La “S” in BDS: L’insegnamento della Campagna della Elbit Systems (Parte I)

Da: Al-Shabaka

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente senza scopo di lucro la cui missione è di educare e stimolare il dibattito pubblico sui diritti umani palestinesi e sull’autodeterminazione nel quadro del diritto internazionale.

In questo documento programmatico di Al-Shabaka, Maren Mantovani e Jamal Juma analizzano alcune delle congiunture che il complesso militare industriale di Israele si trova ad dover affrontare, con un focus particolare sulla campagna contro la Elbit Systems.

6 settembre 2016

Il rapporto esamina i momenti difficili che attendono il settore, il mito della superiorità tecnologica israeliana, i cambiamenti locali e globali del settore, e le alleanze emergenti al fine di ribaltare (il processo di, n.d.t.) militarizzazione e la cartolarizzazione delle aziende. Sulla base di questa analisi, essi traggono insegnamenti importanti e identificano, per il movimento globale per la solidarietà palestinese, gli indirizzi da perseguire.

Le più grandi aziende militari di Israele l’anno scorso hanno lanciato il segnale d’allarme per un calo dei contratti internazionali, citando tra i motivi i budget ridotti, una maggiore concorrenza e una minore richiesta dei prodotti israeliani. Si tratta di un indicatore del fatto che l’industria delle armi israeliana potrebbe non essere così imbattibile come sembra? Che cosa ha indotto il crollo del commercio di armi con le aziende israeliane? Qual è stato il ruolo del movimento a guida palestinese per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), che ha chiesto le sanzioni militari come parte della sua campagna per promuovere i diritti umani?

Un settore “imbattibile” si confronta con momenti difficili.

Per anni, i palestinesi e i loro sostenitori – personaggi mondiali come Desmond Tutu, Adolfo Peres Esquivel, Naomi Klein e Noam Chomsky – hanno chiesto un embargo militare immediato e globale contro Israele sostenendo la sua responsabilità nelle violazioni dei diritti umani dei palestinesi. Decine di migliaia di persone hanno firmato petizioni e gli attivisti hanno manifestato contro le aziende legate al settore militare israeliano. Negli ultimi dieci anni, gli attivisti hanno condotto una campagna contro la Elbit Systems, una delle più grandi compagnie militari di Israele. Lo sforzo va da pressioni a livello governativo ad attività di blocco delle filiali della Elbit in paesi come l’Australia, il Regno Unito (UK), e il Brasile.

Una dozzina di istituti finanziari, tra cui quasi tutti i principali fondi pensione scandinavi, non stanno più investendo nella Elbit Systems. Inoltre, e in particolare a seguito di importanti attacchi israeliani, alcuni governi europei hanno adottato misure restrittive, inclusi il congelamento temporaneo del commercio di armi e il rifiuto di licenze di esportazione di armi. Ad esempio, il Regno Unito ha revocato cinque licenze di esportazione di armi dopo il massacro di Gaza del 2009-10, la Spagna ha congelato la vendita di armi dopo il massacro di Gaza del 2014, e durante il periodo del suo governo di centro-sinistra (2005-13), la Norvegia ha rifiutato costantemente le licenze di esportazione di armi a Israele e ha anche impedito che un costruttore tedesco sperimentasse nelle sue acque sommergibili di appartenenza israeliana. Il Sud Africa ha di fatto cessato le sue relazioni militari con Israele.

Eppure, fino a poco tempo sembrava che queste azioni mantenessero un impatto simbolico: L’industria militare israeliana appariva imbattibile, come le armi che produceva. La situazione è cambiata nel mese di ottobre dello scorso anno, quando le più grandi aziende militari di Israele hanno chiesto un incontro con il governo per discutere su come affrontare la riduzione delle esportazioni militari, che si prospettavano, al momento, in calo dai 7,5 miliardi di dollari del 2012 ai circa 4,5 miliardi di dollari nel 2015. Le aziende sottolineavano che il margine di profitto dell’industria della difesa di Israele è di circa il 4,5 per cento – 5,5 per cento, contro l’8 per cento – 9 per cento del settore della difesa in ambito mondiale. Esse adducevano come motivi “budget ridotti, maggiore concorrenza, minore richiesta di prodotti israeliani, e la crescita delle richieste di trasferimento di know-how e di lavoro all’estero.

La spesa militare globale è rimasta pressoché invariata negli ultimi anni e in effetti è aumentata dell’1 per cento nel 2015. Ci si aspetta  che le entrate da uno dei prodotti di esportazione militari chiave di Israele – i droni – dovrebbe quasi raddoppiare da 6,4 miliardi a 11,5 miliardi di dollari tra il 2014 e il 2024. Mentre le ragioni citate dall’industria militare israeliana sembrano rappresentare una descrizione accurata delle tendenze nel settore del commercio militare mondiale, il calo delle esportazioni israeliane non può essere spiegato semplicemente a causa di una mancanza di domanda per gli armamenti.

È vero, l’industria militare israeliana è riuscita a garantire le esportazioni per oltre 5 miliardi di dollari nel 2015 – una lieve ripresa rispetto all’anno precedente – e gli sviluppi politici a livello mondiale possono essere di buon auspicio per il settore nel prossimo futuro. Ma il complesso militare industriale si trova ad affrontare cambiamenti nelle dinamiche del suo commercio e della propaganda. L’erosione del marchio “Made in Israel”, anche nei settori della difesa e della sicurezza, alla quale hanno contribuito gli sforzi del movimento BDS 2014, è un terreno fertile in cui i sostenitori dei diritti umani possono ottenere un cambiamento.

Interrogato di recente circa l’impatto del BDS sulle operazioni della Elbit Systems, l’amministratore delegato Bezhalel Machlis ha ammesso: “Non sto dicendo che non sia una minaccia, ma penso che complessivamente siamo in grado di gestire la cosa.” Gli attivisti per i diritti umani stanno ora affrontando la sfida di incrementare la capacità del movimento BDS in modo che incida sull’economia di guerra israeliana in misura tale che possa passare dall’essere una minaccia al diventare un cambiamento definitivo.

