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Manifestazioni dopo le minacce israeliane di distruggere un villaggio palestinese

Redazione di Al Jazeera

23 gennaio 2023 – Al Jazeera

Khan al-Ahmar si trova nella Cisgiordania occupata in un corridoio che Israele progetta di usare per collegare colonie israeliane illegali.

Decine di palestinesi hanno manifestato contro le minacce dei massimi dirigenti politici israeliani di attuare a breve lo spostamento forzato del villaggio beduino palestinese di Khan al-Ahmar, situato alla periferia orientale di Gerusalemme, ove risiedono circa 180 persone.

La protesta si è svolta lunedì dopo che Itamar Ben-Gvir, politico di estrema destra e ministro della Sicurezza Nazionale, ha detto che avrebbe proceduto con la rimozione forzata del villaggio e dopo che sono emersi i piani per una visita alla località dei ministri di estrema destra, inclusi Ben-Gvir e Bezalel Smotrich.

Alla fine vari politici del Likud, il principale partito del parlamento israeliano, si sono riuniti vicino al villaggio per poi andarsene.

Sabato Ben-Gvir ha detto che il governo del primo ministro Benjamin Netanyahu “non adotterà norme giuridiche diverse per ebrei e per arabi” dopo lo sgombero da parte delle forze israeliane di un avamposto illegale ebraico nella Cisgiordania settentrionale occupata.

Comunque i palestinesi hanno precisato che si oppongono al paragone, secondo loro falso, fra Khan al-Ahmar e le colonie israeliane che sono illegali secondo il diritto internazionale.

Eid Jahalin, che si definisce il portavoce del villaggio, alle manifestazioni di lunedì ha detto che “dal 1967 ci sono state ordinanze militari per demolire case, istituire aree militari chiuse e altre che poi queste zone sono state trasformate in colonie illegali e riserve naturali”.

Il nostro destino è di rimanere in questa zona,” sostiene Jahalin. “E non si pensi che si tratti solo di Khan al-Ahmar, ci sono demolizioni nella valle del Giordano, a Masafer Yatta, nella città di Gerusalemme, succede continuamente in tutta la Palestina.”

Il destino di Khan al-Ahmar ha attirato l’attenzione internazionale per la sua pluriennale battaglia legale per la sopravvivenza contro le autorità israeliane.[ cfr. i molti articoli su Zeitun riguardo all’argomento]

Nel settembre 2018, la Corte Suprema Israeliana ha dato il via libera alla rimozione del villaggio, ora in pericolo di essere smantellato in ogni momento, ma da allora i piani di demolizione sono stati sospesi parecchie volte.

Il governo ha fino al primo febbraio per spiegare alla Corte Suprema perché il villaggio non è ancora stato demolito e per presentare un progetto.

Il governo israeliano ha detto che il villaggio è stato “costruito senza permesso”, ma le autorità rendono estremamente difficile ai palestinesi l’ottenimento di permessi di costruzione nella Gerusalemme Est occupata e in quella che è conosciuta come Area C, [sotto il totale ma temporaneo controllo israeliano, N.d.T.] che occupa più del 60% della Cisgiordania occupata. I palestinesi e le organizzazioni per i diritti umani dicono che la politica è parte di una più vasta strategia israeliana per rafforzare e mantenere nella regione una maggioranza demografica ebraica.

Il trasferimento forzato di persone protette in territori occupati è classificata come crimine di guerra ai sensi del diritto internazionale.

Precedentemente Amnesty International ha definito gli sforzi per spostare gli abitanti di Khan al-Ahmar “non solo spietati e discriminatori [ma anche] illegali”.

Nel 2018 Amnesty ha affermato che “il trasferimento forzato della comunità di Khan al-Ahmar costituisce un crimine di guerra”. Israele deve porre termine alla sua politica di distruzione delle abitazioni dei palestinesi e dei loro mezzi di sostentamento per far posto alle colonie.”

Khan al-Ahmar è situato in Cisgiordania, a pochi chilometri da Gerusalemme, e fra le due più grandi colonie illegali israeliane, Maale Adumim e Kfar Adumim.

È situato lungo un corridoio chiave che si estende alla valle del Giordano dove Israele mira a espandere e collegare le colonie, in pratica tagliando in due la Cisgiordania.

Il nostro messaggio principale ai leader palestinesi: … se questo villaggio sarà distrutto, ci sarà una Cisgiordania settentrionale e una Cisgiordania meridionale,” dice Jahalin. “In ciò risiede l’importanza di Khan al-Ahmar.”

Maarouf Rifai, consulente legale della commissione contro il muro e le colonie dell’Autorità Palestinese (AP), ha detto ad Al Jazeera che l’AP non permetterà la demolizione del villaggio.

Questa è terra palestinese. È terra palestinese privata,” ha aggiunto. “Non ci sono altre scuse per il governo israeliano se non lo sviluppo del piano per una ‘Gerusalemme più grande’ e per collegare le colonie intorno Gerusalemme Est e scacciare da questa zona gli arabi palestinesi. Siamo qui per far sentire la nostra voce, per dire che non permetteremo che ciò accada.”

Secondo Amnesty International dall’inizio della sua occupazione della Cisgiordania nel 1967, Israele ha sfrattato forzosamente e sfollato intere comunità e demolito oltre 50.000 abitazioni e strutture palestinesi.

Anche un’altra comunità palestinese, una costellazione di villaggi nota come Masafer Yatta dove vivono oltre 1000 palestinesi vicino a Hebron, nella Cisgiordania meridionale, sta affrontando uno sfratto forzoso imminente da parte del governo israeliano.

L’attivista palestinese Khairy Hanoun, che era presente alla manifestazione a Khan al-Ahmar, dice: “Siamo qui per sfidare la decisione di Ben-Gvir’ e le scelte di tutto questo governo di destra.”

Siamo venuti qui per dir loro: voi demolite i nostri villaggi, le nostre città e le nostre abitazioni, ma non distruggerete la nostra perseveranza,” ha ripetuto ad Al Jazeera.

Usando l’esempio di al-Araqib, un villaggio demolito e ricostruito 211 volte, Hanoun conclude: “Se demolite Khan al-Ahmar, anche se lo demolite 100 volte, noi continueremo a ricostruirlo.”

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




‘Chi sono i terroristi?’: Come una nuova generazione palestinese sta combattendo l’occupazione

David Hearst

10 ottobre 2022 – Middle East Eye

Dai contadini delle colline meridionali di Hebron sotto attacco dei coloni ai gruppi armati del campo di Jenin esposti ai raid notturni, in Cisgiordania si sta costruendo una nuova ondata di resistenza

Il villaggio di Letwani è alla fine della strada. Letteralmente. Alle sue spalle si sviluppa una strada di coloni che inizia a Gerusalemme e termina nelle colline meridionali di Hebron.

Di fronte c’è Masafer Yatta, un’area di 30 chilometri quadrati che negli anni ’80 Israele ha dichiarato zona di tiro militare.

I 2.500 residenti di Masafer Atta sono coinvolti quotidianamente in battaglie campali con coloni e soldati.

La mattina in cui sono arrivato a Letwani Asharaf Mahmoud Amour, 40 anni, osservava con calma un mucchio di blocchi di calcestruzzo. Erano i resti della sua casa. Un bulldozer laveva demolita poche ore prima. Con suo grande stupore, i soldati avevano lasciato in piedi la stalla a sinistra e il pollaio a destra, entrambi sotto ordine di demolizione.

“Ti dirò dove dormiremo stanotte, con i polli e le capre”, ha detto Amour.

Tutto quello che vogliono è costringerci ad andare via. Distruggendo le case, isolandoci dai campi, terrorizzandoci continuamente con i soldati e i coloni intorno, invadendo le case, arrestandoci. E sappiamo che il risultato che vogliono ottenere con tutto ciò è mandarci via. Questa è la sfida che accettiamo, afferma Amour, padre di cinque figli.

Stanno cercando di presentarci al mondo come terroristi. Chi sono i terroristi? Noi cerchiamo di rimanere nelle nostre case. Sono loro che ci terrorizzano. Rimarrò qui anche se dovessi dormire sotto una pietra”.

A pochi metri, sulla strada sterrata, ci sono due cartelli. Il primo recita Sostegno umanitario ai palestinesi a rischio di trasferimento forzato in Cisgiordania, con i loghi di 11 agenzie governative dell’Unione Europea.

Questa espressione di sostegno internazionale ha avuto scarsa importanza come forza deterrente per i coloni, dal momento che sopra è esposto un ritratto di Harum Abu Aram, 26 anni.

Oggi Abu Aram giace paralizzato in ospedale dopo aver tentato di difendere il suo pezzo di terra.

Un altro contadino, Hafez Huraini, è stato fortunato a cavarsela con due braccia rotte.

Cinque coloni mascherati, armati di tubi di metallo e accompagnati da un soldato fuori servizio che sparava in aria con una pistola, hanno aggredito Huraini mentre era al lavoro nella sua terra. Huraini si è difeso con una zappa.

Sami, suo figlio, afferma: Erano cinque contro un uomo di 52 anni. Quando l’ho raggiunto mio padre sanguinava dalla mano destra e si teneva la sinistra. Dietro di me sono sopraggiunti altri abitanti del villaggio, altri coloni e poliziotti”.

La polizia ha poi detto che avrebbe arrestato l’uomo ferito.

A quel punto abbiamo iniziato ad infuriarci. I coloni erano in piedi davanti all’ambulanza. Abbiamo trasportato mio padre dentro l’ambulanza. I coloni hanno iniziato a squarciare le gomme dell’ambulanza della Mezzaluna Rossa per cui questa non poteva muoversi”, racconta Sami.

I militari si sono fatti molto aggressivi e ci hanno assalito. Siamo stati cacciati dal luogo e poi hanno continuato. Infine hanno trasferito mio padre all’interno di un’ambulanza militare”.

Così sono iniziati per Hurami, la vittima dell’attacco dei coloni, 10 giorni di detenzione.

E’ stato trasferito nella prigione di Ofer. Arrestato con l’accusa di aver causato gravi lesioni personali al colono che lo ha aggredito, un tribunale militare lo ha condannato a più di 12 anni di carcere. Miracolosamente, la versione del pubblico ministero è andata in pezzi.

In tribunale è stato prodotto un video che mostra per intero l’accaduto. Il giudice ha criticato la polizia per aver ritardato di oltre una settimana l’interrogatorio dei coloni.

L’avvocato di Huraini, Riham Nasra, suggerisce che ciò sarebbe stato fatto per rendere le prove inutilizzabili in tribunale. Ha detto: “Il complotto che è stato ordito contro Hafez Huraini è stato confutato non appena è pervenuto alla polizia e all’opinione pubblica un video che documentava l’attacco da lui subito da parte di coloni armati e mascherati.

I dieci giorni della sua detenzione avevano solo lo scopo di oscurare la verità e preservare la falsa versione ideata dai suoi accusatori. Per questo la polizia con l’avvertenza di nove giorni si è astenuta dall’indagare sui suoi aggressori, inquinando così le indagini di cui sono responsabili».

Tuttavia, alla giustizia militare prudevano le mani. Al momento del rilascio è stato ordinato ad Huraini di pagare una cauzione di 10.000 shekel (2.890 euro) e di stare lontano dalla sua terra per 30 giorni in attesa di ulteriori indagini sull’incidente. I coloni che hanno effettuato l’attacco e il soldato fuori servizio che ha sparato sei colpi in aria sono rimasti liberi.

