Col diffondersi del contagio da coronavirus, i richiedenti asilo in Israele sono sull’orlo della catastrofe

Oren Ziv

18 marzo 2020 – +972

Le politiche di Israele hanno impoverito la comunità dei richiedenti asilo, che vivono in appartamenti angusti, non hanno copertura sanitaria, esposti ad un maggiore pericolo.

Secondo i membri della loro comunità e gli attivisti, i richiedenti asilo in Israele sono “sull’orlo della catastrofe”, mentre nel Paese il numero di contagi del nuovo coronavirus continua a salire.

Nelle attuali circostanze straordinarie i richiedenti asilo si trovano in condizioni di grande difficoltà, per i licenziamenti, l’impossibilità di ricevere assistenza dallo Stato, la mancanza di informazioni e le miserevoli condizioni abitative. La chiusura di aziende e istituzioni che impiegano regolarmente i richiedenti asilo sta preoccupando molte famiglie che si vedono già gettate in mezzo alla strada senza nulla da mangiare.

Oggi vivono in Israele circa 35.000 richiedenti asilo, la maggior parte dei quali provenienti dall’Eritrea, e anche da una piccola comunità sudanese. Per anni, Israele ha rifiutato di esaminare le loro richieste di asilo, lasciandoli in un limbo legale. Nell’ultimo decennio, solo 13 eritrei e un cittadino sudanese sono stati riconosciuti come rifugiati dal governo israeliano.

La loro precaria situazione giuridica ha serie implicazioni rispetto alla capacità dei richiedenti asilo di affrontare l’epidemia. Mentre gli israeliani licenziati o costretti a chiedere congedo che si trovino in difficoltà finanziarie possono ricevere il sussidio di disoccupazione, i richiedenti asilo non possono beneficiare di protezioni. Senza l’assistenza offerta dallo Stato e senza una comunità, una famiglia o dei risparmi, saranno i primi ad affrontare i mortali contraccolpi del virus.

“Al governo non importa di noi, nessuno ci ha detto nulla”, afferma Cabrom Tuwalda, un richiedente asilo dall’Eritrea. “Bibi [Netanyahu] ha detto che siamo stati i migliori al mondo nell’affrontare la pandemia, ma qui ci sono 40.000 persone e nessuno gli parla”.

Il danno per i richiedenti asilo è disastroso e potrebbe portare a una catastrofe umanitaria se lo Stato non agisce insieme a noi”, afferma Tali Ehrenthal, direttore esecutivo di ASSAF, una ONG che fornisce aiuti a rifugiati e richiedenti asilo in Israele. “Stiamo assistendo a un’ondata di licenziamenti, le persone non hanno diritti sociali né diritto alla disoccupazione. Non hanno modo di pagare l’affitto e possono essere sbattuti in strada.

Nessuna rete di sicurezza

Le restrizioni imposte dal governo israeliano hanno portato a licenziamenti in settori come pulizie, ristoranti e bar, che spesso impiegano i richiedenti asilo. È difficile sapere quanti di essi abbiano perso il lavoro almeno temporaneamente, ma le stime più caute indicano che il numero si aggira intorno al 50% degli adulti. La “rete di sicurezza” promessa domenica ai lavoratori israeliani dal Ministro delle Finanze Moshe Kahlon è un sogno inarrivabile per i richiedenti asilo.

“Se non trovano una soluzione per la gente entro una settimana, non avremo nulla da mangiare”, afferma Dejan Mangesha, 25enne richiedente asilo dall’Eritrea che lavora come traduttore e nell’istruzione. Mangesha afferma che oltre ai licenziamenti, molti non escono di casa a cercare lavoro perché non c’è nessuno a prendersi cura dei loro figli ora che scuole e asili nido sono chiusi. “Le persone della comunità sono sottoposte a forti pressioni”, afferma. “La maggior parte di loro lavora in ristoranti, hotel e pulizie. È tutto chiuso. Le persone semplicemente non lavorano, tranne quelli che lavorano nelle cucine dei ristoranti che fanno consegne a domicilio. Le persone vengono messe in congedo non retribuito e non si sa quando torneranno al lavoro.”

Mentre molti israeliani possono chiedere un prestito alla banca o assistenza alle proprie famiglie, i richiedenti asilo non hanno alcuna possibilità. “Non abbiamo una famiglia allargata qui per aiutarci”, afferma Mangesha. “Le persone vivono del loro lavoro quotidiano e non hanno risparmi.” Mangesha stesso ha perso uno dei suoi lavori, come tutor nel doposcuola. “La verità è che sono sotto pressione”, ammette. “Ho perso parte del mio sostentamento, non si sa cosa succederà nei prossimi due mesi e se sarò in grado di pagare l’affitto”.

