Palestina: una delegazione UE “scioccata” dalle immagini del prigioniero da quasi 200 giorni in sciopero della fame

Redazione di MEE

29 agosto 2022 – Middle East Eye

I medici avvertono che Khalil Awawdeh è a rischio di morte imminente dopo essere stato trattenuto per mesi in una prigione israeliana senza accuse.***

Domenica la delegazione dell’Unione Europea per i palestinesi ha affermato di essere rimasta “scioccata” dalle foto del gracile corpo del detenuto Khalil Awawdeh, da marzo in sciopero della fame in una prigione israeliana.

La delegazione ha twittato: “Siamo scioccati dalle orribili immagini di Awawdeh che sta facendo lo sciopero della fame…per protestare contro la sua detenzione senza accuse ed è in imminente pericolo di vita. A meno che non sia immediatamente incriminato, deve essere rilasciato.”

Nel messaggio Awawdeh afferma che “questo corpo, di cui rimangono solo pelle e ossa, non riflette la debolezza e la nudità del popolo palestinese, ma piuttosto riflette e rispecchia il volto concreto dell’occupazione.”

Egli aggiunge che Israele “sostiene di essere uno Stato democratico, mentre c’è un prigioniero senza accuse che si è schierato contro la barbara detenzione amministrativa, per dire con la sua carne e il suo sangue ‘no’ alla detenzione amministrativa.”

I medici hanno avvertito che Awawdeh è a rischio di morte imminente; dopo aver perso decine di chili il suo corpo ha raggiunto un grave livello di fragilità e la sua ossatura e il suo torace sono sporgenti.

Anni di detenzione amministrativa

Il quarantenne è originario del villaggio di Idhna, nei pressi di Hebron, nel sud della Cisgiordania occupata. Nel corso della sua vita è stato arrestato cinque volte ed ha passato un totale di 13 anni nelle prigioni israeliane.

Israele lo accusa di essere un attivista del gruppo Jihad Islamico Palestinese (PIJ).

Lo scorso mese l’organizzazione ha affermato di aver raggiunto un accordo con Israele per il rilascio di Awawdeh e Bassam al-Saadi, importante personalità del PIJ di Jenin, come parte dell’accordo di cessate il fuoco in seguito all’operazione militare israeliana contro la Striscia di Gaza a luglio.

Tuttavia funzionari israeliani lo hanno smentito e rimangono irremovibili riguardo al fatto che sia Saadi che Awawdeh rimarranno in carcere.

Awawdeh ha passato un totale di sei anni in detenzione amministrativa senza accuse. È sposato e padre di quattro figlie.

Ci sono 4.450 detenuti palestinesi nelle carceri israeliane, 560 dei quali in detenzione amministrativa.

Questa prassi molto criticata, in uso quasi esclusivamente contro i palestinesi, consente la detenzione senza accuse né processo per periodi rinnovabili da tre a sei mesi, senza possibilità di appello o senza sapere quali accuse siano mosse al prigioniero.

Molti detenuti palestinesi hanno fatto ricorso allo sciopero della fame per protestare contro questa prassi e imporre il proprio rilascio.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

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Khalil Awawdeh sospende lo sciopero della fame. Sarà liberato il 2 ottobre

Pagine Esteri




Direttore di un gruppo palestinese per i diritti umani arrestato dall’intelligence israeliana

Redazione di MEE

21 agosto 2022 – Middle East Eye

Israele continua a perseguitare sei organizzazioni per i diritti umani dicendo che sostengono il terrorismo, accuse respinte dall’ONU e da alcuni Stati UE

L’intelligence israeliana ha arrestato il direttore di un’importante associazione palestinese per i diritti umani mentre continua il giro di vite contro molte altre organizzazioni simili.

Secondo un tweet di Defense of Children International – Palestine (DCI Palestine) [ong indipendente che sostiene e promuove i diritti dei minori, ndtr.] Khaled Quzmar, il suo direttore generale sarebbe stato arrestato domenica dal servizio di sicurezza Shin Bet.

“Alle 14.25 ora locale Quzmar ha ricevuto una telefonata da un agente dello Shin Bet che lo convocava per un interrogatorio. Subito dopo è andato alla base militare israeliana di Ofer,” scrive l’organizzazione.

“Un testimone oculare nella base (militare di Ofer) ha visto Quzmar scortato dentro la sede dello Shin Bet intorno alle 15:20. Al legale di Quzmar non è stato permesso di accompagnarlo.”

Aggiunge che dopo due ore in custodia Quzmar è stato rilasciato.

L’arresto è solo l’ultimo episodio di una campagna lanciata da Israele contro varie organizzazioni palestinesi per i diritti umani nei territori palestinesi occupati.

Tolleranza zero verso le associazioni per i diritti umani

Sei gruppi per i diritti umani: Addameer Prisoner Support and Human Rights Association [Associazione Addameer per il sostegno e i diritti umani dei prigionieri], Al-Haq, il Bisan Center for Research and Development [Centro Bisan per la Ricerca e lo Sviluppo], l’Union of Agricultural Work Committees (UAWC) [Unione dei Comitati del Lavoro Agricolo], l’Union of Palestinian Women Committees (UPWC) [Unione dei Comitati delle Donne Palestinesi] e DCI Palestine Defence for Children International [la sezione palestinese dell’associazione Protezione Internazionale dei Minori] sono state definite “organizzazioni terroristiche” da Israele nell’ottobre 2021e da allora sono state oggetto di crescenti controlli.

Molte di queste organizzazioni hanno ricevuto fondi da Paesi UE.

Domenica mattina presto Al-Haq aveva twittato che il suo direttore aveva ricevuto una telefonata di minacce relative al suo lavoro da parte di un agente dell’intelligence israeliano.

Secondo Al-Haq, Shawan Jabarin è stato convocato dallo Shin Bet per un “interrogatorio” e la persona al telefono l’aveva “minacciato di arresto e altre misure se Al-Haq avesse continuato le sue attività “.

Venerdì soldati israeliani hanno fatto irruzione, confiscato oggetti e chiuso gli uffici dei gruppi per i diritti umani in Cisgiordania. Sono stati perquisiti anche gli uffici dell’Union of Health Workers Committees [Unione dei comitati di operatori sanitari], che non è stata definita organizzazione terroristica.

I sei gruppi che sono stati così etichettati hanno negato le accuse di “terrorismo” e specificato che la loro chiusura è stata criticata sia dalle Nazioni Unite che da organizzazioni per i diritti umani.

I ministri degli esteri di Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Olanda, Spagna e Svezia hanno detto che Israele non è riuscito a fornire loro “informazioni sostanziali ” circa le accuse e si sono impegnati a continuare la cooperazione con i gruppi in l’assenza di ogni prova.

Venerdì in un comunicato congiunto hanno affermato: “Siamo profondamente preoccupati per i raid che si sono svolti la mattina del 18 agosto che fanno parte di una preoccupante riduzione degli spazi della società civile sul territorio. Queste azioni non sono accettabili.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Come Israele ha finanziato una guerra giudiziaria contro i cittadini palestinesi dopo la rivolta del maggio 2021

Janan Abdu

16 agosto 2022 – Middle East Eye

Un anno dopo la campagna israeliana di arresti di massa i cittadini palestinesi di Israele sono di fronte a misure più severe e addirittura più repressive contro le loro proteste nei confronti delle politiche israeliane

Il 24 maggio 2021 Israele ha lanciato una campagna di arresti di massa per fermare la rivolta dei palestinesi all’interno della cosiddetta Linea Verde (linea di confine tra Israele e alcuni Paesi arabi stabilita dall’accordo del 1949, ndtr.) all’insegna di “Legge e Ordine”.