Sami fa parte di una nuova generazione di agricoltori e attivisti determinati a resistere alle predazioni dello Stato israeliano in tutte le sue forme: coloni, soldati, poliziotti e tribunali.

Sami ha fondato un gruppo chiamato Gioventù di Sumud. Si sente spesso questa parola nelle colline meridionali di Hebron. Significa determinazione.

Quando siamo stati sfrattati dal nostro villaggio abbiamo vissuto in una grotta. Abbiamo messo in ordine la nostra caverna, costruito delle mura, l’abbiamo collegata all’acqua proveniente dal nostro villaggio. Il proprietario ci ha fatto pagare un prezzo alto. Avevo le ossa rotte. La violenza dei coloni è feroce” dice Sami.

Questa generazione è diversa: sicura di sé, determinata, connessa a Internet e parla correntemente l’inglese.

“Israele si aspetta che i vecchi muoiano e che i giovani si fermino, ma sta accadendo il contrario”, afferma Sami.

Non abbiamo alcun ordine da seguire per iniziare la lotta. Non abbiamo leader e non apparteniamo a nessuna fazione. Iniziamo la lotta da soli”.

Sami è ottimista: Chiunque in questa situazione penserebbe di abbandonare ma noi continuiamo ad esistere, a sorridere, a dimostrare che stiamo vivendo, a dimostrare che non ci arrendiamo. Questo è ciò che rende speciale la nostra gente, dimostraregli che siamo fantastici”.

Jamal Juma’a, veterano attivista politico palestinese, lo è meno [ottimista]: Gli israeliani stanno letteralmente trasformando la Cisgiordania in una rete di riserve di nativi. Stanno progettando la geografia e la demografia della Cisgiordania per garantirsi un dominio e un controllo durevoli su di essa”.

I coloni ora hanno una solida presa sulla topografia della Cisgiordania. Prima [degli accordi] di Oslo per trovare lavoro i coloni dovevano attraversare la linea verde [confine stabilito fra Israele e alcuni Paesi arabi circostanti alla fine della guerra arabo-israeliana del 1948-1949, ndt.] in direzione di Israele. Ora possiedono, oltre ad aree agricole, 19 poli industriali e altri in fase di costruzione.

Con nomi accattivanti come Desert Gate [Porta del deserto, ndt.] e Cherry Plantation [Piantagione del ciliegio, ndt.], producono di tutto, dall’uva al bestiame.

Per i contadini originari di questa terra la vita è molto diversa. Le strade sterrate sono quasi impraticabili a causa delle pattuglie militari israeliane.

Juma’a dice: “Si tornerà alle caverne e agli asini”.

Paralisi a Ramallah

Hani al-Masri è uno dei più importanti giornalisti e commentatori politici della Palestina.

Direttore generale di Masarat, il Centro palestinese per la ricerca politica e gli studi strategici, Masri una volta si considerava un membro di Fatah e un confidente del presidente Mahmoud Abbas.

Ora non più. “L’ultima volta che mi ha visto, si è arrabbiato prima ancora che avessi la possibilità di parlare”, ha detto Masri.

Il motivo della caduta in disgrazia di Masri è chiaro. Masri è diventato uno dei critici più pungenti di Abbas, ma anche meglio informati.

A Ramallah non c’è una leadership da molto tempo. All’inizio Abu Mazen [Abbas] si vantava che Israele gli avrebbe concesso più di quanto non avesse fatto con Yasser Arafat, perché lui [Abbas] era moderato, contrario alla violenza. Ma in realtà ha fallito più di Arafat, sostiene Masri.

La sua risposta a ogni fallimento è stata ‘più negoziati’, ma il suo problema è che Israele non è interessato ai negoziati. Senza trattative, la sua legittimità crolla, non solo perché non ha un programma nazionale ma perché tutte le fonti della sua legittimità si sono prosciugate”.

A quasi tre decenni dalla firma degli Accordi di Oslo il presidente 87enne governa sulle macerie del proto-Stato palestinese.

“Non c’è nessuna Fatah, nessuna OLP, nessuna elezione, nessuna autorità, nessuna società civile e nessun organo di informazione indipendente”, afferma Masri.

E non è sorpreso che Abbas abbia scelto come suo successore Hussein al-Sheikh. Sheikh è stato catapultato a maggio nella posizione chiave di segretario generale del comitato esecutivo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP).

Masri spiega perché Abbas abbia scelto Sheikh. Gli è stato chiesto perché avesse scelto Sheikh e lui [Abbas] ha risposto: ‘Perché è intelligente. Ho chiesto al comitato centrale di fare una scelta e loro non sono stati in grado di raggiungere un accordo. Allora ho scelto il più intelligente tra loro.'”

Ma, a detta di Masri, gli sarebbe stato ribattuto che Sheikh non gode di alcuna popolarità e Abbas avrebbe risposto “Neanche io sono popolare“.

Masri concorda con questa sincera constatazione. Sulla base di sondaggi di opinione fatti nel corso di molti anni, tra il 60 e l’80% degli intervistati vuole che Abbas si dimetta.

Abbas non ha tutti i torti riguardo al comitato centrale. I pezzi grossi di Fatah – Nasser al-Qudwa (in esilio), Jibril Rajoub, Mahmoud al-Aloul, Mohammed Dahlan (in esilio) – stanno combattendo battaglie personali.

Hamas, la cui leadership in Cisgiordania è stata decimata da arresti notturni, rifiuta di prendere parte alla battaglia per la successione, così come le altre fazioni palestinesi. La considerano una esclusiva questione di Fatah.

Masri dice: Ho consigliato loro di lavorare insieme. Ma non lo fanno. Abu Mazen è abile in una cosa. Sa come dividerli. Ha detto a un membro del comitato centrale: Tu sei il mio successore. Ognuno di loro pensa che sarà lui. C’è un’espressione in arabo: ‘Quando non hai un cavallo, devi sellare un asino.'”

Non è ancora chiaro se Sheikh si adatti alla descrizione dell’asino. Sheikh crede di essersi guadagnato il suo posto al sole per aver passato anche lui del tempo in una prigione israeliana. Altri sono meno convinti.

Come responsabile delle relazioni tra l’Autorità Nazionale Palestinese e Israele, Sheikh si è già guadagnato il dubbio onore di essere portavoce dell’occupazione. Collaborazione è un’altra parola sempre più utilizzata per descrivere la cooperazione in materia di sicurezza tra l’Autorità Nazionale Palestinese e le forze di sicurezza israeliane.

C’è un accordo non scritto tra lui e il capo della sicurezza dell’Autorità Palestinese Majed Faraj, l’unico altro funzionario palestinese che potrebbe essere considerato accettabile da Israele e Washington.

Nonostante tutto il suo potere come capo del Servizio di sicurezza preventiva dell’ANP, Faraj non è riuscito a farsi eleggere nel comitato centrale dell’OLP.

A giugno un sondaggio d’opinione condotto dal Centro palestinese per la politica e la ricerca demoscopica ha valutato la popolarità di Sheikh al 3%, con un margine di errore di più o meno il 3%.

Masri dice: Hanno bisogno l’uno dell’altro. Uno è un tramite verso Israele, l’altro verso gli Stati Uniti. Israele non è ancora pronto a puntare tutto sullo stesso cavallo”.

Tuttavia, Sheikh è desideroso di registrarsi sul radar di Washington. E sta già sollevando lo spettro dello scioglimento dell’ANP e la possibilità di scontri tra clan rivali armati di Fatah come argomento per preservare l’ANP.

“Se dovessi smantellare l’Autorità Nazionale Palestinese, quale sarebbe l’alternativa?” ha dichiarato Sheikh al New York Times a luglio.

“L’alternativa sarebbe la violenza, il caos e lo spargimento di sangue”, ha aggiunto. Conosco le conseguenze di quella decisione. So che i palestinesi ne pagherebbero il prezzo”.

Ma se Oslo è morta e l’ANP è moribondo, sicuramente è defunta anche la pratica di eleggere solo candidati il cui compito principale sia quello di rendere l’occupazione da parte israeliana il più semplice possibile.

La pensa così Mustafa Barghouti, il leader e fondatore di Iniziativa Nazionale Palestinese, l’uomo che nel 2005 è arrivato secondo dopo Abbas.

È un momento molto pericoloso e coloro che pensano di poter imporre determinate persone ai palestinesi dovranno stare molto attenti, perché se non avremo un giusto processo democratico e di consenso tra i palestinesi ciò che ora resta di credibilità e rispetto scomparirà”, dice Barghouti.

L’ANP è paralizzata da tre crisi: il fallimento del suo programma di costruzione dello Stato, l’incapacità di presentare una strategia alternativa, la nascita di divisioni interne con la soppressione delle elezioni.

Barghouti afferma: Annullando le elezioni hanno cancellato il nostro breve percorso democratico. E così facendo hanno eliminato il processo di partecipazione, hanno eliminato il diritto delle persone a scegliere i propri leader e hanno bloccato completamente la strada alle nuove generazioni. Come può un giovane in Palestina avere influenza nella politica? Come?”

Il giorno prima che incontrassimo Masri, Nablus era andata in fiamme. Sono scoppiati scontri armati tra manifestanti, molti dei quali di Fatah, e le forze di sicurezza dell’ANP dopo l’arresto di un importante uomo di Hamas, Musab Shtayyeh, ricercato da Israele.

Nel corso degli scontri a fuoco un palestinese di 53 anni, Firas Yaish, è stato ucciso e un altro ferito gravemente.

Uomini armati hanno preso di mira con armi da fuoco la sede distrettuale dell’Autorità Nazionale Palestinese per protestare contro le politiche dell’autorità. Per riportare la calma in città, l’Autorità Nazionale Palestinese ha comunicato che stavano trattenendo Shtayyeh per proteggerlo. Da allora Shtayyeh ha iniziato lo sciopero della fame e l’ANP gli ha negato per due volte di vedere il suo avvocato.

Senza il sostegno di Israele l’ANP crollerebbe nel giro di pochi mesi. Vedete cosa è successo a Nablus, tutte le zone di Nablus erano in fiamme, non solo la città vecchia ma tutti i quartieri, afferma Masri.

Ciò significa che la maggioranza sostiene i combattenti ostili all’ANP. Se l’ANP manterrà le sue promesse di liberare Shtayyeh e lo tratterà come un caso nazionale, non come un criminale, penso che il movimento si rinforzerà“.

E aggiunge: Il nostro problema è questo. Abbiamo bisogno di un cambiamento, ma le condizioni per un cambiamento non sono ancora mature. Ho paura di una situazione di caos, non di un cambiamento”.

Resistenza nel campo di Jenin

Sotto la coalizione di Naftali Bennett e Yair Lapid i raid notturni israeliani si stanno estendendo in tutta la Cisgiordania, così come tutti i segnali dell’occupazione.

Peace Now, il gruppo di pressione israeliano che sostiene una soluzione a due Stati, ha confrontato l’occupazione sotto questa coalizione con quella dell’amministrazione di Benjamin Netanyahu in termini di pianificazione di insediamenti coloniali, gare d’appalto, inizio di lavori di costruzione, nuovi avamposti, demolizioni, attacchi di coloni e morti palestinesi.

Ogni indicatore è in crescita. C’è stato un aumento del 35% delle demolizioni di case, un aumento del 62% degli inizi di lavori di costruzione, un aumento del 26% dei progetti di unità abitative. Le violenze dei coloni sono aumentate del 45%.