In che modo la Elbit Systems e la campagna Brand Israel stanno perdendo terreno.

(Dopo, n.d.t.) quasi un decennio di campagna per fermare  investimenti, contratti e altre forme di cooperazione con la Elbit Systems, alcuni insegnamenti possono essere tratti circa il mix di dinamiche di mercato, strutture di governo, e l’attivismo, che contribuisce al cambiamento. Questa sezione si concentra sulle più recenti perdite subite dalla Elbit in Francia e in Brasile: due governi che hanno avuto visioni quasi opposte sulla Palestina e la legittimità del movimento BDS.

La decisione contraria della Francia all’offerta della Elbit nella sua ultima gara sui droni, all’inizio del 2016, è stata una cattiva, inaspettata, notizia per l’azienda. Il drone Watchkeeper, ora scartato, deriva dal drone Elbit Hermes 450, che venne utilizzato nei massacri contro Gaza. Il Watchkeeper era in costruzione nel Regno Unito da una joint venture tra Elbit e una società del Regno Unito. Un intensa campagna della società civile in Francia ha chiesto l’esclusione del Watchkeeper dalla gara per motivi di coinvolgimento della Elbit in crimini di guerra israeliani, mentre nel Regno Unito gli attivisti hanno protestato nei confronti del sito di produzione del Watchkeeper.

La società francese Segem, che alla fine ha vinto l’appalto, ha minimizzato il fatto che i suoi droni includono anche la tecnologia Elbit. Invece, ha celebrato la sua tecnologia e produzione “nazionale”. Solo pochi anni fa, il tag “Made in Israel” sarebbe stato valutato come un plus per un drone. Oggi, la crescente tendenza a garantire la crescita delle industrie militari nazionali e un optimum di trasferimenti di tecnologie ha rappresentato un elemento centrale, erodendo il fascino della tecnologia militare israeliana in tutto il mondo. Questo inoltre, in ultima analisi, contribuisce ad uno degli obiettivi dei difensori dei diritti umani palestinesi – la riduzione dei profitti che Israele ricava dalla sua macchina da guerra – e rafforza il sostegno per l’acquisizione dei risultati.

Non è chiaro fino a che punto la pressione del movimento di solidarietà con la Palestina abbia influenzato la decisione del governo francese, che ha sviluppato leggi contro il BDS ancora più draconiane di quelle in Israele. Tuttavia, nel mese di aprile Israele ha riferito che nel 2015 il governo francese ha respinto un altro affare, in questo caso riguardo la tecnologia di sorveglianza. Fox News ha citato un “esperto israeliano dell’antiterrorismo molto titolato:” “Alle autorità francesi è piaciuto, ma il funzionario è tornato e ha riferito che esistevano istruzioni dall’alto di non comprare la tecnologia israeliana” Se il rapporto non è una propaganda rivolta a spingere avanti altri contratti, indica una riluttanza inaspettata all’interno degli ambienti governativi francesi a stipulare accordi con Israele.

In Brasile, la filiale locale della Elbit, AEL Sistemas, ha visto la fine di un decennio, durante il quale i suoi ricavi sono cresciuti in modo esponenziale, con una quota in ogni grande progetto di difesa brasiliana. Il paese è stato uno dei maggiori importatori di armi israeliane, quinto tra il 2009 e il 2014 e uno dei clienti più importanti per i droni  Elbit. Tuttavia, nel dicembre 2014, la società ha perso il suo primo progetto strategico: il governo di Rio Grande do Sul, nel sud del Brasile, ha annullato un memorandum d’intesa con AEL Sistemas per lo sviluppo di un parco tecnologico per la costruzione di satelliti militari. L’accordo è stato contrastato da una intensa campagna della società civile per un embargo militare. Questa campagna era fondata sulla solidarietà con il popolo palestinese e sulla necessità di porre fine all’impunità di Israele, ma è andata anche oltre. Ha ‘smascherato il tentativo di AEL Sistemas’ di passare come una società brasiliana e ha rivelato che era una filiale israeliana, sottolineando il fatto che le imposte brasiliane sarebbero state incanalate verso Israele. Inoltre, ha dimostrato che il trasferimento di tecnologia, in effetti, sarebbe passato dalle università brasiliane ad una società israeliana. In definitiva, il governo ha addotto vincoli di bilancio e il suo impegno alla cooperazione con la comunità e palestinese e ai movimenti come ragioni per porre fine al progetto. Questa è stata una chiara vittoria per il movimento BDS.

Nel mese di gennaio del 2016, la Elbit Systems ha dovuto abbandonare il suo progetto di ricerca e sviluppo del drone (R & S) in Brasile, che aveva lanciato nel 2011 in pompa magna. Il Ministero della Difesa, guidato da un membro del partito comunista filo-palestinese del Brasile, fino al colpo di stato contro il governo del maggio di quest’anno, ha rifiutato i fondi per la sua attuazione. La reticenza del ministero è stata senza dubbio influenzata dalla presa di posizione politica del governo brasiliano. Un alto funzionario della difesa brasiliano ha scatenato una discussione sui media, quando ha avvertito che la spaccatura diplomatica provocata dal rifiuto del Brasile di accettare un leader dei coloni come ambasciatore di Israele avrebbe potuto ritardare l’esecuzione dei contratti militari tra i due paesi. Questa preoccupazione è stata ripresa da altre figure come l’ex-ministro della Difesa, Celso Amorim, il quale sosteneva che ora è il “tempo di diversificare i nostri fornitori” e ridurre la dipendenza eccessiva dalla tecnologia israeliana.