La polizia ha comunicato che entro 48 ore 500 persone sarebbero state arrestate. Al 10 giugno Israele aveva arrestato più di 2.150 persone, il 91% delle quali erano cittadini palestinesi di Israele. Forze di polizia, unità speciali, guardie di confine e polizia segreta hanno preso d’assalto le città a predominanza araba, reprimendo i manifestanti palestinesi.

Hanno deliberatamente preso di mira i minori con violenti arresti arbitrari e li hanno sottoposti a detenzione e interrogatori prolungati da parte di agenti dello Shin Bet (servizi di sicurezza interni israeliani, ndtr.)

Di fronte a questi arresti di massa centinaia di avvocati palestinesi residenti nei territori occupati del 1948 si sono organizzati e si sono offerti volontari accanto ad associazioni per i diritti umani e a comitati popolari, in uno sforzo coordinato per difendere i detenuti, fornire loro assistenza legale nelle stazioni di polizia e monitorare le flagranti violazioni dei diritti umani da parte delle forze di sicurezza israeliane.

Io facevo parte di una di queste associazioni, “Donne in difesa dei diritti umani dei detenuti”. Non ci è voluto molto tempo per organizzare campagne di raccolta fondi per sostenere i detenuti e le loro famiglie attraverso la copertura delle loro spese legali.

Flagranti violazioni dei diritti

Alcune delle violazioni israeliane che abbiamo riscontrato comprendono: violenta dispersione delle proteste e arresti arbitrari; confisca dei cellulari personali; aggressione di giornalisti e attivisti che filmano e documentano gli attacchi; rapimento di minori da parte di forze speciali di squadre sotto copertura; eccessivo uso della forza durante gli arresti e i trasferimenti ai centri detentivi; condizioni carcerarie disumane; rinvio di cure mediche urgenti per i detenuti fino al termine degli interrogatori.

Molte violazioni dei diritti dei detenuti – soprattutto di minori – sono avvenute nelle stazioni di polizia: uso di terribile violenza fisica, minacce e violenza psicologica; negazione di diritti fondamentali come la consulenza legale prima dell’interrogatorio; rifiuto di condurre gli interrogatori in lingua araba; rifiuto ad un genitore o un tutore del diritto di essere presente durante l’interrogatorio del figlio; per molti di loro durata degli interrogatori di moltissime ore, in violazione della legge.

Inoltre la polizia cerca in vari modi di ostacolare il lavoro degli avvocati. In molti casi la polizia chiude l’ingresso del centro di detenzione per impedire ai legali di conoscere il nome e il numero dei detenuti.

Altre tattiche comprendono rifiutare agli avvocati una corretta informazione sui loro clienti e impedire loro di fornire consulenza.

In una stazione di polizia di Nazareth gli agenti israeliani notoriamente gestivano una “stanza di tortura” in cui i palestinesi arrestati, dai manifestanti agli astanti e persino agli avvocati, venivano sottoposti a violenza fisica, verbale e psicologica. A Umm al-Fahm la stazione di polizia ha chiuso del tutto e ha smesso di rispondere alle telefonate, dopo che gli avvocati hanno insistito nel pretendere i diritti dei detenuti, soprattutto di quelli che necessitavano di cure mediche.

La polizia israeliana spesso ha preso misure punitive allo scopo di estenuare gli avvocati, come rinviare gli interrogatori fino alle prime ore del mattino, o lasciarli in attesa per ore prima di fargli incontrare i loro clienti, come io e i mei colleghi abbiamo sperimentato alla stazione di polizia di Haifa.

Spesso il rilascio dei detenuti palestinesi è avvenuto alla condizione che essi si impegnassero a non partecipare a future manifestazioni. Molti sarebbero stati tenuti agli arresti domiciliari per lunghi periodi, mentre altri sarebbero stati trasferiti lontano dalle loro zone di residenza o luoghi di studio. Tra i trasferiti vi erano studenti universitari.

La maggior parte dei giudici non tiene conto della violenza della polizia, delle aggressioni ai detenuti, delle tremende conseguenze della violenza fisica, dei diritti dei minori e persino delle norme costituzionali sul diritto dei cittadini a protestare.

Prendere di mira i minori

E’ evidente che i procuratori israeliani hanno deliberatamente incrementato il loro accanimento sui minori palestinesi attraverso ricorsi aggressivi contro il loro rilascio e mantenendoli volutamente in detenzione nonostante la loro età e situazioni.

La rivolta palestinese del 2021 ha subito una politica di punizione. Essa è stata annunciata dall’ufficio del procuratore di Stato nelle sue dichiarazioni e relazioni periodiche ed è stata ribadita nel rapporto sull’operazione israeliana “Guardiano delle mura”, che sintetizza lo sforzo dello Stato per reprimere le proteste di massa contro l’aggressione israeliana a Gaza nel maggio 2021.

In alcuni casi la pubblica accusa ha vinto il ricorso, che riteneva la sentenza troppo clemente e chiedeva una punizione più severa, che poi il giudice ha concesso.

Dal 21 aprile l’ufficio del procuratore di Stato israeliano ha inoltrato 397 denunce contro 616 imputati, 545 dei quali sono arabi, compresi 161 minori. In altri termini, la percentuale di arabi tocca l’88,5% e i minori costituiscono il 26% – un numero altissimo che ricade sotto la punizione collettiva.

E’ stato preparato un “preambolo unificato” per tutte le incriminazioni contro gli imputati palestinesi. La procura ha voluto conferire un carattere generale a tutte le accuse in modo collettivo e preventivo. Ha anche creato una speciale sede centrale con lo scopo di unificare le politiche di punizione, che la procura considera “sulla base di una missione nazionale”. E in tutte le istanze ha richiesto l’arresto fino al termine delle procedure, che sono durate parecchi mesi prima che venisse emessa la sentenza.

La procura ha adottato una politica e criteri rigidi, rifiutando di rilasciare i detenuti e prendendo di mira i minori; invece di cercare alternative all’incarcerazione li ha sottoposti a processo come gli adulti e li ha tenuti in detenzione. La sua politica si è riflessa nella presentazione di gravi imputazioni e nell’adozione di disposizioni di “atti terroristici”, “contesto razzista” e “crimini di odio”, che raddoppiano le sentenze per la stessa accusa.

Delle 397 imputazioni, 239 sono state ritenute “aggravate” – l’85% contro arabi e il 20% contro minori – richiedendo una effettiva incarcerazione per anni. Accuse di terrorismo sono state avanzate contro 94 imputati, il 90% dei quali arabi; 95 imputati, l’87% dei quali arabi, sono stati accusati di terrorismo sulla base di motivazioni razziste.

Sono state elevate accuse su “base razzista” contro 50 imputati, il 70% dei quali arabi. Non abbiamo bisogno di ulteriori analisi sulle politiche discriminatorie basate sul procedere ad incriminazioni prima di eseguire gli arresti.

Fino ad ora sono state emesse sentenze in 80 casi, e tutte prevedevano il carcere. In alcuni casi la pubblica accusa ha vinto il ricorso, sostenendo che la sentenza era troppo indulgente e chiedendo una pena più severa, che poi il giudice ha concesso.

Infatti la procura inquadra gli arabi palestinesi come nemici ed ha scritto nel suo rapporto: “Gli arabi hanno compiuto atti di sabotaggio e violenza contro ebrei e loro proprietà, a fronte di un esiguo numero di aggressioni da parte di cittadini ebrei contro arabi.”

Questo è un capovolgimento della verità, poiché tutte le aggressioni a quartieri residenziali sono state compite da gruppi di ebrei contro quartieri arabi.

Rapporto del Revisore di Stato

Un rapporto del Revisore di Stato del 27 giugno 2022 conferma che le città miste fanno parte del panorama israeliano e ciò che vi accade riflette le complessità della società israeliana.