Secondo i dati delle Nazioni Unite, almeno 85 palestinesi sono stati uccisi in Cisgiordania tra l’inizio dell’anno e l’11 settembre rispetto a una media annuale di 41 sotto la guida di Netanyahu – e la cifra è già diventata a tre cifre nel mese successivo, facendo sì che il 2022 sia sulla buona strada per essere l’anno più mortale da più di un decennio a questa parte in seguito alle violenze in Cisgiordania.

L’immagine di Lapid sulla scena internazionale come un moderato maschera un’ondata incessante di violenza di Stato contro i civili palestinesi.

Molti muoiono nel corso di sparatorie le cui precise circostanze non sono chiare né mai esaminate in modo indipendente.

In un recente incidente, lunedì scorso, due giovani palestinesi sono stati uccisi da colpi di arma da fuoco e un altro ferito dopo che le forze israeliane hanno aperto il fuoco su un veicolo vicino al campo profughi di Jalazone, a nord di Ramallah.

L’esercito israeliano ha affermato di aver “neutralizzato” due “sospetti”, sostenendo che essi avrebbero “tentato di effettuare un attacco mediante speronamento contro i soldati delle forze di sicurezza israeliane”. L’esercito ha riferito di aver ucciso due persone ferendone una terza.

I morti sono stati identificati come Basel Basbous e Khaled al-Dabbas, entrambi del campo di Jalazone. Ma il comitato dei prigionieri dell’ANP ha affermato di essersi recato in un ospedale di Gerusalemme dove ha visto Basel Basbous, ferito e sottoposto a cure.

Le autorità israeliane hanno smesso da tempo di dare conferma delle morti, dei sopravvissuti, per non parlare della restituzione dei cadaveri degli uccisi alle loro famiglie per la sepoltura.

Yehia Zubaidi ha appreso dai media israeliani che suo fratello Daoud è morto nell’ospedale di Haifa per le ferite riportate. Ma l’ospedale ha rifiutato di consegnare il corpo.

Zubaidi ha combattuto nella Seconda Intifada, iniziata nel 2000, e ha trascorso 16 anni in prigione tra il 2002 e il 2018. Suo fratello Zakaria è stato uno dei sei prigionieri fuggiti dalla prigione di Gilboa nel settembre 2021, tutti successivamente ripresi.

Zubaidi dice: Gli anni in prigione non mi hanno cambiato, ma conosco bene il mio nemico. La prigione non ci ha mai fermato. Ho chiamato mio figlio Osama, che era il nome di un mio amico assassinato. Un altro si chiama Mohammed, e il terzo Daoud come mio fratello».

La resistenza viene infatti tramandata da una generazione all’altra.

Shtayyeh, l’uomo di Hamas arrestato a Nablus, era vicino a Ibrahim Nabulsi, un membro di spicco del braccio armato di Fatah, le Brigate dei martiri di al-Aqsa, che è stato colpito e ucciso dalle forze israeliane ad agosto.

Nabulsi, che non era ancora ventenne, era figlio di un alto ufficiale dei servizi segreti dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Il padre di Nabulsi, ufficiale dell’intelligence, dice: “Ibrahim stava dando loro la caccia [ai soldati israeliani], non il contrario. Ogni volta che sentiva parlare di un’incursione dell’esercito israeliano, era il primo ad uscire e ad affrontarli. Questo era il suo destino. Rendiamo lode a Dio”.

Il figlio diciottenne ha lasciato un biglietto in cui esprimeva la volontà che il suo corpo fosse coperto dalla bandiera palestinese, piuttosto che dalla bandiera della sua fazione.

Barghouti afferma: “Questa è di per sé un’indicazione molto importante di una nuova coscienza che sta crescendo tra i palestinesi più giovani”.

Lubna al-Amouri ha trasformato la sua casa in un santuario per il figlio defunto Jamil, un giovane comandante della Jihad islamica nel campo profughi, rimasto intrappolato un anno fa in un’imboscata mentre si recava al matrimonio di un amico.

Quando ha cercato di scappare è stato colpito alla schiena. Nella sparatoria sono rimasti uccisi due agenti di sicurezza palestinesi. Lubna coniuga l’orgoglio per suo figlio, salutato come un eroe locale, con il dolore di madre.

A scuola Jamil desiderava far parte della resistenza, ma io non glielo permettevo. Gli ho comprato una macchina e l’ho fatto lavorare. Volevo che diventasse un tassista, ma ha venduto l’auto per comprare una pistola e ha iniziato da solo senza aderire a nessun gruppo. Non faceva parte della Jihad fino a sei mesi prima di morire”, dice.

Mentre Amouri parla i suoi occhi si riempiono di lacrime.

Era un bravo ragazzo. Dava i soldi o il cibo che aveva alle famiglie più povere. Era arrabbiato per gli eventi a Gerusalemme, dall’assalto ad al-Aqsa. Ha visto cosa stava succedendo in Cisgiordania e non ha potuto fare a meno di lasciarsi coinvolgere.

Nel campo non abbiamo mai riposo. Ci prendiamo sempre cura l’uno dell’altro. Nessuno nel campo pensa al futuro. Ho altri due ragazzi e hanno visto cosa è successo al loro fratello, ho paura per loro. Quando si sentono degli spari, tutti escono fuori”, continua Amouri.

Chiedo a Zubaidi se pensa di vedere la fine dell’occupazione nel corso della sua vita.

“Sì“, risponde senza esitazione.

L’occupazione sta cedendo. Anno dopo anno stanno fallendo. Combattiamo dalla parte giusta. Stanno cercando di cambiare la terra perché capiscono che su di essa abbiamo i diritti e ne siamo i possessori”.

Zubaidi indica nel campo di Jenin gli edifici dipinti di giallo. Sono stati ricostruiti dalle macerie della battaglia di Jenin del 2002 in cui le forze israeliane si fecero strada attraverso il campo con i bulldozer. Nei combattimenti sono stati uccisi tra 52 e 54 palestinesi e 23 soldati israeliani.

Mentre parliamo ci raggiunge un uomo di nome Mohamed che si descrive come un sopravvissuto alla battaglia.

Mohamed allora era un ragazzo e quel giorno era a casa con sua madre e suo padre. Ricorda che sua madre stava preparando il pane per i combattenti che si trovavano fuori nelle strade. Ricorda un’esplosione e poi una “nebbia” nella stanza. Sua madre era accasciata sul pane, sanguinante. Perdeva e riacquistava conoscenza.

Mohamed racconta: Mi sono addormentato accanto a lei. Abbiamo chiamato l’ambulanza ma gli israeliani ne hanno impedito il passaggio. Al mattino mi sono svegliato e ho trovato mio padre che metteva un velo su mia madre. Mi ha detto ‘Sta dormendo e ora sei insieme a me.'”

Mohammed riferisce di aver chiamato sua figlia Maryam come sua madre.

Il campo di Jenin è libero sia dall’ANP, che non osa entrare, sia dall’occupazione israeliana. Non ci sono insediamenti intorno a Jenin, quindi la legge è gestita dalle fazioni armate palestinesi.

Abu Ayman, pseudonimo, è il comandante della Jihad islamica nel campo.

Afferma: Tutte le fazioni a Jenin sono sullo stesso piano. Nessuno di noi accetta quello che sta facendo Abbas, ma difficilmente accetteremmo un uomo come Sheikh. Non riconosciamo elezioni, né parlamento.

Siamo uniti. Se dobbiamo affrontare qualche problema non parliamo con l’ANP perché vengano ad aiutarci. Abbiamo tutto ciò di cui abbiamo bisogno, anche soldi.

All’interno del campo ci rispettiamo, anche se di partiti diversi. Le persone non possono vivere così [sotto occupazione] per sempre. La resistenza rimarrà. Qui viviamo nella libertà. È la sensazione che in Palestina tutti vogliono”.

Solo che il campo di Jenin paga a caro prezzo la sua relativa libertà. Ogni mese ci sono sanguinose incursioni. Pochi giorni dopo il nostro incontro Abu Ayman è sfuggito per un pelo a un’imboscata da parte delle forze di sicurezza israeliane in una piccola foresta vicino al campo.

“Ora sono nella lista dei più ricercati di Israele”, dice.

Zubaidi conclude: Credere nella nostra dignità è come credere in Dio. Di cosa ho bisogno nella vita? Voglio che mio figlio si senta al sicuro. Cosa ti aspetti da questo popolo? Stiamo affrontando l’oppressione e vogliono che restiamo calmi nelle nostre case. Cosa ti aspetti?”

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’ONU afferma che se la questione palestinese non viene affrontata, le prospettive della soluzione a due Stati si deterioreranno ulteriormente

 

Redazione di MEMO

Mercoledì 27 luglio 2022 – Middle East Monitor

Martedì un’importante funzionaria dell’ONU ha messo in guardia il Consiglio di Sicurezza che se la questione palestinese non viene affrontata, le prospettive per la soluzione a due Stati “peggioreranno ulteriormente”.

“Sono necessarie immediate azioni per invertire la tendenza negativa e supportare il popolo palestinese”, ha sottolineato Lynn Hastings, la vicepresidente dell’ufficio del coordinatore speciale ONU per il processo di pace in Medioriente. Parlando a nome del coordinatore speciale Tor Wennesland, Hastings ha aggiunto: “Non c’è un’alternativa per un legittimo processo politico che risolva le questioni alla base del conflitto. Dobbiamo focalizzarci sul raggiungimento dell’obiettivo definitivo: due Stati che convivano fianco a fianco in pace e sicurezza, in linea con le risoluzioni ONU, con gli accordi precedenti e con il diritto internazionale.”

Ha puntualizzato che “per anni le espansioni delle colonie illegali nella Cisgiordania occupata hanno progressivamente ridotto il territorio palestinese ed eroso le prospettive per uno Stato palestinese praticabile, dato che la violenza contro i civili inasprisce la sfiducia e provoca un crescente mancanza di speranza in quanto uno Stato, la sovranità e un futuro di pace stanno stanno svanendo.”

La funzionaria dell’ONU ha riportato il numero di palestinesi uccisi e feriti dall’occupazione israeliana durante il periodo del suo rapporto. Allo stesso tempo ha raccontato che le pallottole usate per uccidere la giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh sono state sottoposte a test forsensi supervisionati da un ufficiale esperto di sicurezza USA. Tuttavia, sebbene nei test “non si sia raggiunta una conclusione definitiva” a causa del danneggiamento dei proiettili, “sembra probabile che gli spari siano provenuti dalle posizioni delle Israeli Defence Forces [l’esercito israeliano, ndt.] (IDF).”

Hastings ha anche citato la mancanza di permessi edilizi rilasciati dagli israeliani ai palestinesi, puntualizzando che le demolizioni israeliane hanno recentemente espulso 61 palestinesi, inclusi 31 minori. Infatti finora quest’anno ci sono stati “trecentonovantanove demolizioni e confische di strutture di proprietà palestinesi palestinesi e sgomberi … con più di 400 palestinesi deportati.”

Hastings ha affermato che i permessi di costruzione sono praticamente impossibili da ottenere da parte dei palestinesi. Ha anche segnalato che la recente sentenza dell’Alta Corte di Giustizia israeliana che permette di procedere con gli sgomberi nei villaggi di Masafer Yatta dimostra che le forze israeliane continuano ad adottare misure restrittive che influiscono sulle comunità palestinesi e sugli operatori umanitari. “Io rimango profondamente preoccupata dal costo umanitario sulle comunità in questione se gli ordini di sgombero dovessero essere portati avanti” ha affermato.