Vale la pena notare che le organizzazioni palestinesi come Stop the Wall e il movimento di solidarietà con la Palestina avevano fornito la prova del fatto che il software, il monitoraggio e la tecnologia di sorveglianza israeliana erano a quel tempo parte integrante di quasi tutti i progetti di sviluppo industriale strategici del Ministero della Difesa brasiliana.

La tecnologia avionica nella maggior parte dei velivoli, l’arsenale dei droni in Brasile, la tecnologia di sorveglianza nei sistemi di controllo delle frontiere, la tecnologia dei carro armati del Brasile, e il sistema di comunicazione delle forze di mare brasiliane sono tutti forniti sia dalla Elbit Systems o da Israel Aerospace Industries  che dalle loro filiali. Ciò si traduce in modo efficace in una perdita di sovranità nazionale e indipendenza, i principi fondamentali sui quali sono impegnate le strutture della difesa. Un rapporto del 2015 da The Marker, il più importante quotidiano economico di Israele, ha giustamente sottolineato che “ragioni politiche” hanno portato a un congelamento de facto delle transazioni militari con il Brasile – uno sviluppo che è particolarmente doloroso per la Elbit Systems.

Senza dubbio, i tempi duri che la Elbit Systems ha dovuto affrontare in Brasile sono in gran parte causa dell’inasprirsi delle relazioni tra Brasile e Israele durante gli ultimi anni del governo guidato dal Partito dei Lavoratori, che ha governato il paese dal 2003 al maggio 2016. Questo a sua volta è in parte il risultato della crescente influenza del movimento BDS nel paese e l’accettazione delle sue argomentazioni nell’ambito di settori del Partito dei Lavoratori. Le campagne di sensibilizzazione che cercano di smantellare

il “Brand Israel” sottolineano che le armi israeliane sono “testate sul terreno” contro i palestinesi e avvertono il pubblico del fatto che i soldi delle tasse vengono spesi per sostenere le imprese militari israeliane. Queste strategie sono penetrate fin dentro l’organizzazione della difesa. Tuttavia, sarà ora necessario per i sostenitori per i diritti umani dei palestinesi identificare nuove strategie, dato il colpo di stato contro il Governo eletto.

Il fallimento del Watchkeeper nel vincere la gara coi droni francesi dimostra che anche in contesti del tutto ostili alle richieste di un embargo militare, l’incantesimo della tecnologia militare israeliana può sbiadire e altri interessi possono prevalere. E’ fondamentale capire che cosa, in un governo apparentemente antagonista ad atteggiamenti pro-Palestina, sta creando spaccature tra i settori militari israeliano e francese e come capitalizzare su questo nel migliore dei modi. Una nuova proposta per un ulteriore contratto su droni, in cui la Elbit Systems è di nuovo tra gli offerenti, rende questo sforzo urgente.

Ciò che queste occasioni di studio dimostrano è che investire tempo ed energia nella comprensione  delle dinamiche nei settori della sicurezza e della difesa della patria è fondamentale per lo sviluppo efficace dell’attivismo del BDS. In questa fase, dato che i vantaggi di una cooperazione militare con Israele diventano sempre più discutibili, gli attivisti  per la Palestina  possono usare questa conoscenza acquisita per fornire, o trovare, alleati che possono offrire argomenti che soddisfano gli interessi dei decisori nazionali. Il risultato netto potrebbe essere la riduzione del mercato dell’industria militare israeliana.

Fonte:  Ma’an News Agency

Traduzione di Aldo Lotta per BDS Italia




il doppio standard di Israele riguardo all’uso di scudi umani

Ma’an News 8 agosto 2016 

di Ben White

Nonostante il fatto che le fonti ufficiali israeliane abbiano ripetutamente sostenuto che nell’estate 2014 [durante l’operazione militare “Margine protettivo” contro Gaza. Ndtr.] le fazioni palestinesi hanno metodicamente fatto ricorso a scudi umani, ci sono scarse prove, se non nessuna, che questo crimine, come definito dalle leggi internazionali, sia stato commesso da Hamas e da altri gruppi.

Anche se fosse stato così, ciò non assolverebbe Israele dalla sua responsabilità di rispettare le leggi.

Ci sono prove che non siano state prese sufficienti precauzioni riguardo al fatto di aver lanciato attacchi nelle vicinanze di non combattenti – benché lo stesso esercito israeliano abbia dichiarato che solo il 18% dei razzi sono stati sparati “da strutture civili”. Quindi, dato il ricorso della propaganda israeliana a questo cliché, la scarsità di prove che i palestinesi abbiano fatto ricorso a scudi umani è sorprendente.

Nel contempo, tuttavia, c’è un’attendibile ed abbondante documentazione del fatto che le truppe israeliane hanno utilizzato scudi umani per molti anni. Come elencato dall’ong israeliana B’Tselem, durante la seconda Intifada, iniziata nel settembre 2000, “l’esercito israeliano ha utilizzato civili palestinesi come scudi umani” come “applicazione di una decisione presa da alti gradi dell’esercito.” Secondo fonti ufficiali, fin quando nel 2005 la Corte Suprema israeliana non ha dichiarato questa prassi illegale, l’esercito israeliano ha seguito la procedura degli scudi umani in 1.200 occasioni nei 5 anni precedenti.

Eppure, nonostante la decisione della corte, ci sono stati numerosi esempi documentati della persistenza di questa pratica. Nel novembre 2006 i soldati israeliani hanno utilizzato un palestinese come scudo umano durante un’operazione militare a Betlemme. Nel 2007 B’Tselem ha documentato 14 casi di uso di scudi umani – compresi due bambini a Nablus. Nell’ottobre 2007, l’attuale vicecomandante dell’esercito israeliano, Yair Golan [che nel maggio 2016 durante una commemorazione dell’Olocausto Golan ha tracciato un parallelo tra il clima politico in Israele e la Germania degli anni ’30. Ndtr.], è stato oggetto di un semplice “biasimo” per aver ordinato ai soldati di utilizzare scudi umani. Quando due soldati sono stati arrestati per aver usato un bambino palestinese come scudo umano durante l’operazione “Scudo protettivo”, sono stati condannati a tre mesi con sospensione condizionale della pena e degradati.

