando.

Fonte: Ministero della Salute di Gaza (20 dicembre 2020). Reperibile al link : www.we4Gaza.org

Data la gravità della situazione attuale, il 5 dicembre è ricominciato il confinamento completo nei fine settimana. Gli esperti sanitari locali e l’OMS hanno trasmesso allarmi sul sovraffollamento degli ospedali e hanno richiesto supporto a causa della mancanza di strumenti medici essenziali per i malati, tra cui ossigeno e reagenti per i test. Le istituzioni sanitarie hanno bisogno di aiuto immediato e supporto a lungo termine per ricoverare e dare cura alle persone. La popolazione ha anche bisogno di aiuto per resistere al confinamento e continuare a nutrirsi. Il confinamento per ora è l’unica misura preventiva che funziona e siamo tutti consapevoli di quanto possa essere costoso per le persone più svantaggiate. A Gaza, il suo costo potrebbe avere effetti deleteri immediati per la maggioranza.

Cosa chiediamo all’UE

Le istituzioni europee si sono più volte espresse chiaramente, anche di recente, a favore della fine dell’assedio di Gaza e per il rispetto dei diritti umani della sua popolazione. Nel frattempo, la situazione si deteriora ulteriormente e l’uso dell’assedio come punizione collettiva continua a dispetto del diritto internazionale e senza alcuna iniziativa dell’UE per fare pressione su Israele utilizzando gli strumenti in suo possesso.

Chiediamo all’UE di intraprendere le seguenti azioni:

  • Imporre sanzioni (taglio agli aiuti militari e al commercio, fondi per la ricerca e sospensione degli accordi commerciali preferenziali) contro Israele, fintanto che persiste in gravissime violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani della popolazione, che l’UE non può continuare a ignorare . Finché l’assedio di Gaza non verrà revocato, l’UE, in conformità con le proprie regole e principi, dispone degli strumenti per imporre sanzioni.
  • Aprire un dialogo diretto con l’attuale governo di Gaza e allo stesso tempo favorire tutti gli sforzi per raggiungere un accordo di unità nazionale tra le parti palestinesi.
  • Lavorare per la rimozione dell’assedio di Gaza con l’apertura di una rotta marittima, rinnovando il precedente e concordato progetto di costruzione di un porto commerciale in modo che le merci prodotte a Gaza possano raggiungere i mercati esterni e lavorare per l’apertura di un corridoio diretto alla Cisgiordania (accordi di Oslo).
  • Preparare immediatamente un piano di intervento sanitario per Gaza con l’apertura di una linea di finanziamento dedicata e un meccanismo per fornire, in modo stabile e continuo, quantomeno i medicinali salvavita necessari che cronicamente mancano. Questo oltre a fornire supporto immediato per l’emergenza Covid19.
  • Rimuovere i vincoli posti all’erogazione di fondi alle ONG palestinesi. L’UE deve anche richiedere a Israele di accettare missioni politiche e tecniche dell’UE e di rilasciare permessi di ingresso affidabili per avere un ufficio dell’UE a Gaza il prima possibile.

Per tutti questi motivi, è necessario che l’UE richieda anche l’accordo di Israele per le missioni politiche e tecniche dell’UE e di rilasciare permessi di ingresso affidabili per avere un ufficio a Gaza il prima possibile.

https://www.eccpalestine.org/

Traduzione di Cecilia De Luca – AssopacePalestina




Palestina a colori

Mohamed Shurrab

10 dicembre 2020 – We are not numbers

Gaza

La bandiera del mio Paese racconta la nostra storia attraverso i colori. Verde, nero, rosso e bianco: ognuno rappresenta miriadi di storie palestinesi, esperienze che hanno fatto di noi quelli che siamo e che potremmo diventare.

Verde

Il verde era il colore dominante dovunque nel mio amatissimo Paese. È il colore preferito degli agricoltori, il colore del raccolto. Significa duro lavoro, ma anche soddisfazioni e riposo. Purtroppo il verde è stato rubato dalla nostra terra. L’occupazione israeliana ha sradicato le distese di ulivi, sostituendole con colonie – i nostri bei ricordi verdi sono diventati grigio cemento.

Avevo solo 5 anni quando Israele nel 2008 scatenò la prima delle sue tre principali guerre contro Gaza, oggi comunemente chiamata il Massacro di Gaza (“Operazione Piombo Fuso” per gli israeliani). Durò tre settimane e causò la morte di 1.417 palestinesi.

Il terzo giorno ero intento a giocare con le figure del mio supereroe quando il silenzio sembrò avvolgere l’intero quartiere. Era la calma prima della tempesta. Improvvisamente un suono acuto squarciò l’aria, scuotendo la nostra casa come un budino. Il mio giocattolo a forma del verde e muscoloso Hulk cadde a terra. Era un attacco aereo israeliano. Le mie sorelle corsero sul balcone a vedere dove fosse caduto il missile questa volta. Non era il primo, ma era il più vicino. Io saltai in braccio a mia madre, chiedendole che cosa fosse successo, anche se ora mi rendo conto che nulla potrebbe davvero spiegare le nostre vite. Un fiume di lacrime scorreva sul suo viso ed aveva la paura negli occhi.

Persone cattive hanno bombardato la casa dei nostri vicini”, rispose piangendo. “Che razza di persone può uccidere e bombardare?”

Pensai tra me: “Se Hulk esistesse davvero non lo permetterebbe mai.”

Fuori dalla nostra finestra si levò il fumo, tracciando una scia di fumo dalle macerie che lo avevano prodotto. Odio le macerie che seppelliscono la nostra infanzia. Le nostre conversazioni quotidiane riguardano la guerra, il blocco e le sanzioni. Abbiamo visto i nostri amici uccisi, portati via prima della loro ora.

Nella guerra del 2008 le forze di occupazione hanno ucciso 400 bambini in meno di un mese. Mi addolora ogni singola vita persa, ma credo che quelli tra noi che sono ancora vivi hanno qualcosa per cui lottare: il nostro futuro.

Nero

Il nero è simbolo di eleganza – e anche di oppressione, distruzione e cenere. Le forze israeliane ci colpirono nuovamente nel 2012, la più breve delle guerre, ma a suo modo non meno distruttiva.

Avevo 10 anni. Ero andato a comprare il pane per il pranzo e stavo tornando a casa. Giravano voci che stesse per iniziare una nuova guerra, perciò cercavo di camminare in fretta. All’improvviso un aereo sganciò un missile di avvertimento – che esplodeva dai 5 ai 10 minuti prima del colpo “vero”, e doveva servire come gentile avviso di abbandonare la propria casa. Non vedevo distintamente l’aereo, ma il razzo si vedeva abbastanza chiaramente. Sono impallidito, con gli occhi sbarrati. L’adrenalina che avevo in corpo fu più forte del mio spavento e mi permise di correre velocemente a casa, come un lampo. Aprii la porta e vidi la mia famiglia che mi aspettava, pregando che la pace del Signore mi proteggesse. Mi abbracciarono forte.

