Macron si è scontrato con Netanyahu riguardo all’‘inaccettabile’ interferenza nelle elezioni francesi

Redazione di Middle East Eye

10 luglio 2024 – Middle East Eye

Il presidente francese si è infuriato quando un ministro israeliano ha pubblicamente e ripetutamente lodato la leader dell’estrema destra Marine Le Pen.

Secondo un nuovo rapporto, il presidente francese Emmanuel Macron durante una telefonata si è lamentato con il primo ministro Benjamin Netanyahu riguardo all’“inaccettabile” interferenza nelle elezioni francesi.

Axios ha riferito che Macron era infuriato a causa del ripetuto apprezzamento pubblico per la candidata dell’estrema destra Marine Le Pen da parte dal ministro israeliano per la Diaspora Amichai Chikli [del Likud, partito di destra di Netanyahu, ndt.].

Chikli, che è anche responsabile per la lotta contro l’antisemitismo in Europa e nel resto della diaspora, ha ripetutamente lodato Le Pen e il suo Rassemblement National, nonostante il suo tradizionale antisemitismo.

In un’intervista rilasciata all’inizio di questo mese Chikli ha affermato che Le Pen sarebbe “eccellente per Israele” ed è stato anche fotografato con la leader dell’estrema destra. Chikli ha dichiarato che Netanyahu era “della stessa idea” riguardo a Le Pen.

Due fonti a conoscenza della telefonata hanno riferito ad Axios che durante la telefonata della scorsa settimana Macron ha detto a Netanyahu: “Questo è inaccettabile”, riferendosi ai commenti del ministro.

Domenica scorsa una difficile alleanza tra i partiti di sinistra e centristi francesi ha impedito la vittoria del partito di estrema destra di Marine Le Pen nelle elezioni parlamentari.

Nel primo turno delle elezioni una settimana fa il Rassemblement National è risultato il primo partito e puntava ad assicurarsi la maggioranza dei seggi nel parlamento francese. Tuttavia dopo un voto tattico nel secondo turno ha vinto il Nuovo Fronte Popolare di sinistra, spingendo il Rassemblement National al terzo posto, dopo i sostenitori di Macron.

Si dice che Netanyahu abbia garantito a Macron di aver detto ai suoi ministri di non commentare le elezioni parlamentari francesi, ma Chikli ha continuato ad esprimere supporto per il Rassemblement National.

Le Pen e il Rassemblement National hanno preso una posizione decisamente filo-israeliana riguardo agli affari esteri e negli ultimi anni sono stati accusati di aver preso una direzione islamofoba.

L’ex leader del partito e padre di Marine Le Pen, Jean-Marie Le Pen, è stato ripetutamente accusato di antisemitismo e si è riferito in modo tristemente noto alle camere a gas naziste come a “un dettaglio della storia”.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Perché bisogna leggere Lobbing for Zionism on Both Sides of the Atlantic (Lobbing a favore del sionismo su entrambe le sponde dell’Atlantico), il nuovo libro di Ilan Pappe sulla lobby israeliana

Peter Oborne

24 giugno 2024, MiddleEastEye

Nessuno è più qualificato a sfidare l’ortodossia ufficiale che soffoca qualsiasi discussione sull’argomento

Non è stata ancora pubblicata una recensione del nuovo, eccellente e appassionato libro del professor Ilan Pappe sulla lobby sionista. Questo silenzio non è una sorpresa. Anche un breve cenno sulla lobby rischia di scatenare accuse di antisemitismo e può distruggere una carriera.

Il mese scorso Faiza Shaheen è stata scaricata senza una parola come candidata laburista per i seggi londinesi di Chingford e Woodford Green. “Qualcuno si è lamentato per il suo like ad un tweet che si riferiva alla ‘lobby israeliana’ – ampiamente considerato uno stereotipo antisemita”, ha riferito Rachel Cunliffe, redattrice politica associata del New Statesman [rivista politica e culturale progressista britannica, ndt.]

In un’ormai famigerata apparizione a Newsnight [programma della BBC di notizie nazionali e internazionali, ndt.] in seguito alla sua defenestrazione, Shaheen in lacrime si è scusata per aver messo un like al tweet e ha ammesso che si trattasse di uno stereotipo.

Non aveva altra scelta. La Commissione per l’Uguaglianza e i Diritti Umani (EHRC) [ente pubblico britannico responsabile dell’applicazione delle leggi sull’uguaglianza e sulla non discriminazione, ndt.], l’ente regolatore statutario, concorda. Nel 2020 ha citato l’affermazione secondo cui dietro le denunce di antisemitismo ci fosse la “lobby israeliana” come prova di illegale persecuzione antisemita.

Pappe è entrato in un territorio pericoloso. Pochi sono più qualificati di lui a sfidare l’ortodossia ufficiale secondo cui è vietato discutere della lobby israeliana. Nessuno è più agguerrito nella battaglia.

Forse il più eminente dei “nuovi storici” che hanno raccontato la storia della fondazione di Israele, Pappe è stato denunciato alla Knesset dopo la pubblicazione nel 2006 del suo controverso libro La pulizia etnica della Palestina [ed. ital. Fazi 2008]. Il ministro israeliano dell’Istruzione ha invitato l’Università di Haifa a licenziarlo, e uno dei più diffusi giornali israeliani lo ha raffigurato al centro di un bersaglio accanto a cui un editorialista aveva scritto: “Non sto dicendo di uccidere questa persona, ma non mi sorprenderei se qualcuno lo facesse”.

Dopo una serie di minacce di morte, Pappe lasciò Israele e fu fortunato a trovare rifugio all’Università di Exeter. 

Colpire politici e giornalisti

Il famoso editore francese Fayard ha recentemente interrotto la distribuzione di La pulizia etnica della Palestina. Al suo arrivo negli Stati Uniti il mese scorso Pappe, che resta cittadino israeliano, è stato interrogato per due ore dagli agenti federali. Alla fine è stato fatto entrare, ma solo dopo che il contenuto del suo telefono era stato copiato. Questo genere di molestia, ha notato in seguito Pappe, non è nulla in confronto a ciò che i palestinesi affrontano quotidianamente.

Ha scritto un libro che deve essere letto e riletto da chiunque voglia comprendere il contesto internazionale della guerra a Gaza. Il libro descrive come la lobby israeliana abbia preso di mira sia politici che giornalisti.

Due politici britannici hanno perso il posto agli uffici esteri a causa delle pressioni della lobby per le loro simpatie filo-palestinesi: Alan Duncan nel 2016 e Christopher Mayhew nel 1964. Anche George Brown, ex ministro degli Esteri laburista, fu preso di mira negli anni ’60.

La lobby ha perseguitato giornalisti come Jeremy Bowen, costretto a sopportare una lunga indagine della BBC; l’ex corrispondente del Guardian da Gerusalemme Suzanne Goldenberg; l’ex redattore del Guardian Alan Rusbridger e il giornalista televisivo Jonathan Dimbleby. Il governo israeliano si è ripetutamente lamentato con la BBC che la corrispondente estera Orla Guerin fosse “antisemita” e mostrasse di “identificarsi totalmente con gli obiettivi e i metodi dei gruppi terroristici palestinesi”, addirittura collegando i suoi servizi dal Medio Oriente all’aumento dell’antisemitismo in Gran Bretagna – accuse tanto grottesche quanto false.

Altri nomi sono presenti in questa lunga lista.

Negli Stati Uniti è William Fulbright, il più longevo presidente della Commissione per le Relazioni Estere del Senato, il primo e più sconvolgente esempio. La tremenda storia della sua rovina nel 1974 è ben raccontata nel libro: “I soldi della lobby israeliana furono versati nelle casse elettorali del suo rivale, il governatore dell’Arkansas Dale Bumpers… Fino ad oggi la strada verso il Campidoglio è disseminata di candidati, appartenenti all’élite della politica americana, le cui carriere sono state analogamente stroncate”, scrive Pappe.

Il crimine di Fulbright è stato quello di sostenere che “invece di riarmare Israele, potremmo avere subito la pace in Medio Oriente se solo dicessimo a Tel Aviv di ritirarsi dietro i confini del 1967 e garantirli”.

“Niente li può toccare”

Questo spietato trattamento contro singole persone distingue la lobby filo-israeliana da altre lobby sia straniere che corporative. Michael Mates, ex membro del Comitato parlamentare per l’Intelligence e la Sicurezza, una volta mi disse (in una citazione ripresa nel libro di Pappe) che “nel nostro corpo politico la lobby filo-israeliana è la lobby politica più potente. Non c’è niente che li possa toccare”.

Pappe va molto indietro nella storia per tratteggiare le origini della mobilitazione per il ritorno del popolo ebraico in Palestina. La storia inizia due secoli fa con i cristiani evangelici, il che potrebbe spiegare l’utilizzo da parte di Pappe del termine “lobby sionista” piuttosto che del termine standard “lobby filo-israeliana”.

Tanto nel lontano passato come oggi questo tipo di sostegno a Israele è mosso dall’antisemitismo. Nel 1840 lo studioso delle religioni George Bush, un diretto antenato dei due presidenti degli Stati Uniti, invocò la rinascita di uno stato ebraico in Palestina, esprimendo la speranza che al popolo ebraico sarebbero stati offerti “gli stessi incentivi e attrattive per trasferirsi in Siria che ora li incoraggiano a emigrare in questo paese”.

Quei primi sostenitori cristiani di una Palestina ebraica, come i successivi sionisti cristiani, erano ignari della presenza palestinese in quella che vedevano come la Terra Santa. Per loro la Palestina era la stessa dei tempi di Gesù. Nelle parole di Pappe, ” fu in seguito immaginata come parte organica dell’Europa medievale, con la gente vestita di abiti medievali che vagava per una campagna europea”.