Questo tipo di impunità è stato condannato nel giugno del 2013 dal Comitato ONU sui diritti del bambino, che ha citato 14 casi di “bambini palestinesi” utilizzati come “scudi umani ed informatori” dal gennaio 2010 alla fine del marzo 2013. Nonostante la condanna internazionale, gli esempi sono continuati: nell’aprile 2013 i soldati israeliani hanno usato ragazzini palestinesi ammanettati come scudi umani mentre sparavano contro manifestanti in Cisgiordania, mentre nel luglio 2014 i soldati “hanno obbligato i membri di una famiglia ad accompagnarli” durante un’irruzione in una casa a Hebron.

In realtà, tutte le accuse fatte dai portavoce israeliani contro le fazioni palestinesi- con scarse o nulle prove a sostenerle, tranne creative vignette o infografiche – hanno un parallelo nei crimini documentati dell’esercito israeliano. Utilizzare case per operazioni militari? L’esercito israeliano ha occupato e trasformato in avamposti case palestinesi, mentre i residenti sono stati confinati in alcune parti delle loro proprietà. Mascherarsi da non combattente per commettere attacchi violenti? Nel novembre 2015 le forze di occupazione israeliane si sono vestite con abiti civili – compreso un travestimento da donna incinta su una sedia a rotelle- durante un’irruzione in un ospedale di Hebron dove hanno ucciso a sangue freddo un uomo.

Le forze israeliane hanno utilizzato scudi umani anche durante le invasioni di Gaza. Nel luglio 2006, per esempio, a Beit Hanoun alcuni soldati hanno tenuto sei civili, compresi due bambini, “all’ingresso di stanze in cui i soldati si sono piazzati, per circa 12 ore,” durante “un’intensa sparatoria tra i soldati e palestinesi armati.” Il rapporto Goldstone ha documentato incidenti anche durante l’operazione “Piombo fuso”, in cui civili “sono stati bendati e ammanettati e sono stati obbligati ad entrare in alcune case davanti ai soldati israeliani.” La commissione d’inchiesta ONU che ha stilato il rapporto ha concluso che “questa pratica rappresenta un uso dei civili palestinesi come scudi umani,” e che “non sarebbe difficile concludere che si è trattato di una prassi ripetutamente adottata…durante l’operazione militare a Gaza.”

L’operazione “Margine protettivo” non è stata un’eccezione nelle attività dell’esercito israeliano che provano l’uso di civili palestinesi come scudi umani. In base a un resoconto registrato da “Difesa Internazionale dei Bambini- Palestina”, alcuni soldati israeliani “hanno usato ripetutamente” un 17enne palestinese “come scudo umano per cinque giorni,” obbligandolo sotto la minaccia delle armi a “cercare tunnel”, e sottoponendolo a maltrattamenti fisici. Il direttore esecutivo dell’ Ong, Rifat Kassis, ha sottolineato come “fonti ufficiali israeliane abbiano mosso accuse generiche (che i combattenti di Hamas utilizzassero scudi umani), mentre i soldati israeliani hanno adottato una condotta che rappresenta un crimine di guerra.”

La Commissione d’inchiesta ONU sul conflitto a Gaza del 2014 ha segnalato “informazioni sull’uso di scudi umani (da parte di soldati israeliani) nel contesto di operazioni di perlustrazione” sul terreno a Gaza. La commissione ha citato un caso in cui le forze israeliane “hanno sparato da dietro.. uomini nudi, utilizzandoli come scudi umani” per ore. Agli uomini “era stato detto dai soldati che erano stati piazzati davanti a una finestra per impedire ai combattenti di Hamas di rispondere al fuoco.” La commissione ha concluso che “il modo in cui i soldati israeliani hanno obbligato civili palestinesi a stare in piedi davanti alle finestre, a entrare in abitazioni/ in zone sottoterra e/o a svolgere funzioni pericolose di natura militare, costituisce una violazione del divieto dell’uso di scudi umani contenuta nell’articolo 28 della IV convenzione di Ginevra e può rappresentare un crimine di guerra.”

Ben White è uno scrittore, giornalista, ricercatore e attivista inglese specializzato in Palestina e Israele. Quello che segue è un estratto tratto dall’ultimo e-book di White, “La guerra del Gaza del 2014: 21 domande e risposte.” Ulteriori informazioni si possono trovare qui

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’agenzia Ma’an News.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Soldati israeliani: a Gaza tutti erano considerati terroristi

 

 

Un gruppo di soldati: Nella guerra di Gaza l’IDF  ha supposto che chiunque fosse un terrorista

L’organizzazione “Breaking the Silence “ [Rompere il silenzio] afferma che l’adozione del principio di rischio minimo per i soldati ha comportato più vittime civili.

 

Di Gili Cohen, 4/5/2015

Haaretz

“Breaking the Silence” ha aspramente criticato l’esercito israeliano [IDF, Israeli Defence Forces] per la sua strategia operativa nella guerra a Gaza della scorsa estate, sostenendo che ha comportato “un danno enorme e senza precedenti alla popolazione civile ed alle infrastrutture nella Striscia di Gaza”.

L’organizzazione di veterani dell’esercito ha pubblicato un rapporto con le testimonianze di 60 soldati ed ufficiali dell’IDF coinvolti nell’operazione Margine Protettivo di luglio e agosto dell’anno scorso. Secondo questo gruppo, le testimonianze segnalano un principio generale che ha ispirato l’intera operazione militare: il minimo rischio per le forze israeliane, anche quando ciò significasse perdite civili.

