I vigneti israeliani vogliono partecipare alla crescita mondiale del vino delle colonie

Joseph Massad

sabato 5 dicembre 2020 – Middle East Eye

Israele ambisce a creare una nicchia commerciale per i suoi vini prodotti su terreni palestinesi e siriani rubati

Dagli anni ’90 uno degli aspetti più significativi della nuova cultura mondiale del vino è che non si limita ai Paesi produttori di vino europei.

Accanto alla Francia e, in misura minore, all’Italia, che in precedenza dominavano il settore, i nuovi produttori di vino sul mercato provengono da ex-colonie europee: Australia, Nuova Zelanda, California, Sudafrica, Argentina, Cile. I loro vini sono largamente commercializzati a livello internazionale.

Le colonie israeliane cercano di penetrare in questo mercato, peraltro senza successo a causa della scarsissima competitività dei loro vini sul piano qualitativo, salvo forse in luoghi limitati di alcune città americane ed europee e in alcune zone degli Emirati Arabi Uniti.

Recenti ricerche che valutano la produzione del vino in diverse regioni del mondo non citano neppure Israele come candidato degno di questo nome.

Le origini colonialiste di questi vini sono una semplice coincidenza o la produzione del vino è stata fondata sul furto di terre indigene?

Un importante episodio della storia della produzione vitivinicola europea è stato il disastro avvenuto verso la fine del XIX secolo a causa di una invasione di fillossera, un insetto che si nutre delle viti. La fillossera ha rischiato di distruggere l’industria vinicola francese, con una produzione scesa di circa il 75% tra il 1875 e il 1889.

Era l’epoca dell’apogeo del colonialismo francese, in particolare in Algeria, che a partire dagli anni ‘70 dell’‘800 vide dilagare una nuova ondata di coloni. La maggior parte dei nuovi coloni erano agricoltori del Sud della Francia che cercavano di sfuggire alla povertà dopo la distruzione dei vigneti della Linguadoca e della Provenza da parte della fillossera.

Con la concessione di crediti da parte dello Stato e prestiti bancari ai coloni bianchi, i vigneti cominciarono a ricoprire la regione dell’Atlante telliano [catena montuosa settentrionale del Maghreb, ndtr.] in Algeria, dove si costituì e prosperò un’industria vitivinicola redditizia fino all’indipendenza dell’Algeria.

Le olive e l’uva

I contadini algerini spogliati delle loro terre svolgevano la maggior parte dei lavori agricoli. La resistenza anticolonialista algerina si manifestò con attacchi periodici contro le colonie agricole.

Come illustra l’esempio algerino, le misure giuridiche colonialiste che consentivano di privatizzare le terre conquistate sono sempre state determinanti per l’espansione della colonizzazione.

Nella vicina Tunisia, un’altra colonia francese, i francesi usurparono più di un quarto di milione di ettari tra il 1892 e il 1914.

L’agricoltura colonialista si è specializzata nelle olive e nell’uva per la produzione di olio e di vino. Con la colonizzazione ufficiale sostenuta dallo Stato, i francesi hanno cacciato i contadini tunisini dalle terre su cui lavoravano da sempre ma per le quali non avevano un titolo di proprietà.

La stessa sorte è stata riservata ai pascoli, che persero a favore dei coloni. I tunisini espulsi e in preda alla miseria attaccarono le aziende agricole coloniali.

Nel 1858 gli Ottomani emisero un codice agrario che privatizzò le terre in Palestina: esse cominciarono ad essere acquistate dai mercanti della Palestina e di altre zone. Proprietari assenteisti acquistarono enormi estensioni di terreno e ne vendettero alcuni a degli agenti locali di organizzazioni filantropiche ebraiche con sede in Francia, che finanziavano a loro volta delle colonie agricole.

Allo stesso tempo i vigneti francesi del barone Edmond de Rothschild, un importante produttore di vino francese, furono devastate dalla fillossera. Il barone cominciò a concedere dei fondi ai coloni ebrei russi perché coltivassero delle vigne e nel 1883 finanziò le colonie di Petah Tikva e di Rishon LeZion, dove intendeva impiantare dei vigneti e una tenuta vitivinicola.

Nel 1882 i coloni russi crearono sulle terre perse dal villaggio di Uyun Qarah la prima azienda vinicola di Rothschild a Rishon LeZion, poi poco più tardi nella colonia di Zikhron Yaakov, costruita su terre del villaggio palestinese di Zamarin.

Rothschild “seguì il modello della colonizzazione agricola francese in Algeria e in Tunisia” inviando degli esperti agricoli e orticoli formati in Algeria e in Francia. Proprio come i contadini tunisini ed algerini, quelli palestinesi vennero espulsi dalle terre dove avevano vissuto e lavorato da secoli.

Il primo grande atto di resistenza contadina contro le colonie ebraiche avvenne nel 1886, quando dei contadini attaccarono la colonia ebraica di Petah Tikva finanziata da Rothschild.

Alla colonia erano state vendute delle terre dei contadini confiscate da usurai di Giaffa e dalle autorità a causa dell’indebitamento dei contadini.

Tuttavia una grande quantità di terre vendute alla colonia non era stata confiscata e in realtà apparteneva ai contadini.

Le azioni di resistenza si moltiplicarono quando i coloni ampliarono le loro attività agricole, in quanto i contadini si resero conto di tutte le terre che gli erano state rubate.

Alla fine del XIX secolo la resistenza era tale che non c’era nessuna colonia ebraica “che prima o poi non fosse entrata in conflitto” con i palestinesi.

Vini provenienti dalle colonie

Circa un secolo dopo, nel 1967, Israele invase e occupò le Alture del Golan siriano, espellendo 100.000 siriani. In spregio al diritto internazionale, i coloni ebrei arrivarono in massa e nel 1981 Israele annesse il territorio.