In Gran Bretagna Edwin Montagu, uno dei primi ebrei praticanti a partecipare ad un gabinetto britannico, descrisse il sionismo come un “credo politico problematico” – una frase che lo farebbe espellere dal partito laburista di Keir Starmer e mettere alla gogna dai media.

Montagu considerava antisemita la Dichiarazione Balfour e avvertiva che “quando agli ebrei verrà detto che la Palestina è la loro patria ogni paese cercherà immediatamente di sbarazzarsi dei suoi cittadini ebrei e in Palestina ci sarà una popolazione che caccerà i suoi attuali abitanti”.

Salvaguardare la legittimità di Israele

Dopo la fondazione di Israele, il compito principale della lobby è diventato quello di salvaguardare la legittimità dello Stato israeliano. Pappe dimostra che il partito laburista ne è stato un sostenitore più forte e affidabile rispetto ai conservatori, e mette in rilievo il ruolo di Poale Zion [movimento di lavoratori ebrei marxisti-sionisti fondato in varie città della Polonia, dell’Europa e dell’Impero russo all’inizio del XX secolo, ndt.], antecedente all’odierno Movimento Operaio Ebraico [importante parte del Partito Laburista, ndt.], che originariamente cercò di conciliare marxismo e sionismo e convinse i sindacati e i laburisti che Israele era un progetto socialista.

Pappe scrive che Poale Zion divenne “parte di una lobby intesa ad frenare qualsiasi potenziale orientamento anti-israeliano nel Partito laburista in Gran Bretagna e a rafforzare il rapporto tra il Partito laburista e i suoi elettori ebrei filo-israeliani”.

Secondo Pappe l’ex primo ministro Harold Wilson, che guidò il partito laburista dal 1963 al 1976, era “filo-israeliano fino al midollo”. Pappe ipotizza che l’ammirazione di Wilson per Israele, come quella di David Lloyd George nella generazione precedente, fosse il prodotto di un’educazione protestante dissidente. Il politico Roy Jenkins (1920-2003) disse che il libro di Wilson The Chariot of Israel era “uno dei trattati più profondamente sionisti mai scritti da un non ebreo”.

Alec Douglas-Home (1903-1995), ministro degli Esteri nel governo di Edward Heath succeduto all’amministrazione Wilson dopo le elezioni generali del 1970, era più amichevole con i palestinesi. Vecchio aristocratico di Eton, Douglas-Home è oggi liquidato come un inetto vecchio bacucco, un’aberrazione nella Gran Bretagna del dopoguerra.

Oggi le sue opinioni susciterebbero un cenno di approvazione da parte della Palestine Solidarity Campaign [organizzazione di attivisti dal 2004, “la più grande organizzazione europea per i diritti dei palestinesi” (Guardian), ndt.]. Secondo Pappe “fu l’unico ministro degli Esteri britannico a discutere apertamente del diritto al ritorno dei profughi palestinesi espulsi da Israele nel 1948” e, cosa ancora più notevole, “l’unico ministro degli Esteri britannico a sfidare la disonesta mediazione degli americani”.

Subito dopo la guerra del 1967, Douglas-Home insistette, con il sostegno di Heath, che la Gran Bretagna non poteva più ignorare le “aspirazioni politiche degli arabi palestinesi”. Al governo, fece infuriare Israele consentendo all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina di aprire un ufficio a Londra.

Pappe afferma che Douglas-Home è stato l’unico politico britannico di alto livello, con l’importante eccezione dell’alcolista George Brown, a interpretare la risoluzione 242 delle Nazioni Unite come richiesta di ritiro incondizionato di Israele entro i confini del 5 giugno 1967. Durante la guerra del 1973, il governo Heath si rifiutò di consegnare armi a Israele – anche se, come nota Pappe, ciò era dovuto principalmente al timore di un embargo petrolifero arabo.

Gli anni di Corbyn

La prospettiva storica di Pappe mette la leadership di Jeremy Corbyn nel Partito Laburista sotto una nuova luce. “Le opinioni di Corbyn sulla Palestina erano praticamente identiche a quelle espresse dalla maggior parte dei diplomatici e politici britannici di alto livello sin dal 1967; come loro sosteneva la soluzione dei due Stati e riconosceva l’Autorità Palestinese”, scrive Pappe. In questo era più tradizionalista della Campagna di Solidarietà con la Palestina, che sosteneva la soluzione di uno Stato unico.

Alla luce di ciò Pappe ragionevolmente si chiede: “Perché la lobby lo ha visto come una minaccia”? E risponde: “Sospettavano, giustamente, che credesse sinceramente in una giusta soluzione a due Stati e che non avrebbe accettato le scuse di Israele per ostacolarla”.

In un passaggio che fa riflettere aggiunge: “Christopher Mayhew, George Brown e Jeremy Corbyn avevano molto in comune. Erano in posizioni di potere che potevano influenzare la politica britannica nei confronti di Israele. Erano tutti totalmente fedeli alla politica ufficiale britannica di sostegno dei due Stati come soluzione del ‘conflitto’. Nessuno di loro negava il diritto di Israele all’esistenza, nessuno di loro ha fatto alcuna osservazione antisemita in tutta la vita e non erano antisemiti in nessun senso della parola”.

Pappe ha parole dure anche nei confronti dell’inchiesta dell’EHRC sull’antisemitismo laburista. “In un mondo più ragionevole, o forse tra molti anni”, scrive, “se alla gente fosse chiesto che cosa un’importante istituzione per i diritti umani indagherebbe in relazione a Israele e Palestina, risponderebbe la violazione dei diritti umani dei palestinesi … [in questo rapporto] non vi era alcuna discussione seria su ciò che costituisce antisemitismo, né veniva fatto alcun tentativo di distinguere tra antisemitismo e antisionismo e critica a Israele”.

In una breve conclusione scritta dopo gli orrori del 7 ottobre Pappe scrive: “Molte persone nel XXI secolo non possono continuare ad accettare un progetto di colonizzazione che richiede un’occupazione militare e delle leggi discriminatorie per sostenersi. C’è un limite in cui la lobby non può più sostenere questa realtà brutale e continuare a essere vista come un’entità morale agli occhi del resto del mondo. Credo e spero che questo limite verrà raggiunto nel corso della nostra vita”.

Questo tempestivo libro di uno dei migliori storici dell’Israele contemporaneo merita di diventare oggetto di un urgente dibattito contemporaneo. Finora è stato ignorato in un ambiente politico e mediatico che, come illustra il recente caso di Faiza Shaheen, ha imposto un sistema di omertà intorno a qualsiasi discussione sulla lobby israeliana.

Lobbing for Zionism on Both Sides of the Atlantic è pubblicato da Oneworld.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Peter Oborne ha vinto il premio per il miglior commento/blog sia nel 2022 che nel 2017 ed è stato nominato Freelance dell’anno nel 2016 ai Drum Online Media Awards per gli articoli che ha scritto per Middle East Eye. È stato anche nominato editorialista dell’anno dei British Press Awards nel 2013. Si è dimesso da capo editorialista politico del Daily Telegraph nel 2015. Il suo ultimo libro è The Fate of Abraham: Why the West is Wrong about Islam, pubblicato a maggio da Simon & Schuster. Fra i suoi libri precedenti The Triumph of the Political Class, The Rise of Political Lying, Why the West is Wrong about Nuclear Iran e The Assault on Truth: Boris Johnson, Donald Trump and the Emergence of a New Moral Barbarism.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Guerra a Gaza: come Hamas ha attirato Israele in una trappola letale

David Hearst

4 luglio 2024 – Middle East Eye

La strategia di Hamas si è rivelata più efficace di quanto ritenuto possibile nove mesi fa. Israele ora ha tra le mani una vera guerra, e su tutti i fronti. Non può essere fermata facilmente.

Una delle domande principali sugli attacchi di Hamas del 7 ottobre rimane ancora senza risposta.

Cosa pensava Hamas che sarebbe successo con un attacco di tale portata a Israele?

Inizialmente ho dato credito alla teoria del caos. È andata così. Unoperazione limitata per colpire obiettivi militari israeliani e prendere degli ostaggi preziosi è andata fuori controllo grazie al cedimento inaspettato della Brigata Israeliana di Gaza. Hamas si aspettava che parte prevalente dei 1.400 combattenti inviati quel giorno oltre la recinzione sarebbe stata uccisa. La maggior parte di loro è tornata viva.

Quando Hamas e altri gruppi armati hanno esaurito gli obiettivi prestabiliti si sono sparpagliati e si sono imbattuti in un festival musicale di cui non sapevano l’esistenza. La susseguente carneficina è diventata, con le parole di un diplomatico del Golfo: “la madre di tutti gli errori di calcolo”.

Man mano che questa guerra va avanti, un mese dopo l’altro, sono sempre meno sicuro che questa teoria sia corretta.

In effetti, ha guadagnato terreno subito dopo lattacco di Hamas, poiché gli alleati di Hamas non sono riusciti a seguirne lesempio.

Il giorno in cui le sue forze hanno colpito, il comandante militare di Hamas, Mohamed Deif, ha invitato gli alleati dell'”asse della resistenza” a unirsi alla lotta: “Nostri fratelli nella resistenza islamica in Libano, Iran, Yemen, Iraq e Siria! Questo è il giorno in cui la vostra resistenza si unirà a quella del vostro popolo in Palestina”, ha detto in un messaggio audio preparato qualche tempo prima.

Ma Hezbollah, per esempio, era tuttaltro che entusiasta della prospettiva di partecipare ad una guerra che non rientrava nei suoi programmi o nelle sue scelte. Come la Brigata israeliana di Gaza, Hezbollah è stato colto di sorpresa.

I suoi combattenti non erano in allerta nemmeno nei villaggi vicino al confine con Israele: “Ci siamo svegliati con una guerra”, ha detto un comandante. Chiaramente, una risposta misurata da parte di Hezbollah non rientrava nel copione di Hamas.