Le regole d’ingaggio stabilivano fondamentalmente che “chiunque si trovasse in un’area [operativa] dell’IDF, che l’esercito aveva occupato, non era un civile. Questo era il criterio”, ha affermato uno dei soldati.

Un carrista ha riferito che, a un certo punto, si è capito che tutte le case in cui le forze israeliane erano entrate e che avevano utilizzato sarebbero poi state distrutte da grossi bulldozer D9. “In nessun momento fino alla fine dell’operazione….nessuno ci ha detto quale utilità operativa avesse la distruzione delle case”, ha detto. “ Durante un colloquio i comandanti dell’unità hanno spiegato che non si trattava di un atto di vendetta. A un certo punto ci siamo resi conto che era una costante. Si abbandona una casa e la casa non c’è più. Arriva il D9 e la demolisce.”

Un altro soldato ha aggiunto: “C’era un comandante di alto grado che amava veramente i D9 e era proprio favorevole alle distruzioni; li ha utilizzati parecchio. Basta dire che quando lui si trovava in un certo luogo, tutte le infrastrutture intorno all’edificio venivano totalmente distrutte – quasi ogni casa era colpita da una granata.”

Un soldato di fanteria ha ricordato un incidente in cui un militare ha identificato due figure sospette che camminavano in un frutteto, distante poche centinaia di metri. Le sentinelle non potevano identificarle immediatamente, per cui è stato inviato un drone per fare un sopralluogo. Si trattava di due donne che attraversavano il frutteto, parlando ai cellulari. “L’aereo le ha prese di mira e le ha uccise”, ha detto. Un comandante di blindati che è arrivato in seguito per perlustrare l’area ha trovato i corpi delle due donne, che avevano entrambe più di 30 anni ed erano disarmate.

Secondo il soldato, il fatto che le donne avessero in mano solo i cellulari è stato riferito al comandante del battaglione. Nonostante questo, nei rapporti scritti in seguito, le donne vennero classificate come “terroriste” – vedette che stavano operando nella zona. “Il comandante se n’è andato e noi abbiamo proseguito. Loro sono state contate tra i terroristi. Sono state uccise, quindi è chiaro che erano terroriste”, ha detto.

Sono stati riportati numerosi altri casi relativi all’uccisione di civili. Ad una donna chiaramente malferma e che non costituiva minaccia è stato ingiunto dal comandante di divisione di dirigersi ad ovest, verso una zona dove erano fermi dei carri armati. Quando si è avvicinata ai mezzi corazzati, è stata mitragliata a morte. (Pare che questo sia uno degli incidenti su cui sta indagando la polizia militare.)

Un altro soldato che combatteva nel nord di Gaza ha riferito di un vecchio ucciso un pomeriggio quando si è avvicinato ad un militare. Precedentemente i militari erano stati avvertiti di stare attenti ad un uomo anziano che avrebbe potuto portare con sé delle granate. “Il ragazzo che era di guardia – io non so che cosa gli sia successo; ha visto un civile, gli ha sparato, e non lo ha ucciso subito. L’uomo giaceva a terra contorcendosi dal dolore”, ha detto il soldato.

Un altro soldato che ha riferito lo stesso incidente ha detto che un altro militare alla fine ha sparato all’uomo uccidendolo. “Nessun sanitario ha voluto avvicinarglisi (per paura che potesse avere addosso degli esplosivi)”, ha spiegato. “Era chiaro a tutti che potevano accadere due cose: o lo lasciavamo morire lentamente, o ponevamo termine alla sua agonia. Alla fine, hanno posto termine alla sua agonia. E’ arrivato un D9, lo ha ricoperto di terra e ed è finita così.”

Le dettagliate testimonianze contenute nel rapporto includono altre pratiche adottate da alcune unità durante l’operazione “Margine Protettivo”. Un carrista ha riferito che dopo la morte di un compagno di plotone il comandante ha annunciato che dovevano sparare una raffica di colpi in sua memoria. “Colpi come si sparano ai funerali, ma con proiettili e contro le case. Non si trattava di colpi sparati in aria. Dovevi solo scegliere dove sparare. Il comandante ha spiegato: ‘Scegliete la casa più lontana, gli farà più male.’ Era una forma di vendetta”, ha detto.

Un altro carrista ha detto che dopo tre settimane di combattimento si è creata una competizione tra i componenti della sua unità – su chi sarebbe riuscito a colpire dei veicoli in movimento su una strada su cui transitavano auto, camion e anche ambulanze.

“Quindi ho visto un veicolo, un taxi, ed ho cercato di colpirlo ma l’ho mancato”, ricorda. “Sono arrivati altri due veicoli ed io ho tentato un paio di altri colpi, ma non ci sono riuscito. Allora il comandante è arrivato e ha detto ‘Dai, smettila, stai sprecando tutti i colpi. Finiscila’. Allora siamo andati verso la mitragliatrice”, ha aggiunto.

Ha detto che aveva capito che stava sparando a civili. Interrogato a questo proposito, ha detto: “Penso, in fondo, che questo mi abbia un po’ turbato. Ma dopo tre settimane a Gaza, quando spari a qualunque cosa si muova, ed anche a ciò che non si muove, ad un ritmo psicotico, tu non….il bene e il male si confondono un po’, la tua moralità incomincia a svanire e perdi la bussola. Diventa un video gioco. Davvero, davvero tranquillo e realistico.”

Traduzione di Cristiana Cavagna




Comunicato stampa di Breaking the Silence su “Margine protettivo”

Comunicato stampa: così abbiamo combattuto a Gaza nel 2014

Così abbiamo combattuto a Gaza nel 2014- Testimonianze dei soldati sull’operazione “Margine protettivo”.