Rimasi a casa per tutta la durata della guerra, ma ero comunque traumatizzato. Per due settimane persi ogni interesse per qualunque cosa, anche per il disegno, il mio passatempo preferito. Ero triste, depresso e inerte. La guerra durò una settimana, ma la sofferenza durò molto più a lungo. Però avevamo qualcosa per cui lottare: il nostro futuro.  

Rosso

Il rosso è il colore del sangue, noto anche come il sangue degli shaheeds (i martiri). La nostra storia è intrisa di esso. Ma se dobbiamo morire perché altri vivano, che la nostra morte sia un atto di preghiera. Potete indovinare che cosa successe in seguito, vero? Il 2014 con un’altra nuova guerra, più memorabile e devastante delle precedenti.

La mia città perse tutti i suoi colori, tranne il rosso. Furono distrutti edifici, abbattuti alberi. Tutto era cenere nera e grigia, tranne il sangue rosso di oltre 2.700 gazawi uccisi. Durante quella guerra altri 100.000 rimasero senza casa.

Trascorsero 51 giorni in cui vedemmo madri piangere la perdita dei figli, edifici crollare qua e là come gocce d’acqua, persone vivere per strada mangiando rifiuti, ragazzi perdere braccia e gambe.

Ancora oggi l’immagine dei carri armati e aerei da guerra israeliani che invadono la mia città occupa la mia mente, comparendo negli incubi. A volte attraversa la mia mente la domanda: “Perché noi?”. Mentre la maggior parte dei bambini del mondo gioca a calcio e sogna di diventare pompiere, i bambini di Gaza vengono uccisi e molti vivono per strada.

Mi deprime vedere ragazzini che hanno fatto esperienza di guerra e politica.

Bianco

Il bianco rappresenta la sacralità dei nostri luoghi santi. Ma il ricorrente sacrilegio di Israele ha profanato ciò che restava di bianco nel nostro Paese. Gli israeliani costruiscono colonie accanto ai nostri luoghi santi e ci impediscono di pregarvi.

Ciononostante voglio seminare speranza. Perciò mi attengo al fatto che il bianco è anche il colore dell’ottimismo:

Bianco è il mio sogno che un giorno saremo liberi.

Bianco è il mio sogno che un giorno la mia città fiorirà come Singapore.

Bianco è il mio sogno che un giorno vivremo in pace.

Bianco è il mio sogno che coloro che sono ancora vivi conquisteranno il futuro che si meritano.

Tutor: Ben Gass

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Portare finalmente di fronte alla giustizia i criminali di guerra israeliani?

Dana Farraj, Asem Khalil

4 settembre 2020Chronique de Palestine

Le informazioni secondo cui Israele avrebbe stilato degli elenchi di responsabili che potrebbero essere arrestati se viaggiassero all’estero, nel caso in cui la Corte Penale Internazionale decidesse di indagare sui crimini di guerra in Palestina, mettono in evidenza il potere e le potenzialità della Corte. Gli analisti politici di Al-Shabaka Dana Farraj e Asem Khalil dissertano su tre indicatori chiave che confermano la seria possibilità di un intervento della CPI contro i presunti criminali di guerra.

In queste ultime settimane i media hanno parlato di elenchi segreti che Israele starebbe compilando, relativi a militari e agenti dei servizi di intelligence che potrebbero essere arrestati nel momento in cui si recassero all’estero, nel caso che la CPI [Corte Penale Internazionale, ndtr.] decidesse di indagare sui crimini di guerra nei territori palestinesi occupati (TPO) .

Infatti, nei cinque anni trascorsi da quando la procuratrice della CPI ha avviato l’esame preliminare sugli eventuali crimini di guerra nei TPO, l’esercito israeliano ha ucciso più di 700 palestinesi e ne ha feriti decine di migliaia.

Questi morti e questi feriti non sono incidenti isolati, ma fanno parte di una più ampia politica che mira a sopprimere la resistenza palestinese alla colonizzazione della terra. In conseguenza del furto delle terre da parte di Israele e delle sue colonie illegali e del trasferimento dei suoi cittadini nei TPO, le famiglie palestinesi sono state separate, sottoposte a detenzione arbitraria, poste in stato d’assedio e si sono viste negare, tra molti altri abusi, la libertà di movimento.

Si può quindi affermare che Israele è responsabile di crimini contro l’umanità e di crimini di guerra, cosa che forse spiega perché essa [la CPI] non ha voluto indagare ulteriormente sulle denunce e le pratiche in suo possesso.

La CPI si fonda sul principio di complementarietà, il che significa che è autorizzata ad esercitare la propria competenza solo quando i sistemi giuridici nazionali non sono conformi alle norme internazionali. È tuttavia importante notare che ciò comprende le situazioni in cui questi sistemi asseriscono di agire, ma non vogliono e/o non possono attivare reali processi.

La persistente reticenza di Israele ad avviare procedimenti nazionali contro persone che si presume abbiano compiuto crimini di guerra e crimini contro l’umanità in Palestina apre quindi la seria possibilità di un intervento della CPI.

In questo articolo gli analisti politici di Al-Shabaka Dana Ferraj e Asem Khalil pongono in evidenza parecchi indicatori che dovrebbero portare l’Ufficio della Procuratrice (d’ora in poi citato come Ufficio o UdP) a questa conclusione. In particolare lo scritto si concentra su tre indicatori coerenti che fanno riferimento al quadro giuridico e politico approvato dall’Ufficio nel suo documento di politica generale del 2013 che riguarda gli esami preliminari.

Questi indicatori devono essere perciò presi in considerazione dall’Ufficio quando esamina la reticenza di Israele a indagare sui crimini e ad avviare azioni penali (1).

Il primo indicatore è il numero di denunce e di pratiche che sono state archiviate senza indagini degne di tal nome, indipendenti e imparziali. Il secondo riguarda le inchieste fittizie contro soldati di basso rango che proteggono in realtà i decisori politici contro le incriminazioni. Il terzo è il persistente rifiuto di Israele di rispettare il diritto internazionale umanitario e le leggi internazionali sui diritti umani.

Inoltre il dossier si occupa del ruolo del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per quanto riguarda la CPI.

Mancanza di indipendenza, di imparzialità o di volontà

Durante l’offensiva militare contro Gaza del 2014, che Israele ha chiamato “Operazione Margine Protettivo”, molti osservatori indipendenti, tra cui una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite ed organizzazioni locali e internazionali di difesa dei diritti umani, hanno documentato numerosi attacchi illegali, tra cui evidenti crimini di guerra.