Sono passate due settimane prima che Khaled Meshaal, a capo dellufficio di Hamas nella diaspora, ringraziasse Hezbollah per la sua risposta fino a quel momento, ma aggiungendo esplicitamente che la battaglia richiede di più”.

Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah, ha mantenuto il silenzio per altre tre lunghe settimane prima di dichiarare che l’operazione di Hamas era “palestinese al 100% sia in termini di decisione che di esecuzione”, aggiungendo: “Questa operazione non ha un minimo legame con alcuna decisione o mossa che venga adottata da qualsiasi altra fazione all’interno dell’asse della resistenza”.

È stato ben chiaro lAyatollah Ali Khamenei nel dire a Ismail Haniyeh, leader politico di Hamas, che lIran non sarebbe intervenuto direttamente anche se avrebbe continuato a fornire all’organizzazione il suo sostegno politico e morale.

Ci si trovava ormai a metà novembre e la strategia di Hamas di dare inizio a quella che avrebbe chiaramente voluto che fosse una guerra regionale sembrava essere fallita.

La diga è crollata

Confrontiamo la situazione di novembre con le parole e le azioni attuali di Hezbollah e dellIran.

Quando Israele ha colpito preventivamente sempre più obiettivi di Hezbollah, la fazione libanese ha risposto a tono. Il movimento Ansarallah dello Yemen (gli Houthi) è entrato nella mischia a novembre con attacchi alle navi nel Mar Rosso.

Il momento della svolta è sopraggiunto ad aprile quando Israele ha colpito un complesso dell’ambasciata iraniana a Damasco uccidendo il generale di brigata Mohammad Reza Zahedi, l’ufficiale responsabile delle operazioni all’estero della forza Quds [componente del Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica, ndt.] e altre 15 persone, tra cui altri sette ufficiali del corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche (IRGC).

LIran ha lanciato una risposta massiccia: 170 droni, 30 missili da crociera e ben 120 missili balistici pesanti direttamente contro obiettivi israeliani, molti dei quali hanno colpito basi militari.

Il Rubicone era stato oltrepassato e il terreno per una guerra regionale chiaramente preparato. Da quel momento in poi la questione è quando, non se.

Martedì il capo della Forza aerospaziale dellIRGC, il generale di brigata Amir Ali Hajizadeh, ha affermato che lIran non vedeva lora di avere unaltra analoga opportunità da sfruttare.

Oggi Hezbollah è sullorlo della guerra, con Nasrallah che avverte Israele che centinaia di migliaia di altri combattenti sarebbero disposti ad arruolarsi un aiuto di cui Hezbollah non ha per il momento bisogno. Ha addirittura minacciato di attaccare Cipro se avesse consentito agli aerei da guerra israeliani di utilizzare le sue basi.

Si è scoperto che Hamas dopo il 7 ottobre non ha dovuto far altro che aspettare, continuare a combattere e lasciare che la naturale aggressività e larroganza di Israele nei confronti dei suoi vicini lavorassero a suo favore.

La sua strategia sta funzionando. Ma questa strategia è stata messa insieme allindomani di un raid fallito, come tutti avevano pensato il 7 ottobre?

Apparentemente no. Ripercorriamo i discorsi di Yehya Sinwar, il leader di Hamas a Gaza.

Predire il futuro

Nel dicembre 2022, in occasione dell’anniversario della fondazione del gruppo islamista, Sinwar dichiarò: “Accrescere la resistenza in tutte le sue forme e far sì che l’ [autorità] occupante sconti le conseguenze dell’occupazione e dell’insediamento coloniale è l’unico mezzo per salvare il nostro popolo e realizzare i suoi obiettivi di liberazione e ritorno.

Chi non prende l’iniziativa oggi se ne pentirà domani. Il merito va a chi si fa avanti per primo e si dimostra sincero. Non permettete a nessuno di riportarvi indietro alle controversie, mitragliamenti e combattimenti interni. Non non abbiamo tempo per questo mentre la minaccia del fascismo incombe sulle nostre teste.”

Mesi dopo Sinwar tenne un discorso in cui predisse accuratamente il futuro.

“Fra alcuni mesi, e secondo le mie stime non passerà un anno, porremo [l’autorità] di occupazione davanti a due scelte: o la costringeremo ad attuare il diritto internazionale, a rispettare le risoluzioni internazionali, [cioè] a ritirarsi dalla Cisgiordania e da Gerusalemme, smantellare gli insediamenti coloniali, liberare i prigionieri e [consentire] il ritorno dei profughi

oppure metteremo questa occupazione in contraddizione con l’intera volontà internazionale, creando così nei suoi confronti un forte e vasto isolamento, e porremo fine al suo processo di assimilazione nella regione e nel mondo intero, [ribaltando] la situazione di forte indebolimento che ha caratterizzato la resistenza negli ultimi anni in tutti i fronti [della ribellione].”

Questo è esattamente quello che è successo. Israele è isolato a livello internazionale come mai prima dora. È sul banco degli imputati di due dei più alti tribunali internazionali e i suoi principali sostenitori, Stati Uniti e Regno Unito, stanno combattendo un’azione di retroguardia cercando di fermare il crescente numero di sanzioni internazionali.

Quando è emerso come leader politico a Gaza Sinwar aveva allinterno di Hamas degli oppositori. Il suo tentativo di riconciliazione con il suo ex compagno di scuola e di prigione, il leader di Fatah Mohammed Dahlan, è stato un fiasco totale.

Forti preoccupazioni sono state espresse anche riguardo al riavvicinamento di Hamas alla Siria dopo le aspre spaccature create dalla guerra civile. La fazione di Hamas strettamente alleata con la Turchia non ha gradito per niente il riavvicinamento con la Siria e lIran e non ha esitato a dirlo.

Ora si scopre che questo riavvicinamento era una componente vitale della strategia di Sinwar per attaccare Israele e iniziare una lunga guerra.

Ancora fratelli

Il riavvicinamento tra ex acerrimi nemici nella guerra civile siriana va ben oltre la disponibilità di Hezbollah a consentire ad Hamas di lanciare attacchi contro Israele nella sua area operativa nel sud del Libano, lungo il confine con Israele.

Al-Fajr è il braccio armato di Al-Jama’a al-Islamiya (JAI), i Fratelli Musulmani in Libano. Da molto tempo le sue forze sono numericamente insignificanti.

Oggi si ritiene che ammontino a soli circa 500 combattenti, ma la loro importanza va oltre il loro numero ed è cresciuta man mano che Israele ha moltiplicato i suoi attacchi contro gli alti comandanti di Hezbollah in seguito agli assalti del 7 ottobre.

La dichiarazione di cordoglio della JAI, rilasciata dopo che l’alto comandante di Hamas Saleh al-Arouri è stato ucciso in un attacco israeliano a gennaio, affermava che “il sangue libanese e palestinese si sono mescolati per completare insieme il processo di liberazione”.

Quando a giugno un comandante di alto profilo di Hezbollah, Talib Sami Abdallah, è stato ucciso in un attacco israeliano a Jwaya, una città nel sud del Libano, Nasrallah ha sottolineato nel suo tributo come questo combattente veterano fosse andato in aiuto dei musulmani sunniti in Bosnia.

“A proposito, poiché si parla di [divisioni] tra sciiti e sunniti, loro [i bosniaci] non sono sciiti, non risulta che ci fossero sciiti in Bosnia quando questo caro gruppo di fratelli lasciò la nostra organizzazione e i dirigenti e rimase lì per anni al freddo e alla neve lontano da casa”, ha detto Nasrallah.

Ci sono stati anche incontri di alto profilo, inimmaginabili solo pochi anni fa, tra ex nemici nella guerra civile siriana. Nasrallah ha incontrato il capo della JAI, Sheikh Mohammed Taqoush. Al Mayadeen, l’organo di informazione pro-Hezbollah, ha commentato: “È interessante rilevare che dall’8 ottobre 2023 diversi combattenti delle forze al-Fajr, l’ala militare del Gruppo islamico in Libano, sono stati martirizzati per la loro partecipazione ad operazioni contro obiettivi militari israeliani lungo il confine con la Palestina occupata.”

Il nuovo patto tra Hezbollah e i Fratelli Musulmani in Libano ha avuto conseguenze interne per la comunità sunnita, rimasta senza leader da quando lex primo ministro Saad Hariri ha lasciato la scena nel 2019.

La settimana scorsa, quando la Lega Araba ha rimosso Hezbollah dalla lista delle organizzazioni terroristiche, l’ex primo ministro libanese Fouad Siniora, un sunnita della leadership tradizionale, si è irritato. “È necessario smettere di fare regali gratuiti a Hezbollah”, ha detto ad Al Arabiya.

Un importante cambiamento regionale

La parziale ricomposizione della spaccatura settaria tra sciiti e sunniti sebbene non accolta da un segmento della popolazione sunnita che non perdonerà quanto accaduto in Siria rappresenta un importante cambiamento nel panorama regionale.

Israele ha sempre prosperato grazie ad una politica del divide et impera. Sapeva che se le forze sunnite e sciite fossero confluite, la capacità di manovra di Israele sarebbe stata limitata.

E’ ciò che sta accadendo ora con conseguenze concrete. Le operazioni militari in Cisgiordania sono passate in gran parte inosservate, ma Israele sta ora utilizzando aerei F16 per bombardare i campi profughi palestinesi. Lultima volta che lo ha fatto è stato durante la Seconda Intifada [dal 2000 al 2005, ndt.].

In risposta, i combattenti della resistenza hanno migliorato qualitativamente il loro livello operativo. Ora stanno attirando le truppe israeliane in trappole sofisticate e letali. Sono comparse lungo le strade bombe ad alta tecnologia, proprio come è successo contro gli americani in Iraq.