La violenza correlata ai coloni è un’altra questione ed è particolarmente preoccupante nella comunità della Cisgiordania di Ras Al-Tin. “Ripeto che i responsabili di tutti gli atti di violenza devono essere chiamati a risponderne e rapidamente assicurati alla giustizia.”

L’importante funzionaria ha concluso: “L’ONU rimane impegnata a supportare gli israeliani e i palestinesi perché si avviino verso una pace giusta e durevole e noi continueremo a lavorare con le parti e con i partner regionali ed internazionali per ottenere questo risultato.”

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Un documento secretato rivela che le “zone di tiro” dell’IDF sono costruite per dare terra ai coloni

In una riunione top secret tenutasi nel 1979, qui per la prima volta svelata, l’allora Ministro dell’Agricoltura Ariel Sharon spiegò che le zone di tiro avevano lo scopo di creare “riserve di terra” per gli insediamenti coloniali, nel contesto del suo più ampio piano di stabilire “confini etnici” tra ebrei e palestinesi.

Yuval Abraham

11 luglio 2022 –  +972 Magazine

Un documento inedito rivela che Israele ha creato “zone di tiro militari” nella Cisgiordania occupata come meccanismo per trasferire terreni agli insediamenti coloniali. Quelle zone di tiro, istituite apparentemente ai fini di addestramento militare, sono state realizzate nell’ambito di una strategia più ampia rivolta a creare un “confine etnico” tra ebrei e palestinesi.

Secondo il verbale di una riunione “top secret” del 1979 della Settlement Division della World Zionist Organization [la Divisione per le colonie, è un ente privato che agisce nell’ambito dell’Organizzazione Sionista Mondiale ma è interamente finanziato da fondi pubblici israeliani. Agisce come agente governativo nell’assegnazione di terre ai coloni ebrei in Cisgiordania, ndt.] che lavora in tandem con il governo israeliano, l’allora ministro dell’Agricoltura Ariel Sharon spiegò come la realizzazione di zone di tiro in tutta la Cisgiordania avesse come unico obiettivo finale quello di fornire la terra ai coloni israeliani.

“Essendo la persona che ha fatto nascere nel 1967 le zone di tiro militari, ho voluto destinarle tutte a uno scopo: fornire un’opportunità per l’insediamento coloniale ebraico nell’area”, disse Sharon durante la riunione. “Non appena la Guerra dei Sei Giorni finì, ero ancora di stanza nel Sinai con la mia divisione. Quando ho disegnato queste zone mi trovavo nel Sinai. Le zone di tiro sono state create per uno scopo: costituire delle riserve di terra per le colonie”.

40 anni dopo, le osservazioni di Sharon hanno avuto conseguenze di vasta portata, poiché migliaia di palestinesi a Masafer Yatta, nelle grandi colline a sud di Hebron e nella Valle del Giordano sono attualmente sotto diretta minaccia di espulsione dopo che la loro terra è stata dichiarata zona di tiro militare.

La Divisione delle Colonie si era riunita per discutere la creazione di insediamenti coloniali nelle aree della valle del Giordano dichiarate zone di tiro, e quindi chiuse ai palestinesi. Sharon rese noto di aver delineato i confini delle zone di tiro sin dall’inizio e ordinato il trasferimento delle basi militari in Cisgiordania in modo che la terra fosse sequestrata a fini di insediamento coloniale.

Sharon sarebbe diventato ancora più esplicito riguardo ai suoi piani per le zone di tiro. Solo due anni dopo, durante un altro incontro della Divisione per le Colonie, il ministro affermò che era stata decisa [la realizzazione, ndt.] della zona di tiro 918 al di sopra di Masafer Yatta [insieme di 19 frazioni palestinesi nelle colline meridionali di Hebron nella Cisgiordania meridionale, ndt.] per fermare la “diffusione degli abitanti dei villaggi arabi sul fianco della montagna verso il deserto”. A maggio l’Alta Corte israeliana ha dato il via libera all’espulsione di oltre 1.000 palestinesi da otto villaggi di Masafer Yatta per consentire all’esercito di addestrarsi nell’area.

All’udienza dell’Alta Corte lo Stato ha affermato che la distruzione di queste comunità – che gli abitanti affermano essere lì almeno dalla fine del 19° secolo – è necessaria per l’addestramento. La scorsa settimana l’esercito ha iniziato a inviare carri armati, impiegare armi da fuoco e posizionare mine vicino alle case del villaggio.

Protezione delle periferie ebraiche

Due ulteriori documenti portati alla luce da +972 fanno chiarezza sulla motivazione politica alla base della creazione di colonie e zone di tiro nelle colline meridionali di Hebron. In base a quanto dichiarato da Sharon, egli ha cercato di creare una “zona cuscinetto” tra i cittadini beduini di Israele nel Negev/Naqab e gli abitanti palestinesi della Cisgiordania meridionale, dove si trova Masafer Yatta.

“Esiste un fenomeno, in corso da diversi anni, di contiguità fisica tra la popolazione araba del Negev e gli arabi delle colline di Hebron. Si è creata una situazione in cui il confine [della terra di proprietà araba] si è spinto più profondamente nel nostro territorio”, disse Sharon al comitato nel gennaio 1981. “Dobbiamo creare rapidamente una zona cuscinetto di insediamenti coloniali che si insinui tra le colline di Hebron e la comunità ebraica del Negev. Sharon è arrivato persino a etichettare questa zona cuscinetto come un “confine etnico” che avrebbe impedito ai palestinesi della Cisgiordania di raggiungere la “periferia di Be’er Sheva [città del sud di Israele, la più grande del deserto del Negev, ndt.]”.

I verbali di un incontro del 1980 rivelano come Sharon ritorni sulla stessa questione: “A Hura [una cittadina beduina nel Negev/Naqab] c’è una comunità araba in crescita di migliaia di persone. Questa comunità ha contatti con la popolazione araba delle colline meridionali di Hebron. Pertanto il confine passerà praticamente nelle vicinanze di Be’er Sheva, vicino a Omer [una ricca città del Negev-Naqab]. Supponiamo che io aggiunga altre decine di migliaia di ebrei a Dimona o Arad [due città operaie nel sud di Israele], e che li voglia lì. Come colmerò questo divario? Come farò a creare un cuneo tra i beduini del Negev e gli arabi delle colline meridionali di Hebron?

Sharon avrebbe presto avuto una risposta alla sua domanda. Quell’anno Israele dichiarò 30.000 dunam [3.000ettari] di terra nella punta meridionale della Cisgiordania delle zone di tiro militari. Come Sharon aveva ben chiaro, queste zone furono realizzate come confini etnici: a sud delle zone militari c’erano dozzine di villaggi beduini non riconosciuti all’interno di Israele, mentre a nord e ad ovest c’erano le città palestinesi e le cittadine delle colline a sud di Hebron. All’interno della zona militare rimasero le migliaia di palestinesi che ora devono affrontare un trasferimento di popolazione.

Durante queste discussioni Sharon stabilì persino la creazione di nuovi insediamenti coloniali ebraici nel Negev-Naqab, come Meitar, così come nelle colline occupate a sud di Hebron, come Maon e Susiya, che avrebbero fatto parte della stessa zona cuscinetto.

Per Sharon, come per molti altri leader israeliani, la nozione stessa di territorio arabo contiguo era una minaccia diretta alle ambizioni dello Stato di controllare quanta più terra possibile su entrambi i lati della Linea Verde [la linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio arabo-israeliani del 1949 fra Israele e alcuni fra i Paesi arabi confinanti alla fine della guerra arabo-israeliana del 1948-1949, ndt.]. Ancora oggi, le colonie ebraiche in Cisgiordania e nel Negev/Naqab rimangono una parte cruciale della strategia di controllo di Israele.

Un segreto di Pulcinella

Secondo un rapporto di Kerem Navot, un’organizzazione [israeliana, ndr.] che tiene traccia degli insediamenti coloniali nella Cisgiordania occupata, nel 2015 circa il 17% della Cisgiordania è stata designata come sede di varie zone di tiro militari, in particolare nella Valle del Giordano, nelle colline a sud di Hebron e lungo il confine orientale con la Giordania. La maggior parte di queste assegnazioni furono fatte immediatamente dopo l’occupazione della Cisgiordania nel 1967 e all’inizio degli anni ’70. Secondo il rapporto l’esercito utilizza solo il 20% circa di queste zone per l’addestramento.

Alcuni esempi recenti mostrano che Israele si sta spingendo ancora più in là dei cuscinetti etnici di Sharon tra ebrei e palestinesi. Oggi i palestinesi in tutta la Cisgiordania vengono espulsi dalle zone di tiro, mentre i coloni stanno lentamente prendendo il loro posto.

Nell’ultimo decennio, ad esempio, i coloni hanno stabilito 66 cosiddetti avamposti agricoli, che occupano enormi appezzamenti di terra in Cisgiordania, nonostante abbiano pochi residenti. Circa un terzo di quel territorio, 83.000 dunam [8.300 ettari], che i coloni hanno conquistato attraverso il pascolo, si trovano all’interno di zone di tiro militari. Queste aree – almeno sulla carta – dovrebbero essere chiuse sia agli ebrei che ai palestinesi. I soldati israeliani nella Valle del Giordano hanno persino ammesso apertamente che consentono ai coloni di utilizzare le zone di tiro, mentre vietano ai palestinesi di fare lo stesso.

Dror Etkes, a capo di Kerem Navot, ha detto a +972 che negli ultimi anni c’è stato un aumento significativo del subentro di coloni nelle zone di tiro. “Questa è la logica conseguenza di quanto fece Ariel Sharon 55 anni fa. Le fattorie avamposto coloniale sono state progettate in modo tale da consentire l’occupazione di vaste aree di pascolo, che nell’agosto del 1967 erano state dichiarate zone di tiro militari”, afferma Etkes.

Questo meccanismo si sta ripetendo nelle colline meridionali di Hebron. L’anno scorso la Divisione per le Colonie ha assegnato un terreno nella zona di tiro 918 a uno dei coloni che vivono nelle vicinanze. Le foto aeree mostrano che nella zona di tiro sono state costruite nuove strutture appartenenti a tre avamposti coloniali – Mitzpe Yair, Avigayil e Havat Ma’on – stabiliti nell’area nel 2000. L’anno scorso, i coloni hanno persino cercato di realizzare un nuovissimo avamposto coloniale direttamente all’interno della zona di tiro.

Che le zone di tiro siano utilizzate per rafforzare il progetto di colonizzazione e l’espropriazione della popolazione nativa dei territori occupati è ormai un segreto di Pulcinella e tutti vi sono coinvolti, tranne i palestinesi.

Yuval Abraham è un giornalista e attivista che risiede a Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’esercito israeliano comincia le esercitazioni a Masafer Yatta nonostante le proteste.

The New Arab, PC, Social Media

Martedì 21 giugno 2022 – The Palestine Chronicle

L’agenzia The New Arab ha riferito che martedì l’esercito israeliano comincerà le esercitazioni militari a Masafer Yatta, nonostante l’opposizione degli abitanti palestinesi.

Granate con propulsione a razzo, carri armati, mitragliatrici, ruspe e altri tipi di armi e mezzi pesanti saranno usati nelle esercitazioni militari che secondo il quotidiano israeliano Haaretz avranno luogo dalle 12 alle 18 ora locale.

Il giornale ha affermato che le esercitazioni, che continueranno per un mese, saranno le più ampie degli ultimi 20 anni.