Il rapporto si occupa della rivolta del maggio 2021 e la descrive in base a quanto accaduto in alcune di queste città miste, comprese Haifa, Accri, Lod e Jaffa.

Afferma che questi incidenti, durante i quali sono stati uccisi tre cittadini israeliani (due di loro cittadini palestinesi di Israele), hanno portato alla luce le tensioni esistenti tra i diversi gruppi di popolazione e hanno sottolineato la necessità di prendere provvedimenti a livello pubblico e locale. (Il rapporto) ha anche evidenziato l’importanza di analizzare quanto in queste città venga applicata la legge.

Il rapporto si occupa delle “carenze nell’attività della polizia” in tutte le fasi, quella preparatoria e nel corso degli scontri con incidenti e sottolinea che gli incidenti mostrano anche la debolezza e lo squilibrio nella ripartizione di ruoli e responsabilità tra la polizia e lo Shin Bet, dovuti all’impreparazione della polizia a gestire gli incidenti.

In altri termini, ritiene insufficiente la punizione collettiva dei palestinesi cittadini di Israele durante questi incidenti e chiede misure più repressive nei loro confronti da parte della polizia e pene detentive più severe da parte dei tribunali.

Il rapporto ritiene che la soluzione passi attraverso i bilanci comunali. E’ come se il rimedio alla ingiustizia storica e alle conseguenze della catastrofe palestinese, o Nakba, come anche alle leggi razziste discriminatorie nei loro confronti, consistesse nell’aumentare le previsioni di spesa per i palestinesi in queste storiche città palestinesi.

Oltre un anno dopo la campagna israeliana di arresti di massa è chiaro che lo Stato è determinato all’escalation, dato che i palestinesi cittadini di Israele rappresentano un rischio demografico.

Non c’era perciò da stupirsi, recentemente, del fatto che, mentre Israele stava ancora una volta attaccando Gaza, i suoi poliziotti e guardie di frontiera, raddoppiati di numero, insieme a violente bande di destra, fossero pronti a finanziare una campagna di repressione contro i manifestanti palestinesi.


Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Janan Abdu è un’avvocata e un’attivista per i diritti umani che vive a Haifa. E’ attiva nel suscitare attenzione e mobilitare il sostegno internazionale per i prigionieri politici palestinesi. I suoi articoli sono comparsi su: il Giornale di Studi Palestinesi; il trimestrale del Centro Studi sulle Donne dell’università Birzeit; al-Ra’ida (AUB); L’Altro Fronte (Centro di informazione alternativa); Jadal (Mada al-Carmel). Le sue pubblicazioni includono le organizzazioni di donne e femministe palestinesi nelle zone del 1948 (Mada al-Carmel, 2008).

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Le forze israeliane uccidono un palestinese dentro la sua casa a Gerusalemme

Shatha Hammad, Ramallah, Palestina Occupata

Lunedì 15 agosto 2022 – Middle East Eye

Il padre del ventunenne Muhammad al-Shaham ha affermato che i soldati hanno lasciato che suo figlio perdesse sangue per 40 minuti dentro la casa prima di portarlo via.

Secondo la sua famiglia lunedì mattina le forze israeliane hanno colpito a morte in testa un giovane palestinese, Muhammad al-Shaham, dopo aver fatto irruzione nella sua casa nel sobborgo di Kufr Aqab a Gerusalemme Est occupata.

Ibrahim al-Shaham, il padre di Muhammad, ha affermato che suo figlio ventunenne è stato colpito da breve distanza da un proiettile diretto alla testa e poi lasciato a perdere sangue dentro la sua casa per circa 40 minuti prima di essere preso dalle forze israeliane per essere curato.

Ibrahim ha negato il comunicato delle forze israeliane secondo cui suo figlio avrebbe tentato di colpire uno degli agenti. Ha detto ai mezzi di informazione locale che gli agenti hanno fatto saltare la porta della casa alle 3,30 del mattino e immediatamente hanno aperto il fuoco contro la famiglia.

Nel comunicato le forze israeliane hanno confermato la morte di Shaham in un ospedale israeliano alcune ore dopo l’incidente in seguito alle ferite.

Hanno aggiunto che truppe in borghese che stavano cercando armi a Kufr Aqab sono state affrontate dalla famiglia al-Shaham quando hanno assaltato la loro casa. Hanno dichiarato che Shaham allora ha tentato di colpire uno degli agenti e che in seguito a ciò gli hanno sparato.

Un video dalle telecamere di sorveglianza nell’area mostrano i soldati che trasportavano il corpo di Shaham su un veicolo militare dopo il suo ferimento.

Ibrahim afferma che la sparatoria di fronte alla sua famiglia è stata simile ad altre uccisioni effettuate dalle forze israeliane la settimana scorsa a Nablus.

Dice che prima di lasciare la casa i soldati hanno raccolto i bossoli dei proiettili che hanno sparato a suoi figlio.

Il padre di Shaham afferma inoltre che essi hanno perquisito e distrutto le suppellettili della casa, situata a Kufr Aqab, proprio al confine tra Gerusalemme Est e Ramallah.

Comportamento mafioso’

Il ministero degli Esteri palestinese ha condannato l’uccisione di Shaham, descrivendolo come un “crimine efferato” e l’ultimo di una serie di “esecuzioni e assassinii sul campo commessi dalle forze israeliane su indicazione del governo.”

Il ministero ha affermato che “questo è il comportamento delle mafie e delle organizzazioni criminali che hanno come obiettivo omicidi a sangue freddo senza processo”.

Ha affermato che indagherà sulla morte a tutti i livelli, specialmente presso la Corte Penale Internazionale, il Consiglio per i Diritti Umani e ad altri livelli legali delle Nazioni Unite, nel contesto dei suoi continui sforzi per porre fine all’impunità dello Stato di Israele per le sue azioni.

Hussein Al-Sheikh, segretario generale del comitato esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ha affermato che l’uccisione di Shaham richiede un’immediata inchiesta a livello internazionale.

Quasi ogni giorno l’esercito israeliano conduce operazioni di incursione e arresto nelle città e nei villaggi palestinesi, che spesso portano al ferimento o all’uccisione di palestinesi.

Quest’anno più di 130 palestinesi sono stati uccisi dal fuoco israeliano, inclusi 49 vittime nella Striscia di Gaza e più di 81 nella Cisgiordania e a Gerusalemme Est occupate.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Lavoratori palestinesi costretti a scendere da un autobus israeliano per far posto a passeggeri ebrei

Redazione di MiddleEastEye

9 agosto 2022, MiddleEastEye

Un uomo che si fingeva funzionario del Ministero dei Trasporti ha fatto pressioni sull’autista perché facesse scendere circa 50 lavoratori palestinesi dall’autobus

Secondo Haaretz tre passeggeri ebrei, uno dei quali fingendosi funzionario del Ministero dei Trasporti, hanno costretto alcuni palestinesi a scendere da un autobus diretto nella Cisgiordania occupata.

L’incidente è avvenuto giovedì scorso; circa 50 lavoratori palestinesi sono scesi dall’autobus nella città di Bnei Brak dopo che i passeggeri ebrei avevano chiesto all’autista di farli scendere.

Tnufa Transportation Solutions, proprietaria dell’autobus, gestisce le tratte tra Tel Aviv e l’insediamento coloniale di Ariel in Cisgiordania, portando i lavoratori palestinesi con permesso di lavoro da Israele alla Cisgiordania occupata.

“Sono passati alcuni autobus e non si sono fermati, perché l’autobus 288 è riservato solo agli ebrei, poi uno che era vuoto e senza ebrei a bordo si è fermato per noi e siamo saliti”, ha detto ad Haaretz uno dei passeggeri palestinesi.