Un soldato israeliano è stato ucciso e altri gravemente feriti quando un veicolo blindato pesante è stato fatto saltare in aria da una bomba lungo una strada a Tulkarem.

L’attacco è stato filmato dalle Brigate Al Quds, che ne hanno rivendicato la paternità. Giorni prima a Jenin un soldato era stato ucciso e altri 16 feriti da esplosivi interrati in profondità sotto una strada.

Il bilancio delle vittime israeliane in Cisgiordania è aumentato in modo significativo. Secondo il ministero della Sanità palestinese dal 7 ottobre in Cisgiordania sono stati uccisi 540 palestinesi. Nello stesso periodo sono morti 25 israeliani, la maggior parte dei quali militari.

LAutorità Nazionale Palestinese ha apertamente avvertito Israele che la portata del contrabbando di armi e componenti sofisticati dalla Giordania alla Cisgiordania sta aumentando a un ritmo tale che i militanti riusciranno a costruire e lanciare razzi contro Israele entro un anno.

Una strategia messa in atto

Anche se Sinwar dovesse morire domani il leader di Hamas considererebbe realizzato il compito della sua vita.

Tutto è pronto per uninvasione israeliana del Libano e con essa una guerra regionale la cui fine potrebbe richiedere decenni.

Secondo 12 ex funzionari dell’amministrazione che si sono dimessi a causa della politica del presidente Biden la strategia americana di sostenere Israele fino in fondo dopo l’attacco di Hamas, e poi di tentare di trattenerlo in un “abbraccio dell’orso”, ha reso ogni militare americano che lavora nella regione un chiaro bersaglio.

Gli esperti di Medio Oriente del Dipartimento di Stato sono in aperta ribellione e questa settimana è comparsa una seconda lettera che mette in guardia sulla follia dell’operato di Joe Biden.

“La copertura diplomatica americana e il continuo flusso di armi verso Israele hanno assicurato la nostra innegabile complicità nelle uccisioni e nella carestia forzata della popolazione palestinese assediata a Gaza”, affermano gli ex funzionari nella dichiarazione.

Lopinione pubblica araba è in stragrande maggioranza antiamericana. L’ininterrotta operazione di Israele a Gaza ha causato così tanta rabbia e umiliazione nel mondo arabo che sta seppellendo le profonde spaccature tra le forze politiche nazionaliste e islamiste emerse dopo la Primavera Araba più di 13 anni fa.

Questo è un risultato.

Un sondaggio dopo laltro fa eco a questa tendenza. Nel novembre dello scorso anno il Washington Institute for Near Eastern Policy [Istituto di Washington per la Politica in Medio Oriente] ha rilevato che una media del 40% degli intervistati in Egitto, Iraq, Giordania, Libano, Palestina e Siria ha affermato che le azioni dellIran stavano avendo un impatto positivo sulla guerra.

L’Arab Barometer [rete di ricerca imparziale sugli atteggiamenti e sui valori sociali, politici ed economici dei cittadini del mondo arabo, ndt.] ha rilevato che il leader supremo dellIran ha superato lindice di gradimento del principe ereditario saudita o del presidente degli Emirati.

La stessa cosa è accaduta dopo linvasione israeliana del Libano nel 2006, ma la differenza oggi consiste nel grande rafforzamento degli armamenti in mano alla resistenza e nell’indebolimento militare degli stati arabi.

Il vero paradosso è che Israele sia caduto volontariamente in una trappola creata da Hamas.

Se Israele avesse ceduto alle pressioni di Biden e dell’ONU per porre fine alla guerra a Gaza senza smantellare Hamas avrebbe subito una sconfitta tattica che avrebbe fatto a pezzi la coalizione di destra.

Ma se, come in base alle aspettative di Hamas, continuasse la guerra a Gaza indipendentemente dal costo umano, ciò provocherebbe una guerra regionale che gli Stati Uniti non sarebbero in grado di contenere o fermare.

Questa è la strada che Israele ha ora intrapreso. Anche se si raggiungesse un accordo di cessate il fuoco tra Hamas e Israele, è ormai pienamente inteso che per Israele si tratterebbe di una tregua temporanea, unopportunità per i riservisti dellesercito di riprendersi prima dellinevitabile attacco al Libano.

Avigdor Lieberman, oppositore del primo ministro Benjamin Netanyahu e implacabile nemico dei suoi alleati religiosi sionisti di estrema destra, ha affermato che Hezbollah e Hamas possono essere sconfitti solo se lo sarà anche lIran.

Ha scritto su X: In questo confronto tra Israele e lAsse del Male, dobbiamo vincere, e senza sconfiggere lIran ed eliminare il suo programma nucleare né Hezbollah né Hamas potranno essere sconfitti.

Per fermare il programma nucleare iraniano, che è già nella fase della realizzazione degli armamenti, dobbiamo utilizzare tutti i mezzi a nostra disposizione. Dovrebbe essere chiaro che in questa fase non è possibile impedire [l’uso] di armi nucleari da parte dellIran con mezzi convenzionali”.

Negli ultimi nove mesi i palestinesi di Gaza hanno patito grandi sofferenze. La fame è una morte ancora più crudele dei bombardamenti a tappeto indiscriminati. Il costo di questa strategia è elevato.

Ma sotto unoccupazione sempre più brutale il cui unico scopo è costringere il maggior numero possibile di palestinesi ad andarsene la resistenza armata sotto una leadership militante che rifiuta di arrendersi o di scappare in esilio è diventata la scelta collettiva dei palestinesi ovunque vivano.

Si tratta di un cambiamento marcato nel disegno che Israele ha fatto nel corso dei decenni per sottomettere sia la popolazione palestinese che la regione su cui si è imposto.

Ma, qualunque cosa accada adesso, la strategia di Hamas è stata più efficace di quanto ritenuto possibile nove mesi fa. Israele ha ora tra le mani una vera guerra, e su tutti i fronti. Inoltre, è una guerra che non sarà facilmente fermata.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye

David Hearst è cofondatore e redattore capo di Middle East Eye. È commentatore e relatore sulla regione e analista dell’Arabia Saudita. E’ stato capo redattore per l’estero del Guardian e corrispondente in Russia, Europa e Belfast. È entrato a far parte del Guardian da The Scotsman, dove era corrispondente per l’istruzione.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il più grande fondo pensioni della Norvegia vende il suo pacchetto di azioni Caterpillar a causa dell’espansione coloniale israeliana

Redazione di MEE

26 giugno 2024 – Middle East Eye

l maggior fondo pensioni della Norvegia ha revocato la propria partecipazione in Caterpillar Inc. a causa del suo coinvolgimento nelle violazioni dei diritti nei territori occupati palestinesi.

La KLP con sede a Oslo all’inizio di questo mese ha venduto le proprie azioni e obbligazioni della società per un valore di 728 milioni di corone norvegesi (69 milioni di dollari).

Kiran Aziz, capo del settore investimenti responsabili dell’azienda, ha detto che le attrezzature della società con sede in Texas vengono usate “per demolire case ed infrastrutture palestinesi per sgombrare il terreno alle colonie israeliane” ed ha anche fatto riferimento all’uso dell’equipaggiamento Caterpillar da parte dell’esercito israeliano.

Benché Caterpillar si sia mostrata disposta ad aprire un dialogo con KLP, le risposte della società non sono risultate credibili riguardo alla sua capacità di ridurre realmente il rischio di violazione dei diritti di persone in situazioni di guerra o conflitto, o di violazione del diritto internazionale”, ha detto Aziz secondo Bloomberg [compagnia leader globale nelle informazioni economiche e finanziarie, ndt.].

La società non è in grado di fornirci assicurazioni che non stia facendo niente del genere.”

Caterpillar è tra le società citate dall’Ufficio delle Nazioni Unite dell’Alto Commissario per i Diritti Umani che sarebbero a rischio di “complicità in gravi violazioni delle leggi internazionali sui diritti umani e del diritto umanitario internazionale” a causa delle sue forniture a Israele.

In marzo il governo norvegese ha emesso un avviso formale contro ogni attività commerciale o finanziaria con le colonie illegali israeliane nei territori palestinesi occupati.

Il Ministro degli Esteri norvegese ha affermato in una dichiarazione che l’avviso è stato emesso nel contesto della crescente espansione delle colonie e della “accresciuta violenza coloniale contro i palestinesi”.

KLP ha fatto riferimento all’avviso del governo norvegese nella sua decisione di disinvestimento.

Dal 7 ottobre, quando un attacco di combattenti di Hamas nel sud di Israele ha ucciso 1.140 persone, le aggressioni dei coloni in Cisgiordania sono sempre più frequenti.

Secondo l’ONU e le associazioni per i diritti, da allora centinaia di palestinesi sono stati uccisi in Cisgiordania dalle truppe israeliane e dai coloni.

Israele ha anche incrementato la costruzione di insediamenti illegali.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Giornalista palestinese a Gaza: potete anche togliermi il premio, non mi toglierete la voce

Maha Hussaini

20 giugno 2024 MiddleEastEye

 

Dopo aver seguito per mesi l’atroce genocidio di Gaza, mi è stato tolto il Premio Coraggio nel Giornalismo a seguito di una sistematica campagna diffamatoria da parte dei sostenitori di Israele.

Negli ultimi dieci anni da giornalista e reporter di guerra ho capito perché molti abbandonino questa professione, soprattutto in Palestina.

Oltre alle enormi sfide e ai continui attacchi fisici, ci sono sforzi continui, sistematici e ben organizzati da parte di organizzazioni filo-israeliane per intimidire e mettere a tacere i giornalisti palestinesi. Queste tattiche mirano a spingere i giornalisti ad abbandonare il proprio lavoro, che è fondamentale nel denunciare le flagranti violazioni dei diritti umani e arrivare a scoprire le responsabilità.