Alcuni si sono spinti oltre ed hanno denunciato “l’incapacità e il rifiuto” di Israele di chiamarne a rispondere “coloro che sono sospettati di aver commesso crimini contro civili palestinesi”, indagando in modo imparziale sui presunti crimini di guerra. (2)

Durante l’offensiva israeliana sono stati uccisi oltre 1500 civili palestinesi, sono stati danneggiati ospedali e altre infrastrutture civili e sono state distrutte le case di più di 100.000 persone.

La vastità di queste distruzioni probabilmente non sarà mai conosciuta perché Israele ha impedito agli investigatori internazionali di entrare nella Striscia di Gaza (come anche in Cisgiordania e in Israele). Perciò dopo l’attacco del 2014 gli inquirenti militari israeliani hanno incriminato solo 3 soldati.

Ancor prima, nel 2011, un rapporto della Federazione internazionale dei diritti umani [che rappresenta 164 organizzazioni nazionali di difesa dei diritti umani in oltre 100 paesi, ndtr.] aveva denunciato il rifiuto di Israele di avviare indagini indipendenti, efficaci, rapide ed imparziali sui presunti crimini di guerra nei TPO e l’aveva descritto come una sistematica negazione di giustizia per le vittime. E qualche anno dopo Amnesty International ha constatato che, nei casi in cui dei palestinesi sarebbero stati uccisi illegalmente dalle forze di sicurezza israeliane (sia in Israele che nei TPO), Israele non aveva aperto inchieste o aveva archiviato quelle in corso.

Infatti indagini su moltissimi casi e violazioni che coprono un lungo periodo di tempo sono state archiviate. In un caso particolarmente importante, nell’agosto 2018 gli inquirenti militari hanno deciso di chiudere i fascicoli sulle morti del “venerdì nero”, durante il quale a Rafah, nei quattro giorni nel corso dell’attacco a Gaza del 2014, sono stati uccisi più di 200 civili palestinesi. Di fatto, tra il 2001 e il 2008 sono state trasmesse all’Ispettorato delle Denunce dell’Agenzia per la Sicurezza israeliana più di 600 denunce di comportamenti scorretti, ma nessuna di esse ha portato ad un’indagine penale. Inoltre, secondo le osservazioni conclusive della Commissione delle Nazioni Unite contro la tortura, “su 550 esami di denunce di tortura avviati dall’ispettore dei servizi di sicurezza generale tra il 2002 e il 2007, solo 4 hanno portato a misure disciplinari e nessuno ad azioni penali.”

Nel febbraio 2019 è stata creata una Commissione d’inchiesta dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite incaricata di indagare sulle circostanze relative alle manifestazioni del 2018 nella Striscia di Gaza di commemorazione della Nakba. (3) Dopo che la Commissione ha criticato la mancanza di volontà di Israele ad avviare dei processi, il governo israeliano ha denunciato l’esistenza stessa della Commissione ed ha affermato che ciò forniva una prova ulteriore del partito preso contro Israele da parte del Consiglio. Ha quindi vietato ai membri dell’equipe di tre persone di recarsi in Israele o nella Striscia di Gaza. Il documento di orientamento dell’Ufficio della Procuratrice del 2013 sulle indagini preliminari osserva che questo tipo di risposta è prevedibile, dal momento che gli stessi funzionari che hanno contribuito a redigere e firmare i regolamenti sono gli stessi che sono responsabili in ultima istanza di decidere se essi devono essere oggetto di un’indagine e di incriminazioni.

Le esperte di diritto internazionale Valentina Azarova e Sharon Weill parlano anche di “legami tra i presunti autori [dei crimini, ndtr.] e le autorità competenti incaricate dell’indagine, delle incriminazioni e/o di giudicare i crimini.” Sottolineano che in Israele l’avvocato generale dell’esercito “esercita i tre poteri – legislativo (definire le regole di condotta dell’esercito), esecutivo (fornire consulenze giuridiche “in tempo reale” durante le operazioni militari) e quasi giudiziario (decidere sulle indagini e le incriminazioni).” Ciò consente di evitare che i decisori debbano essere chiamati a risponderne e di evitare la minaccia di un’inchiesta o di incriminazioni da parte della CPI. I tribunali israeliani diventano di fatto “l’esempio per eccellenza di un sistema giuridico che ‘non vuole o non può’ indagare e perseguire i crimini di guerra commessi sotto la propria giurisdizione nazionale.”

Indagini fittizie e poco credibili e protezione dei responsabili

Quando si verificano violazioni di diritti nei TPO soltanto i soldati di basso livello sono tenuti a renderne conto, ricevendo solo una lieve reprimenda. Per esempio, il soldato israeliano il cui assassinio di un palestinese ferito a Hebron nel 2018 è stato ripreso da una videocamera è stato ritenuto colpevole di omicidio volontario e condannato ad una pena di 18 mesi di prigione. La condanna è stata confermata in appello, ma il capo di stato maggiore militare israeliano in seguito l’ha ridotta a 14 mesi. Senza tener conto della clemenza della pena, questa sentenza non riconosce il carattere strutturale o sistematico della violenza che Israele infligge ai palestinesi. Come fa notare Thomas Obei Hansen a proposito dell’approccio complessivo dell’Ufficio della Procuratrice:

In certe situazioni l’Ufficio della Procuratrice ha osservato che, quando le prove indicano crimini sistematici, non basta che un limitato numero di responsabili diretti siano perseguiti e, su questa premessa, ha chiesto alla Camera [per gli esami preliminari, ndtr.] di autorizzare un’inchiesta.”

Anche quando l’Avvocatura Generale dell’esercito ha condotto un’inchiesta sull’offensiva militare del 2014, si è concentrata in particolare su ciò che ha descritto in modo errato come “episodi fuori dalle regole” che avevano provocato un centinaio di denunce. (4) Benché in seguito siano state aperte 19 inchieste penali contro soldati sospettati di aver violato le leggi di guerra, la loro portata è stata limitata ed è parsa essere concentrata esclusivamente su responsabili di basso rango.