“Tre ebrei sono saliti a Bnei Brak [cittadina israeliana abitata soprattutto da ultraortodossi, ndt.] e hanno chiesto che tutti gli arabi scendessero”.

L’autista ha chiamato i suoi superiori e poi ha chiesto ai palestinesi di scendere.

La legge vieta agli operatori dei trasporti di segregare ebrei e arabi che utilizzano i loro servizi. L’amministratore delegato di Tnufa Transportation Solutions ha negato le accuse.

“Non abbiamo percorsi separati per palestinesi o ebrei… Ci sono linee che vanno ai valichi [tra Israele e la Cisgiordania] e naturalmente i palestinesi le usano di più, ma se un ebreo vuole salire non ci sono restrizioni”, ha detto .

Su richiesta di Haaretz, la compagnia ha condotto un’indagine e ha affermato che l’autista “è stato vittima di una vergognosa manipolazione da parte di un passeggero che si è spacciato per dipendente del Ministero dei Trasporti”, affermando che quelle erano le nuove istruzioni del Ministero per quella particolare tratta.

“L’autista, uno nuovo, ha detto di aver discusso con l’impostore, che però gli ha detto che avrebbe potuto perdere il lavoro o ricevere una grossa multa se non avesse seguito immediatamente le istruzioni”, ha affermato la società in una nota.

“Sembra che a causa delle pressioni esercitate l’autista abbia ceduto alla manipolazione razzista e sia stato costretto a lasciare i passeggeri alla fermata dell’autobus. L’autista non ha denunciato il fatto al suo datore di lavoro”.

La compagnia ha sporto denuncia alla polizia israeliana, ha riaffermato il suo impegno a fornire un servizio uguale a palestinesi ed ebrei e si è scusata con i passeggeri palestinesi per lo ” spiacevole evento”.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Gaza: i nomi e i volti dei 16 bambini palestinesi uccisi nell’assalto israeliano

Redazione di MEE

8 agosto 2022 – Middle East Eye

Almeno 45 palestinesi sono stati uccisi e più di 360 feriti nel corso dei tre giorni di attacchi aerei israeliani sulla Striscia assediata.

Questi sedici bambini palestinesi non vedevano l’ora di trascorrere un’estate piena di gioia. Avevano in programma di giocare a pallone, andare in spiaggia e frequentare un campo estivo.

Ma nel corso di tre giorni orribili le forze israeliane hanno scatenato un’ondata di attacchi aerei sulla Striscia di Gaza assediata, uccidendo 45 persone, tra cui i 16 bambini, e ferendone almeno altre 360.

“Non c’è uno spazio sicuro nella Striscia di Gaza per i bambini palestinesi e le loro famiglie, che sempre di più pagano le conseguenze delle ripetute offensive militari di Israele”, ha dichiarato Ayed Abu Eqtaish, direttore del programma di accertamento di responsabilità presso l’ONG Defense for Children International – Palestina (DCIP) [la DCI è una ONG internazionale impegnata nella promozione e protezione dei diritti del fanciullo, ndt.].

Anche se domenica è entrato in vigore un cessate il fuoco a seguito di un accordo mediato dall’Egitto, i palestinesi hanno denunciato la devastante campagna di bombardamenti ed emergono maggiori dettagli sulle persone uccise.

L’esercito israeliano ha affermato che alcune delle vittime civili sono state uccise da razzi fuori bersaglio, senza fornire prove provenienti da verifiche indipendenti. Il Ministero della Salute palestinese afferma che tutte le persone uccise, compresi i 16 bambini, sono morte a causa degli attacchi aerei israeliani.

Alcune famiglie si sono rese disponibili a condividere le loro storie, mentre altre hanno mantenuto lo stato di lutto e hanno chiesto il rispetto della privacy.

Ecco i nomi e i volti dei bambini morti:

Alaa Abdullah Qaddoum, cinque anni

Alaa Abdullah Qaddoum è stata tra le prime vittime venerdì, dopo la decisione di Israele di lanciare gli attacchi aerei sulla Striscia di Gaza assediata.

È morta il 5 agosto mentre giocava con gli amici fuori casa, nel quartiere di Shujaiya, nel nord della Striscia di Gaza.

Durante l’attacco suo fratello di sette anni e suo padre sono rimasti feriti.

Suo cugino, Abu Diab Qaddoum, ha detto a Middle East Eye: “Alaa era una bambina innocente di cinque anni che giocava per strada con i suoi fratelli e cugini. Cosa ha fatto per essere uccisa?”.

Momen Muhammed Ahmed al-Nairab, cinque anni

Momen Muhammed ِAhmed al-Nairab, cinque anni, è stato ucciso sabato in un presunto attacco aereo israeliano nel campo profughi di Jabalia, nel nord della Striscia di Gaza.

Il campo è uno dei luoghi più densamente popolati della Terra e ospita più di 114.000 persone.

Hazem Muhammed Ali Salem, nove anni

Secondo la documentazione raccolta da Defense for Children International, Hazem Muhammed Ali Salem, nove anni, è tra i quattro bambini vittime dell’esplosione di sabato nel campo profughi di Jabalia.

Israele sostiene di non essere responsabile dell’attacco, ma fonti palestinesi affermano che non avrebbe potuto provenire da nessun’altra parte.

Ahmed Muhammed al-Nairab, 11 anni

Ahmed Muhammed al-Nairab, di 11 anni, è uno dei quattro bambini uccisi sabato quando presunti aerei da guerra israeliani hanno colpito il campo profughi di Jabalia.

Ahmed Walid Ahmed al-Farram, 16 anni

Anche Ahmed Walid Ahmed al-Farram, di 16 anni, è stato ucciso sabato quando presunti aerei da guerra israeliani hanno colpito il campo profughi di Jabalia.

Secondo l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (Unrwa) il campo risente di un’elevata disoccupazione, interruzioni regolari dell’elettricità e inquinamento dell’acqua potabile.

Muhammed Iyad Muhammed Hassouna, 14 anni

Muhammed Iyad Muhammed Hassouna, di 14 anni, è stato ucciso quando un attacco aereo israeliano ha preso di mira la sua casa a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza.

Adeeb Ahmad, un testimone oculare dell’attacco, ha detto a MEE che nel corso del raid sono state uccise almeno otto persone.

“La casa è stata colpita senza alcun preavviso”, ha detto Ahmad. “Qui le case sono sovraffollate, ospitano da sette a otto persone ciascuna, e sono molto vicine l’una all’altra, quindi quando una casa viene colpita sono coinvolte diverse abitazioni intorno”.

Fatma Aaed Abdulfattah Ubaid, 15 anni

Fatma Aaed Abdulfattah Ubaid, 15 anni, è una dei nove minorenni uccisi nell’arco di 30 minuti, poco prima dell’annuncio del cessate il fuoco di domenica.

Ubaid è stata uccisa domenica a Beit Hanoun, nel nord della Striscia di Gaza.

Ahmed Yasser Nimr al-Nabahin, nove anni [a sinistra]

Muhammed Yasser Nimr al-Nabahin, 12 anni [al centro]

Dalia Yasser Nimr al-Nabahin, 13 anni [a destra]

Domenica un attacco aereo israeliano contro il campo profughi di Bureij ha ucciso Yasser al-Nabahin e i suoi tre figli, Muhammed Yasser Nimr al-Nabahin, 13 anni (a sinistra); Ahmed Yasser Nimr al-Nabahin, nove (al centro); e la loro sorella, Dalia Yasser Nimr al-Nabahin, 13 (a destra).

Muhammed Salah Nijm, 16 anni

Domenica un presunto attacco aereo israeliano al cimitero di Falluja, nella zona nord di Gaza, ha ucciso cinque ragazzi mentre stavano seduti vicino a una tomba.

Tra le vittime, Muhammed Salah Nijm, di 16 anni.