Nel corso della mia carriera giornalistica mi sono stati assegnati due premi, entrambi seguiti da estese campagne diffamatorie e appelli da parte di associazioni e singoli individui israeliani che esortavano le organizzazioni che erogavano i premi a revocarli.

Lo scorso giugno ho ricevuto il Premio Coraggio nel Giornalismo dalla International Women’s Media Foundation (IWMF) per i miei reportage sul campo da Gaza, sottoposta a un devastante assedio israeliano e un bombardamento implacabile da più di otto mesi.

Durante questo periodo sono stata sfollata con la forza tre volte, spostandomi da un rifugio all’altro. La mia casa è stata bombardata e ho sopportato mesi di fame, blackout e continui bombardamenti. A volte ho dovuto ricorrere all’uso di carta e penna per poi inviare i miei articoli come messaggi di testo dopo che Israele ha tagliato le forniture di carburante ed elettricità e ha bombardato le infrastrutture delle principali società di telecomunicazioni di Gaza.

Nonostante queste difficoltà mi considero fortunata di non far parte (finora) del conteggio dei circa 150 giornalisti palestinesi uccisi dall’esercito israeliano dal 7 ottobre 2023.

Solo pochi giorni dopo che l’IWMF aveva annunciato il mio premio, sui social media è stata lanciata una campagna diffamatoria da parte di Israele che ne chiedeva la revoca. Nel giro di 24 ore l’IWMF ha ottemperato alla richiesta annullando il premio, rimuovendo il mio profilo dal suo sito web e riducendo il numero dei premiati da quattro a tre.

Attacchi inarrestabili

“Nelle ultime 24 ore l’IWMF è venuta a conoscenza di alcuni commenti fatti da Maha Hussaini negli anni passati che contraddicono ai valori della nostra organizzazione”, ha affermato l’IWMF in una breve dichiarazione, senza fornire ulteriori dettagli.

Di conseguenza abbiamo revocato il Premio Coraggio nel Giornalismo che le era stato precedentemente assegnato. Sia il Premio Coraggio che la missione dell’IWMF si basano sull’integrità e sull’opposizione all’intolleranza. Non tollereremo e non sosterreremo né supporteremo opinioni o dichiarazioni che non aderiscano a tali principi”.

Sullo stesso sito, tuttavia, l’IWMF afferma: “Il Premio Coraggio nel Giornalismo dimostra al mondo che le giornaliste non si faranno da parte, non possono essere messe a tacere e meritano di essere riconosciute per la loro forza di fronte alle avversità. Il premio onora le giornaliste coraggiose che raccontano argomenti tabù, lavorano in ambienti ostili alle donne e condividono verità scabrose”.

Ogni anno i giornalisti palestinesi ricevono premi internazionali per i loro coraggiosi reportage sotto l’occupazione israeliana e in mezzo ad attacchi senza sosta. Questi riconoscimenti onorano il loro coraggio e la loro dedizione nel rivelare la verità.

Tuttavia tali riconoscimenti sono spesso seguiti da estese campagne diffamatorie e da un’intensa pressione sulle organizzazioni che indicono il premio da parte dei sostenitori dell’occupazione israeliana e della lobby sionista. Mentre alcune associazioni si attengono ai propri principi e sostengono i giornalisti, altri purtroppo cedono alle pressioni.

Non avrei vinto questo premio se non fossi stata sul campo a denunciare le flagranti violazioni israeliane in condizioni pericolose, il tutto mentre venivo sistematicamente attaccata da chi sosteneva gli autori del reato.

Vincere un premio per il “coraggio” significa essere soggetto ad attacchi e scegliere di continuare il proprio lavoro nonostante tutto. Purtroppo la stessa organizzazione che ha riconosciuto queste condizioni pericolose e mi ha assegnato il premio ha scelto di non essere coraggiosa.

Complicità globale

Nonostante tutto sono felice sia di aver vinto il premio sia che il suo successivo ritiro abbiano dimostrato chiaramente i sistematici attacchi fisici e morali che i giornalisti palestinesi subiscono nel corso della loro carriera. A dimostrazione anche di come i media globali e le organizzazioni internazionali possano essere ritenuti complici nel mettere a tacere i giornalisti palestinesi.

Le minacce e le diffamazioni mirano proprio a zittire le voci più rilevanti e a perpetuare pregiudizi di lunga data sui media globali. Non ho mai lavorato per ricevere premi, né ho mai fatto domanda per candidarmi.

Non ho scelto il giornalismo come professione. Sono diventata giornalista dopo aver visto fino a che punto il mondo ignora la sofferenza dei palestinesi e sceglie di conformarsi alle pressioni israeliane, soprattutto nel momento in cui Israele vieta ai giornalisti internazionali di entrare nella Striscia di Gaza per riferire in maniera oggettiva della guerra.

Invece di riconoscere le minacce che i giornalisti palestinesi affrontano e contribuire a proteggerli, ritirare i premi ai giornalisti palestinesi di Gaza, dove decine di giornalisti sono già stati uccisi dalle forze israeliane, rischia di renderli obiettivi ancora più visibili.

Non ho rimpianti per gli eventuali post o commenti passati che hanno portato alla revoca del mio premio e non smetterò mai di esprimere le mie opinioni. Prima di diventare giornalista ero una palestinese che viveva sotto l’occupazione militare e un blocco soffocante. Oggi a Gaza sto subendo un genocidio riconosciuto a livello internazionale.

I miei nonni furono espulsi da Gerusalemme al momento della creazione dello Stato di Israele e io sono stata espulsa da casa mia a Gaza durante questo genocidio.

Se per vincere un premio è necessario sopportare e testimoniare crimini di guerra rimanendo in silenzio, non mi ritengo onorata di ricevere alcun premio.

Sarò sempre obiettiva nei miei resoconti, ma non potrò mai essere neutrale. Indicherò sempre i colpevoli e sarò solidale con le vittime. Questo è vero giornalismo.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Maha Hussaini è una giornalista pluripremiata e attivista per i diritti umani che risiede a Gaza. Maha ha iniziato la sua carriera giornalistica riferendo della campagna militare israeliana nella Striscia di Gaza del luglio 2014. Nel 2020 ha vinto il prestigioso Premio Martin Adler per il suo lavoro come giornalista freelance.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Report: Wikipedia dichiara l’Anti-Defamation League “inaffidabile” su Israele e antisemitismo

Redazione di MEE

18 giugno 2024 – Middle East Eye

La decisione inserisce l’organizzazione filo-israeliana in un elenco che comprende Newsmax, TMZ e il sito web cospirazionista Infowars

Secondo un rapporto della Jewish Telegraph Agency (JTA) [agenzia di stampa internazionale a cui fanno riferimento molti media della comunità ebraica, ndt.] gli editori di Wikipedia hanno deciso di dichiarare l’Anti-Defamation League [ONG della lobby filo-israeliana statunitense, ndt.] “generalmente inaffidabile” su Israele e Palestina, nonché sulla questione dell’antisemitismo, aggiungendo l’organizzazione a un elenco di fonti bandite.

Il rapporto afferma che una “stragrande maggioranza” degli editori di Wikipedia ha optato per definire inaffidabile l’organizzazione.

Middle East Eye ha contattato Wikipedia per un commento sul rapporto.

La decisione inserisce lorganizzazione filo-israeliana, che ha una lunga storia di demonizzazione dellattivismo filopalestinese, in un elenco che comprende National Inquirer, Newsmax, TMZ e il sito cospirazionista Infowars.

“L’ADL non sembra più aderire a una definizione di antisemitismo seria, condivisa e intellettualmente convincente, ma ha invece ceduto alla spudorata politicizzazione dello stesso argomento su cui originariamente si riteneva affidabile”, ha scritto un editore di Wikipedia noto con il nome diIskandar323, come riportato da JTA.

L’ADL ha affermato in un comunicato riportato dalla JTA che la decisione è frutto di una “campagna per delegittimare l’ADL” e che gli editori contrari al bando “hanno confutato punto per punto, basandosi su citazioni fattuali, ogni affermazione fatta, ma a quanto pare i fatti non contano più “.

“Si tratta di una scelta infelice per la ricerca e l’istruzione, ma l’ADL non si farà scoraggiare nella sua secolare lotta contro l’antisemitismo e tutte le forme di odio”, si legge nella dichiarazione.

Molti redattori dellenciclopedia online hanno affermato che lADL ha minato la sua credibilità come fonte affidabile di informazioni alterando il modo di classificare i comportamenti come antisemiti, con l’inclusione delle proteste filo-palestinesi.

I redattori hanno anche citato dichiarazioni discutibili del direttore dell’ADL Jonathan Greenblatt, il quale ha affermato che le proteste studentesche sarebbero state istigate dall’Iran e ha paragonato la kefiah palestinese alla svastica.

Hanno anche discusso dell’adozione da parte dell’ADL della controversa definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance [IHRA, organizzazione intergovernativa impegnata nella promozione dell’educazione sull’Olocausto, ndt.]

La definizione è stata formulata nel 2004 e pubblicata nel 2005 dallesperto di antisemitismo Kenneth Stern in collaborazione con altri accademici dellAmerican Jewish Committee, unorganizzazione di difesa ebraica filo-israeliana fondata allinizio del XX secolo e con sede a New York.

Chi la critica afferma che alcuni esempi confondono lantisemitismo con le critiche alle politiche attuali e storiche che hanno portato alla creazione dello Stato di Israele, oltre che alle continue violazioni dei diritti umani contro i palestinesi e alloccupazione delle loro terre da parte di Israele.

Le organizzazioni progressiste e gli attivisti palestinesi hanno sollevato per anni preoccupazioni riguardo allADL e ai suoi tentativi di indebolire i movimenti per la giustizia sociale negli Stati Uniti.