Oggi circa 22.000 coloni ebrei vivono nelle 33 colonie sulle Alture del Golan. Alcune di esse hanno piantato viti e cominciato a produrre vino. Nel 1984 l’azienda vinicola delle Alture del Golan ha prodotto la sua prima annata. Tra gli altri produttori di vino figurano le colonie ebraiche costruite su terre confiscate a Gerusalemme est occupata e in Cisgiordania, come la colonia di Rehelim, nel nord della Cisgiordania. Ciò ha provocato dei problemi agli esportatori di vino israeliani e messo in difficoltà gli importatori europei.

Nel 2015 l’Unione Europea (UE), primo partner commerciale di Israele, ha deciso di identificare i vini provenienti dalle colonie ebraiche nella Cisgiordania occupata, di Gerusalemme est e delle Alture del Golan come provenienti dalle “colonie israeliane”. Questa decisione è stata ratificata nel 2019 da una sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Questa decisione è stata presa dopo un’azione legale intentata dall’azienda agricola di Psagot, un’impresa fondata nella colonia ebraica di Pisgat Ze’ev a Gerusalemme est occupata, perché venissero rimosse le etichette di questo tipo.

I vigneti di Psagot sono situati sulle terre nella Cisgiordania occupata. La sua azione legale ha avuto un effetto controproducente: la decisione della Corte di Giustizia della UE ha fatto seguito a un’altra decisione presa nel 2019 da parte della Corte Federale del Canada, che ha rifiutato di autorizzare l’etichetta “Made in Israel” per il vino proveniente dalle colonie ebraiche.

Nel suo parere consultivo un alto responsabile della Corte di Giustizia dell’UE aveva già paragonato il vino israeliano prodotto nelle colonie alle merci proveniente dal Sudafrica all’epoca dell’apartheid.

Un apartheid di altro genere

Più di tre secoli fa dei coloni ugonotti [denominazione dei calvinisti in Francia, ndtr.] olandesi e francesi avviarono su terre indigene conquistate l’industria vitivinicola sudafricana. Gran parte della manodopera agricola delle vigne sudafricane era fornita dalla popolazione “di colore” pagata con vino attraverso il “dop system” [sistema per creare dipendenza da alcool, ndtr.], una forma ufficiosa di schiavismo che ha determinato un diffusissimo alcoolismo.

Negli anni ’90, dopo la fine dell’apartheid, che ha coinciso con l’era del neoliberismo, i vini sudafricani che appartenevano ancora a coloni bianchi hanno iniziato ad essere commercializzati all’estero.

Nonostante sia illegale, il “dop system” in Sudafrica continua ad esistere: secondo alcune stime, nel 2015 rappresentava tra il 2% e il 20% dei salari nella [provincia del] Capo Occidentale.

Insistendo sul fatto che, contrariamente all’apartheid sudafricano, il suo tipo di apartheid è più che accettabile agli occhi dei regimi arabi, in particolare del Golfo, con cui recentemente ha stretto rapporti, Israele ambisce a creare una nicchia commerciale per i suoi vini di scarsa qualità prodotti su terre palestinesi e siriane rubate.

Benché gli Emirati Arabi Uniti riconoscano le Alture del Golan come territorio siriano occupato e Gerusalemme est e la Cisgiordania come territori palestinesi occupati, la commercializzazione da parte di Israele di vini “Made in Israel” negli Emirati contribuisce a rafforzare il riconoscimento dell’annessione di questi territori, ottenuto dall’amministrazione Trump negli ultimi anni.

Resta tuttavia da sapere se il governo emiratino o i suoi tribunali insisteranno affinché l’etichettatura specifichi se i vini sono stati prodotti nelle colonie israeliane illegali o sarà consentito di etichettarli “Made in Israel”.

– Joseph Massad è professore di storia politica ed intellettuale araba moderna alla Columbia University di New York. È autore di numerosi libri ed articoli, sia accademici che giornalistici. Tra le sue opere figurano “Colonial Effects: The Making of National Identity in Jordan” [Effetti coloniali: la creazione dell’identità nazionale in Giordania], “Desiring Arabs” [Arabi Desideranti] e, pubblicato in francese, “La persistance de la question palestinienne” [La persistenza della questione palestinese] (La Fabrique, 2009). Più di recente ha pubblicato “Islam in Liberalism” [L’Islam nel liberismo]. I suoi libri ed articoli sono stati pubblicati in una decina di lingue.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Le forze israeliane colpiscono a morte un bambino palestinese durante le proteste del suo villaggio

Redazione di MEE

4 Dicembre 2020 – Middle East Eye

Ali Abu Aalya soccombe alle ferite dopo essere stato colpito al ventre dalle forze israeliane vicino a Ramallah, nella Cisgiordania occupata

Il ministero della Sanità locale ha detto che venerdì sera vicino alla città occupata di Ramallah, in Cisgiordania, forze israeliane hanno colpito a morte un minore palestinese.

Il ministero ha affermato che il ragazzino è stato identificato come Ali Abu Aalya, di età compresa tra i 13 e i 15 anni. È stato ucciso durante gli scontri scoppiati tra gli abitanti palestinesi e i soldati israeliani nel villaggio di al-Mughayir, a nord-est di Ramallah.

La Croce Rossa Palestinese [sic] ha detto al giornale israeliano Haaretz che le forze israeliane hanno sparato ad Abu Aalya al ventre. È stato poi portato di corsa in un ospedale locale, dove è decceduto a causa delle ferite.