Circa 1200 palestinesi di Masafer Yatta, a sud di Hebron (Al-Khalil), rischiano di essere espulsi dalle proprie case per fare spazio ad un’area per esercitazioni dopo una battaglia legale durata decenni che è terminata lo scorso mese davanti all’Alta Corte israeliana.

La sentenza ha aperto la strada ad una delle più ampie deportazioni da quando lo Stato di Israele ha occupato il territorio nella guerra mediorientale del 1967. Gli abitanti palestinesi si stanno rifiutando di abbandonare il territorio, sperando che la loro resistenza e la pressione internazionale impediscano a Israele di portare avanti le espulsioni.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




La pulizia etnica a Masafer Yatta: la nuova strategia di annessione israeliana in Palestina

Ramzy Baroud

1 giugno 2022Palestine Chronicle

La Corte Suprema di Israele ha sentenziato che la regione palestinese di Masafer Yatta, situata sulle colline meridionali di Hebron, debba essere interamente espropriata dall’esercito israeliano e che la popolazione di oltre 1.000 palestinesi sia espulsa.

Questa decisione del 4 maggio non è certo stata una sorpresa. L’occupazione militare israeliana non consiste solo di soldati con armi, ma di sofisticate strutture politiche, militari, economiche e legali, dedicate all’espansione delle colonie ebree illegali e alla lenta, e talvolta per niente lenta, espulsione dei palestinesi.

Quando i palestinesi affermano che la Nakba, o Catastrofe, che ha portato alla pulizia etnica della Palestina nel 1948 e alla fondazione dello Stato di Israele sulle sue rovine, è un progetto ininterrotto e non ancora del tutto compiuto vogliono dire esattamente questo. La pulizia etnica dei palestinesi da Gerusalemme Est e le angherie senza fine contro i beduini palestinesi nel Naqab e ora a Masafer Yatta, testimoniano questa realtà.

Però Masafer Yatta non ha precedenti. Nel caso della Gerusalemme Est occupata, per esempio, Israele ha rivendicato, fallacemente e astoricamente, che Gerusalemme è la capitale eterna e indivisa del popolo ebraico. Ha combinato la narrazione indimostrata con l’azione militare sul posto, seguita da un sistematico processo inteso ad aumentare la popolazione ebraica e a espellere gli originari abitanti autoctoni della città. Concetti come ‘Grande Gerusalemme’ e le strutture legali e politiche, come quella del Piano generale per Gerusalemme 2000 hanno contribuito a trasformare quella che una volta era una maggioranza assoluta palestinese a Gerusalemme in una minoranza in calo.

Nel Naqab obiettivi israeliani simili furono messi in moto già nel 1948 e poi di nuovo nel 1951. Questo processo di pulizia etnica degli autoctoni resta in vigore ancora oggi.

Sebbene la zona di Masafer Yatta faccia parte degli stessi progetti coloniali, la sua unicità deriva dal fatto che è situata nell’Area C della Cisgiordania occupata.

Nel luglio 2020 Israele ha apparentemente deciso di posticipare i propri piani di annessione di quasi il 40% della Cisgiordania, forse temendo una ribellione palestinese e un’indesiderata condanna internazionale. Tuttavia in pratica il piano è continuato.

Inoltre l’annessione completa delle regioni cisgiordane vorrebbe dire che Israele diventerebbe responsabile dell’assistenza a tutte le comunità palestinesi. Come Stato coloniale qual è Israele vuole la terra, ma non la gente. Secondo i calcoli di Tel Aviv l’annessione senza l’espulsione della popolazione potrebbe portare a un incubo demografico, perciò Israele ha bisogno di reinventare il suo piano di annessione.

Sebbene abbia in teoria ritardato l’annessione de jure, Israele ha continuato una forma di annessione de facto che ha ottenuto scarsa attenzione dai media internazionali.

La sentenza della Corte israeliana su Masafer Yatta, che è già in corso di esecuzione con l’espulsione della famiglia Najjar  l’undici maggio [ vedi l’articolo di Zeitun], è un passo importante verso l’annessione dell’Area C. Se Israele può sfrattare senza ostacoli gli abitanti di dodici villaggi, con una popolazione di oltre 1.000 palestinesi, si possono prevedere altre espulsioni simili, non solo a sud di Hebron, ma in tutti i territori della Palestina occupata.

Gli abitanti palestinesi dei villaggi di Masafer Yatta e i loro rappresentanti legali sanno molto bene che non si può ottenere nessuna vera ‘giustizia’ dal sistema legale israeliano. Comunque loro continuano a combattere la battaglia legale nella speranza che un insieme di fattori, inclusa la solidarietà in Palestina e la pressione dall’esterno, possa alla fine riuscire a costringere Israele a ritardare la sua pianificata distruzione ed ebraicizzazione dell’intera regione.

Comunque sembra che gli sforzi palestinesi in corso dal 1997 stiano fallendo. La sentenza della Corte Suprema di Israele è fondata sulla teoria erronea e totalmente bizzarra che i palestinesi di quella zona non possano dimostrare di essere stati lì prima del 1980 quando il governo israeliano decise di trasformare l’area nella ‘Zona di tiro 918’.

Sfortunatamente la difesa palestinese era basata in parte sui documenti dell’epoca giordana e sui quelli ufficiali delle Nazioni Unite che avevano riferito di attacchi israeliani contro parecchi villaggi nell’area di Masafer Yatta nel 1966. Il governo giordano, che ha amministrato la Cisgiordania fino al 1967, aveva risarcito alcuni degli abitanti per la perdita delle loro ‘case di pietra’, non tende, bestiame e altre proprietà che erano state distrutte dall’esercito israeliano. I palestinesi hanno tentato di usare queste prove per dimostrare di essere vissuti lì non come popoli nomadi, ma come comunità stanziali. Questo non ha convinto la corte di Israele, che ha dato la preminenza alla tesi dell’esercito rispetto ai diritti della popolazione nativa.

Le zone di tiro israeliane occupano circa il 18% dell’intero territorio della Cisgiordania. È uno dei vari trucchetti usati dal governo israeliano per avanzare un diritto legale sulla terra palestinese e poi, anni dopo, per rivendicare anche la proprietà legale. Esistono molte di queste zone di tiro nell’Area C, e sono uno dei metodi con cui Israele mira ad appropriarsi ufficialmente della terra palestinese con il sostegno dei suoi tribunali.

Ora che l’esercito israeliano è riuscito a confiscare Masafer Yatta, una regione che si estende da 32 a 56 km2, basandosi su pretesti totalmente inconsistenti, sarà molto più facile assicurarsi la pulizia etnica di molte comunità simili in varie parti della Palestina occupata.

Mentre i dibattiti e la copertura mediatica dello schema di annessione israeliano in Cisgiordania e nella Valle del Giordano si sono decisamente ridotti, Israele sta ora preparando un processo di annessione graduale. Invece di impossessarsi del 40% della Cisgiordania in una sola volta, Israele sta ora annettendo separatamente tratti di territorio più piccoli e regioni come Masafer Yatta. Tel Aviv finirà per collegare tutte queste aree tramite circonvallazioni solo per ebrei verso le colonie ebraiche più grandi in Cisgiordania.

Questa strategia alternativa non solo permette a Israele di evitare critiche internazionali, ma, prima o poi, consentirà di annettere i territori palestinesi e allo stesso tempo sfrattare sempre più palestinesi, contribuendo a far sì che Tel Aviv possa prevenire squilibri demografici prima che si verifichino.

Ciò che sta succedendo a Masafer Yatta non è solo il più grande piano di pulizia etnica mai portato avanti da Israele dal 1967, ma potrebbe essere considerato il primo passo di una più vasta strategia di appropriazione illegale di territori, pulizia etnica e massiccia annessione formale.

A Masafer Yatta Israele non deve riuscirci perché se così fosse il suo progetto originario di massiccia annessione diventerebbe realtà in brevissimo tempo.

Ramzy Baroud è giornalista e direttore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri, l’ultimo curato con Ilan Pappé è “Our Vision for Liberation: Engaged Palestinian Leaders and Intellectuals Speak out”. (La nostra visione per la liberazione: leader palestinesi e intellettuali impegnati fanno sentire la propria voce). Il prof. Baroud è ricercatore non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA).

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Rapporto OCHA del periodo 10 – 30 maggio 2022

1). L’11 maggio, nel Campo profughi di Jenin, un’importante giornalista palestinese, Shireen Abu Akleh, è stata uccisa con arma da fuoco mentre realizzava un servizio su un’operazione militare israeliana; un altro giornalista è stato colpito e ferito; entrambi indossavano giubbotti da addetti stampa.

Il Coordinatore Speciale ed il Coordinatore Umanitario, facendo eco ai portavoce del Segretario Generale delle Nazioni Unite, hanno chiesto indagini indipendenti e trasparenti per l’accertamento delle responsabilità. Il 13 maggio, mentre migliaia di palestinesi si erano radunati per i funerali di Abu Akleh, la polizia israeliana è intervenuta presso l’ospedale Saint Joseph, dove si trovava la salma della giornalista ed ha attaccato con manganelli i palestinesi che partecipavano al corteo funebre, compresi i portatori della bara ed altre persone in lutto, ferendone 33 ed arrestandone 15. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite si è detto “profondamente turbato” dal comportamento di alcuni membri della polizia ed ha esortato “al rispetto dei diritti umani fondamentali, compresi i diritti alla libertà di opinione, di espressione e di riunione pacifica”.

2). In scontri a fuoco occorsi durante due operazioni militari, condotte nella città di Jenin e nel Campo profughi di Jenin, sono rimasti uccisi altri due palestinesi (uno era un ragazzo) e un soldato israeliano; nelle stesse operazioni 34 palestinesi sono rimasti feriti [seguono dettagli]. Il 15 maggio, un palestinese è morto per le ferite riportate due giorni prima, quando era stato colpito dalle forze israeliane durante un’operazione di ricerca-arresto che ha visto uno scontro a fuoco all’interno e vicino al Campo profughi di Jenin. Durante tale operazione, un soldato israeliano è rimasto ucciso e almeno 30 palestinesi sono rimasti feriti. Inoltre, una abitazione per cinque famiglie è stata demolita, provocando lo sfollamento di venti persone, tra cui dieci minori. Secondo quanto riferito, la demolizione ha fatto parte di una procedura militare, in base alla quale i soldati prendono come bersaglio una casa dove si nasconde un sospetto che rifiuta di arrendersi. Il 20 maggio, le forze israeliane hanno condotto un’operazione di ricerca-arresto nella città di Jenin ed hanno avuto uno scontro a fuoco con palestinesi armati; un palestinese di 17 anni, coinvolto, a quanto riferito, nel lancio di una bottiglia incendiaria, è stato ucciso dalle forze israeliane.

3). Il 14 maggio un palestinese di 23 anni è morto in conseguenza delle ferite riportate il 22 aprile ad Haram Al Sharif / Monte del Tempio, nella Città Vecchia di Gerusalemme. Secondo testimoni oculari, era stato colpito alla testa con un proiettile gommato; secondo i media israeliani, che citano documenti sanitari israeliani, sul suo corpo non è stata riscontrata nessuna ferita causata da tale tipo di proiettile. Il 16 maggio, le forze israeliane hanno limitato la partecipazione di palestinesi al suo corteo funebre ed hanno sparato proiettili gommati contro l’ambulanza che trasportava la salma. Durante il corteo, le forze israeliane hanno confiscato bandiere palestinesi ed hanno aggredito le persone in lutto. Secondo quanto riferito, palestinesi hanno lanciato petardi contro agenti di polizia israeliani che hanno risposto con granate stordenti. Circa 71 palestinesi e, a quanto riferito, due poliziotti israeliani sono rimasti feriti, mentre altri 18 palestinesi circa, compresi minori, sono stati arrestati all’interno del cimitero vicino alla Città Vecchia di Gerusalemme.