Nel 2020 più di 100 associazioni per i diritti umani hanno firmato una lettera aperta chiedendo alle organizzazioni progressiste di smettere di collaborare con lADL.

LADL ha anche una lunga storia di attacchi ai movimenti per i diritti dei palestinesi attraverso la loro designazione come antisemiti e ha precedentemente collaborato con le forze dellordine statunitensi per spiare le organizzazioni arabo-americane. Ha anche facilitato e finanziato viaggi di addestramento della polizia statunitense in Israele.

L’ADL ha anche denunciato le organizzazioni per i diritti dei neri, incluso il Movement for Black Lives (M4BL). Nel 2016, non molto tempo dopo la fondazione del movimento Black Lives Matter, Greenblatt ha pubblicato una lettera sulla New York Jewish Week [media redatto a cura della JTA, ndt.) in cui evidenziava e condannava il lavoro di solidarietà del movimento con gli attivisti palestinesi.

LADL ha inoltre consigliato alle forze di polizia di inserire agenti sotto copertura allinterno delle manifestazioni antirazziste per utilizzare filmati di sorveglianza al fine di perseguire i manifestanti.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il massacro di Nuseirat: per i media razzisti coloniali occidentali i palestinesi massacrati non esistono

Linah Alsaafin

10 giugno 2024 – Middle East Eye

Biden e Netanyahu stanno precipitando verso il baratro, e gli effetti del prolungamento di questo genocidio si ritorceranno prima o poi contro i loro interessi.

I particolari delloperazione militare congiunta USA-Israele che sabato ha ucciso e ferito quasi 1.000 palestinesi nel campo profughi di Nuseirat non evidenziano affatto leroismo tanto celebrato o la precisione che i titoli dei media occidentali hanno sbandierato in prima pagina.

Ma in un mondo distopico in cui luccisione di almeno 50.000 uomini, donne e bambini nellarco di otto mesi non fa batter ciglio ai vertici dellordine globale a guida occidentale, può essere giustificato ritenere che qualsiasi missione che distrugge centinaia di vite civili per recuperare quattro ostaggi sia motivo di festeggiamenti.

E’ ancora peggio quando i 274 palestinesi uccisi e i 698 feriti nel massacro del campo profughi di Nuseirat vengono deliberatamente eliminati dalla copertura giornalistica, o appena citati come un dettaglio insignificante in un titolo o di sfuggita in un sottotitolo.

La copertina domenicale del New York Times, un giornale che ha volontariamente distrutto le sue ultime vestigia di credibilità per agire come sfacciato stenografo della propaganda israeliana, mostrava con orgoglio il titolo “In una missione a Gaza l’esercito israeliano libera 4 ostaggi”.

La copertina era correlata da una foto di un ostaggio israeliano sorridente rilasciato (citato per nome) e circondato da soldati trionfanti. I palestinesi uccisi sono relegati in una nota a piè di pagina.

La BBC e la Reuters seguono una linea simile, scegliendo di aprire rispettivamente con “Quattro ostaggi israeliani liberati in un raid nel centro di Gaza” e “Secondo l’esercito le forze israeliane salvano quattro ostaggi vivi a Gaza”.

La CNN ha scelto di concentrarsi sulla logistica anziché sulle vittime della strage: “L’operazione israeliana per salvare 4 ostaggi ha richiesto settimane di preparazione”, ha scritto diligentemente.

Più schietto il tono del Washington Post: “Una rara giornata di gioia nel mezzo di un massacro con il salvataggio di 4 ostaggi”. Un secondo titolo iniziava ancora con “Recuperati quattro ostaggi israeliani vivi” e aggiungeva come post scriptum il numero provvisorio dei palestinesi uccisi: “Secondo dichiarazioni ufficiali almeno 210 persone uccise a Gaza”.

E poi c’è il Sunday Times, inequivocabile e sfacciato nei toni, scritto con una sorta di stile mozzafiato, come se descrivesse la trama ridondante di un film d’azione di Hollywood.

“Audace raid libera a Gaza la prigioniera della motocicletta” [Noa Argamani catturata il 7 ottobre da Hamas mentre si trovava sul sedile posteriore di una moto], esordiva il titolo, per poi proseguire nella pagina successiva con: “Un attacco chirurgico, un feroce scontro a fuoco e i festeggiamenti hanno rotto il silenzio del sabato”.

La carneficina che questo attacco chirurgico” ha lasciato dietro di sé, i corpi mutilati dei palestinesi che giacciono di traverso sulle strade del mercato, le decine di edifici e case distrutte vengono completamente omessi.

Dilagante disumanizzazione

C’è un che di macabro nel fatto che anche quando vengono menzionati i palestinesi ciò avviene in quella forma inerte che ormai siamo abituati ad aspettarci da questi mezzi di informazione, senza un contesto e senza alcun riferimento a chi sta facendo loro cosa.

Il Guardian spicca per il suo singolare modo di raccontare latroce assalto di sabato: Israele salva quattro ostaggi mentre degli attacchi nelle vicinanze uccidono 93 palestinesi”.

Il lettore rimane stupito di fronte all’evidente dissociazione e all’enorme buco nella trama. Quali attacchi? Condotti da chi? Cos’è importante da sapere riguardo a “nelle vicinanze”?

In fin dei conti questi titoli non sorprendono e sono il prodotto di decenni di dilagante disumanizzazione. La dichiarazione del Dipartimento di Stato americano sulloperazione non fa alcuna menzione dei palestinesi uccisi, perché i corpi neri e di pelle olivastra semplicemente non contano per gli interessi imperialisti.

Il fatto che loperazione di salvataggio di quattro israeliani sia avvenuta a scapito di alcune centinaia di palestinesi è, come afferma Maya Mikdashi, accademica e redattrice di Jadaliyya [rivista online indipendente dell’Arab Studies Institute, ndt.], puro razzismo coloniale”.

Non c’è motivo di gioire per il fatto che 274 palestinesi hanno dovuto essere brutalmente uccisi affinché questi quattro prigionieri israeliani – sani e in buona forma rispetto alle figure distrutte, malconce e scheletriche dei palestinesi liberati dalle carceri israeliane – possano tornare alle loro famiglie.

In ogni caso nessuno doveva essere ucciso, dato che Hamas lo scorso ottobre si era offerto di liberare i prigionieri civili in cambio del fatto che lesercito israeliano non invadesse la Striscia di Gaza.

Secondo il portavoce dell’ala militare di Hamas, Abu Obeida, l’operazione, che ha definito un “molteplice crimine di guerra”, ha ucciso anche altri prigionieri israeliani, ma non ha specificato le circostanze né il numero. “Il nemico è riuscito a recuperare alcuni ostaggi commettendo un terribile massacro, ma nel farlo ne ha uccisi alcuni altri”, ha detto.

Non c’è dubbio che luso della forza militare letale non sia la strada più efficace per liberare i prigionieri israeliani. Il rilascio della maggior parte degli ostaggi israeliani, 105, è avvenuto lo scorso novembre attraverso una tregua temporanea che ha visto anche la liberazione dei prigionieri palestinesi.

Gli attacchi israeliani sulla Striscia di Gaza hanno ucciso un numero imprecisato di ostaggi israeliani, e quelli salvati” a febbraio sono stati solo due, a scapito della morte di 74 palestinesi.

Ma il primo ministro Benjamin Netanyahu, il fiero esecutore di questo genocidio, e i membri altrettanto violenti ed estremisti che compongono il suo governo, sono sempre stati franchi riguardo alle loro intenzioni. Non c’è mai stato un impegno per la liberazione dei prigionieri israeliani né per la sicurezza di Israele.

Devastare Gaza

L’importante è sempre stato devastare la Striscia di Gaza, ridurre la sua popolazione e sfollare con la forza i restanti palestinesi, in linea con la visione di una colonia di insediamento espansionista.

I dettagli su come questa presunta missione di salvataggio sia andata a buon fine, con il pieno sostegno e la partecipazione degli Stati Uniti, sono oltremodo ignobili.

I soldati hanno deciso di nascondersi all’interno di due veicoli, tra cui un camion di aiuti umanitari, un crimine contro i diritti umani e un palese atto di perfidia che l’Occidente ha ripetutamente accusato Hamas di aver compiuto senza presentare alcuna prova credibile.

Abdullah Jouda, uno studente di farmacia di 23 anni che è stato sfollato quattro volte, racconta come dopo aver sentito un trambusto in strada ha aperto la porta e si è trovato davanti il camion. Ha anche incrociato lo sguardo con un agente delle forze speciali.

“Sono uscite dal camion persone vestite di nero con fasce dei [miliziani delle brigate] Qassam avvolte intorno alla testa”, ha scritto su X. “Per un momento, mi sono sentito come se fossi in un film americano.”

Jouda ha chiuso la porta ed è corso di sopra dove si trovava la sua famiglia.

“Sembrava letteralmente che fossero iniziati gli orrori del giorno del giudizio”, afferma. La famiglia si è riparata in un angolo della casa mentre i proiettili piovevano intorno a loro ininterrottamente per 30 minuti. Il camion è rimasto al suo posto, prima che il fuoco di copertura lo colpisse con un missile lanciato da un F-16, mandando in frantumi le finestre di vetro della casa e ferendoli tutti.

“Poi siamo scesi in strada e siamo scappati. Quando siamo arrivati ​​alla fine della strada, hanno distrutto l’intero isolato, compresa la casa in cui ci trovavamo. Non dimenticherò mai i particolari di questo giorno cruciale“, conclude. “La cosa più importante è che siamo ancora vivi.”

Neppure la tempistica di questa operazione è stata casuale. Come a voler dimostrare lassoluta arroganza nel causare intenzionalmente il massimo delle vittime civili, per aprire la strada, una volta scoperte, alle forze israelo-americane gli aerei da guerra hanno colpito il mercato affollato durante il giorno.