Hamed Haidar Hamed Nijm, 16 anni

Hamed Haidar Hamed Nijm, di 16 anni, è un’altra delle vittime del raid di domenica al cimitero. Il testimone oculare Mohammad Sami ha detto a MEE che quattro dei ragazzi erano cugini e il quinto era un loro amico.

“Venivano a sedersi qui ogni giorno”, dice Sami. “Questa è una zona sicura.”

Jamil Nijm Jamil Nijm, quattro anni

Jamil Nijm Jamil Nijm è il bambino più piccolo ucciso durante l’offensiva israeliana sulla Striscia di Gaza. Aveva solo quattro anni.

Jamil Ihab Nijm, 13 anni

Jamil Ihab Nijm, 13 anni, è il quarto bambino facente parte della famiglia Nijm ad essere stato ucciso nel presunto attacco aereo di domenica.

Nazmi Fayez Abdulhadi Abukarsh, 16 anni

Anche Nazmi Fayez Abdulhadi Abukarsh, di 16 anni, amico dei ragazzi Nijm, è rimasto ucciso nel sospetto attacco aereo al cimitero.

Hanin Walid Muhammed Abuqaida, 10 anni

Hanin Walid Muhammed Abuqaida, di 10 anni, è stata ferita domenica in un attacco aereo sul campo profughi di Jabalia, ma lunedì è deceduta per le ferite riportate.

Aveva 10 anni.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele uccide almeno 10 palestinesi nella nuova campagna di bombardamenti contro Gaza

Ahmed Al-Sammak, Lubna Masarwa, Huthifa Fayyad da Gaza City, Palestina occupata

5 agosto 2022 – Middle East Eye

Un dirigente della Jihad Islamica è stato assassinato in un attacco che ha ucciso anche una bambina di 5 anni e ferito più di 55 civili

Nell’ultimo bombardamento contro la Striscia di Gaza di venerdì l’esercito israeliano ha ucciso almeno 10 palestinesi, tra cui una bambina di 5 anni e un importante leader militare.

Taiseer al-Jabari, capo della divisione nord delle Brigate di al-Quds (Saraya al-Quds), l’ala militare del movimento Jihad Islamica, è stato ucciso durante attacchi aerei che hanno colpito varie località di Gaza. Secondo il ministero della Sanità palestinese almeno 55 persone sono rimaste ferite.

Gli attacchi iniziali hanno colpito tre diverse zone: Khan Younis nel sud della Striscia, Shujaiya a nord e un edificio residenziale nel centro di Gaza.

L’esercito afferma di aver preso di mira la Jihad Islamica con l’operazione denominata “Breaking Dawn” [Sorgere del sole].

Hamas, che governa di fatto Gaza, e la Jihad Islamica, la seconda più importante organizzazione armata della Striscia, hanno promesso una dura risposta all’aggressione israeliana. 

Ziad al-Nakhalah, capo della Jihad Islamica, ha affermato che non ci sono limiti in questa guerra e che Tel Aviv verrà presa di mira.

Non ci sono linee rosse in questa battaglia e Tel Aviv, come tutte le città israeliane, finirà sotto i razzi della resistenza,” ha affermato.

Gaza è stata colpita da attacchi aerei e dal fuoco dell’artiglieria. La Jihad Islamica ha affermato di aver sparato 100 razzi venerdì notte come risposta iniziale.

Fawzi Barhoum, portavoce di Hamas, ha detto che le fazioni della resistenza a Gaza sono unite e pronte a rispondere con “tutta la forza”.

Nel contempo il primo ministro israeliano Yair Lapid ha affermato che il Paese “non consentirà alle organizzazioni terroristiche della Striscia di Gaza di dettare le regole” e che l’esercito israeliano continuerà ad agire contro l’organizzazione Jihad Islamica “per eliminare la minaccia che rappresenta per i cittadini di Israele.”

Un vero e proprio crimine”

Khalil Kanon vive al dodicesimo piano della Palestine Tower, un edificio nel centro di Gaza che è stato colpito venerdì durante il primo attacco aereo israeliano. Dice a MEE che il bombardamento ha ferito sua moglie e sua madre, ha terrorizzato i suoi figli e tutta la famiglia è stata macchiata di sangue.”

Stavo leggendo le notizie. Improvvisamente abbiamo sentito bombardamenti assordanti. Una mano di mia madre e una gamba di mia moglie sono state ferite, e i miei figli erano terrorizzati,” racconta Kanon.

Dopo il bombardamento, un vicino di Kanon è corso ad aiutare e ha portato fuori dall’edificio i suoi figli e sua moglie, mentre Kanon aspettava gli infermieri per aiutarli a portare via sua madre dallo stabile.

Eravamo tutti sporchi di sangue. Guarda, c’è una macchia di sangue sulla mia maglietta.

Non avrei mai pensato che questo edificio potesse essere bombardato. Che razza di vita abbiamo?”

Ahmed al-Bata, un giornalista, quando l’edificio è stato bombardato stava aspettando l’ascensore per salire al quattordicesimo piano della Palestine Tower, dove si trova il suo ufficio.

Improvvisamente ho sentito tre massicci, intensi bombardamenti,” racconta a MEE.

La scena è stata inimmaginabile. Dopo qualche minuto decine di abitanti hanno iniziato a scappare urlando. Quasi tutti erano bambini e donne. Decine di loro erano ferite. La scena era talmente orribile. È un vero e proprio crimine.”

Arresto di un leader della Jihad Islamica

L’attacco è giunto dopo giorni di blocco imposto dalle autorità israeliane agli abitanti che vivono nei pressi di Gaza, e il dispiegamento di truppe nella zona. Le misure hanno incluso la chiusura di strade e il blocco del servizio ferroviario vicino a Gaza.

L’esercito israeliano ha affermato di averle messe in atto a causa del timore di attacchi di rappresaglia da parte della Jihad Islamica a Gaza dopo l’arresto nella città di Jenin, nella Cisgiordania occupata, di un importante dirigente dell’organizzazione, Bassam al_Saadi.

Nell’incursione in città è stato ucciso anche il diciassettenne palestinese Dirar al-Kafrayni, colpito a morte dalle forze israeliane. 

Nell’incursione è stato arrestato anche il genero di Saadi, Ashraf al-Jada. Durante l’arresto la moglie di Saadi è stata ferita e portata in ospedale per essere curata. Immagini di una telecamera di sorveglianza dell’arresto di Saadi mostrano soldati israeliani che trascinano sul pavimento il sessantaduenne. Sarebbe anche stato ferito da un cane dell’esercito israeliano.

Quando si sono diffuse notizie dell’incursione mortale, gruppi di persone si sono riuniti nel campo di rifugiati di Jenin e nella vicina città di Nablus, mentre sostenitori hanno espresso solidarietà a un personaggio molto rispettato. La Jihad Islamica, considerata la seconda milizia più importante della resistenza armata palestinese dopo Hamas, ha affermato di aver messo in allerta ovunque i propri combattenti.

Ameer Makhoul, un importante attivista e scrittore palestinese, dice a MEE: “Nessuno dovrebbe essere sorpreso dall’aggressione israeliana contro Gaza e del fatto che siano stati presi di mira i dirigenti delle brigate di al-Quds e i civili.”

Makhoul ha aggiunto che il massiccio schieramento dell’esercito sul e attorno al confine con Gaza non è stato “un’iniziativa difensiva” o per prevenire la risposta della Jihad Islamica all’arresto di Saadi.

Al contrario, l’arresto è avvenuto come parte della preparazione di una nuova aggressione con obiettivi e strategie, anche se di portata limitata,” ha affermato.