Nada Kiswanson, una rappresentante di Al-Haq [organizzazione palestinese per i diritti umani, ndtr.], ha sottolineato: “Nei rarissimi casi in cui un soldato israeliano di grado minore è stato oggetto di un’inchiesta e di incriminazioni, la pena infine comminata non è stata adeguata alla gravità del comportamento criminale.” Tuttavia il rapporto della Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite è andato oltre, rilevando che la questione principale non sta nella portata limitata o nelle carenze di queste inchieste individuali: al contrario, “è la politica in sé che può violare le leggi di guerra”. (5)

L’accento posto sugli autori dei crimini ai livelli più bassi della gerarchia dimostra che Israele non è disposto a riconoscere, e ancor meno ad affrontare, questa impostazione. Al contrario, si intende implicitamente che queste prassi giudiziarie garantiscano che le persone che presumibilmente hanno commesso crimini di guerra e contro l’umanità non siano sottoposte a vere indagini interne e siano inoltre al riparo da ogni responsabilità. Questo aspetto è nuovamente chiarito dall’osservazione di Al-Haq secondo cui il fatto che le indagini si limitino agli “incidenti eccezionali” impedisce di indagare sulle decisioni prese a livello politico ed impedisce anche di intraprendere misure nei confronti degli alti comandi militari e civili le cui azioni ed omissioni provocano crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Per esempio, l’inchiesta politica condotta dalla Commissione Turkel [commissione israeliana incaricata di indagare sul massacro della nave turca Mavi Marmara nel 2010, ndtr.] nei suoi due rapporti del 2011 e 2013 ha constatato che i sistemi di indagine delle forze di sicurezza israeliane appaiono inadeguati, ma ciò non ha comportato cambiamenti significativi e nulla indica che le raccomandazioni dei rapporti verranno attuate. (6)

Rifiuto di rispettare le norme del diritto internazionale umanitario e delle leggi internazionali sui diritti umani

Israele ha costantemente negato l’applicabilità del diritto internazionale umanitario in Cisgiordania. Non definisce nemmeno la situazione come territorio occupato, perseguendo invece l’impresa di colonizzazione e le violazioni dei diritti umani dei palestinesi. Molti organismi delle Nazioni Unite e altre organizzazioni hanno pubblicato rapporti che dimostrano il mancato rispetto da parte di Israele del diritto umanitario internazionale e delle leggi internazionali sui diritti umani, che sono applicabili nella situazione di occupazione. Il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia emesso nel 2004 [che ha condannato la costruzione del muro in Cisgiordania da parte di Israele, ndtr.] è particolarmente duro.

La Risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, adottata il 23 dicembre 2016, ha riaffermato lo status di occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza ed ha esplicitamente condannato “la costruzione e l’espansione delle colonie, il trasferimento di coloni israeliani, la confisca delle terre, la demolizione di case e l’espulsione di civili palestinesi.” Ha rimarcato che tali azioni “violano il diritto internazionale umanitario e le relative risoluzioni.” In risposta, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha approvato la costruzione di nuove unità abitative in Cisgiordania e a Gerusalemme. La sua flagrante sfida al diritto internazionale ha portato alcuni analisti a suggerire che la Procuratrice potrebbe reagire trattando questa attività come crimine di guerra.

Israele nega che le sue attività di colonizzazione in Cisgiordania costituiscano un crimine di guerra, benché tali atti siano esplicitamente vietati dallo Statuto di Roma [costitutivo della CPI, ndtr.], in particolare il “trasferimento, diretto o indiretto, da parte della potenza occupante di una parte della propria popolazione civile nel territorio che occupa” (art. 8 (2)(b)(viii)), come anche, su larga scala, “la distruzione e l’appropriazione di beni, non giustificate da necessità militari ed eseguite in forma illecita ed arbitraria” (art.8 (2)(a)(iv)).

Netanyahu ha chiaramente fatto sapere che Israele continuerà ad agire come vuole, nonostante il fatto che i suoi atti violino la Quarta Convenzione di Ginevra del 1949 ( a cui Israele ha aderito), come anche lo Statuto di Roma, di cui Israele è firmatario. Quest’ultimo fatto impone un “obbligo minimo di non contrastare l’oggetto e il fine del trattato”.

Per fare qualche esempio recente del modo in cui Israele continua a violare il diritto umanitario internazionale e le leggi internazionali sui diritti umani, tra agosto 2016 e settembre 2017 le autorità israeliane hanno confiscato e/o demolito 734 strutture appartenenti a palestinesi in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, trasferendo 1029 persone, ed hanno perseguito i loro progetti di ricollocamento delle comunità di beduini e di altri contadini. Come citato precedentemente, il trasferimento forzato, l’appropriazione illecita, la distruzione di proprietà private e le demolizioni di case costituiscono crimini di guerra e violazioni dei diritti umani. Questi crimini fanno parte di una politica di punizione collettiva sistematica contro i palestinesi.

Il ruolo del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite

Le agenzie delle Nazioni Unite e le organizzazioni internazionali possono prendere delle posizioni o redigere dei rapporti che incoraggiano la CPI ad aprire un’inchiesta o almeno a non sospendere un’inchiesta già in corso. Tuttavia l’art.16 dello Statuto di Roma stabilisce che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite può, a condizione che venga adottata una risoluzione in base al capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite con un voto favorevole di nove membri senza diritto di veto, rinviare un’inchiesta o delle incriminazioni per un periodo rinnovabile di 12 mesi. Questo fornisce al Consiglio di Sicurezza uno strumento per impedire le inchieste nei conflitti in cui sono coinvolti Stati potenti, tanto più che queste risoluzioni possono essere rinnovate ogni anno.

Anche se il Consiglio di Sicurezza non ha ancora utilizzato questo potere di rinvio, la sua sussistenza rappresenta una minaccia permanente all’obbligo di rendere conto, soprattutto alla luce della posizione degli Stati Uniti sulla questione palestinese. È tuttavia immaginabile che il Consiglio di Sicurezza possa giocare un ruolo positivo in altre circostanze, come ha fatto nei confronti dell’apartheid in Sudafrica: il 4 febbraio 1972 ha fatto ricorso al capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite in appoggio ad un embargo obbligatorio sulle armi destinate al regime sudafricano. Pur se molti esperti hanno sostenuto l’applicabilità del crimine di apartheid al contesto palestinese, in particolare un rapporto delle Nazioni Unite sull’apartheid israeliano contro il popolo palestinese, questo punto non compare all’ordine del giorno della CPI riguardante la Palestina.

Il potere di rinvio del Consiglio di Sicurezza deve essere considerato nel contesto della continua pressione degli Stati Uniti sulla CPI. Il Segretario di Stato americano Mike Pompeo, per esempio, ha dichiarato che qualunque membro della CPI coinvolto in un’inchiesta penale riguardante israeliani avrà il divieto di ingresso negli Stati Uniti e potrebbe subire sanzioni finanziarie. È esattamente ciò che è già accaduto l’anno scorso al personale ufficiale della CPI che si occupava dell’apertura di un’inchiesta sulla questione dell’Afghanistan. Inoltre John Bolton, che è stato consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti fino al settembre 2019, ha parimenti affermato che gli Stati Uniti avrebbero utilizzato il Consiglio di Sicurezza dell’ONU per imporsi sulla CPI, e che avrebbero negoziato accordi bilaterali con gli Stati per impedire che dei cittadini americani siano portati davanti alla CPI. Gli attuali sforzi degli Stati Uniti per far fallire e delegittimare la CPI si inscrivono infatti in un attacco diretto contro l’indipendenza della Procura e del potere giudiziario.