Inoltre il camion degli aiuti era partito dal cosiddetto molo galleggiante degli aiuti americano, simbolo di un’occupazione non tanto abilmente camuffata, che sabato si è rivelata essere una struttura militare in collegamento con Israele, dando alla fine ragione agli scettici.

Tutto ciò non sorprende e conferma il fatto che, nonostante Israele abbia portato avanti questa brutale aggressione contro i palestinesi, esso rappresenta semplicemente la fanteria di quello che è sempre stato un genocidio rifornito, sostenuto e pagato dagli Stati Uniti.

Prolungare il genocidio

Il presidente Joe Biden, un sincero e ardente sionista, potrebbe porre fine a questo incubo per i 2,3 milioni di palestinesi della Striscia di Gaza con una semplice telefonata.

Ma negli ultimi otto mesi si è rifiutato di imporre alcuna conseguenza [per le proprie azioni] al governo israeliano. Al contrario, incoraggia attivamente la continuazione del genocidio, impiegando allo stesso tempo il doppio linguaggio degli appelli e delle proposte di cessate il fuoco. Ma la presenza stessa e il ruolo di Israele come risorsa imperiale valgono più di qualsiasi vita palestinese, se non di tutte.

Come ha affermato lex funzionario del Dipartimento di Stato Aaron David Miller, non c’è dubbio” che Biden non nutra per i palestinesi la stessa profondità di sentimenti ed empatia che riserva agli israeliani.

È per questo che le immagini raccapriccianti del cervello esposto di un ragazzo, il cui corpo inerte prende improvvisamente vita, non provoca nessuna commozione in coloro che stanno dietro il genocidio di Gaza.

È per questo che le strazianti testimonianze del massacro di Nuseirat da parte dei sopravvissuti che hanno visto le forze israelo-americane fare irruzione nelle loro case per giustiziare i loro familiari a sangue freddo si percepiscono a malapena nellapproccio degli Stati Uniti al proprio sistema di violenza e brutalità.

Ma questi continui omicidi e questa barbarie mai vista sono solo una vile facciata che nasconde ciò che è palesemente ovvio: Biden e Netanyahu stanno precipitando verso labisso, e gli effetti del protrarsi di questo genocidio si ritorceranno prima o poi contro i loro interessi.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Linah Alsaafin è una giornalista palestinese che ha scritto per Al Jazeera, The Times Literary Supplement, Al Monitor, The News Internationalist, Open Democracy e Middle East Eye.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Gaza: la causa avviata dalla società civile presso la Corte Penale Internazionale contro Ursula von der Leyen alza la posta in gioco sulla complicità nel genocidio

Richard Falk

6 giugno 2024-Middle East Eye

Molti esperti sollecitano la Corte Penale Internazionale ad indagare la Presidente della Commissione Europea sul suo presunto sostegno all’assalto genocida di Israele contro il popolo palestinese

Nei quasi 80 anni di esistenza delle Nazioni Unite mai prima d’ora è stata intrapresa una tale gamma di strategie giudiziarie presso i tribunali internazionali nel tentativo, finora inutile, di fermare un genocidio che continua a devastare la vita di 2,3 milioni di palestinesi a Gaza.

Da gennaio non solo la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) ha emesso tre ordinanze provvisorie che impongono a Israele di fermare il suo “plausibile genocidio”, ma a quello Stato è stato anche ordinato di smettere di interferire con la fornitura di aiuti di emergenza ai palestinesi affamati.

Durante lo stesso periodo il procuratore capo della Corte Penale Internazionale (CPI), Karim Khan, ha richiesto mandati di arresto contro i leader israeliani e di Hamas.

Questa impennata dell’attività giudiziaria internazionale arriva in mezzo alle frustrazioni delle Nazioni Unite per i tentativi falliti di imporre un cessate il fuoco mentre la guerra israeliana determina condizioni sempre più drammatiche a Gaza. Gli Stati Uniti hanno usato il veto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per proteggere il loro alleato criminale dalle pressioni delle Nazioni Unite.

Israele ha reagito agli ultimi sviluppi con furia e atteggiamenti di sfida e ha goduto, seppur espresso in modo più discreto, del sostegno degli Stati Uniti.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ripetutamente sostenuto che, alla luce dell’Olocausto, Israele non potrà mai essere accusato del crimine di genocidio, che dal 7 ottobre Israele esercita il proprio diritto all’autodifesa contro un attacco terroristico di Hamas e che i mandati di arresto proposti dalla Corte Penale Internazionale, se emessi, minerebbero la capacità delle democrazie di difendersi in futuro.

Ha anche invitato, con un certo successo, il governo degli Stati Uniti e altre Nazioni che sostengono Israele a esercitare pressioni sulla Corte Penale Internazionale affinché respinga la richiesta dal procuratore.

Massimizzare la pressione

In mezzo a tutte queste controversie legali sta diventando evidente che a Israele importa moltissimo di essere marchiato come criminale da questi tribunali che deride in quanto non avrebbero competenza per accogliere denunce sul suo comportamento.

Questa apparente contraddizione suggerisce che Israele si rende conto che il suo rifiuto di conformarsi alle sentenze di questi tribunali internazionali non cancellerà la loro influenza sull‘opinione pubblica e questo rende vitale esercitare la massima pressione per scoraggiare tali valutazioni della CIG/CPI sul presunto comportamento criminale di Israele a Gaza, in particolare per quanto riguarda il genocidio, il crimine dei crimini.

In questo contesto, alla fine del mese scorso il Geneva International Peace Research Institute [Istituto Internazionale di Ricerca sulla pace di Ginevra] (GIPRI) ha aggiunto un’ulteriore dimensione di complessità giuridica invitando la Corte Penale Internazionale a indagare sulla Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, per presunta “complicità nei crimini di guerra e genocidio commessi da Israele”.

Lo Statuto di Roma del 2002, che stabilisce il quadro del trattato che modella il lavoro della CPI, conferisce alle ONG e ai singoli individui il diritto, ai sensi dell’articolo 15, di portare prove di atti criminali all’attenzione del procuratore, che può decidere se le prove presentate sono sufficientemente convincenti da giustificare un’indagine.

A differenza della CIG– che si occupa di risolvere controversie legali tra Stati sovrani, funzionando come il braccio giudiziario delle Nazioni Unite – la CPI ha l’autorità di indagare, arrestare, incriminare, perseguire e punire individui giudicati da un collegio di giudici di essere colpevoli di un crimine previsto dal diritto internazionale.

Tutti i membri delle Nazioni Unite aderiscono allo statuto che governa la CIG, mentre gli Stati devono dare la loro approvazione per diventare parti della CPI e non hanno alcun obbligo di farlo – sebbene 124 Stati lo abbiano fatto, comprese le democrazie dell’Europa occidentale e la Palestina (considerata a questo fine come Stato).

Di rilievo è il fatto che né Israele né gli Stati Uniti hanno aderito allo Statuto di Roma, né lo hanno fatto Russia, Cina, India e pochi altri. Gli Stati Uniti, tuttavia, non hanno esitato a spingere la Corte Penale Internazionale ad incriminare il presidente russo Vladimir Putin dopo l’invasione dell’Ucraina del 2022, opponendosi nel medesimo tempo alla sua applicabilità a Israele per la situazione di Gaza sulla base del fatto che quest’ultima non ne fa parte. (Lo Statuto di Roma conferisce alla CPI l’autorità di agire contro individui che commettono crimini nel territorio di qualsiasi Stato che aderisce al trattato, in questo caso la Palestina).

Complicità e favoreggiamento

L’iniziativa del GIPRI è interessante perché riguarda la questione relativamente trascurata della complicità o del favoreggiamento nella commissione di un crimine internazionale. Questa questione si basa sul dovere legale, incorporato nella Convenzione sul Genocidio e nello Statuto di Roma, che rende perseguibile il favoreggiamento e la complicità nei crimini in violazione del diritto umanitario internazionale.

Il Nicaragua ha avviato una denuncia di questo tipo presso la CIG contro la Germania, chiedendo un ordine di emergenza per far cessare attività che potrebbero plausibilmente essere considerate come complicità con un genocidio. L’accusa principale contro la Germania era quella di aver fornito a Israele armamenti funzionali alla condotta genocida di Israele.

Ad aprile, l’ICJ ha respinto la richiesta del Nicaragua con un voto di 15-1, affermando che le circostanze non giustificavano un ordine di emergenza. Ma la corte ha anche bocciato il tentativo della Germania di respingere la denuncia del Nicaragua per complicità: il che significa che la Corte Internazionale di Giustizia a tempo debito esaminerà le argomentazioni di entrambe le parti sul merito fattuale della controversia e alla fine raggiungerà una decisione di merito.

Al contrario l’iniziativa del GIPRI è arrivata sotto forma di una dichiarazione approvata da vari esperti di diritto internazionale, compreso il sottoscritto, consegnata al procuratore della CPI a maggio.

Anche la dichiarazione del GIPRI si basa su una ipotesi di complicità penale e di favoreggiamento, ma il bersaglio è necessariamente un individuo, Von der Leyen, piuttosto che uno Stato. Il GIPRI sostiene che il sostegno della Commissione Europea “ha avuto un effetto sostanziale sulla commissione e sulla continuazione di crimini da parte di Israele, compreso il genocidio”.

La GIPRI fa notare che questo favoreggiamento è consistito nel sostegno politico, nel materiale militare e nella mancata adozione di misure ragionevoli per prevenire il genocidio.

Comunque vada a finire l’iniziativa del GIPRI, essa illustra l’ampiezza del potenziale della Corte Penale Internazionale e mostra un tentativo della società civile di ricorrere al diritto internazionale visto il fallimento delle Nazioni Unite o del sistema intergovernativo nel prevenire e punire un genocidio così evidente.