Meron Rapoport, un esperto commentatore israeliano, ha affermato che la tempistica dell’operazione israeliana è stata strana e che Israele ha essenzialmente punito l’organizzazione Jihad Islamica perché non attaccasse come rappresaglia per l’arresto di Saadi, dato che il gruppo armato ha lanciato razzi solo dopo che Israele ha iniziato attacchi aerei contro Gaza.

Israele arresta un importante membro della Jihad Islamica in Cisgiordania, e il gruppo non risponde,” continua Rapoport, in riferimento all’arresto di Bassam al-Saadi all’inizio di questa settimana a Jenin.

Ma poi “Israele ha imposto il coprifuoco a decine di migliaia di abitanti nelle zone adiacenti a Gaza in base al fatto che la Jihad Islamica progettava una risposta, poi uccide importanti membri dell’organizzazione e civili a Gaza, in base al fatto che pianificavano di attaccare Israele. Il risultato, dopo che Israele avrebbe tentato di impedire attacchi della Jihad Islamica, è che ora arrivano razzi, cosa che a quanto pare non sarebbe avvenuta se Israele non avesse attaccato per primo.”

Gli USA difendono Israele, l’ONU sollecita una riduzione della tensione

In risposta al bombardamento di Gaza da parte di Israele gli Stati Uniti hanno detto che il Paese ha il “diritto di difendersi”.

L’attacco giunge poche settimane dopo che il presidente USA Joe Biden ha visitato Israele. Prima del viaggio la sua amministrazione avrebbe chiesto a Israele di rimandare ogni escalation contro i palestinesi “a dopo la visita di Biden” a metà luglio.

La richiesta è stata condannata dagli attivisti palestinesi, che hanno detto a MEE che ciò è “indicativo della vera politica degli Stati Uniti nei confronti di Israele,” in quanto gli USA non si preoccupano di come Israele tratta i palestinesi.

Nel contempo l’ONU ha emanato un comunicato più severo, affermando che non ci sono “giustificazioni” per gli attacchi contro i civili.

Sono profondamente preoccupato dalla continua escalation tra i miliziani palestinesi e Israele, compresa l’odierna uccisione mirata di un dirigente della Jihad Islamica palestinese all’interno di Gaza,” ha affermato venerdì sera in un comunicato Tor Wennesland, il coordinatore speciale dell’ONU per il processo di pace in Medio Oriente.

La continua escalation è molto pericolosa,” ha affermato Wennesland.

Israele impone dal 2007 un durissimo blocco contro la Striscia di Gaza, che secondo le associazioni per i diritti umani rappresenta una punizione collettiva per i due milioni di abitanti dell’enclave. Israele impedisce l’importazione di materiali ed attrezzature a Gaza ed ha imposto rigide restrizioni alle esportazioni, che hanno portato a una condizione di “paralisi” in molti settori dell’economia di Gaza.  

Anche l’Egitto sostiene l’assedio, controllando i movimenti in entrata e in uscita da Gaza sulla propria frontiera.

Secondo il ministero della Sanità di Gaza nel maggio dello scorso anno un attacco militare israeliano contro Gaza ha ucciso più di 260 palestinesi, tra cui 66 minorenni, e sfollato almeno 72.000 persone.

In un rapporto Human Rights Watch [prestigiosa ong per i diritti umani con sede negli USA, ndt.] ha affermato che gli attacchi aerei israeliani del 2021 hanno preso di mira zone nelle cui vicinanze non c’erano prove dell’esistenza di obiettivi militari, il che rappresenta un crimine di guerra.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Le autorità giudiziarie di Israele “consentono l’incitamento” contro i cittadini palestinesi

Redazione di MEE

1 agosto 2022 – Middle East Eye

L’associazione di solidarietà Israel Religious Action Center afferma che la carente applicazione della legge “mette a rischio vite umane”.

Una nuova ricerca dell’Israel Religious Action Center [Centro per l’Azione Religiosa in Israele, organizzazione che promuove diritti, pluralismo politico e religioso e giustizia per tutti in Israele, ndt.] (IRAC) ha scoperto che i cittadini palestinesi di Israele subiscono un numero significativamente maggiore di incriminazioni, condanne e pene per incitamento alla violenza rispetto ai loro connazionali ebrei.

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, il centro con sede a Gerusalemme afferma che la disparità di trattamento è causata da “lungaggini e ritardi” nell’azione penale quando si tratta di incitamento da parte di ebrei, aggiungendo che “i dati mostrano chiaramente una politica di insufficiente applicazione della legge.”

Il rapporto, che riguarda gli anni dal 2014 al 2021, afferma che il 77% del totale delle incriminazioni per incitamento alla violenza e al razzismo è stato presentato contro cittadini palestinesi di Israele, che rappresentano solo il 20% della popolazione del Paese.

Il 51% di queste è stato presentato entro un mese dal presunto reato, mentre il 42% dei rinvii a giudizio contro ebrei israeliani è stato presentato a due anni dai fatti.

Quando si tratta di condanne, solo due casi di denunce contro cittadini palestinesi non sono terminati con una condanna, rispetto a un terzo delle incriminazioni contro ebrei.

La stessa tendenza è evidente anche nelle sentenze.

Circa il 99% dei cittadini palestinesi condannati in base a denunce per incitamento è stato condannato al carcere, mentre circa il 54% degli ebrei non è stato condannato a pene carcerarie.

Inoltre in sette su 13 casi in cui ebrei sono stati condannati al carcere i tribunali hanno sentenziato che il periodo di detenzione poteva essere sostituito da lavoro socialmente utile. Solo a un cittadino palestinese su 69 condannati alla prigione è stato concesso di fare lavoro per la comunità.

Il rapporto, basato su risposte del ministero della Giustizia a richieste sulla base della libertà d’informazione, ha anche evidenziato l’inazione delle autorità giudiziarie riguardo a indagini su figure pubbliche.

L’IRAC sostiene di aver presentato 114 richieste perché personalità famose venissero indagate per incitamento, ma solo otto sono state incriminate nei sette anni analizzati. Di queste sei erano cittadini palestinesi, compresi cinque predicatori imputati per sermoni religiosi.

Violento e incontrollato incitamento di rabbini”

Stilato dagli avvocati Ori Narov e Orly Erez-Likhovski, il rapporto dell’IRAC sostiene che la mancanza di incriminazioni contro rabbini che avrebbero incitato alla violenza, rispetto ai religiosi musulmani, dimostra che nel Paese la legge non viene applicata in modo equo.

Il sistema giudiziario soffre di “un lungo e assordante silenzio riguardo al violento e incontrollato incitamento da parte di rabbini che pretendono di basarsi sulla legge ebraica,” afferma.

Il centro sottolinea di non chiedere minori incriminazioni di palestinesi che facciano “gravi affermazioni che giustificano la presentazione di denunce,” ma piuttosto di fare altrettanto con gli ebrei accusati di fare dichiarazioni simili.

Esso accusa la lacunosa applicazione delle leggi contro l’incitamento da parte dei pubblici ministeri di “(consentire) a molti attivisti provocatori di continuare ad incitare come vogliono senza essere chiamati a risponderne. Questa situazione inquina il dibattito pubblico e mette in pericolo vite umane.”

Una delle due personalità pubbliche ebraiche israeliane incriminata è Bentzi Gopstein, fondatore e leader dell’associazione di estrema destra “Lehava” [nota organizzazione suprematista ebraica, ndt.].

Gopstein è stato accusato di incitamento alla violenza, razzismo e terrorismo nel 2019, nove anni dopo la presentazione delle prime denunce contro di lui. L’accusa nei suoi confronti ha citato varie affermazioni da lui fatte tra il 2012 e il 2017, compresi i suoi riferimenti ai palestinesi come a un “cancro”, e le sue lodi a Baruch Goldstein, un colono americano-israeliano di estrema destra che nel febbraio 1994 uccise 29 fedeli palestinesi nella moschea di Ibrahim a Hebron.