4). Il 24 maggio, nella città di Nablus, vicino alla Tomba di Giuseppe, le forze israeliane hanno sparato, uccidendo un 16enne palestinese. Secondo i resoconti dei media israeliani, che citano le forze israeliane, il ragazzo stava lanciando una bottiglia incendiaria. Ciò è accaduto dopo che le forze israeliane, che scortano i coloni israeliani al sito, hanno lanciato bombe assordanti, e i palestinesi hanno lanciato pietre verso di loro; successivamente, le forze israeliane hanno sparato proiettili veri, proiettili gommati e lacrimogeni, ferendo 89 palestinesi. Dall’inizio dell’anno, le forze israeliane che scortano i coloni israeliani al sito, hanno ucciso due palestinesi, tra cui un minore, e ne hanno feriti 306. Nel corso degli anni, la Tomba di Giuseppe ha visto scontri ricorrenti tra palestinesi e forze israeliane di scorta ai coloni israeliani.

5). In Cisgiordania, in episodi separati che, secondo quanto riferito, hanno coinvolto palestinesi nel lancio di pietre, le forze israeliane hanno ucciso altri due ragazzi palestinesi [seguono dettagli]. Il 27 maggio, vicino al villaggio di Al Khader (Betlemme), le forze israeliane hanno sparato, uccidendo un ragazzo di 14 anni. Secondo i resoconti dei media israeliani che citano l’esercito israeliano, il ragazzo stava lanciando bottiglie incendiarie; tuttavia, secondo testimoni oculari, è stato colpito alla schiena e non era coinvolto in alcuno scontro. Durante lo svolgimento del corteo funebre del ragazzo, tre palestinesi, tra cui un minore, sono stati colpiti con armi da fuoco e feriti mentre scoppiavano scontri tra palestinesi e forze israeliane all’ingresso del villaggio. L’11 maggio, ad Al Bireh, mentre gli studenti stavano uscendo dalla vicina scuola, le forze israeliane hanno sparato, uccidendo un ragazzo palestinese di 16 anni. In quel momento palestinesi lanciavano pietre contro le forze israeliane che, sparando proiettili veri, hanno colpito lo studente al petto; nella stessa circostanza un altro ragazzo è stato ferito. Testimoni affermano che entrambi i ragazzi non erano coinvolti nel lancio di pietre. In nessuno di tali episodi è stato riportato alcun ferito israeliano.

6). In Cisgiordania, complessivamente, sono stati feriti dalle forze israeliane 1.240 palestinesi, inclusi 38 minori [seguono dettagli]. Circa 268 feriti sono stati registrati vicino a Beita e Beit Dajan (entrambi a Nablus) e Kafr Qaddum (Qalqiliya) in manifestazioni contro gli insediamenti e durante la commemorazione del 74° anniversario di quella che i palestinesi chiamano “An Nakba” [“La catastrofe”, esodo palestinese] del 15 maggio 1948. Altri 309 feriti sono stati registrati il 29 maggio, in scontri scoppiati durante otto proteste tenutesi a Hebron, Nablus, Ramallah e nella Città Vecchia di Gerusalemme, contro l’ingresso di coloni israeliani e altri gruppi israeliani nell’Haram al Sharif / Monte del Tempio (vedi sotto). In altri quindici episodi registrati a Qaryut, Qusra, Burqa, Huwwara e Burin (tutti a Nablus), città di Nablus, città di Salfit e Haris (Salfit), 357 persone sono rimaste ferite a seguito dell’ingresso di coloni israeliani, accompagnati da forze israeliane, nelle Comunità palestinesi. Secondo fonti palestinesi, le forze israeliane hanno sparato in aria bombe assordanti ed i residenti hanno risposto lanciando pietre contro di loro. In cinque occasioni, le forze israeliane hanno sparato, ferendo 40 palestinesi durante scontri nelle vicinanze del Campus universitario di Al Quds nella città di Abu Dis (Gerusalemme) e dell’Università Tecnica nella città di Tulkarm. Altri 52 palestinesi sono rimasti feriti durante sei operazioni di ricerca-arresto condotte a Gerusalemme e Jenin. Altri sei sono rimasti feriti durante una demolizione in Silwan, a Gerusalemme Est, (vedi sotto e sopra). I restanti 208 feriti sono stati segnalati in situazioni diverse a Gerusalemme Est (vedi sopra). Di tutti i feriti palestinesi, 75 sono stati colpiti da proiettili veri e 261 da proiettili gommati; la maggior parte delle persone ferite è stata curata per aver inalato gas lacrimogeni.

7). Il 29 maggio, migliaia di coloni israeliani e altri israeliani hanno marciato attraverso Gerusalemme Est durante l’annuale “Giornata di Gerusalemme”, che commemora l’occupazione israeliana di Gerusalemme Est, nel 1967. Le autorità israeliane hanno schierato migliaia di poliziotti ed hanno installato barriere di metallo fuori dalla Porta di Damasco, bloccando l’accesso e l’uscita dei palestinesi dalla Città Vecchia di Gerusalemme e costringendo i proprietari a chiudere i loro negozi. Sono scoppiati scontri tra palestinesi e forze israeliane, durante i quali 87 palestinesi, tra cui nove minori e una donna, sono stati feriti con proiettili gommati e granate stordenti e 72 palestinesi sono stati arrestati. In precedenza, lo stesso giorno, circa 2.600 israeliani sono entrati nell’Haram al Sharif / Monte del Tempio, innescando violenti scontri tra palestinesi e polizia israeliana che ha protetto l’ingresso degli israeliani. All’interno della moschea di Al Qibli, le forze israeliane hanno sparato proiettili gommati, granate stordenti e lacrimogeni contro i fedeli palestinesi e, per diverse ore, hanno chiuso i cancelli con catene di ferro, impedendo loro di lasciare la struttura. Durante questi scontri almeno 20 palestinesi, tra cui tre donne, sono stati arrestati. In una dichiarazione, l’Ente islamico che gestisce il sito, il “Waqf”, ha accusato le autorità israeliane di “violare la santità” di Al Aqsa, consentendo ad “estremisti ebrei di assaltare la moschea, fare tournée provocatorie e svolgere preghiere e rituali pubblici”.

8). A Gerusalemme Est e nell’Area C della Cisgiordania, adducendo la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito, confiscato o costretto le persone a demolire 58 strutture di proprietà palestinese [seguono dettagli]; undici delle strutture erano state finanziate da donatori e fornite come aiuto umanitario. Di conseguenza, 110 persone, tra cui 59 minori, sono state sfollate e sono stati colpiti i mezzi di sussistenza di altre 607 circa. Circa 46 delle strutture si trovavano in Area C, di cui diciassette in un’area designata [da Israele] come “zona di tiro” per l’addestramento militare, dove le Comunità palestinesi sono a rischio di trasferimento forzato. Tredici strutture sono state demolite a Gerusalemme Est, comprese cinque case demolite dai proprietari per evitare di pagare multe.

9). Inoltre, senza alcun preavviso, le autorità israeliane hanno demolito e messo i sigilli a tre strutture di sostentamento e ad un pozzo d’acqua; rispettivamente nel Campo profughi di Shu’fat, a Gerusalemme Est, ed in Ras ‘Atiya, a Qalqiliya. Il pozzo era l’unica fonte di acqua potabile e di irrigazione per circa 400 ettari di terreni coltivati; la sua chiusura colpisce 1.200 famiglie palestinesi dei sette villaggi circostanti. Il 18 maggio, adducendo motivi di sicurezza, è stata demolita una struttura in Area A.

10). Secondo fonti della Comunità locale, il 18 maggio le forze israeliane hanno emesso ordini di sfratto contro famiglie palestinesi che gravitano su 4 ettari di terreni agricoli palestinesi vicino a Wadi Fukin (Betlemme), comprese tre abitazioni, minacciando il ricovero ed i mezzi di sussistenza di otto famiglie. Le autorità israeliane avevano designato l’area come “terra demaniale”, che raramente viene assegnata a palestinesi. Il 22 maggio, nel villaggio di Jinba, Masafer Yatta, in Hebron, adducendo motivi di sicurezza, le forze israeliane hanno emesso un ordine di requisizione contro 2,2 ettari di terra palestinese utile a completare parte della barriera della Cisgiordania. Jinba è una delle Comunità di pastori a rischio di sfollamento forzato, a seguito della sentenza dell’Alta Corte di Giustizia Israeliana che ha sancito l’utilizzo di 3.000 ettari da destinare alle esercitazioni militari. La designazione di quest’area come “Zona di tiro attiva” potrebbe comportare lo sfollamento di circa 1.200 palestinesi, inclusi 580 minori. Il 25 maggio, il Comune di Gerusalemme ha consegnato un ordine definitivo di demolizione ai proprietari di un edificio residenziale, composto da 12 unità abitative, dislocato in Wadi Qaddum, nel quartiere Silwan di Gerusalemme Est. Circa 74 persone, tra cui 42 minori, rischiano lo sfollamento.

11). Coloni israeliani hanno ferito venti palestinesi, inclusi quattro minori, e persone conosciute come coloni, o ritenute tali, hanno danneggiato proprietà palestinesi in 34 casi [seguono dettagli]. Il 22 maggio, nei pressi dell’insediamento di Esh Kosdeh (Nablus), un ragazzo di 15 anni è stato picchiato da coloni e sequestrato per due ore, prima di essere consegnato a un’ambulanza e portato in ospedale per cure mediche. Altri dieci palestinesi sono stati colpiti con pietre o aggrediti fisicamente, di cui tre nell’Area H2 della città di Hebron, controllata da Israele, tre nel quartiere di Sheikh Jarrah e nella Città Vecchia di Gerusalemme, e quattro (tra cui una donna) ad ‘Al Mas’udiya e Duma (entrambi a Nablus). Altri nove ferimenti si sono verificati in due episodi separati accaduti a Burqa, dove un colono israeliano ha fatto irruzione nel villaggio, lanciando pietre contro i residenti e causando danni a veicoli. In altri sedici casi accaduti intorno a Ramallah, Hebron e Salfit, coloni hanno causato danni alle strutture di sostentamento palestinesi, hanno rubato attrezzature agricole e serbatoi d’acqua, danneggiando un impianto idrico e relative condutture. Secondo quanto indicato dalle locali Comunità palestinesi, in dodici episodi registrati a Betlemme, Ramallah, Salfit, Hebron e Nablus, circa 650 ulivi di proprietà palestinese sono stati sradicati da coloni. Nei villaggi di Al Funduq (Qalqiliya), Kafr ad Dik (Salfit), Urif (Nablus) e Al Jiftlik (Gerico) e nel quartiere Silwan di Gerusalemme Est, coloni hanno attaccato queste Comunità, lanciando pietre contro case e veicoli, provocando danni ad almeno dodici veicoli e a due abitazioni.

12). Persone conosciute come palestinesi, o ritenute tali, hanno lanciato pietre, ferendo cinque coloni israeliani e danneggiando dieci veicoli israeliani in transito su strade della Cisgiordania. Gli episodi sono avvenuti vicino a Nablus, Ramallah e Gerusalemme. In ventidue casi, veicoli e autobus israeliani sono stati danneggiati dal lancio di pietre o bottiglie incendiarie.