Le prossime tappe per la Palestina e la CPI

Come dimostra questo dossier, è molto improbabile che Israele apra delle inchieste penali a livello nazionale. Nonostante la sua prolungata occupazione e la continua annessione de jure di territori nei TPO e le annessioni de facto della sua impresa di colonizzazione, e malgrado le tre offensive militari contro Gaza e molti altri crimini e violazioni del diritto umanitario internazionale e delle leggi internazionali sui diritti umani, Israele resta poco disponibile ad avviare delle indagini. Tuttavia un’inchiesta della CPI può utilizzare questa reticenza, che finora ha fatto il gioco di Israele, come un’opportunità per proseguire il suo lavoro. L’assenza di anche un solo atto di accusa per crimini di guerra ed il numero di morti civili che non sono oggetto di inchiesta dovrebbero essere presi in considerazione dalla CPI nella valutazione della complementarietà.

Inoltre, come sottolineato da Hanson, “le attività di colonizzazione non sono oggetto di alcuna inchiesta penale” in Israele e la decisione di indagare su questa tipologia di reati, contrariamente ad altri crimini rilevati, presenterebbe assai minori difficoltà per la procuratrice della CPI. È un fatto che dovrebbe essere ampiamente evidenziato dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e dalla società civile palestinese, accompagnato da appelli all’azione.

Al momento attuale la CPI è l’unico organo giudiziario indipendente in grado di porre fine all’impunità dei crimini passati e di impedire che ne vengano commessi in futuro. Tenuto conto dell’impunità delle violazioni documentate e generalizzate del diritto umanitario internazionale da parte di Israele, oltre all’obbligo di informare la commissione su gravi crimini internazionali, la Procura della CPI deve proseguire la sua inchiesta mostrando le prove dei crimini e identificando le persone da perseguire, nel quadro di procedure credibili ed efficaci.

Inoltre l’OLP e l’Autorità Nazionale Palestinese, come anche la società civile palestinese, dovrebbero fare tutto il possibile per porre sul tavolo la responsabilità israeliana per il crimine di apartheid, in modo da poterlo inserire all’ordine del giorno della CPI.

Note :

1) Si noti che l’ufficio della procuratrice dispone di altri indicatori per definire la questione della complementarietà, ma questo dossier si concentra sugli aspetti rilevanti per le argomentazioni degli autori.

2) Nel dicembre 2017 sono stati presentati alla procura della CPI da parte di Al-Haq e della PHRC, oltre che da due altre organizzazioni palestinesi per la difesa dei diritti dell’uomo, dei documenti che sollecitano la sua attenzione su 369 denunce penali relative all’offensiva del 2014 che erano state depositate all’ufficio dell’avvocatura generale militare israeliana. Queste organizzazioni hanno notato che la stragrande maggioranza di queste denunce non erano state prese in considerazione e che non era stato emesso alcun atto di accusa.

3) La Nakba (Catastrofe) è il modo in cui i palestinesi si riferiscono alla guerra del 1947-48, quando le forze sioniste obbligarono più di 700.000 palestinesi a lasciare le loro case, creando in questo modo lo Stato d’Israele.

4) La definizione « fuori dalle norme » implica che per quanto riguarda tutti il resto la campagna militare era « regolare » (cioè conforme alle norme e obbligazioni stabilite). Ciò punta chiaramente ad evitare le inchieste internazionali indipendenti.

5) Si veda il « Rapporto delle conclusioni dettagliate della Commissione d’inchiesta indipendente creata in applicazione della risoluzione S-21/1 del Consiglio dei Diritti dell’Uomo », p. 640-41.

6) Israele ha creato la commissione nel 2010 per indagare sull’incursione contro la flottilla di Gaza.

* Dana Farraj è ricercatrice di diritto e avvocatessa iscritta dal 2019 all’Ordine degli avvocati palestinesi. Ha ottenuto il master in diritto internazionale presso l’universita di Aix-Marsiglia e la laurea in diritto all’università di Birzeit. Le sue ricerche riguardano il diritto dei rifugiati, la legislazione sui diritti umani e il diritto penale internazionale.

* Asem Khalil, membro della redazione politica di Al-Shabaka, è docente di diritto pubblico e titolare della cattedra di diritto costituzionale e internazionale S.A. Shaikh Hamad Bin Khalifa Al-Thani all’università di Birzeit. Khalil ha conseguito un dottorato in diritto pubblico all’università di Friburgo, in Svizzera, un master in amministrazione pubblica alla Scuola Nazionale di Amministrazione, in Francia, e un dottorato in Utriusque Juris [sia in diritto civile che ecclesiastico, ndtr.] presso la Pontificia Università Lateranense, in Italia. E’ stato ricercatore invitato alla Scuola di Diritto dell’università di New York (2009-2010 e 2015-2016) e all’Istituto Max Planck in Germania (estate 2015).

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna




Vittoria in tribunale per i 3 di Humboldt e per la Palestina

Qassam Muaddi

24 agosto 2020  Quds News Network

Il movimento di solidarietà con la Palestina nel mondo sta crescendo. Così come la pressione esercitata contro di esso da gruppi di lobby ed organizzazioni pro-Israele; alcune sponsorizzate dallo stesso governo d’Israele.

In Europa, dove il movimento BDS ha affrontato gravi tentativi di delegittimazione, il movimento è stato al centro di un dibattito pubblico negli ultimi anni, soprattutto in Francia e in Germania, polarizzando le posizioni intorno alla questione palestinese.

La vittoria giudiziaria dei tre attivisti nei tribunali tedeschi, due settimane fa, ha segnato un precedente in questa storia. I tre di Humboldt – Ronnie Barkan, Stavit Sinai e Majed Abusalama – hanno affrontato un’accusa per aver protestato contro la visita dell’israeliana Aliza Lavie, membro della Knesset,  a Berlino nel 2017, e la Corte tedesca ha alla fine li ha assolti, condannando solo Sinai per accuse di lievissima entità.

Il caso è particolarmente importante in Germania, un paese che ha stretti legami con lo Stato di occupazione e il cui parlamento ha condannato il movimento BDS come forma di antisemitismo.

Il Network Quds News ha intervistato Majed Abusalama, che ha condiviso le sue opinioni sul caso Humboldt 3, così come alcuni dettagli del processo, che è diventato una storia a sé quando gli attivisti lo hanno usato per dar voce al loro messaggio.

Ha condiviso anche le sue opinioni e quelle dei suoi compagni sul rapporto tra la Germania e lo Stato di occupazione, la battaglia per la narrazione storica, e il ruolo del movimento di solidarietà con la Palestina in questo momento.