Gli scontri sono scoppiati nel villaggio venerdì, dopo che le forze israeliane hanno risposto a una protesta degli abitanti locali contro un nuovo avamposto coloniale nella zona. Haaretz ha riferito che la manifestazione ha avuto luogo “lontano dall’avamposto”.

Venerdì l’Unicef, l’agenzia dell’Onu che si occupa del benessere dei bambini, ha denunciato l’uccisione di Abu Aalya. “L’Unicef esorta le autorità israeliane a rispettare, proteggere e garantire i diritti di tutti i minori e ad astenersi dall’usare la violenza contro i minorenni, in conformità con il diritto internazionale”, ha affermato Ted Chaiban, direttore regionale dell’agenzia per il Medio Oriente e il Nord Africa in un comunicato.

Le comunità palestinesi spesso usano il venerdì dopo le preghiere di mezzogiorno come momento per protestare, tra i vari problemi, contro le politiche israeliane di confisca delle terre, i blocchi stradali e l’espansione delle colonie.

Le associazioni per i diritti umani, tra cui Human Rights Watch e Amnesty International, hanno condannato la risposta di Israele a tali proteste, che spesso comportano la perdita di vite umane, accusando l’esercito di attuare una politica di “sparare per uccidere” che incoraggia le “esecuzioni extragiudiziali”.

A causa della pandemia da Covid-19, quest’anno le proteste sono state meno frequenti nella Cisgiordania occupata. Tuttavia secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari dall’inizio del 2020 negli scontri sono stati uccisi, per lo più da colpi d’arma da fuoco israeliani, almeno 28 palestinesi, tra cui sette minorenni.

Nel frattempo, con l’incoraggiamento dell’amministrazione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, il governo israeliano ha intensificato l’espansione delle colonie. Benché i piani di annessione totale della Cisgiordania occupata siano stati sospesi dopo il raggiungimento degli accordi di normalizzazione con il Bahrein e gli Emirati Arabi Uniti, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha sottolineato che la sospensione è temporanea.

(traduzione dall’inglese di Carlo Tagliacozzo)




Israele procede con una nuova colonia a Gerusalemme prima della presidenza Biden

15 novembre 2020 MiddleEastEye and agencies

Voci critiche segnalano che le autorità stanno deliberatamente pubblicando bandi per costruire a Givat Hamatos prima che Trump lasci la Casa Bianca

Israele è andato avanti con il progetto di costruzione di una nuova colonia nella Gerusalemme est occupata, ha affermato domenica un gruppo di monitoraggio, avvertendo che questi sforzi sono stati incrementati prima che il presidente Donald Trump lasci la Casa Bianca a gennaio. 

L’amministrazione Trump ha infranto una prassi decennale bipartisan non opponendosi all’attività coloniale israeliana a Gerusalemme est e nella Cisgiordania occupate. Il presidente eletto Joe Biden ha affermato che la sua amministrazione ripristinerà la politica USA di opposizione alle colonie, che sono illegali in base al diritto internazionale e che molti governi considerano un ostacolo alla pace.

Nel dicembre 2017 l’amministrazione Trump ha rotto con la comunità internazionale ed ha riconosciuto l’intera città di Gerusalemme come capitale di Israele. Nel novembre 2019 ha affermato che non avrebbe più considerato le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata come una violazione del diritto internazionale, ancora una volta andando contro l’ampio consenso diplomatico. 

L’attuale Segretario di Stato Mike Pompeo visiterà nei prossimi giorni una colonia israeliana illegale nella Cisgiordania palestinese e sulle Alture del Golan siriane, compiendo la prima visita di un segretario di Stato USA nelle zone occupate palestinesi e siriane. In particolare si recherà a Psagot Winery, che a febbraio ha intitolato un vino in suo onore.

L’ultima iniziativa ha visto l’Autorità Israeliana per la Terra emettere bandi di costruzione a Givat Hamatos, un’area attualmente disabitata di Gerusalemme est, vicina al quartiere a maggioranza palestinese di Beit Safafa.

A febbraio il Primo Ministro israeliano di destra Benjamin Netanyahu ha annunciato l’approvazione di 3.000 abitazioni nell’area.

Ha detto che 2.000 sarebbero state destinate ad ebrei e 1.000 a residenti palestinesi di Beit Safafa.

La settimana scorsa l’Autorità (israeliana) per la Terra ha emesso bandi per la costruzione di oltre 1,200 unità per la maggior parte residenziali a Givat Hamatos.

Ir Amim, un’organizzazione israeliana della società civile che monitora le colonie a Gerusalemme e che domenica ha richiamato l’attenzione sui bandi ha avvertito che i prossimi due mesi che precedono il cambio a Washington DC “saranno un periodo critico”.

Pensiamo che Israele cercherà di sfruttare questo tempo per portare avanti dei passi che l’amministrazione entrante potrebbe ostacolare”, ha affermato in una dichiarazione, sottolineando che la scadenza del bando sarà il 18 gennaio 2021, due giorni prima dell’insediamento di Biden.

Ir Amim ha ribadito la preoccupazione che la costruzione di una colonia a Givat Hamatos sarebbe un colpo devastante ad una possibile risoluzione dell’occupazione israeliana delle terre palestinesi, in quanto isolerebbe Gerusalemme est dalla città cisgiordana di Betlemme, interrompendo la continuità territoriale di un futuro Stato palestinese con Gerusalemme est come capitale nel contesto di una soluzione di due Stati.

Se realizzata, Givat Hamatos diventerebbe la prima nuova colonia a Gerusalemme est in 20 anni”, ha detto l’organizzazione in una dichiarazione.

Nabil Abu Rudeina, un portavoce del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) Mahmoud Abbas, ha detto che i bandi per Givat Hamatos rappresentano un tentativo di Israele “di uccidere la soluzione di due Stati sostenuta a livello internazionale”.