Uno dei casi di maggior rilievo tra i cittadini palestinesi è quello della poetessa Dareen Tatour. La scrittrice, che vive a Nazareth, è stata condannata a cinque mesi di prigione per una poesia da lei postata su Facebook nel 2015 intitolata “Resisti, mio popolo, resisti a loro”, così come per altri post riguardanti la resistenza palestinese.

[Vedi l’articolo di Zeitun ]Il caso di Tatour ha conquistato il sostegno internazionale, molti critici hanno accusato Israele di limitare la libertà di espressione dei palestinesi. PEN International [associazione internazionale di scrittori che promuove gli scambi culturali nel mondo, ndt.], che nel 2019 ha concesso a Tatour il premio Oxfam Novib/PEN International per la libertà di espressione, ha affermato che è “stata condannata per aver fatto quello che gli scrittori fanno quotidianamente: usare le nostre parole per lottare pacificamente contro l’ingiustizia.”

Durante il suo processo oltre 150 personalità letterarie statunitensi, tra cui Alice Walker, Claudia Rankine, Naomi Klein e Jacqueline Woodson, hanno chiesto a Israele di liberare Tatour.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele-Palestina: come la cucina è diventata un obiettivo della conquista coloniale

Joseph Massad

14 luglio 2022 – Middle East Eye

Molti arabi si indignano giustamente per la trasformazione, nei Paesi occidentali, dei piatti tipici palestinesi in cucina “israeliana”

Qualche anno fa mi scandalizzai nel constatare che un elegante bar-ristorante che frequentavo nel quartiere del Greenwich Village a Manhattan proponeva come piatto del giorno un “couscous israeliano”.

Sconcertato, pretesi che cambiassero immediatamente il nome del piatto. Spiegai al gestore che ciò che definivano couscous “israeliano” era in realtà maftoul palestinese, tradizionalmente preparato a mano.

Mi ricordo che nella mia infanzia una vicina e amica di famiglia, Marie Jou’aneh, che ci ha lasciati, stava seduta per ore a fare il tiftil, cioè arrotondare la semola per farne delle palline a forma di perla.

Anche se riferimenti storici indicano che i palestinesi scoprirono il couscous nordafricano nel XVII secolo, forse prima, grazie ai nordafricani arrivati in Palestina con le armate musulmane venute a combattere i crociati e che in seguito si stabilirono a Gerusalemme, la versione moderna del piatto potrebbe essere stata reintrodotta in Palestina e nella Grande Siria [Regione storica del Vicino Oriente, confinante con il mar Mediterraneo a ovest, con il deserto siriano (o arabico) a est, con l’Egitto a sud e con l’Anatolia a nord, ndt.] nella seconda metà del XIX secolo e all’inizio del XX.

Fu a quell’epoca che degli esuli algerini, marocchini, tunisini e libici che fuggivano dal colonialismo francese e italiano vi si stabilirono ed introdussero il couscous nordafricano, i cui grani sono molto più piccoli e che i palestinesi e altri siriani hanno modificato per ottenere il maftoul, dai grani più grandi e a forma di perle.

La grande e ricca famiglia culinaria siriana

Tuttavia in modo arrogante il gestore del ristorante newyorkese affermò di non conoscere l’origine di questo piatto e che esso era noto a New York col nome di couscous “israeliano”. Gli spiegai che questo prodotto veniva venduto a New York anche col nome più “neutro” di “couscous perlato”, cosa che lui avrebbe potuto scegliere come alternativa per non contrariare i clienti.

In modo spiccio il gestore rispose con quella che riteneva essere la risposta più intelligente possibile: il ristorante denominava anche le patatine fritte “fritte francesi”, anche se sono originarie del Belgio.

Andandomene dal locale, replicai che non erano stati i francesi a rubare le patate fritte “belghe”, perché in Francia si chiamano semplicemente “patatine fritte”.

Sono stati invece gli americani a chiamarle a torto patatine “francesi” (la storia reale, o apocrifa, vorrebbe che i soldati americani abbiano scoperto le patate fritte durante la prima guerra mondiale nelle regioni francofone del Belgio, prima di chiamarle a torto “francesi” al loro ritorno in patria.)

Nel caso del maftoul, gli israeliani hanno rubato il piatto palestinese e lo hanno venduto come proprio, esattamente come hanno fatto con la patria palestinese e con altri piatti palestinesi. Inutile precisare che non ho mai più messo piede in quel ristorante.

La cucina palestinese fa parte della grande e ricca famiglia culinaria siriana, che comprende due branche principali: la cucina di Damasco e quella di Aleppo.

La maggior parte dei piatti cucinati nella regione che comprende la Siria, il Libano, la Giordania e la Palestina moderni proviene da queste due tradizioni culinarie, con alcune innovazioni che inseriscono coltivazioni locali di ortaggi, cereali ed erbe.

Mentre il falafel, l’hummus, il taboulé, il maftoul, il mix di spezie zaatar a base di issopo palestinese, l’insalata contadina (fallahi, chiamata negli Stati Uniti insalata “israeliana”), il knafeh nabulsi ed altre specialità sono state riprese, o più esattamente rubate, dai coloni ebrei di Israele per decenni, nella stampa occidentale è nata tutta una gamma di giustificazioni.

Più di recente la shakshuka, una frittata, e il labneh, yoghurt colato, il cui nome è una forma al femminile del termine arabo laban, che significa yoghurt in arabo siriano, sono stati aggiunti al bottino dei piatti rivendicati da Israele.

Un legame con la terra e gli antenati”

Alcuni potrebbero sostenere con disinvoltura che gli ebrei israeliani fanno ormai parte della regione e che quindi hanno il diritto di mettere mano nella sua cucina, anche se la linea ufficiale israeliana evidenzia che il Paese vive “in un contesto difficile” – sostanzialmente il Medio Oriente, senza tuttavia farne parte.

Mentre il famoso storico israeliano Benny Morris sostiene che Israele è “Roma” e che gli arabi sono i “barbari” che la minacciano, l’ex Primo Ministro israeliano Ehud Barak una volta descrisse Israele come una “villa nella giungla”.

L’ex ambasciatore di Israele in Svezia e in Egitto, Zvi Mazel, da parte sua ha affermato: “Israele è un Paese occidentale che, nonostante il comportamento a volte perfido delle società della sua famiglia occidentale, sul piano culturale, concettuale ed economico si colloca ancora in quel contesto.”

L’autrice ebrea britannica di libri di cucina Claudia Roden, nata Douek (la cui famiglia ebrea egiziana è di origine siriana), sottolinea che molti ebrei europei emigrati in Palestina “volevano dimenticare la loro tradizionale cucina perché gli ricordava le persecuzioni.”

Secondo un articolo del New York Times, “tramite la cucina dei loro vicini palestinesi (gli ebrei israeliani) hanno ritrovato un legame con la terra e i loro antenati.”

Il problema è che i palestinesi non sono i vicini degli ebrei israeliani, bensì il popolo che i coloni israeliani hanno conquistato e di cui hanno rubato le terre e la cucina.

Lo chef e autore di libri di cucina israeliano Yotam Ottolenghi ed il suo coautore palestinese, Sami Tamimi, vogliono liberarsi della questione imbarazzante della “proprietà” culinaria e del furto coloniale.

Affermano esplicitamente: “L’hummus, per esempio, argomento altamente esplosivo, è innegabilmente un alimento fondamentale della popolazione palestinese locale, ma era anche una costante sulla tavola da pranzo degli ebrei di Aleppo che hanno vissuto in Siria per millenni e sono poi arrivati a Gerusalemme negli anni 1950-60. Chi merita maggiormente di appropriarsi dell’hummus? Nessuno. Nessuno ‘possiede’ un piatto, perché è molto probabile che qualcun altro lo abbia preparato prima e qualcun altro prima ancora.”