Qual è l’importanza della vostra vittoria per il movimento di solidarietà con la Palestina in Europa e nel mondo?

Dovremmo considerare che il nostro caso è avvenuto in un contesto molto complicato, in cui la lobby sionista cerca continuamente di far sembrare noi, il movimento di solidarietà con la Palestina, dei perdenti senza alcuna possibilità di vincere. Siamo stati in grado di dimostrare che non lo siamo. L’abbiamo fatto nell’ambiente più ostile, perché la Germania, come Stato, è smisuratamente complice dello Stato di apartheid di Israele.

I palestinesi in Germania costituiscono la più grande comunità palestinese in Europa, ma noi siamo soffocati. Il nostro diritto di protestare ed esprimerci ci è rubato, sempre intimiditi dalle accuse di antisemitismo, fatta sparire completamente ed esclusa la nostra narrativa palestinese.

Che cosa definisce esattamente come complicità tedesca con lo Stato di apartheid, e come lo spiega?

La Germania è in prima linea nel nascondere i crimini d’Israele contro l’umanità. Attraverso il suo ruolo guida nell’Unione Europea, lo Stato tedesco impone la soppressione del movimento di solidarietà con la Palestina e la sua condanna.

La Germania ha persino venduto sottomarini nucleari allo Stato dell’apartheid. In parte ciò deriva dal senso di colpa tedesco verso la Seconda Guerra Mondiale. Ma questo uso della colpevolezza, a mio parere, non si basa sui valori umani. Si tratta più che altro di un tentativo da parte dello Stato tedesco di costruire un atteggiamento di comodo nei confronti del passato della Germania, anche se è a scapito del discorso sui diritti umani del popolo palestinese.

Credo che questo atteggiamento, e ripulitura dell’apartheid israeliana e del crimine contro l’umanità che ne deriva, dicano molto di quanto questo Stato non abbia imparato la lezione della Seconda Guerra Mondiale. Questa lezione non riguarda la protezione di un gruppo specifico o di uno Stato, ma piuttosto la protezione dei diritti umani e dei valori umani. Questo è il motivo per cui diciamo che lo Stato tedesco ha fallito sul piano dell’umanità nella questione della Palestina.

Vede qualche evoluzione nella società tedesca rispetto alla posizione verso la causa palestinese?

Recenti sondaggi mostrano che un numero crescente di tedeschi è favorevole alla causa palestinese e direi piuttosto che la maggioranza sostiene la Palestina. Questo sostegno è aumentato dopo la seconda Intifada e l’assedio e l’aggressione continua a Gaza.

Inoltre, il pubblico tedesco non poteva restare cieco di fronte all’atteggiamento di Israele verso i diritti umani degli attivisti, come la deportazione del direttore locale in Palestina di Human Rights Watch, Omar Shakir, lo scorso novembre. Il flusso di informazioni libere grazie a Internet ha mostrato troppo perché i tedeschi rimanessero ciechi e indifferenti.

Come ha reagito il pubblico tedesco al vostro caso?

C’era una solidarietà schiacciante con noi, nel tribunale e fuori di esso. Abbiamo trasformato il nostro processo in un processo in cui eravamo gli accusatori, e siamo andati con un messaggio e il pubblico tedesco lo ha ricevuto. Poiché vogliamo che lo Stato dell’apartheid sia processato in un tribunale tedesco, abbiamo deciso di ricorrere al nostro stesso processo per farlo.

Ci siamo concentrati sul membro della knesset Aliza Lavie. Eravamo sotto processo per aver protestato contro la sua visita a Berlino nel 2017. Aliza Lavie è stata direttamente responsabile dell’attacco a Gaza nel 2014 perché ha partecipato nel prendere la decisione di quell’attacco, che ha ucciso oltre 2000 palestinesi, tra cui 500 bambini.

E’ anche la presidentessa della lobby anti-BDS, che promuove la repressione del BDS e di tutti gli attivisti palestinesi. La lobby sionista ha cercato di manipolare il caso, come al solito rigirando e fabbricando la verità sul fatto che saremmo violenti, ma questo non ha avuto successo. Era un tentativo di spostare l’attenzione nostra e del pubblico, ma ci siamo concentrati sul nostro messaggio politico e morale.

Ho detto al giudice che sono di Gaza e che Lavie aveva la responsabilità criminale dell’uccisione dei miei amici e della mia gente a casa, e che era a pochi metri da me. L’ho sfidato su come si sarebbe sentito al mio posto.

I miei compagni hanno anche sfidato Lavie direttamente e le hanno detto che è una criminale e che appartiene alla prigione della Corte Penale Internazionale. Quella era l’intera discussione durante il processo. Non abbiamo deviato da essa.

Com’è stato l’atteggiamento della corte nei confronti del vostro messaggio?

Non hanno trovato niente e siamo stati assolti. Ma hanno multato Sinai per la pena minima di 450 euro, perché ha bussato alla porta tre volte, chiedendo di chiedere i dettagli di qualcuno che l’aveva assalita quando eravamo stati tirati fuori. La decisione della corte è ridicola. Era solo un tentativo di salvare la faccia del tribunale difronte alla lobby sionista e a Israele, e dice quanto le istituzioni tedesche sono prigioniere della pressione di questa lobby, e persino complici dell’occupazione e dello Stato di apartheid.

Qualcuno potrebbe dire che è un’accusa dura per le istituzioni tedesche. Perché, secondo voi, sono complici?

Il parlamento tedesco dichiarò il movimento BDS antisemita contro il sistema giudiziario tedesco. In tutta la Germania, molti tribunali hanno dichiarato il movimento BDS una forma legittima di libertà di espressione e di protesta, ma il parlamento tedesco mantiene la sua accusa diffamatoria verso di noi, cosa che mostra che quella del BDS è solo una dichiarazione politica.

Ora c’è anche una decisione giuridica europea, dopo che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si è pronunciata a favore dei nostri compagni in Francia, anch’essi accusati di antisemitismo nei tribunali francesi. Questa complicità è politica ai massimi livelli.

Quali lezioni si possono trarre dal vostro caso?

Vogliamo chiarire che questa storia non riguarda noi personalmente. Questa è la storia della Palestina e della solidarietà globale con essa. La nostra vittoria è una vittoria per la lotta palestinese, che è lotta di tutti gli uomini e le donne di coscienza in tutto il mondo. In secondo luogo, vogliamo potenziare la nostra comunità, in Germania, in Europa, in tutto il mondo e in Palestina. Noi non siamo soli. Tutti quelli che si oppongono al colonialismo, alle violazioni dei diritti umani e all’apartheid nel mondo intero sono dalla parte della lotta palestinese.