Insieme a iniziative di solidarietà come la campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) e le proteste universitarie, soprattutto negli Stati Uniti, la società civile si sta rivelando un attore politico che persino Israele capisce di non poter ignorare se vuole avere qualche speranza di evitare nel lungo termine lo status di paria.

Qualunque sia la risposta della Corte Penale Internazionale a questa iniziativa del GIPRI, si tratta di un ulteriore segno che la società civile sta diventando un attore politico sulla scena globale.

Richard Falk è uno studioso di diritto internazionale e relazioni internazionali che ha insegnato all’Università di Princeton per quarant’anni. Nel 2008 è stato anche nominato dalle Nazioni Unite per un mandato di sei anni come relatore speciale sui diritti umani palestinesi.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Israele aggiunto alla “lista nera” dell’ONU delle Nazioni che arrecano sofferenze ai minori durante i conflitti

Redazione di Middle East Eye

7 giugno 2024 – Middle East Eye

L’ambasciatore di Israele alle Nazioni Unite è indignato per la notizia dell’ inserimento del Paese nella lista nera e sostiene che l’esercito israeliano è “il più morale al mondo”.

Le Nazioni Unite hanno inserito Israele in una lista nera di Paesi che hanno commesso violenze contro i minori dopo che le forze israeliane hanno ucciso migliaia di minori palestinesi nella guerra in corso contro Gaza.

L’inserimento di Israele è stato confermato dall’ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite, Gilad Erdan, che ha dichiarato su X di aver ricevuto la notifica e di essere indignato per la decisione. Sulla piattaforma di social media ha anche condiviso la registrazione della telefonata in cui ha ricevuto la notizia da un funzionario delle Nazioni Unite.

È semplicemente scandaloso e sbagliato”, ha dichiarato Erdan.

“Ho risposto alla vergognosa decisione dicendo che il nostro esercito è il più morale al mondo. L’unico ad essere inserito nella lista nera dovrebbe essere il segretario generale che incentiva e incoraggia il terrorismo ed è motivato dall’odio verso Israele”.

Venerdì durante un incontro con la stampa Stephane Dujarric, portavoce del segretario generale dell’ONU, ha dichiarato che un funzionario dell’ONU ha chiamato l’ambasciatore israeliano per informarlo dell’inserimento nella lista come “una cortesia concessa ai Paesi che sono appena stati inseriti nella lista “all’interno del Rapporto annuale dell’ONU minori nei conflitti armati”

È stato fatto per avvertire quei Paesi ed evitare fughe di notizie”, ha detto Dujarric ai giornalisti.

Il rapporto sarà presentato al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il 14 giugno. Citando un funzionario delle Nazioni Unite la Reuters ha riferito che anche i gruppi palestinesi Hamas e Jihad Islamica sarebbero stati aggiunti alla lista.

Dujarric ha aggiunto che la pubblicazione della telefonata da parte di Erdan “è scioccante e inaccettabile – e francamente è qualcosa che non ho mai visto nei miei 24 anni di servizio in questa organizzazione”.

Il rapporto annuale delle Nazioni Unite sui minori nei conflitti armati elenca le “organizzazioni che commettono violazioni contro i minori”, e include uccisioni e mutilazioni documentate, oltre a violenze sessuali.

L’elenco comprende la Russia, la Repubblica Democratica del Congo, la Somalia e la Siria. Include tra gli altri anche organizzazioni non statali come il gruppo dello Stato Islamico (IS), al-Shabaab, i Talebani e al-Qaeda.

Secondo l’ufficio stampa del governo di Gaza durante questa guerra le forze israeliane hanno ucciso più di 15.571 minori palestinesi nell’enclave assediata.

Gruppi per i diritti [umani] e agenzie delle Nazioni Unite hanno denunciato l’effetto che la guerra di Israele ha avuto sulla popolazione civile palestinese, compreso il suo forte impatto sui minorenni.

Il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef) ha dichiarato che a Gaza nove minori palestinesi su 10 devono affrontare una “grave povertà alimentare infantile”, che secondo l’agenzia è “una delle percentuali più alte mai registrate”.

Diversi minori palestinesi sono morti per fame, sete e grave malnutrizione .
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato la scorsa settimana che quattro minori palestinesi su cinque a Gaza “non hanno mangiato per un giorno intero” per almeno uno degli ultimi tre giorni.

Alla fine del mese scorso, l’immagine di un bambino palestinese decapitato da un attacco aereo israeliano a Rafah è diventata virale sui social media, scatenando ulteriore indignazione nei confronti dell’esercito israeliano.

Traduzione di Carlo Tagliacozzo




“Storica decisione”: Hamtramck diventa la prima città USA che boicotta Israele

Pauline Ertel

30 maggio 2024 – Middle East Eye

La città del Michigan si è impegnata ad astenersi dall’acquisto di beni e servizi provenienti dalle imprese segnalate dalla campagna BDS

Giovedì la città di Hamtramck, nei dintorni di Detroit, Michigan, ha approvato una risoluzione di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), diventando la prima città degli USA a sostenere pienamente una campagna di boicottaggio a sostegno dei diritti dei palestinesi.

La risoluzione afferma che Hamtramck “farà tutto il possibile per astenersi dall’acquisto di beni e servizi provenienti da qualunque fornitore che sia oggetto di una campagna BDS”, come anche da investimenti nello Stato di Israele e in “imprese israeliane che sostengono l’apartheid israeliano.”

Inoltre incoraggia gli abitanti a partecipare al boicottaggio, appoggia l’attivismo studentesco nei campus universitari e sottolinea che il sostegno al BDS non è antisemita in quanto molti importanti sostenitori del BDS sono essi stessi ebrei.

Il movimento BDS a guida palestinese è un’iniziativa non violenta che cerca di contrastare l’occupazione israeliana e le violazioni dei diritti umani dei palestinesi attraverso boicottaggi economici, culturali ed accademici, analoghi alle campagne di boicottaggio contro l’apartheid sudafricano.

In una riunione registrata del consiglio comunale di Hamtramck nella notte di giovedì, i membri del consiglio hanno dichiarato che la decisione di appoggiare il BDS è stata presa “per mandare un significativo messaggio di sostegno al popolo palestinese e ai suoi sforzi di porre fine all’occupazione israeliana delle loro terre native.”

Dobbiamo adottare ogni possibile misura per aiutare i palestinesi”, ha detto un membro del consiglio comunale, aggiungendo che “dobbiamo chiaramente boicottare l’utilizzo dei loro prodotti e non possiamo usare il denaro dei nostri contribuenti per uccidere le persone.”

Dal 2013 Hamtramck è l’unica città a maggioranza musulmana negli Stati Uniti con una storia di attivismo.

A febbraio di quest’anno il consiglio comunale di Hamtramck ha approvato la Risoluzione 22-2024, “Spostare i soldi”, che chiede al Congresso e al presidente di stornare importanti fondi dal budget militare al finanziamento di programmi di servizi sociali essenziali.

Nell’ottobre dello scorso anno il consiglio comunale ha auspicato un cessate il fuoco e ha rinominato una delle sue strade principali “Corso Palestina”, come simbolica dimostrazione di solidarietà ai palestinesi di Gaza.

Un altro membro del consiglio comunale presente alla riunione di giovedì ha parlato della “storica decisione che sta per essere presa”.

A quanto pare la maggioranza degli americani è contro la guerra, ma il nostro governo ovviamente non ascolta le preoccupazioni della gente”, ha detto il sindaco di Hamtramck Amer Ghalib.

Diversi sondaggi hanno mostrato che la maggioranza degli americani appoggia un cessate il fuoco a Gaza.

Il ruolo del governo locale nel BDS

Due città della California, Hayward e Richmond, hanno votato il disinvestimento da imprese che fanno affari in Israele. Tuttavia le loro risoluzioni, approvate a gennaio e maggio di quest’anno, prendono di mira imprese specifiche da boicottare, mentre la risoluzione di Hamtramck sostiene l’intero movimento BDS.

La consigliera comunale di Richmond Soheila Bana, co-autrice della risoluzione, ha ringraziato il movimento studentesco dicendo che sono stati gli studenti a portare alla nostra attenzione il fatto che “l’unica cosa che possiamo fare attivamente è il disinvestimento.”

Il movimento BDS è nato nel 2005 con la missione di “porre fine all’appoggio internazionale all’oppressione israeliana sui palestinesi e fare pressione su Israele perché rispetti il diritto internazionale”, recita la sua dichiarazione di intenti.

Relativamente a questo obbiettivo gli enti governativi locali come i consigli comunali e regionali rivestono un ruolo chiave, in quanto spesso “hanno rapporti con imprese e istituzioni che aiutano Israele ad opprimere i palestinesi”, specifica inoltre il BDS.

Nel 2018 la capitale irlandese Dublino è diventata la prima capitale europea a sostenere il movimento BDS per i diritti dei palestinesi e ha chiesto l’espulsione dell’ambasciatore israeliano in Irlanda.

Una serie di città europee hanno preso simili iniziative, decidendo l’appoggio al BDS.

A settembre Barcellona ha annullato l’accordo di gemellaggio con Tel Aviv, anche se la decisione in seguito è stata ribaltata quando l’allora sindaca Ada Colau ha perso le elezioni.

Ad aprile 2023 la capitale della Norvegia Oslo ha annunciato che non avrebbe commerciato in beni e servizi prodotti in aree illegalmente occupate in violazione del diritto internazionale, come i territori occupati sulle Alture del Golan e in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est.

Le imprese che direttamente o indirettamente contribuiscono all’impresa coloniale illegale di Israele saranno escluse dalla politica in materia di appalti della città, ha deciso il consiglio comunale di Oslo.

Da allora Irlanda, Norvegia e Spagna hanno riconosciuto lo Stato di Palestina.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)