“Il coronavirus non fa distinzioni tra israeliani e rifugiati”, afferma Tuwalda. “Mentre gli israeliani sono indaffarati a comprare del cibo, i richiedenti asilo stanno perdendo il lavoro e si preoccupano di non avere di che pagare l’affitto. Le persone con bambini vivono a stento un mese dopo l’altro. Preferisco non immaginare cosa succederà dopo un mese o due senza lavoro.

Tuwalda, che lavora in un ristorante a Tel Aviv, è stata a casa per cinque giorni. “Comprendo il disagio che affligge il mio datore di lavoro, non ha clienti da due settimane e ha iniziato a sbarazzarsi dei lavoratori anche prima della decisione del primo ministro (di fermare la vita in Israele). La maggior parte dei richiedenti asilo lavora come lavapiatti, cuochi o bidelli nei centri commerciali e nelle scuole. Questi posti sono stati chiusi.”

È come essere in una piccola cella”

Fischla è un richiedente asilo di 43 anni proveniente dall’Eritrea e recentemente è stato licenziato dal suo lavoro in una sala da cerimonie a Tel Aviv. “Ci hanno detto che non c’era lavoro fino a quando il governo non avesse deciso diversamente”, dice. “Anche durante un mese normale per noi è difficile, appena ci danno lo stipendio paghiamo cibo, elettricità, affitto e tasse. Ora abbiamo le stesse spese ma nessun reddito.”

La moglie di Fischla, insegnante di scuola materna, non ha più lavorato da quando il governo ha chiuso le scuole. È preoccupata di non riuscire a pagare l’affitto il mese prossimo. “Posso resistere un’altra settimana o due, ma la situazione è davvero dura”, dice. “Cosa faremo dopo?” Fischla dice che lui e la sua famiglia si sono chiusi in casa e telefonano agli amici per avere aggiornamenti. “Siamo tutti nella stessa situazione, è come essere in una piccola prigione.”

Kav LaOved, un’organizzazione non profit per i diritti dei lavoratori che assiste i richiedenti asilo, segnala un aumento delle chiamate. “Abbiamo ricevuto richieste di aiuto da parte di lavoratori del settore alberghiero, ristoranti, imprese di costruzioni e pulizie, la maggior parte dei quali sono stati messi in ferie non retribuite e alcuni subito licenziati”, dice Noa Kaufman, coordinatore per i rifugiati di Kav LaOved. “Alcuni datori di lavoro, con buone intenzioni, hanno indirizzato i loro lavoratori verso i servizi per l’impiego o gli hanno spiegato come ottenere l’indennità di disoccupazione, ma abbiamo dovuto dirgli (ai richiedenti asilo) che non hanno diritto a nessun sussidio”.

Eden Tesfamariam, una richiedente asilo che lavora nella gestione della community di ASSAF, afferma che sono specialmente le madri single a non poter uscire per trovare lavoro. “Non c’è nessuno che possa aiutarle con i figli, né lo farà il governo”, afferma. Teme che la maggior parte di loro non riesca a pagare l’affitto e finisca senza tetto.

Salari confiscati

La cosiddetta “legge sui depositi” di Israele, approvata nel 2017, impone ai datori di lavoro di versare su un conto di garanzia il 20% dei salari dei dipendenti richiedenti asilo, che dev’essere rimesso nel caso in cui la persona lasci il Paese. Domenica Kav LaOved e altre organizzazioni hanno inviato una richiesta urgente a diversi ministri del governo affinché quei fondi siano resi disponibili e restituiti ai richiedenti asilo dai cui salari erano stati detratti.

“Le persone hanno depositato un quinto della loro busta paga tutti i mesi negli ultimi tre anni, perciò non hanno riserve in caso di emergenza”, afferma Kaufman. “Vogliamo che possano prelevare quel denaro.” Kav LaOved ha inoltre inviato al Ministro delle Finanze Moshe Kahlon la richiesta di ampliare la “rete di sicurezza” che ha promesso ai lavoratori in modo che includa i richiedenti asilo.

L’Alta Corte sta ancora esaminando una petizione del 2017 presentata da una coalizione di rifugiati e organizzazioni per i diritti degli immigrati proprio contro la legge sui depositi. La petizione esprimeva il timore che la legge potesse peggiorare la situazione economica dei richiedenti asilo, che già non avevano alcuna assistenza sociale su cui contare.

“Devono ridarci i soldi presi dai nostri stipendi”, afferma Tesfamariam.

L’impatto della crisi coronavirus va oltre la sfera economica. I richiedenti asilo non sono coperti dalle leggi assicurative statali, anche se alcuni lo sono dal loro posto di lavoro tramite assicurazioni private, e i datori di lavoro sono ufficialmente tenuti a continuare a pagare l’assicurazione per tutti coloro che sono stati messi in congedo non retribuito.