I critici della soluzione dei due Stati sostengono che non sia più percorribile a causa della continua colonizzazione israeliana, che vede circa 400.000 coloni che vivono in Cisgiordania sotto la legge israeliana che utilizza sistemi educativi e di trasporto separati, in ciò che esperti giuridici sostengono configuri una politica di apartheid.

I bandi per Gerusalemme est fanno seguito all’approvazione, la settimana scorsa, di 96 nuove abitazioni per coloni a Gerusalemme est nel quartiere di Ramat Shlomo.

L’approvazione di costruzioni di colonie a Ramat Shlomo nel 2010 aveva provocato un grave contrasto tra Netanyahu e l’ex presidente USA Barack Obama e l’allora vicepresidente Biden.

Israele ha preso il controllo di Gerusalemme est nel corso della guerra dei sei giorni del 1967, prima di annetterla con una mossa non riconosciuta dalla maggior parte della comunità internazionale.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Cancellando i palestinesi, le reti sociali diffondono un segnale inquietante per il nostro avvenire

Jonathan Cook

sabato 7 novembre 2020 – Middle East Eye

Facebook, Google e Twitter non sono piattaforme neutrali. Controllano lo spazio pubblico informatico per aiutare i potenti e possono cancellare da un giorno all’altro chiunque di noi

Si può percepire un crescente malessere nei confronti dell’impatto nefasto che possono avere sulle nostre vite le decisioni prese dalle imprese che guidano le reti sociali. Benché godano di un monopolio effettivo sullo spazio pubblico virtuale, queste piattaforme sfuggono da molto tempo ad ogni serio controllo e ad ogni responsabilità.

In un nuovo documentario Netflix, The Social Dilemma [Il dilemma del social], ex-dirigenti della Silicon Valley mettono in guardia contro un avvenire distopico. Google, Facebook e Twitter hanno raccolto una grande quantità di dati che ci riguardano per prevedere e manipolare meglio i nostri desideri. I loro prodotti riformulano progressivamente le connessioni dei nostri cervelli per renderci dipendenti dagli schermi e più docili alle pubblicità. Poiché siamo chiusi dentro camere digitali di risonanza ideologica, ne conseguono una polarizzazione e una confusione sociale e politica sempre maggiori.

Come a sottolineare la presa sempre più forte che queste società tecnologiche esercitano sulle nostre vite, il mese scorso Facebook e Twitter hanno deciso di interferire apertamente sulle elezioni presidenziali americane più esplosive a memoria d’uomo censurando un articolo che avrebbe potuto nuocere alle prospettive elettorali di Joe Biden, lo sfidante democratico del presidente uscente Donald Trump.

Dato che quasi la metà degli americani si informa principalmente su Facebook, le conseguenze di una simile decisione sulla nostra vita politica non sono difficili da interpretare. Scartando ogni dibattito sulle presunte pratiche di corruzione e traffico di influenze da parte del figlio di Joe Biden, Hunter, in nome di suo padre, queste reti sociali hanno giocato un ruolo di arbitro autoritario decidendo quello che siamo autorizzati a dire e a sapere.

Il “guardiano di un monopolio” 

Il pubblico occidentale si sveglia molto in ritardo di fronte al potere antidemocratico che le reti sociali esercitano su di lui. Ma se vogliamo capire dove alla fine questo ci porta, non c’è uno studio di caso migliore del trattamento molto differenziato riservato dai giganti tecnologici agli israeliani e ai palestinesi.

Il modo in cui i palestinesi sono in rete serve da avvertimento, perché sarebbe in effetti insensato considerare queste imprese mondiali come piattaforme politicamente neutrali e le loro decisioni come puramente commerciali. Sarebbe come interpretare il loro ruolo in modo doppiamente sbagliato.

Di fatto le compagnie che guidano le reti sociali sono oggi delle reti di comunicazione monopolistiche, alla stregua delle reti elettriche, idriche o telefoniche di una ventina di anni fa. Le loro decisioni non sono quindi più delle questioni private, ma hanno enormi conseguenze sociali, economiche e politiche. È in parte la ragione per la quale il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha recentemente avviato un’azione legale contro Google, accusandolo di essere il “guardiano di un monopolio su internet”.

Google, Facebook e Twitter non hanno più diritto di decidere arbitrariamente le persone e i contenuti che ospitano sui loro siti di quanto una volta le imprese di telecomunicazioni avessero il diritto di decidere se un cliente doveva essere autorizzato a disporre di una linea telefonica.

Tuttavia, contrariamente alle compagnie telefoniche, le società alla testa delle reti sociali controllano non solo i mezzi di comunicazione, ma anche il loro contenuto. Come dimostra l’esempio dell’articolo su Hunter Biden, possono decidere se i loro clienti possono partecipare a delle discussioni pubbliche fondamentali su quelli che li governano.

Agendo in questo modo nei confronti di Hunter Biden, è come se un’azienda telefonica di una volta non solo ascoltasse le conversazioni, ma potesse anche interromperle se non le piacesse la posizione politica di un determinato cliente.

In realtà è persino peggio. Le reti sociali informano ormai gran parte della popolazione. La censura di un articolo da parte loro è simile piuttosto all’azione di una compagnia elettrica che tolga la corrente a tutti durante una trasmissione televisiva per essere sicura che nessuno la veda.

Una censura occulta

I giganti della tecnologia sono le imprese più ricche e potenti nella storia dell’umanità, la loro ricchezza si misura in centinaia, ormai migliaia, di miliardi di dollari. Ma l’argomento secondo cui sono apolitiche e hanno come solo scopo massimizzare i profitti non ha mai retto.