Il problema di questa spiegazione sta nel fatto che gli ebrei di Aleppo non erano i soli a mangiare l’hummus: la maggior parte della popolazione musulmana e cristiana di Aleppo, come anche altri siriani, ne faceva parimenti un alimento di base.

Il problema non è che gli ebrei di Aleppo non ne mangiassero, ma che oggi esso venga identificato come alimento “ebraico” o “israeliano”, attraverso questa argomentazione surrettizia.

Yotam Ottolenghi e Sami Tamimi affermano che i tentativi di rivendicare la cucina e i piatti “sono futili perché ciò non ha veramente importanza.”

Ma per chi questo non ha importanza? Per gli israeliani che vendono una cucina palestinese rubata come se fosse la loro, o per i palestinesi che sono privati della possibilità di rivendicare i propri piatti in un contesto occidentale favorevole a Israele?

Intimidazioni

Il furto della cucina palestinese e siriana da parte degli israeliani è diventato un fenomeno talmente normale, tenendo conto della sua proliferazione nei libri di cucina mediorientale e nei ristoranti “israeliani” in Europa e in Nordamerica, che i palestinesi subiscono intimidazioni se aprono dei ristoranti che identificano la loro cucina come palestinese.

Un grande ristorante palestinese di Brooklyn si è recentemente lamentato delle molestie online da parte di persone che non erano mai venute al ristorante, ma erano spinte da ostilità anti-palestinese.

Il proprietario ha dichiarato in un’intervista che il semplice fatto di qualificare il suo ristorante come “palestinese” lo esponeva a potenziali intimidazioni.

E poi c’è l’affermazione secondo cui gli ebrei originari dei Paesi arabi costituiscono la metà della popolazione di Israele e dunque hanno lo stesso diritto dei palestinesi di rivendicare la cucina regionale.

Ma ciò si basa sulla presunzione razzista secondo cui tutta la regione araba, dal Marocco all’Iraq, passando per lo Yemen, ha un’unica identica cucina. Di fatto la gran maggioranza degli ebrei arabi di Israele sono originari del Marocco, dello Yemen e dell’Iraq, regioni del mondo arabo che hanno una propria cucina regionale.

Esiste un numero esiguo di ebrei siriani e libanesi che vivono in Israele, costituendo “uno dei più piccoli gruppi etnici” del Paese. E anche se la maggioranza degli ebrei israeliani provenisse dalla Grande Siria, come potrebbe questo permettere loro di definire la cucina siriana o palestinese come “ebrea” e tanto meno “israeliana”, senza ricorrere ad un furto coloniale?

Yotam Ottolenghi ringrazia Claudia Roden per aver aperto la strada a chef come lui. Secondo un recente articolo del New York Times dedicato a quest’ultima, lei “descrive la cucina degli ebrei siriani come sofisticata, abbondante, varia – e volutamente complessa e lunga da preparare”, come se gli ebrei siriani avessero una cucina diversa da quella dei cristiani o dei musulmani siriani, cosa non vera.

Se gli ebrei originari della Grande Siria, come i musulmani e i cristiani, hanno assolutamente il diritto di appropriarsi dei piatti siriani a livello della Siria o della regione, non hanno però il diritto di rivendicarli come piatti appartenenti agli ebrei e poi di venderli come tali, mentre questi furti vengono in seguito celebrati dai media europei e americani che parlano di una cucina nazionale “israeliana”.

Israele è diventato parte della regione grazie a una conquista coloniale. La maggior parte degli arabi si indigna giustamente nel vedere le proprie specialità e la propria cucina fare parte integrante degli sforzi di colonizzazione israeliani.

Joseph Massad è docente di storia politica e intellettuale araba moderna alla Columbia University di New York. È autore di diversi libri e articoli, sia accademici che giornalistici. In particolare ha scritto: ‘Colonial effects: the making of national identity in Jordan’, ‘Desiring Arabs’ e, pubblicato in francese, ‘La persistence de la question palestinienne’ (La Fabrique, 2009). Più di recente ha pubblicato ‘Islam in Liberalism’. I suoi libri e articoli sono stati tradotti in una decina di lingue.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono solo all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Dopo la morte di una anziana detenuta i palestinesi accusano il carcere israeliano di non averla curata

Redazione di MEE

2 luglio 2022 – Middle East Eye

Saadia Farajallah, la più anziana detenuta palestinese, è morta sei mesi dopo essere stata aggredita da forze israeliane durante l’arresto

L’Associazione dei Detenuti Palestinesi ha informato che sabato [2 luglio], sei mesi dopo essere stata picchiata ed arrestata da forze israeliane nei pressi di un posto di controllo dell’esercito a Hebron, in un carcere israeliano è morta una sessantottenne palestinese.

L’Associazione dei Prigionieri ha accusato le autorità del carcere di Damon di non averle prestato le cure necessarie, in quanto a causa di molteplici patologie croniche, tra cui la pressione alta e il diabete, negli ultimi tempi la salute di Saadia Farajallah era peggiorata.

Afferma che le forze israeliane hanno brutalmente aggredito Farajallah quando il 18 dicembre 2021 l’hanno arrestata nella città vecchia di Hebron perché secondo loro avrebbe tentato un accoltellamento, e ciò ha peggiorato le sue già precarie condizioni di salute.

Il responsabile della Commissione dei Prigionieri ed Ex-Prigionieri, Ibrahim Najajra, ha smentito le affermazioni israeliana riguardo all’incidente, sostenendo che le condizioni di Farajallah le avrebbero impedito qualsiasi sforzo, tanto meno di tentare un’aggressione.

“Al momento la causa della sua morte non è chiara, ma le prime informazioni indicano che ha avuto un infarto ed è morta nella prigione di Damon,” dice Najajra a Middle East Eye.

“Il decesso di Saadia è una conseguenza della mancanza di cure mediche, (le autorità israeliane) non le hanno fornito assistenza adeguata, e della lunga detenzione in condizioni insalubri.”

La morte di Farajallah, la detenuta palestinese più anziana, porta a 230 il totale dei palestinesi deceduti nelle prigioni israeliane dal 1967.

Najajra ha sostenuto che il tribunale israeliano ha ripetutamente respinto le richieste degli avvocati di rilasciare Farajallah, a cui durante la detenzione sono state negate le visite dei familiari.

L’Associazione dei Detenuti Palestinesi ha affermato che Farajallah ha perso conoscenza dopo aver fatto le abluzioni per la preghiera del mattino. Le compagne di detenzione l’hanno subito portata all’ambulatorio della prigione, dove è deceduta.

L’Associazione dei Detenuti afferma che il 28 giugno Farajallah aveva assistito a un’udienza in tribunale su una sedia a rotelle, e in quell’occasione il pubblico ministero aveva chiesto una condanna a cinque anni di prigione e al pagamento di un’ammenda di 15.000 shekel (circa 4.000 €). In seguito a esami medici che avevano evidenziato il peggioramento del suo stato di salute la sua avvocatessa aveva chiesto che le autorità carcerarie la facessero visitare da uno specialista.

Najajra afferma che la commissione dei detenuti cercherà di avviare un’indagine per scoprire la causa della morte di Farajallah e le circostanze che l’hanno determinata.

Secondo l’associazione palestinese per i diritti dei detenuti Addameer nelle prigioni israeliane ci sono 4.700 palestinesi, tra cui 32 donne e 170 minorenni.

Circa 640 di questi si trovano in “detenzione amministrativa”, un controverso provvedimento che Israele adotta per tenere in carcere [palestinesi] senza accuse o processo per periodi rinnovabili da tre fino a sei mesi.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)