13). Nella Striscia di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale israeliana o al largo della costa, in almeno 59 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento [verso palestinesi], presumibilmente per far rispettare le restrizioni di accesso [loro imposte da Israele]; due pescatori palestinesi sono stati arrestati. Inoltre, ad est di Rafah, le forze israeliane hanno arrestato due palestinesi mentre, a quanto riferito, stavano cercando di entrare in Israele attraverso la recinzione perimetrale. In quattro occasioni, bulldozer militari israeliani hanno condotto operazioni di spianatura del terreno all’interno di Gaza, in prossimità della recinzione perimetrale.

14). Il 15 maggio, le autorità israeliane hanno revocato un divieto di 11 giorni, relativo all’uscita, da Gaza verso Israele, di persone in possesso di permessi israeliani; ne risultavano colpiti principalmente lavoratori e commercianti. Il divieto era stato inizialmente imposto per due giorni, in occasione del “Memoriale di Israele” e dei “Giorni dell’Indipendenza”, ed era stato ampliato in seguito all’uccisione di tre israeliani da parte di palestinesi della Cisgiordania. Durante il periodo di divieto è stata consentita l’uscita [da Gaza] solo per casi sanitari urgenti. Secondo quanto riferito, il 15 maggio [giorno della revoca del divieto di uscita da Gaza] sono uscite 4.600 persone, per lo più lavoratori, il numero giornaliero più alto in 15 anni.

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Ultimi sviluppi (successivi al periodo di riferimento)

Il 2 giugno, ad Al Midya, Ramallah, forze israeliane hanno sparato, uccidendo un ragazzo palestinese.

Il 2 giugno, durante un’operazione di ricerca-arresto condotta nel Campo profughi di Ad Duheisha, Betlemme, forze israeliane hanno sparato, uccidendo un palestinese.

Il 1° giugno, a Ya’bad (Jenin), forze israeliane hanno ucciso un palestinese nel corso di una demolizione “punitiva” della casa di famiglia del palestinese che, il 29 marzo, in Israele, sparò, uccidendo cinque persone.

Il 1° giugno, forze israeliane hanno sparato, uccidendo una donna palestinese che, vicino al Campo profughi di Al Arrub (Hebron), avrebbe tentato di accoltellare un soldato israeliano.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Le forze israeliane emettono ordini di demolizione a Masafer Yatta

WAFA, Palestine Chronicle

Martedì 24 maggio 2022 – Palestine Chronicle

L’agenzia ufficiale palestinese di notizie ha riferito che lo scorso lunedì le forze israeliane hanno emesso ordini di demolizione contro altre tre case nell’area di Masafer Yatta, nel sud della Cisgiordania.

Le forze israeliane hanno ordinato la demolizione di tre case nella comunità di al-Juwaya a Masafer Yatta, nel distretto di Hebron (Al-Khalil) nella Cisgiordania meridionale.

Fouad al-Amour, coordinatore dei Comitati di Protezione e Resilienza ha detto alla WAFA che le forze israeliane hanno preso d’assalto la comunità e consegnato ai tre abitanti l’ordine di demolire le loro case. Ha aggiunto che i soldati hanno consegnato ad un abitante della comunità vicina di Ein al-Beida un’ingiunzione di demolizione di un locale per uso agricolo.

Considerato uno dei sobborghi ad est di Yatta, al-Juwaya è pesantemente preso di mira dalle misure dell’occupazione israeliana che intendono cancellare l’espansione delle costruzioni palestinesi.

Masafer Yatta è un insieme di circa 19 villaggi che dipendono quasi esclusivamente dall’allevamento come principale fonte di sussistenza.

Il 4 maggio l’Alta Corte israeliana ha deliberato a favore della demolizione di 12 comunità a Masafer Yatta e dell’espulsione di migliaia di abitanti basandosi sull’asserzione secondo cui si trovano in una area destinata ad esercitazioni militari.

Situata nell’Area C della Cisgiordania, sotto pieno controllo amministrativo e militare israeliano, l’area è stata soggetta a ripetute violazioni israeliane da parte di coloni e soldati che prendono di mira la principale fonte di reddito palestinese – l’allevamento.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Armati di un ordine di espulsione dell’Alta Corte i bulldozer israeliani arrivano a Masafer Yatta

Yuval Abraham e Basil al-Adraa, 

12 maggio 2022 – +972

L’esercito israeliano ha portato a termine le prime demolizioni nell’area dopo la sentenza del tribunale della scorsa settimana, scatenando il timore di una deportazione di massa come non si vedeva da vent’anni.

La scorsa settimana l’Alta Corte di giustizia israeliana ha autorizzato, con un linguaggio legale preciso e raffinato, l’espulsione di oltre 1.000 residenti palestinesi da otto villaggi nella regione di Masafer Yatta della Cisgiordania occupata, a seguito di un procedimento legale durato 22 anni sul destino di coloro che vivono all’interno della “Zona di tiro 918.” Mercoledì l’esercito israeliano ha dato il via alla prima operazione di sgombero nell’area dopo la sentenza, distruggendo nove case in due di quei villaggi, e lasciando 45 palestinesi senza casa.

“Tredici di noi dovranno dormire qui in tenda”, ha detto Fares al-Najjar, una delle persone a cui è stata distrutta la casa. Seduto su una sedia di plastica, guardava dei video della casa in cui viveva con la sua famiglia che veniva distrutta. Intorno a lui, i suoi fratelli stendevano corde, appendevano teloni e cercavano di allestire un riparo vicino ai resti della casa. “Ci hanno rimandato indietro di 20 anni”, ha detto Ali, fratello di Fares, tirando una corda per fissare la tenda a delle sbarre di ferro.

La tenda che i membri della famiglia al-Najjar stavano allestendo come rifugio temporaneo era servita fino a poco tempo prima come recinto per le pecore. “Abbiamo lasciato il gregge fuori”, ha detto Fares, che poi si è rivolto al resto della famiglia esortandoli a sbrigarsi, “in modo da avere il tempo di lavarci e portare i letti nella tenda prima che faccia buio”.

I bulldozer erano arrivati nel villaggio di Al-Mirkez, sulle colline a sud di Hebron, la mattina presto. I soldati hanno permesso solo alle donne di rimuovere il contenuto delle case e un alto ufficiale dell’esercito dell’amministrazione civile – il braccio dell’esercito israeliano che governa i territori occupati – ha supervisionato il processo. Le donne hanno trascinato fuori gli effetti personali delle famiglie, ammucchiando in una pila materassi, zaini, specchi, vestiti, articoli da toeletta e attrezzature mediche.

Uno degli uomini ha cercato di entrare in casa sua, ma l’ufficiale gli ha detto: “Solo le donne possono entrare”. Un’ adolescente ha portato fuori dalla sua stanza un foglio di carta con dei disegni. «Ecco fatto» ha detto l’ufficiale. “Dio ti punirà”, ha risposto la ragazza, mentre il bulldozer si avvicinava per distruggere la sua casa. Poi un’altra casa è stata distrutta. E un’altra.

“Procediamo”, ha detto l’ufficiale dell’amministrazione civile e i bulldozer si sono diretti al vicino villaggio di Al-Fakheit. Lì, i bulldozer hanno preso di mira diverse case, in cui non c’era nessuno ma erano piene di cose e mobili. “Non sono in casa”, ha detto un uomo con la barba, Jaber, la cui casa è stata distrutta già cinque volte.

Alcuni giovani soldati con giubbotti verdi e mascherati sono scesi da una jeep bianca e hanno iniziato a svuotare le case. Alcuni dei soldati avevano il viso coperto; solo gli alti ufficiali camminavano con la schiena dritta e le facce visibili. “Ecco fatto, [la sentenza del]l’Alta Corte è a posto”, ha detto un ispettore anziano dell’amministrazione civile. “Ora possiamo iniziare il lavoro”.

“Non ho mai visto una simile distruzione “

All’improvviso abbiamo sentito delle grida; un gruppo di persone accorreva verso le ruspe. Uno di loro, Maher, insegnante in una scuola vicina, si era precipitato fuori nel bel mezzo di una lezione perché aveva sentito che la casa della sua famiglia stava per essere distrutta. I soldati hanno intimato ai famigliari di restare indietro. Poi il bulldozer cigolando si è avventato sulla casa iniziando a schiacciarla mentre la famiglia urlava inorridita.

Il bulldozer si è poi mosso in direzione di un asino legato alla cisterna dell’acqua usata dagli abitanti del villaggio, il quale sbatteva lentamente le palpebre accanto alla casa distrutta. Una soldatessa ha gridato: “Fermati! Qualcuno liberi l’asino.” L’ispettore ha slegato la corda dicendo: “Non preoccuparti, sta bene”. Poi un segnale con la mano e il bulldozer ha schiacciato la casa. Fatto questo ha demolito la cisterna d’acqua del villaggio.

“Non ho mai visto una simile distruzione”, ha detto Eid Hathaleen che da anni documenta demolizioni come queste. Il padre di Eid, Suleiman, è stato ucciso a gennaio dopo essere stato investito da un carro attrezzi agli ordini della polizia israeliana. Gli abitanti di altri villaggi hanno affermato che le demolizioni di ieri sono simili a quelle avvenute qui due mesi fa.

Mercoledì ad Al-Mirkez sono stati demolite in tutto cinque abitazioni e due stalle di pecore. Alla famiglia al-Najjar è rimasta solo la tenda e un’antica grotta scavata nella roccia, in cui vivevano i genitori di Fares. “Il padre di mio nonno, ‘Abd al-Rahman al-Najjar, è arrivato al villaggio alla fine del XIX secolo”, ha detto Fares. “Ci sono 10 grotte qui, che ospitavano 10 famiglie. La maggior parte delle persone se ne andò nel corso degli anni a causa dell’occupazione. Noi siamo rimasti.”

Lo Stato rifiuta di rilasciare permessi di costruzione nei villaggi di Masafer Yatta, e dunque i residenti sono prigionieri di un tortuoso gioco del gatto e del topo. “Hanno già demolito la nostra casa a dicembre”, ha detto Ali. “Avevamo vissuto lì per 10 anni.”

Ali ha spiegato che quando i residenti ricevono un ordine di demolizione, pagano un avvocato che presenterà ricorso ai tribunali. Questo fa guadagnare un po’ di tempo, ma alla fine il loro appello viene inevitabilmente rifiutato. “E allora vengono a distruggere”, ha detto.

Quando questo accade, se ricostruiscono sul loro terreno privato vicino allo stesso posto, l’Amministrazione Civile può immediatamente venire a demolire la casa senza bisogno di un ordine di demolizione. È quello che è successo mercoledì: l’esercito ha distrutto le case che erano state ricostruite dopo le demolizioni di dicembre.

Ci stanno perseguitando senza sosta”

Nel periodo di tregua, i membri della famiglia si sono riuniti per valutare le opzioni: o rimanere in una tenda o cercare di trovare abbastanza soldi per ricostruire. “Ora è estate”, ha detto uno di loro. “Possiamo restare nella tenda fino all’inverno.” Fares annuisce, e dice: “Non possono farci assolutamente nulla in una tenda. Aspetteremo fino all’inverno. A quel punto, forse qualcosa sarà cambiato, forse Dio li avrà portati via”.