Hanno tutto l’interesse a promuovere responsabili politici che si schierino dalla loro parte impegnandosi a non infrangere il loro monopolio né a regolamentare le loro attività, o, meglio ancora, promettendo di indebolire gli strumenti che potrebbero impedire loro di diventare ancora più ricche e potenti.

Al contrario, i giganti della tecnologia hanno anche tutto l’interesse ad utilizzare lo spazio informatico per penalizzare e marginalizzare gli attivisti politici che rivendicano una maggiore regolamentazione delle loro attività o del mercato in generale.

A prescindere dalla spudorata eliminazione dell’articolo su Hunter Biden, che ha suscitato la collera dell’amministrazione Trump, le società alla testa delle reti sociali censurano più spesso in modo occulto. Questo potere è esercitato per mezzo di algoritmi, questi codici segreti che decidono se qualcosa o qualcuno compare nei risultati di una ricerca o sulle reti sociali. Se lo desiderano, questi titani tecnologici possono cancellare chiunque di noi da un giorno all’altro.

Non è solo paranoia politica. L’impatto sproporzionato dei cambiamenti di algoritmo sui siti “di sinistra” sul web, i più critici verso il sistema neoliberale che ha arricchito le imprese che guidano le reti sociali, è stato recentemente sottolineato dal Wall Street Journal [quotidiano USA più venduto e che si occupa principalmente di economia, ndtr.].

Il tipo sbagliato di discorso

I responsabili politici capiscono sempre di più il potere delle reti sociali, ragione per cui possono sfruttarlo al meglio per i propri fini. Dopo lo choc della vittoria elettorale di Trump alla fine del 2016, negli Stati Uniti e nel Regno Unito i dirigenti di Facebook, Google e Twitter sono stati regolarmente portati davanti a commissioni parlamentari di sorveglianza.

Queste reti sociali si vedono regolarmente rimproverare dai responsabili politici di essere all’origine di una crisi di “notizie false”, una crisi in realtà molto precedente alle reti sociali, come testimonia anche troppo chiaramente la truffa da parte dei responsabili politici americani e britannici che ha messo Saddam Hussein in relazione con l’11 settembre ed affermato che l’Iraq possedeva “armi di distruzione di massa”.

I responsabili politici hanno allo stesso modo cominciato ad accusare le società di internet di “ingerenza straniera” nelle elezioni in Occidente, rimproveri in genere rivolti alla Russia, nonostante la mancanza di prove serie che confermino la maggior parte delle loro affermazioni.

Pressioni politiche vengono esercitate non per rendere le imprese più trasparenti e responsabili, ma per spingerle ad applicare in modo ancora più assiduo restrizioni contro i discorsi sbagliati, che si tratti di razzisti violenti a destra o di detrattori del capitalismo e delle politiche dei governi occidentali a sinistra.

È per questo che diventa sempre più vuota l’immagine originale delle reti sociali come luoghi neutrali di condivisione delle informazioni, come strumenti che permettono di diffondere il dibattito pubblico e incrementare l’impegno civico, o ancora di sviluppare un discorso orizzontale tra ricchi e potenti da una parte e deboli ed emarginati dall’altra.

Diritti informatici differenti

È in Israele che i rapporti tra il settore delle tecnologie e i responsabili statali sono più evidenti. Ciò ha determinato una notevole differenza nel trattamento riservato ai diritti informatici degli israeliani e dei palestinesi. La sorte dei palestinesi in rete lascia presagire un futuro in cui quelli che sono già potenti eserciteranno un controllo sempre maggiore su ciò che dobbiamo sapere e siamo autorizzati a pensare, su chi può continuare ad essere visibile e chi deve essere cancellato dalla vita pubblica.

Israele era già in buona posizione nell’utilizzo delle reti sociali prima che la maggioranza degli altri Stati avesse riconosciuto la loro importanza in materia di manipolazione degli atteggiamenti e delle percezioni della gente. Per decenni Israele ha subappaltato un programma ufficiale di hasbara, o propaganda di Stato, ai propri cittadini e ai propri sostenitori all’estero. Con l’apparizione di nuove piattaforme informatiche, questi sostenitori non vedevano l’ora di espandere il proprio ruolo.

Israele ne poteva trarre un altro beneficio. Dopo l’occupazione della Cisgiordania, di Gerusalemme e di Gaza nel 1967, ha iniziato ad elaborare un discorso sulla vittimizzazione dello Stato, ridefinendo l’antisemitismo per far intendere che ormai questo male affliggesse in particolare la sinistra, e non la destra. Questo “nuovo antisemitismo” non prendeva di mira gli ebrei ma riguardava piuttosto le critiche nei confronti di Israele e il sostegno a favore dei diritti dei palestinesi.

Questo discorso molto discutibile si è dimostrato facile da sintetizzare in piccole frasi adatte alle reti sociali.

Israele definisce ancora correntemente “terrorismo” qualunque resistenza palestinese alla sua violenta occupazione o alle sue colonie illegali, descrivendo le dimostrazioni di sostegno da parte di altri palestinesi come “incitamento all’odio”. La solidarietà internazionale nei confronti dei palestinesi è definita “delegittimazione” ed equiparata all’antisemitismo.

Inondare internet”

Già nel 2008 si è scoperto che una lobby mediatica filo-israeliana, Camera, architettava iniziative segrete da parte di sostenitori di Israele per infiltrarsi nell’enciclopedia in rete Wikipedia per modificare delle voci e “riscrivere la storia” da un punto di vista favorevole a Israele. Poco dopo l’uomo politico Naftali Bennett [estrema destra dei coloni, ndtr.] ha contribuito a organizzare corsi di “revisione sionista” di Wikipedia.