3 maggio 2015, Breaking the silence

Oggi, 4 maggio 2015, “Breaking the Silence” [“Rompere il silenzio”], un’organizzazione di soldati israeliani, ha reso pubbliche le testimonianze di oltre 60 tra ufficiali e soldati che hanno partecipato all’operazione “Margine protettivo” a Gaza durante l’estate 2014, che dipingono un quadro inquietante della prassi di fuoco indiscriminato da parte delle IDF [Israeli Defence Forces, l’esercito israeliano. N.d.tr.], che ha provocato direttamente la morte di centinaia di civili palestinesi innocenti.

Le testimonianze raccolte da “Breaking the Silence” disegnano un preoccupante quadro del drastico cambiamento nelle modalità di combattimento delle IDF. I valori guida dell’esercito israeliano, come il principio della “purezza delle armi” – che prescrive che i soldati usino il minimo della forza necessaria e “conservino la loro umanità anche in combattimento”- sono stati sminuiti e persino abbandonati dalle stesse IDF.

Le regole di ingaggio relative ai soldati erano le più permissive di cui “Breaking the Silence” abbia mai sentito parlare.

Molti soldati testimoniano che gli ordini che hanno ricevuto erano di sparare per uccidere ogni persona che avvistassero nella zona [delle operazioni].

Ai soldati sono state fornite informazioni fuorvianti, secondo le quali le operazioni delle IDF si sarebbero svolte in zone in cui non si trovavano civili. In realtà le forze militari sono entrate in aree in cui si trovavano ancora civili innocenti, a volte persino intere famiglie.

Durante l’operazione, le IDF ha sparato migliaia di proiettili d’artiglieria a casaccio in quartieri residenziali.

Durante l’operazione, le IDF hanno messo in atto la distruzione massiccia di infrastrutture civili e abitazioni. In molti casi, queste distruzioni sono avvenute senza alcuna chiara giustificazione operativa e dopo che le forze di terra avevano già “ripulito” e lasciato la zona.

Molte abitazioni civili sono state bombardate, da terra e dal cielo, per “dimostrare di essere presenti nell’area”, o persino come atto di punizione.

Il direttore di “Breaking the Silence”, Yuli Novak, afferma:

“Dalle testimonianze di ufficiali e soldati emerge un quadro inquietante della prassi di fuoco indiscriminato che ha portato alla morte di civili innocenti. Abbiamo appreso dalle testimonianze che c’è una diffusa mancanza di etica nelle regole d’ingaggio delle IDF, che dipende dai vertici della catena di comando e che non è semplicemente il risultato di alcune “mele marce”. In quanto ufficiali e soldati, sappiamo che le inchieste interne dell’esercito prendono di mira come capri espiatori semplici soldati invece di focalizzarsi sulle decisioni politiche.

L’opinione pubblica deve sapere quali missioni vengano affidate ai propri figli ed in base a quali regole l’IDF agisca in suo nome. Noi invochiamo la costituzione di una commissione d’inchiesta esterna all’IDF, che indaghi sulle decisioni politiche che stanno dietro le regole d’ingaggio messe in pratica durante ‘Margine protettivo’ e sulle norme e i valori che stanno alla base di questo indirizzo politico.

Traduzione di Amedeo Rossi




Guerra contro i bambini a Gaza

Operazione Margine protettivo: Una guerra combattuta contro i bambini di Gaza

Defense for Children International Palestine

Ramallah 16 aprile, 2015 – Defense for Children International Palestine [DCIP, organizzazione palestinese per i diritti dei bambini. N.d.tr.] ha pubblicato un rapporto, “Operazione Margine Protettivo: Una Guerra Combattuta Contro I Bambini”, che descrive l’alto prezzo pagato dai bambini durante l’attacco di Israele dell’estate scorsa a Gaza.

Secondo l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), l’operazione “Margine Protettivo”, durata 50 giorni tra l’8 luglio e il 26 agosto, è costata la vita a 2.220 palestinesi, compresi almeno 1.492 civili . DCIP ha accertato in maniera indipendente tra le vittime di Gaza la morte di 547 bambini palestinesi, dei quali 535 direttamente colpiti dagli attacchi israeliani.

Quasi il 68% dei bambini uccisi dalle forze israeliane aveva 12 anni o meno.

Hanno perso la vita anche cinque civili israeliani, compreso un bambino, e 67 soldati .

“I ripetuti attacchi dei militari israeliani e la totale inosservanza da parte di Israele del diritto internazionale hanno impedito qualsiasi significativo tentativo di assicurare una valida protezione ai bambini palestinesi” ha detto Khaled Quzmar, direttore generale di DCIP. “La comunità internazionale deve chiedere la fine del blocco illegale di Gaza e mettere in discussione la sistematica impunità indagando sulle accuse di crimini di guerra e chiedendone conto agli autori ”.

L’inchiesta del DCIP sulla morte di tutti i bambini palestinesi durate l’operazione “Margine Protettivo” ha documentato schiaccianti e ripetute prove che le forze israeliane hanno commesso nei confronti di bambini gravi violazioni che costituiscono crimini di guerra. Ciò comprende attacchi diretti di missili sparati da droni israeliani che hanno preso di mira bambini e attacchi contro scuole. Israele, il maggiore esportatore al mondo di droni, ha ucciso con attacchi di droni 164 bambini durante il conflitto.

Il 20 luglio è stato il giorno nel quale si è visto più chiaramente come gli attacchi dell’offensiva israeliana siano stati indiscriminati e sproporzionati, quando le forze di terra e di aria hanno ammazzato almeno 27 bambini nel quartiere di Shuja’iya a Gaza City. Un caccia israeliano ha distrutto la casa della famiglia Abu Jami nella cittadina di Khan Younis, a sud di Gaza, uccidendo 18 bambini. In totale 59 bambini della Striscia di Gaza hanno perso la vita in uno dei più mortali giorni dell’operazione “Margine Protettivo”.