A pochi metri di distanza c’era una donna di 70 anni, Safa al-Najjar, seduta accanto alle rovine della casa in cui viveva con la giovane figlia. Dietro la casa c’era una grotta scavata nella pietra, da cui si sentiva la voce di un bambino. “Per tutta la vita ho allevato le pecore”, ha detto Safa. La sua voce era un po’ roca e il suo sorriso quello di una donna giovane. Indossava un velo bianco con dei fiori e si rivolgeva a noi come ” figli miei “.

“All’inizio, mio marito ed io vivevamo in questa grotta”, ha detto. “Era camera da letto, soggiorno e cucina tutto insieme. Le pecore vivevano accanto a noi nell’altra grotta. Ma 20 anni fa, quando i bambini sono cresciuti, abbiamo costruito una stanza. Da allora ci perseguitano senza sosta”. La parola “loro”, che qui si sente molto spesso, si riferisce sempre a Israele, agli occupanti.

Safa ricorda bene le espulsioni avvenute qui alla fine del 1999, quando 700 residenti furono cacciati dalla zona. Successivamente è stata depositata una petizione presso la Corte Suprema, che ha emesso un’ingiunzione provvisoria che consentiva ai residenti di tornare alle loro case fino a quando non fosse stata presa una decisione legale definitiva. Più di 20 anni dopo, il tribunale ha deciso di respingere il ricorso dei residenti.

Stavamo facendo asiugare il formaggio fuori quando sono arrivati”, dice Safa di quella fatidica mattina del 1999. “I soldati sono arrivati con due grandi camion e ci hanno costretto a salire con tutti i nostri averi. Le pecore sono scappate. Ci hanno cacciato vicino a Susiya”, riferendosi al villaggio vicino a Masafer Yatta, anch’esso minacciato di demolizione. Abbiamo chiesto a Safa se avesse sentito parlare della sentenza della Corte Suprema la scorsa settimana e lei ha detto di no. “È la loro corte.”

Najati, il figlio più giovane di Safa, aveva in effetti sentito parlare della sentenza. “Quando ha distrutto la casa l’ufficiale mi ha detto: ‘Perché hai costruito? Il caso giudiziario è chiuso. Questo è territorio dell’esercito’ ”, riferisce Najati. “Penso che quello che è successo oggi non potrà che peggiorare, ci caricheranno di nuovo sui camion e ci deporteranno”.

È impossibile sapere se i militari ripeteranno l’atto di deportazione di massa avvenuta nel 1999, in particolare nell’era odierna dei social media e della pressione internazionale. Quello che sappiamo, tuttavia, è che una donna di 70 anni dormirà sul pavimento accanto alle rovine della sua casa.

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su Local Call.

Yuval Abraham è giornalista e attivista e vive a Gerusalemme.

Basil al-Adraa è attivista, giornalista e fotografo del villaggio di a-Tuwani sulle colline a sud di Hebron.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Solo i palestinesi possono decidere se boicottare la Corte degli occupanti

Michael Sfard

10 maggio 2022 – +972 magazine

La Corte Suprema israeliana ha approvato l’espulsione forzata di Masafer Yatta, e si ripresenta la questione se “legittimare” i tribunali.

La sentenza della Corte Suprema israeliana della scorsa settimana, che consente al governo di trasferire con la forza la comunità palestinese della Zona di Tiro 918 nell’area di Masafer Yatta, nella Cisigordania occupata, ha riacceso l’annoso dibattito tra attivisti di sinistra e per i diritti umani in Israele: dobbiamo presentare ricorsi alla Corte Suprema sulle violazioni dei diritti dei palestinesi che vivono sotto occupazione?

Le considerazioni sulle reti sociali, anche da parte di avvocati che hanno rappresentato i palestinesi davanti alla Corte Suprema per molti anni, hanno suggerito che è giunto il momento (e forse avrebbe dovuto essere fatto prima) di boicottare i tribunali israeliani ed evitare di chiedere ai giudici di porre rimedio o tutelare dai danni ai palestinesi.

È un argomento ben noto, e la comunità di attivisti in Israele-Palestina non è la prima a sollevarlo. Questo dibattito ha avuto luogo per decenni tra i militanti per i diritti umani in tutto il mondo – nel Sudafrica dell’apartheid e negli Stati Uniti durante la guerra del Vietnam, per esempio – e continua tuttora, dall’India alla Russia.

Gli attivisti che si oppongono allo status quo – soprattutto in regimi repressivi, occupanti, di apartheid, etnocratici o totalitari – quasi sempre devono lottare con una situazione di sistemi giudiziari accondiscendenti che collaborano, e a volte persino si identificano, con i crimini di quei regimi.

La questione politica se ricorrere al sistema giudiziario di un governo repressivo è pertanto importante e affascinante, benché emerga solo dove c’è una possibilità realistica che si possa ottenere qualcosa con un procedimento legale. Perché ci sia questo dubbio ci deve essere un sistema che ogni tanto conceda qualche forma di riparazione, e la domanda è quindi se sia opportuno continuare a impegnarvisi e pagare il prezzo di tale impegno o lasciar perdere del tutto.

Ad ogni modo ciò che si ottiene non è sempre una vittoria, cioè una vittoria totale in una causa. Un contenzioso può garantire quelli che si potrebbero definire “frutti secondari”: benefici collaterali che a lungo termine possono aiutare in maniera significativa la lotta contro una determinata politica, ma non sono il risarcimento diretto cercato avviando il procedimento giudiziario.

Ogni avvocato che abbia mai avuto a che fare con una causa le cui possibilità di successo sono esili conosce i benefici collaterali delle azioni giudiziarie per i diritti umani. Spesso la speranza, e persino la strategia, è che si ottengano proprio questi successi secondari. Per esempio: il tempo.

Il tempo è un vantaggio collaterale molto importante. Molte cause rimandano in modo significativo la messa in pratica di un’azione o una politica ingiuste. I processi contro l’espulsione della comunità palestinese di Khan al-Ahmar, nella Cisgiordania occupata, è durato 11 anni, finché la Corte Suprema ha deliberato a favore dello Stato. A Susiya, sulle colline meridionali di Hebron, lo stesso procedimento è durato 17 anni. La causa riguardante la Zona di Tiro 918 ha portato a un’ingiunzione temporanea che ha consentito alle comunità di continuare a vivere sulle loro terre. L’ingiunzione è rimasta in vigore per 22 anni.

Questi lunghi periodi di tempo consentono di organizzarsi politicamente, l’attivazione di pressioni diplomatiche e la garanzia di una significativa copertura mediatica –niente di tutto ciò sarebbe stato possibile se i progetti dello Stato fossero attuati rapidamente. Susiya e Khan al-Ahmar sono esempi perfetti di come il tempo possa rendere possibili l’organizzazione e una opposizione efficace, rendendo particolarmente difficile portare a termine le espulsioni forzate previste persino ora che tutti i ricorsi sono stati rigettati.

Un altro esempio di prodotto collaterale delle cause è l’informazione. Un’azione legale può mettere in luce molti dettagli riguardo a una politica o una prassi, che possono invece essere utili in una lotta sociale o politica. A volte in queste lotte le informazioni possono valere quanto l’oro.

Le azioni giudiziarie possono portare altri risultati: un procedimento legale può spesso incrementare la consapevolezza pubblica e attirare l’attenzione dei media sull’argomento sottoposto a controllo giudiziario; è un processo che dà vita a dibattiti concreti contro lo status quo e le azioni progettate dal governo, formulando nel contempo l’alternativa che dovrebbe sostituirle, contribuendo a far conoscere la lotta; obbliga lo Stato a prendere una posizione chiara che spieghi e difenda le sue azioni, e a darne conto. Sono tutti strumenti importanti in una lotta e che di rado sono ottenuti fuori dalle aule dei tribunali.

Fare ricorso o non fare ricorso

Di fronte a tutto ciò quelli che si oppongono alle azioni legali sono per lo più preoccupati dell’effetto di legittimazione di sentenze negative;, dell’inganno di una parvenza di processo equo e non di parte a favore dell’uso della forza coercitiva da parte del governo; l’impegno in queste cause di energie e risorse che potrebbero essere investite altrove. Questi sono i costi politici dei procedimenti giudiziari.

Quindi, cosa si conclude se si soppesano costi e benefici? Qual è il bilancio finale? Ricorrere o meno ai tribunali? Forse il prezzo maggiore sempre citato in questo contesto è che i procedimenti giudiziari possono portare a sentenze che legittimano i crimini. Ciò evidenzia un paradosso: più il tribunale è progressista – cioè, più è disponibile ad opporsi alle autorità e interviene a favore delle vittime delle violazioni dei diritti umani – maggiore è il costo in termini della legittimazione nel caso in cui caso si perda.

D’altro canto, più il sistema giudiziario è sottomesso, più sentenzia regolarmente a favore delle autorità e adotta la loro posizione, più si riduce il prezzo in termini di legittimazione.

Questa è una conclusione importante: il pericolo di legittimare le politiche (e il regime) è particolarmente alto nei sistemi giudiziari in cui è alta la possibilità di garantirsi delle vittorie significative. Non mi pare che questa sia la situazione in Israele. Anche se la Corte è stata tenuta tradizionalmente in grande considerazione, quell’epoca è passata sia in Israele che all’estero, sicuramente in quei contesti sociali che costituiscono il bacino di potenziali reclute e sostenitori nella lotta per porre fine all’occupazione.

Riguardo al molto tempo e alle molte energie che le cause richiedono, è chiaro che, se ci fossero mezzi alternativi di resistenza che potrebbero portare a risultati e soluzioni positive migliori dei tribunali israeliani sarebbe giusto spostare risorse su quei mezzi. Mi pare che in molti casi non ci siano alternative più efficaci ai procedimenti giudiziari.

Dall’altra parte ci sono esseri umani che sono vittime delle azioni che queste istanze cercano di impedire. Dal loro punto di vista c’è poco da perdere nel ricorrere ai tribunali. Se un’istanza fallisce, quello che succede sarebbe successo comunque, solo molto prima. In questo modo c’è almeno la speranza di garantirsi il tempo necessario per organizzare una lotta, per sfruttare l’attenzione data ai procedimenti giudiziari e per utilizzare le informazioni – parte delle quali possono essere importanti – che i processi mettono in luce.

E a volte, solo a volte, i ricorrenti ottengono una vera e propria vittoria, parziale o – in rare occasioni – totale, che impedisce un’ingiustizia: annullando la proibizione di viaggiare all’estero; limitando il furto di terre; garantendo l’accesso a terreni agricoli; cancellando la “legge sulle regolarizzazioni” [degli avamposti israeliani illegali, ndt.]; cacciando coloni da terre di proprietari privati palestinesi, come nel caso degli avamposti di Amona e di Migron.

La lealtà ai diritti umani ci autorizza a sacrificare la possibilità per una persona di evitare l’espulsione, la perdita di reddito o lo smantellamento di una comunità sull’altare di un calcolo dell’eventuali scotto di legittimare un regime repressivo?

Dopo tutte le considerazioni e valutazioni, in definitiva non sta agli avvocati o alle Ong decidere. La decisione spetta ai palestinesi. Sono loro che devono scegliere se ricorrere ai tribunali dell’occupante o boicottarli. Nel frattempo ogni anno migliaia di palestinesi optano per correre il rischio. Che sia per mancanza di alternative o per le sofferenze, questa è la scelta che stanno facendo.

Michael Sfard è avvocato specializzato in leggi sui diritti umani e umanitarie internazionali ed autore di “The Wall and The Gate: Israel, Palestine and the Legal Battle for Human Rights [Il muro e la porta: Israele, Palestina e la battaglia giuridica per i diritti umani].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)