Quale messaggio trasmette la vostra storia al popolo palestinese, nel momento in cui alcuni Stati arabi stanno normalizzando le loro relazioni con lo Stato di occupazione, specialmente dopo gli accordi di pace tra Israele e gli Emirati?

La narrazione di Israele è rimasta così a lungo perché molte persone non conoscevano la realtà della nostra causa, ma questa narrazione sionista sta cadendo a pezzi e Israele non può più nascondere il suo vero volto criminale e di apartheid. Questo è il momento giusto per il nostro popolo di diventare più autosufficiente e contare su se stesso nella lotta.

Sappiamo troppo bene che gli Stati cercheranno di normalizzare, ma noi possiamo contare sul movimento di base di persone coscienti nei paesi arabi e su tutte le persone di coscienza nel mondo per continuare a sfidare la normalizzazione, intensificando il BDS e tutte le forme di resistenza per ritenere Israele responsabile. La causa palestinese sarà sempre sul tavolo per esaminare la coscienza delle persone in tutto il mondo ed è un movimento di cittadinanza globale che la sostiene.

Ma siamo noi, palestinesi, a dover condurre questa lotta. Noi, il popolo palestinese, e la Palestina siamo al centro della nostra lotta.

Traduzione di Flavia Lepre

da Contropiano




Qual è il futuro della resistenza popolare palestinese a Gaza? Un colloquio con la giornalista Wafaa Aludaini

Ramzy Baroud e Romana Rubeo

2 giugno 2020 – Palestine Chronicle

Wafaa Aludaini è una testimone di molte delle recenti tragedie di Gaza ed anche della sua resistenza senza fine. Ha sperimentato la violenta occupazione israeliana, il successivo blocco dell’impoverita Striscia e varie guerre che hanno portato alla morte e al ferimento di decine di migliaia di palestinesi.

Ma nessuna delle guerre di Israele ha ha avuto un tale impatto sulla vita di Aludaini quanto il massacro del 2014 che Israele ha denominato “operazione Margine Protettivo”.

Tra le circa 18.000 case distrutte dalle bombe israeliane lo sono state anche una della famiglia di Wafaa e l’altra della famiglia di suo marito.

Durante i bombardamenti durati 51 giorni le infrastrutture di Gaza, già in rovina in seguito a precedenti guerre e a un lungo assedio, hanno subito un pesante colpo.

La perdita più insostituibile è stata quella di vite umane, in quanto 2.251 palestinesi sono stati uccisi e oltre 11.000 feriti, molti dei quali mutilati per sempre.

Tuttavia guerra e assedio hanno solo rafforzato la risolutezza di Wafaa in quanto si è impegnata ancor di più nell’informare da Gaza, sperando di svelare verità a lungo nascoste e sfidare la narrazione prevalente dei media e gli stereotipi più diffusi.

Durante la “Grande Marcia del Ritorno”, un movimento popolare iniziato il 30 marzo 2018, Wafaa si è unita ai manifestanti informando giornalmente dell’uccisione e del ferimento di giovani disarmati che accorrevano nei pressi della barriera che separa Gaza da Israele per chiedere la libertà e i propri diritti umani fondamentali.

Infuriati dai quotidiani slogan dei rifugiati di “Fine all’assedio” e “Palestina libera” e dall’insistenza risoluta sul loro “Diritto al Ritorno” ai villaggi d’origine in Palestina, che subirono la pulizia etnica durante la nascita violenta di Israele nel 1948, i cecchini israeliani hanno aperto il fuoco. Nei primi due anni della Marcia [del Ritorno] sarebbero stati uccisi oltre 300 palestinesi e migliaia feriti.

Aludaini era là durante tutta questa dura prova, informando su morti e feriti, consolando famiglie in lutto e partecipando anche a un momento storico, quando tutta Gaza si è sollevata e si è unita dietro a un unico canto di libertà.

Aludaini non è stata una tipica giornalista che corre dietro ad una storia nei pressi della barriera, in quanto è stata sia la storia che la narratrice.

Sono una giornalista, ma anche una rifugiata. I miei genitori furono espulsi dal loro villaggio in Palestina, che oggi è Israele,” afferma.

Non è facile essere giornalista a Gaza, perché ogni giorno rischi di essere uccisa, ferita o arrestata dalle forze di occupazione israeliane. Di fatto molti giornalisti sono stati uccisi dal fuoco israeliano in questo modo.”

Sul perché abbia scelto il giornalismo come professione benché abbia studiato letteratura inglese in un’università di Gaza, Aludaini sostiene che più ha compreso come i principali mezzi di informazione raccontano della Palestina più si è sentita frustrata dalla descrizione scorretta della Palestina e della lotta dei palestinesi.

I giornalisti che propongono la narrazione sulla Palestina nei principali media stanno in un certo modo aiutando l’occupazione israeliana a uccidere più persone innocenti in Palestina, e in particolare nella Striscia di Gaza. Stanno rafforzando la gente (gli israeliani) che ci espulse nel 1948, incoraggiandola a violare le leggi internazionali,” dice Aludaini.

Chiedo a loro di venire qui, in Palestina, a vedere con i propri occhi, a vedere il muro dell’apartheid, a vedere i checkpoint, a vedere quello che sta succedendo nelle carceri israeliane. Solo dopo che avranno visto con i propri occhi potranno dire la verità, perché i giornalisti dovrebbero dire la verità e stare dalla parte dell’umanità, indipendentemente dalla religione e di qualunque altra cosa.”

Allo stesso modo Aludaini sfida i “difensori dell’occupazione israeliana” a venire in Palestina e ad “ascoltare le persone a cui sono stati uccisi i figli; quelle che sono state espulse dalle proprie case. In ogni casa in Palestina c’è una storia di sofferenza, ma non troverai mai (queste storie) nei media più importanti.”

Riguardo alla Grande Marcia del Ritorno Aludaini afferma che è stata “una protesta popolare, in cui la gente di Gaza si è riunita presso la barriera di separazione tra Gaza e Israele” per manifestare varie forme di resistenza centrate soprattutto sulla resistenza culturale.

I manifestanti hanno portato avanti varie forme di “attività tradizionali, come ballare la dabka [ballo tipico palestinese, ndtr.], cantare vecchie canzoni, cucinare piatti palestinesi,” afferma Aludaini, notando che le scene più toccanti sono state quelle di “anziani palestinesi che portavano le chiavi delle case da cui vennero espulsi a forza nel 1948 durante la Nakba,” cioè la Grande Catastrofe.

Questa forma di resistenza popolare non è nuova per i palestinesi, in quanto essi hanno sempre usato tutti i mezzi a disposizione per lottare per i propri diritti, contro l’occupazione (militare israeliana), come le proteste settimanali (alla barriera di Gaza), o (l’atto simbolico di) lanciare pietre. Persino quando i gazawi hanno fatto ricorso alla resistenza armata la gente non ha mai smesso si mettere in atto anche forme di resistenza popolare.”