Le testimonianze e le prove raccolte da DCIP mostrano che durante l’attacco israeliano a Gaza non c’era nessun luogo sicuro per i bambini. Bambini sono stati ammazzati nelle loro case da missili israeliani, oppure, mentre quelli che si sono rifugiati nelle scuole [sono stati uccisi] da granate dell’artiglieria israeliana ad alto potenziale esplosivo, nelle strade da missili sparati da droni o da proiettili di artiglieria quando tentavano di scappare con le loro famiglie dal violentissimo assalto.

Chi è sopravissuto a questi attacchi continuerà a pagarne il prezzo per molti anni. Secondo l’OCHA [Ufficio Onu per il Coordinamento degli Affari Umanitari. N.d.tr.] più di 1000 bambini sono stati feriti al punto da rimanere per sempre disabili . Chi ha subito amputazioni, come il dodicenne Mohammad Baroud, che ha perso entrambi i piedi in un’esplosione che ha ucciso 11 dei suoi vicini, dovrà richiedere cure mediche e assistenza per tutta la vita.

Per i bambini che sono riusciti a rimanere incolumi, le conseguenze psicologiche di quest’ultima operazione sono state chiaramente durissime. Molti hanno perso uno o entrambi i genitori, o altri parenti. Alcuni hanno perso tutta la famiglia estesa. Tutti hanno conosciuto la violenza, la paura e l’insicurezza negli ambienti chiusi.

La comunità internazionale non è mai riuscita a chiedere conto alle forze israeliane o agli ufficiali di gravi violazioni dei diritti umani nei confronti dei bambini palestinesi. Per porre fine all’impunità e assicurare la protezione ai bambini, DCIP sollecita con forza la comunità internazionale ad appellarsi immediatamente al Segretario dell’ONU Ban Ki Moon affinché inserisca le forze armate di Israele nell’allegato del suo rapporto annuale sui bambini e i conflitti armati, che elenca le forze armate e i gruppi che commettono gravi violazioni verso i bambini.

DCIP e altre organizzazioni palestinesi per i diritti umani hanno già chiesto al Segretario Generale dell’ONU di inserire nella “lista”del Consiglio di Sicurezza dell’Onu le forze armate israeliane nell’ordine del giorno su bambini e i conflitti armati.

 

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)

 




Secondo l’ONU Israele a Gaza ha colpito scuole e rifugi

Da un’inchiesta risulta che Israele è responsabile di aver colpito scuole e rifugi delle Nazioni Unite a Gaza

 

Ban Ki-moon condanna gli attacchi, compreso quello alla scuola delle Nazioni unite, in cui furono uccise 20 persone e ferite dozzine, qualificandoli “ questione di estrema gravità”

Peter Beaumont, Gerusalemme

The Guardian – Lunedì 27 aprile 2015

Israele è responsabile per aver colpito sette siti delle Nazioni Unite utilizzati come rifugi per i civili durante la guerra di Gaza del 2014, azione in cui sono morti 44 palestinesi e 227 sono rimasti feriti:

questa la conclusione di un’inchiesta ordinata dal Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon.

Presentando il rapporto lunedì, Ban ha condannato gli attacchi definendoli “una questione di estrema gravità” e ha detto che “coloro che hanno confidato di essere al sicuro e che hanno chiesto e ottenuto riparo in quei luoghi si sono viste negare le loro speranze e la loro fiducia.” Ban ha ribadito che i siti ONU erano “inviolabili”.

Il problema è particolarmente delicato in quanto la posizione delle strutture dell’ONU – comprese le scuole usate come rifugi – viene regolarmente comunicata all’esercito israeliano ed aggiornata in tempo di guerra. Le critiche di Ban sono state pubblicate in una lettera che riassumeva un rapporto interno riservato di 207 pagine, commissionato dal Segretario Generale a novembre.

In questa lettera Ban accusa anche gruppi di miliziani palestinesi per aver messo a rischio alcune scuole dell’ONU a Gaza nascondendo armi in tre luoghi che non erano usati come rifugi.

“Sono sconcertato dal fatto che dei gruppi armati palestinesi abbiano messo a rischio scuole dell’ONU nascondendovi le loro armi”. Ha comunque aggiunto che “le tre scuole dove sono state trovate le armi erano vuote in quel momento e non erano utilizzate come rifugi.”

Diplomatici israeliani hanno fatto pressione sulle Nazioni Unite perché rinviassero la pubblicazione del rapporto fino alla conclusione delle inchieste dello stesso Israele sugli attacchi – condotte dall’avvocato generale dell’esercito israeliano Danny Efroni. L’esercito israeliano a settembre ha avviato cinque inchieste penali sulle proprie operazioni belliche a Gaza, compresi gli attacchi contro alcune scuole delle Nazioni Unite ed un incidente in cui sono rimasti uccisi quattro bambini palestinesi su una spiaggia.

L’inchiesta delle Nazioni Unite, che ha preso in esame sia prove giudiziarie che testimonianze dello staff delle Nazioni Unite a Gaza durante i 50 giorni di guerra della scorsa estate, ha concluso che sette episodi erano attribuibili all’esercito israeliano.

Ban ha aggiunto: “Lavorerò con tutti gli interessati e non risparmierò alcuno sforzo per assicurare che tali incidenti non abbiano mai più a ripetersi.”

Benché il rapporto non abbia valore giuridico, la diffusione delle conclusioni dell’inchiesta avviene in un momento difficile per Israele sulla scena internazionale, a fronte di un crescente isolamento internazionale della sua politica e dopo l’accettazione, all’inizio di questo mese, dell’adesione dell’Autorità Palestinese alla Corte Penale Internazionale.

Gli attacchi alle scuole ONU utilizzate come rifugi sono stati tra gli episodi più controversi della guerra. Il diritto umanitario internazionale – peraltro complesso – esige che le forze attaccanti in aree in cui si trovino dei non-combattenti proteggano i civili e rispettino il principio di proporzionalità, garanzie ancor più tassative quando i civili si trovino sotto protezione ONU.