Nel 2011 l’esercito israeliano ha dichiarato che le reti sociali costituiscono un nuovo “campo di battaglia” e ha incaricato dei “cyber-guerrieri” di condurre la battaglia in rete. Nel 2015 il ministero degli Affari Esteri israeliano ha organizzato un centro di comando supplementare per reclutare giovani ex-soldati ed esperti tecnologici all’interno dell’Unità 8200, unità di sorveglianza informatica dell’esercito, per condurre la battaglia in rete. Molti di loro hanno in seguito creato imprese di tecnologia avanzata, per cui informatici dello spionaggio hanno fatto parte integrante del funzionamento delle reti sociali.

Act.IL, un’applicazione lanciata nel 2017, ha permesso di mobilitare i sostenitori di Israele perché si “annidassero” in siti che ospitavano critiche verso Israele o sostegno per i palestinesi. Sostenuta dal ministero degli Affari Strategici di Israele, questa iniziativa era diretta da veterani dei servizi di informazione israeliani.

Secondo Forward, rivista ebrea americana, i servizi di informazione israeliani sono in stretto rapporto con Act.IL e chiedono aiuto per ottenere che le reti sociali ritirino alcuni contenuti, in particolare dei video. “Il suo lavoro offre finora un quadro impressionante del modo in cui potrebbero plasmare delle conversazioni in rete riguardo ad Israele senza mai farsi vedere”, ha osservato Forward poco tempo dopo l’implementazione dell’applicazione. Sima Vaknin-Gil, un’ex- censore dell’esercito israeliano che all’epoca era di stanza al ministero degli Affari Strategici di Israele, ha dichiarato che l’obiettivo era di “creare una comunità di combattenti” la cui missione consisteva nell’ “inondare internet” di propaganda israeliana.

Alleati volenterosi

Grazie a vantaggi in termini di effettivi e di zelo ideologico, di esperienza tecnologica e di propaganda, di influenze nelle alte sfere a Washington e nella Silicon Valley, Israele ha rapidamente potuto trasformare le reti sociali in alleati volonterosi nella sua lotta per emarginare i palestinesi in rete.

Nel 2016 il ministero della Giustizia israeliano si vantava che Facebook, Google e YouTube “si adeguano per il 95% alle richieste israeliane di eliminazione di contenuti,” questi ultimi provenienti quasi tutti da palestinesi. Le società che dirigono le reti sociali non hanno confermato questo dato.

L’Anti-Difamation League, un’associazione della lobby filo-israeliana che è solita calunniare le organizzazioni palestinesi e i gruppi ebraici critici con Israele, nel 2017 ha creato un “centro di comando” nella Silicon Valley per sorvegliare quelli che definisce “discorsi di odio in rete”. Lo stesso anno la lobby è diventata un “Trusted Flagger ” [lett. fidato segnalatore, persona o ente di cui una rete sociale accoglie le indicazioni, ndtr.] per YouTube, cosa che significa che le sue segnalazioni su contenuti da ritirare sono diventate prioritarie.

Durante una conferenza organizzata a Ramallah nel 2018 da 7amleh, un gruppo palestinese di difesa dei diritti in rete, i rappresentanti locali di Google e Facebook non hanno affatto nascosto le rispettive priorità. Per loro era importante evitare di contrariare i governi che hanno il potere di limitare le loro attività commerciali, anche se questi governi si dedicano a sistematiche violazioni del diritto internazionale e dei diritti dell’uomo. In questa battaglia l’Autorità Nazionale Palestinese non ha alcun peso. Israele ha messo le mani sulle infrastrutture della comunicazione e internet dei palestinesi, ne controlla l’economia e le principali risorse.

Dal 2016 il ministero della Giustizia israeliano avrebbe eliminato decine di migliaia di post da parte di palestinesi. Attraverso un processo assolutamente oscuro, Israele individua con i propri algoritmi i contenuti che ritiene “estremisti” e poi ne chiede la cancellazione. Centinaia di palestinesi sono stati arrestati da Israele dopo che avevano pubblicato commenti sulle reti sociali, con la conseguenza di limitare l’attività in rete.

Alla fine dello scorso anno Human Rights Watch [nota Ong britannica che si occupa di diritti umani, ndtr.] ha informato che Israele e Facebook spesso non fanno alcuna differenza tra critiche legittime a Israele e istigazione all’odio. Al contrario, mentre Israele svolta sempre più a destra, il governo Netanyahu e le reti sociali non hanno bloccato l’ondata di messaggi in ebraico che incitano all’odio e alla violenza contro i palestinesi. Come ha rilevato 7anleh, contenuti razzisti o che incitano alla violenza contro i palestinesi sono pubblicati da israeliani quasi ogni minuto.

Account di agenzie di stampa chiusi

Oltre a cancellare decine di migliaia di post di palestinesi, Israele ha convinto Facebook a ritirare gli account delle agenzie di stampa e di giornalisti palestinesi di spicco.

Nel 2018 l’opinione pubblica palestinese si è talmente indignata che, con l’hashtag #FBcensorsPalestine, è stata lanciata una campagna di proteste in rete e di appelli al boicottaggio di Facebook.

Nello stesso modo negli Stati Uniti e in Europa è stato preso di mira l’attivismo solidale con i palestinesi. Le pubblicità di film, come i film stessi, sono stati ritirati ed eliminati dai siti web.

In settembre Zoom, un sito di videoconferenze che ha conosciuto un boom durante la pandemia di COVID-19, si è unito a YouTube e Facebook per censurare un webinar organizzato dall’università statale di San Francisco con la partecipazione di Leila Khaled, icona del movimento della resistenza palestinese, che oggi ha 76 anni.