“La paura è che i licenziamenti porteranno a una sospensione dell’assicurazione medica privata pagata dai datori di lavoro”, afferma Zoe Gutzeit, responsabile di una clinica gratuita a Jaffa gestita da Medici per i Diritti Umani di Israele. “Ciò significa togliere l’accesso ai servizi medici.” E aggiunge che i diritti che hanno maturato durante la loro precedente occupazione non verranno mantenuti anche se troveranno un nuovo lavoro quando che la crisi sarà finita. Cosicché, sottolinea Gutzeit, potrebbero non essere coperti per alcune malattie croniche o per gravi problemi di salute fino a quando non abbiano lavorato di nuovo per un po’ di tempo.

“I richiedenti asilo hanno paura di contrarre la malattia e la consapevolezza di non avere copertura medica li mette ancora più sotto pressione”, afferma Sigal Rozen del numero verde per rifugiati e migranti.

Al di là dell’assicurazione medica, i richiedenti asilo affermano che l’autoisolamento è per loro pressoché impossibile. Quasi nessuno ha una stanza per sé e molte famiglie vivono insieme in angusti appartamenti di una o due camere.

“L’isolamento non aiuta quando ci sono tre persone in un appartamento trilocale illegalmente diviso”, afferma Mangesha. “Ci dicono di non uscire di casa, ma non ci sono condizioni normali in cui le persone possano stare.”

“Qui sta per avvenire una catastrofe “

Un ulteriore problema è la mancanza di informazioni. Fino a domenica, il ministero della Sanità non aveva pubblicato alcuna guida in tigrino, la lingua parlata dai richiedenti asilo eritrei. Poi domenica è stato pubblicato un singolo messaggio vocale online. Attivisti e organizzazioni per i richiedenti asilo hanno autonomamente tradotto e distribuito informazioni nel tentativo di combattere voci e notizie false.

“Abbiamo cercato di gestirci da soli, creando gruppi su Facebook per cercare di raggiungere coloro che hanno propositi suicidi”, afferma Tuwalda. “Non c’è stato alcun annuncio ufficiale sul coronavirus. Capisco anche che (il governo) è in una posizione difficile, ma qui ci sarà una catastrofe. Il flusso di informazioni è stato brutalmente interrotto. “

Mangesha cita un messaggio ricevuto con WhatsApp riguardo al dispiegamento di militari nelle strade di Israele, alla chiusura del Paese e al divieto per le persone di uscire di casa. “La gente era isterica”, dice.

Mentre alla fine della scorsa settimana molti israeliani sono andati a fare scorta di cibo, i richiedenti asilo non possono concedersi un simile lusso, dice Tesfamariam. “Le persone non hanno più di qualche centinaio di shekel da spendere in cibo, che per una famiglia è a malapena sufficiente per una settimana”, osserva.

Molti richiedenti asilo sottolineano poi che la tracciatura dei contatti avuti dai contagiati da COVID-19, pubblicata sui media in lingua ebraica, non è tradotta in tigrino. “Le persone non sanno come proteggersi e lo Stato non si preoccupa di informarle”, afferma Ehrenthal. “Nessuno fa le traduzioni e le persone non sanno se stanno mettendo in pericolo se stessi e coloro che li circondano.”

ASSAF, che durante i periodi normali assiste le persone più vulnerabili tra la popolazione dei richiedenti asilo – sopravvissuti a torture, vittime della tratta, madri single, ecc. – continua a fornire assistenza nel rispetto delle istruzioni del Ministero della Sanità. Nonostante la mobilitazione di milioni di shekel, il Ministero del Welfare non assiste i richiedenti asilo a rischio. “Dovrebbero fornire servizi di assistenza sociale e supporto psicosociale alla comunità”, afferma Ehrenthal.

Tutti quelli con cui ho parlato sottolineano che il coronavirus presenta la più grave minaccia che la comunità dei richiedenti asilo abbia mai affrontato e che la situazione continuerà a peggiorare nei prossimi giorni e settimane a seguito della politica israeliana di non riconoscergli lo status di rifugiati, che darebbe loro accesso ad alloggi sicuri, reddito stabile, istruzione e servizi medici.

Molti sostengono che la vita dopo il coronavirus non sarà più la stessa. I richiedenti asilo sostengono di sperare che Israele capirà che deve riconoscere i loro diritti. “La comunità scenderà in piazza se non avrà più nulla da mangiare e questo avrà delle conseguenze sugli israeliani”, afferma Tuwalda.

Oren Ziv è fotoreporter, membro fondatore del collettivo fotografico Activestills e membro della redazione di Local Call. Dal 2003, ha documentato una serie di questioni sociali e politiche in Israele e nei territori palestinesi occupati, con particolare attenzione alle comunità di attivisti e alle loro lotte.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)