In uno degli incidenti più gravi, la scuola dell’UNRWA a Jabaliya è stata colpita dal fuoco israeliano, che ha ucciso 20 persone e ne ha ferite decine.

In seguito all’attacco Israele ha sostenuto – anche in un rapporto sull’incidente – che i soldati nei pressi della scuola erano stati presi di mira.

In un altro incidente, in cui l’artiglieria israeliana ha colpito una scuola delle Nazioni Unite a Beit Hanoun, nel cortile sono stati uccisi 15 palestinesi , ed altre decine sono state ferite, mentre attendevano di essere evacuati.

Fonti israeliane hanno inizialmente cercato di insinuare che l’attacco era stato causato da un razzo di Hamas che aveva fallito l’obbiettivo.

L’inchiesta delle Nazioni Unite – distinta da un’inchiesta avviata dal Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU – è stata condotta dal generale a riposo Patrick Cammaert, ex ufficiale dell’esercito olandese, ed ha incluso esperti militari e legali.

Oltre 2.100 palestinesi, per la maggior parte civili, sono rimasti uccisi durante il conflitto di Gaza lo scorso luglio ed agosto. 67 soldati israeliani e 6 civili sono stati uccisi in Israele dai razzi e dagli attacchi di Hamas e di altri gruppi di miliziani.

I contenuti in dettaglio della commissione d’inchiesta sono riservati e solo la lettera di Ban è stata resa pubblica. Ammettendo che il rapporto è di “notevole interesse”, egli ha affermato di aver preso la decisione di pubblicare una sintesi dei risultati dell’inchiesta.

Il rapporto contiene analisi sulle armi, relazioni mediche, fotografie e materiale filmato, dichiarazioni e testimonianze sia dello staff delle Nazioni Unite che di altre organizzazioni.

Ban ha ringraziato Israele per la cooperazione nella stesura del rapporto e per aver permesso agli inquirenti di entrare a Gaza. Egli ha scritto: “Deploro il fatto che almeno 44 palestinesi siano stati uccisi dalle azioni di Israele ed almeno 227 siano stati feriti in edifici delle Nazioni Unite utilizzati come rifugi di emergenza. Gli edifici delle Nazioni Unite sono inviolabili e dovrebbero essere luoghi sicuri, soprattutto in situazioni di conflitto armato.”

Ha aggiunto: “Rilevo che questa è la seconda volta nel corso del mio mandato di Segretario Generale in cui sono stato costretto a nominare una commissione d’inchiesta su incidenti che hanno coinvolto edifici e personale delle Nazioni Unite a Gaza, verificatisi durante i tragici conflitti nella Striscia di Gaza.”

“Ancora una volta devo sottolineare la mia profonda e costante preoccupazione per la popolazione civile della Striscia di Gaza e di Israele, ed il loro diritto a vivere in pace e sicurezza, libere dalle minacce di violenza e terrorismo.”

Quando Ban ha visitato Gaza in ottobre, ha affermato che la distruzione era “indescrivibile” e “molto più grave” di ciò di cui era stato testimone nel territorio palestinese nel 2009 dopo la precedente guerra tra Israele e Hamas.

Ban ha detto lunedì di aver nominato un gruppo di alti funzionari per occuparsi delle raccomandazioni dell’inchiesta. Diverse questioni non sono state affrontate nella sintesi del rapporto, non ultimo il problema di quali comunicazioni esistevano tra il personale delle Nazioni Unite e l’esercito israeliano, in particolare prima dell’attacco alla scuola di Beit Hanoun, quando lo staff delle Nazioni Unite risulta aver comunicato alle forze armate israeliane l’intenzione di portare via con degli autobus i civili che aspettavano di essere evacuati al momento dell’attacco.

Senza spiegazione è anche il perché le forze armate israeliane abbiano colpito luoghi protetti in assenza di condizioni di immediata necessità di autodifesa, benché fossero a conoscenza della concentrazione di civili che vi avevano trovato rifugio.

Chris Gunnes, portavoce dell’UNRWA, che gestisce le scuole delle Nazioni Unite a Gaza, ha detto: “L’inchiesta ha rilevato che, nonostante diverse comunicazioni all’esercito israeliano delle precise

coordinate GPS delle scuole e sulla presenza di sfollati, in tutti i sette casi indagati dallaCommissione d’Inchiesta in cui le nostre scuole sono state colpite direttamente o nelle immediate vicinanze, l’attacco è attribuibile all’esercito israeliano (IDF).

“La Commissione conferma l’utilizzo da parte dell’esercito israeliano di armi quali proiettili anticarro da 120 mm e proiettili da 155 mm sull’area delle scuole dell’UNRWA o nelle sue vicinanze, dove dei civili avevano trovato rifugio. Negli incidenti esaminati almeno 44 persone sono state uccise e 227 ferite, comprese donne e bambini. In nessuna delle scuole colpite direttamente o nelle immediate vicinanze sono state trovate armi o sono stati sparati colpi. Se venisse confermato che dei miliziani hanno sparato razzi dalle nostre scuole noi lo condanneremmo, come abbiamo fermamente condannato altre violazioni della nostra neutralità.”

“I risultati dell’inchiesta del Segretario Generale sono perfettamente coerenti con le dichiarazioni dell’UNRWA secondo cui noi non abbiamo consegnato nessun’arma ad Hamas. La Commissione d’Inchiesta non ha trovato alcuna prova che lo abbiamo fatto. La Commissione d’Inchiesta ha rilevato che dopo la prima scoperta i responsabili dell’UNRWA hanno riferito delle armi alle autorità locali ed hanno chiesto che venissero rimosse. Entro pochi giorni dalla prima scoperta, senza precedenti, l’ONU ha messo in atto un meccanismo per occuparsi delle armi e al momento della terza scoperta erano disponibili degli esperti internazionali.”

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)