A fine ottobre Zoom ha bloccato una seconda apparizione prevista di Khaled, questa volta in un webinar dell’università delle Hawaii e dedicato alla censura, come una serie di altri eventi organizzati negli Stati Uniti per protestare contro la sua cancellazione da parte del sito. Con un comunicato pubblicato riguardo alla giornata di lotta, i campus “si sono uniti alla campagna per resistere al soffocamento dei discorsi e delle voci palestinesi nelle imprese e nelle università.”

Questa decisione, che costituisce un attacco flagrante alla libertà accademica, sarebbe stata presa in seguito a forti pressioni esercitate sulle reti sociali dal governo israeliano e da gruppi di pressione antipalestinesi, che hanno giudicato “antisemita” il webinar.

Villaggi cancellati dalla mappa

Il livello in cui la discriminazione dei giganti tecnologici contro i palestinesi è strutturale e radicato è stato messo in evidenza dalla lotta condotta da molti anni dagli attivisti per includere i villaggi palestinesi nelle mappe in rete e sui GPS, ma anche per attribuire ai territori palestinesi il nome di “Palestina”, in base al riconoscimento della Palestina da parte delle Nazioni Unite.

Questa campagna segna notevolmente il passo, anche se più di un milione di persone ha firmato una petizione di protesta. Sia Google che Apple resistono strenuamente a queste richieste: centinaia di villaggi palestinesi non compaiono sulle loro mappe della Cisgiordania occupata, mentre le illegali colonie israeliane sono identificate nel dettaglio e viene loro accordato lo stesso status delle comunità palestinesi che vi si trovano.

I territori palestinesi occupati sono indicati sotto il nome di “Israele”, mentre Gerusalemme est viene presentata come la capitale unificata e indiscussa di Israele, come esso pretende, cosa che rende invisibile l’occupazione della parte palestinese della città.

Queste decisioni sono tutt’altro che neutrali sul piano politico. Da molto tempo i governi israeliani perseguono un’ideologia del “Grande Israele” che esige di cacciare i palestinesi dalle loro terre. Questo programma di spoliazione, inteso ad annettere intere parti della Cisgiordania, quest’anno è stato formalizzato dai progetti sostenuti dall’amministrazione Trump.

Nei fatti Google ed Apple sono conniventi con questa politica, contribuendo a cancellare la presenza visibile dei palestinesi nella loro patria. Come di recente hanno evidenziato George Zeidan ed Haya Haddad, due accademici palestinesi, “quando Google ed Apple cancellano dei villaggi palestinesi dal loro sistema di navigazione identificando in evidenza le colonie, si rendono complici del discorso nazionalista israeliano.”

Rapporti usciti dall’ombra

I rapporti sempre più stretti tra Israele e le imprese delle reti sociali si giocano in gran parte dietro le quinte. Ma questi legami sono usciti dall’ombra in modo decisivo lo scorso maggio, quando Facebook ha annunciato che il suo nuovo organo di vigilanza include Emi Palmor, una degli architetti della politica repressiva in rete condotta da Israele contro i palestinesi.

Questo organo di vigilanza prenderà decisioni che faranno giurisprudenza e contribuiranno a forgiare le politiche di Facebook e di Instagram in tema di censura e di libertà d’espressione. Ma in quanto ex-direttrice generale del ministero della Giustizia [israeliano], Emi Palmor non ha dimostrato alcun impegno in favore della libertà d’espressione in rete.

Al contrario: ha lavorato mano nella mano con i giganti della tecnología per censurare i post dei palestinesi e chiudere i siti d’informazione palestinesi. Ha supervisionato la trasformazione del suo dipartimento in quello che l’organizzazione per la difesa dei diritti dell’uomo Adalah ha paragonato al “ministero della Verità” orwelliano.

Le imprese tecnologiche sono ormai arbitre non dichiarate della nostra libertà d’espressione, motivate dal profitto. Non si impegnano a favore di un dibattito pubblico aperto e vivace, di una trasparenza in rete o di una maggiore partecipazione civica. Il loro unico impegno consiste nel mantenere un contesto commerciale che permetta loro di evitare che le norme decise dai principali governi danneggino il loro diritto a guadagnare dei soldi.

La nomina di Palmor evidenzia perfettamente il rapporto inficiato dalla corruzione tra il governo e le reti sociali. I palestinesi sanno benissimo come sia facile per l’industria tecnologica attenuare e far sparire le voci dei deboli e degli oppressi amplificando nel contempo quelle dei potenti.

Molti di noi potrebbero presto conoscere in rete la stessa sorte dei palestinesi.

– Jonathan Cook è un giornalista inglese che vive a Nazareth dal 2001. Ha scritto tre opere sul conflitto israelo-palestinese ed ha ottenuto il premio speciale del giornalismo Martha Gellhorn.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Dopo il voto negli Stati Uniti, tutti gli occhi sono puntati sulle elezioni israeliane

Jamal Zahalka

6 novembre 2020 – MIDDLE EAST EYE

Una quarta elezione israeliana nell’arco di due anni porterebbe sicuramente ad un governo più estremista. I palestinesi devono abbandonare la loro “politica di attesa” e contrastare questo percorso

I partiti politici israeliani stanno aspettando la fine delle elezioni americane per decidere le loro posizioni su una data potenziale per delle elezioni anticipate in Israele. Mentre il primo ministro Benjamin Netanyahu vorrebbe elezioni veloci nel caso in cui Donald Trump rimanesse presidente, il primo ministro supplente Benny Gantz le vorrebbe più tempestive se dovesse vincere lo sfidante democratico statunitense Joe Biden.

In Israele, una volta definiti i risultati delle elezioni statunitensi, inizierà la rapida corsa verso una nuova competizione elettorale – la quarta in meno di due anni.