Ma questa è la fine della Marcia del Ritorno?

Aludaini dice che la Marcia non è finita, tuttavia la strategia verrà ridefinita per ridurre il numero di vittime.

Dopo circa tre anni di proteste l’Alto Comitato della Grande Marcia del Ritorno ha deciso di cambiare l’approccio delle proteste. D’ora in avanti le marce si terranno solo in occasioni nazionali invece che ogni settimana, perché Israele usa forze letali contro manifestanti pacifici e disarmati.”

Secondo Aludaini il ministero della Salute di Gaza, già in crisi per la mancanza di materiale sanitario, elettricità e acqua potabile, non può più sostenere la pressione di morti e feriti quotidiani.

La stessa Aludaini ha passato molte ore negli ospedali di Gaza, a intervistare e confortare i feriti. Ci ha detto di una madre di Gaza con quattro figli che ha partecipato ogni venerdì senza mai mancare alla Marcia. “Un giorno è stata colpita a una gamba, e faceva fatica a camminare. Ma il venerdì seguente è tornata alla barriera. Quando le ho chiesto perché fosse tornata nonostante la ferita mi ha detto: ‘Non permetterò mai agli israeliani di rubare la mia terra. Questa è la mia terra, questi sono i miei diritti e tornerò continuamente (a difenderli).’”

Per Aludaini è la resilienza di quelle persone apparentemente ordinarie che la ispira e le dà speranza.

Un’altra storia riguarda una diciannovenne che implorava continuamente i suoi genitori di unirsi alle proteste. Quando finalmente hanno ceduto, la giovane è stata colpita a un occhio da un cecchino. Aludaini e i suoi compagni sono corsi all’ospedale per dimostrare solidarietà alla manifestante che aveva perso un occhio per poi trovarla con il morale alto, più forte e determinata che mai.

Ci ha detto che appena avesse lasciato l’ospedale pensava di tornare alla barriera.”

Aludaina smentisce la “propaganda israeliana” secondo cui le sue guerre e la continua violenza a Gaza sono motivate dall’autodifesa. Se così fosse “perché Israele prende di mira la Cisgiordania, anch’essa sottoposta all’annessione e all’apartheid?” chiede.

(In genere) non c’è resistenza armata (in Cisgiordania), ma nonostante ciò (l’esercito israeliano di occupazione) continua ogni giorno ad uccidere persone.”

Aludaini, frustrata dalla scarsa importanza data agli studi mediatici nelle università di Gaza, è determinata a continuare il suo lavoro come giornalista e come attivista perché, quando i media non denunciano i crimini di Israele a Gaza, sono persone come Wafa Aludaini che fanno la differenza.

Ramzy Baroud è giornalista ed editore di The Palestine Chronicle. È autore di cinque libri. Il suo ultimo è “Queste catene saranno spezzate: storie palestinesi di lotta e sfida nelle carceri israeliane” (Clarity Press, Atlanta). Baroud è ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA), Istanbul Zaim University (IZU).

Romana Rubeo è una giornalista italiana e caporedattrice di The Palestine Chronicle. I suoi articoli sono apparsi su molti giornali online e riviste accademiche. Ha conseguito un Master in Lingue e letterature straniere ed è specializzata nella traduzione audiovisiva e giornalistica.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Euro-Med: l’acquisto da parte dell’UE di droni israeliani favorisce la violazione dei diritti umani nella Palestina occupata

Palestine Chronicle, WAFA [Agenziadi Stampa Palestinese], Social Media

5 maggio 2020 – Palestine Chronicle

LEuro-Mediterranean Human Rights Monitor [Monitoraggio Euromediterraneo dei Diritti Umani, organizzazione non governativa, ndtr.] (Euro-Med) con sede a Ginevra ha affermato oggi in un comunicato che i contratti per 59 milioni di euro stipulati dall’Unione Europea con industrie belliche israeliane per la fornitura di droni da guerra per la sorveglianza dei richiedenti asilo in mare sono immorali, di dubbia legittimità giuridica e favoriscono le violazioni di diritti umani nella Palestina occupata.

Secondo quanto riportato, i 59 milioni di euro dei recenti contratti dell’UE per i droni sono andati a due industrie belliche israeliane: Elbit Systems e Israel Aerospace Industries, IAI. L’Hermes 900 di Elbit è stato sperimentato sulla popolazione della Striscia di Gaza assediata nella guerra israeliana del 2014 contro Gaza, l’operazione Margine Protettivo.

Euro-Med ha affermato in una nota come questo investimento dimostri che l’UE sta investendo in attrezzature israeliane il cui “pregio” è stato dimostrato nel corso dell’oppressione del popolo palestinese e dell’occupazione del suo territorio. E ha aggiunto che questo acquisto di droni va visto precisamente come supporto e incentivo all’uso sperimentale di tecnologia militare da parte del regime repressivo israeliano.

“È scandaloso che l’UE acquisti droni dai produttori israeliani considerando i modi repressivi e illegali con cui sono stati usati nell’oppressione dei palestinesi, che vivono sotto occupazione da più di cinquant’anni”, ha affermato il prof. Richard Falk [ebreo americano, professore emerito di diritto internazionale a Princeton, ndtr.], presidente del consiglio di amministrazione di Euro-Med.

“È anche inaccettabile e disumano che l’UE utilizzi dei droni, indipendentemente da come se li è procurati, per violare i diritti fondamentali dei migranti che rischiano la vita in mare per cercare asilo in Europa”, ha aggiunto il prof. Falk.

L’UE dovrebbe scoraggiare le violazioni dei diritti umani a danno dei palestinesi astenendosi dall’acquistare materiale bellico israeliano utilizzato nei territori palestinesi occupati, ha affermato Euro-Med.

“Israele, Paese super-esperto nella manipolazione del termine ‘sicurezza’, è sul punto di beneficiare grandemente dai relativi sviluppi. Sta già sfruttando abilmente la mentalità europea ossessionata dalla sicurezza per ampliare il suo spazio nel mercato delle armi”, hanno scritto Ramzy Baroud e Romana Rubeo in un recente articolo.

“Israele è il settimo esportatore di armi al mondo e sta emergendo come leader nell’esportazione globale di droni aerei”, hanno aggiunto Baroud e Rubeo.

“Il marchio israeliano è particolarmente popolare perché la sua tecnologia è ‘sperimentata in combattimento’. In effetti, l’esercito israeliano ha avuto ampie opportunità di testare le sue diverse armi e dispositivi di sicurezza contro i civili palestinesi “.

(traduzione dallinglese di Luciana Galliano)