Non c’è dubbio che l’esito del voto statunitense avrà un importante impatto sul Medio Oriente e sul mondo arabo, con questioni spinose in Palestina, Yemen, Libia, Siria, Iraq, Golfo, Iran e Turchia. Tutte le parti hanno iniziato a attrezzarsi per sfruttare le opportunità e prevenire possibili danni.

Anche le elezioni israeliane avranno un grande impatto, soprattutto dopo che un certo numero di paesi arabi hanno cementato legami con Israele che vanno oltre le relazioni diplomatiche – verso la cooperazione, l’alleanza e il partenariato. La parola “normalizzazione” sminuisce la natura di questo legame.

Alcuni paesi arabi preferirebbero che Netanyahu restasse al potere, per garantire la continuazione della sua linea dura sul dossier iraniano e per preservare la “divisione” palestinese. Da parte palestinese ci sarà molta attesa, come se i leader palestinesi fossero spettatori, piuttosto che attori, del processo.

Mentre molteplici scenari potrebbero verificarsi nelle elezioni israeliane, sappiamo già che il risultato sarà una vittoria della destra e la formazione di un governo più estremista e razzista. Tuttavia, sebbene questo processo abbia un impatto enorme sul destino dei palestinesi, la leadership sembra soddisfatta di continuare ad attendere. Ormai possiamo facilmente desumere che Israele non può aprire la strada verso una pace giusta, quindi perché aspettare?

Perché il movimento nazionale palestinese non sta facendo ciò che sarebbe necessario attraverso l’unificazione delle istituzioni, compresa l’azione politica e l’attivazione della resistenza popolare? Purtroppo più se ne parla meno si passa alla sua attuazione. Coloro che persistono nella “politica di attesa” dicono che le azioni congiunte da parte dei palestinesi contro l’occupazione hanno contrariato gli Stati Uniti e rafforzato la destra israeliana, mentre hanno indebolito il centro e la sinistra.

Tuttavia in realtà una delle ragioni principali della crescita del potere della destra è che la società israeliana non paga un prezzo per l’occupazione e le sue pratiche repressive. Netanyahu si vanta che la forza e il pugno di ferro di Israele garantiscono calma, sicurezza e stabilità mentre l’occupazione e le sue colonie rimangono in piedi.

Destra contro estrema destra

La sinistra sionista è scomparsa come forza politica significativa. Non è più in competizione con la destra, e anche le forze di centrodestra rappresentate da Yair Lapid, leader del partito Yesh Atid, e Gantz [a capo dell’alleanza centrista Blu e Bianco, ndtr.] non rappresentano più un’alternativa al governo della destra.

La competizione per il potere in Israele si è trasformata in una lotta tra la destra e l’estrema destra; tra il Likud di Netanyahu e l’alleanza di estrema destra Yamina di Naftali Bennett. Ciò rende impossibile l’idea di negoziati seri e di una pace giusta.

Sondaggi recenti indicano che alle prossime elezioni il Likud rimarrà il più grande partito, con 30 seggi, seguito da Yamina con 22 seggi. Così la competizione tra questi due [partiti] è diventata l’unica opzione possibile, e il risultato sarà una vittoria certa per la destra.

Netanyahu vuole che le elezioni si svolgano il prossimo luglio, sperando che, per allora, avrà sotto controllo l’attuale crisi economica e sanitaria. Il piano di Netanyahu include la normalizzazione con più paesi arabi, una politica che aumenta la sua popolarità in Israele: ciò è la prova che egli ha messo ai margini la causa palestinese e ottenuto una vittoria pacifica sugli arabi.

Nessuno crede che Netanyahu renderà effettivo l’accordo sull’alternanza della carica di primo ministro con Gantz prevista per novembre 2021. Dopo aver compreso ciò, e aver capito che Netanyahu sta cercando una finestra temporale per proclamare le elezioni anticipate, l’alleanza Blu e Bianca di Gantz ha chiesto lo scioglimento della partnership e elezioni anticipate, per impedire a Netanyahu di programmarle a proprio vantaggio.

Aggressività crescente

Tutti i segnali politici indicano che Israele si stia rapidamente avviando verso una quarta elezione nell’arco di due anni. Netanyahu ha iniziato la sua campagna per indebolire Bennett, con l’obiettivo di bloccare un governo alternativo o un altro accordo di alternanza della carica di primo ministro. L’istituzione di un governo guidato da Bennett non è uno scenario impossibile, soprattutto perché altri partiti sono pronti ad allearsi con lui contro Netanyahu.

Una stagione di elezioni in Israele comporterebbe il rischio di ulteriori attacchi aerei, sia per scopi militari che elettorali. Nei prossimi mesi potremmo assistere a un’escalation di aggressioni israeliane contro Iran, Libano, Siria e Palestina, e forse altre operazioni in coordinamento con i suoi “nuovi” e vecchi alleati arabi.

Forse una delle più importanti sarebbe un’operazione militare su larga scala per “disarmare” la Striscia di Gaza, già preparata dai servizi di sicurezza israeliani e dalle loro controparti statunitensi. Se si presenterà l’occasione, Netanyahu colpirà prima delle elezioni.

In generale, Israele è rivolto verso un maggior estremismo di destra, e ciò non sarà modificato dall’imminenza delle elezioni. Non dovremmo aspettare l’ ‘“evento” israeliano; quello che è necessario è un “evento” palestinese e arabo, nonostante le difficoltà, le complicazioni e gli ostacoli. Ciò comporta l’unità palestinese e una forte lotta di massa contro l’occupazione, con un serio impegno rivolto a fermare il processo di normalizzazione.

Il popolo palestinese non ha nulla da perdere tranne le proprie catene, e non ha niente da aspettare, tranne l’appuntamento con una battaglia per la libertà e la dignità.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Jamal Zahalka è un cittadino palestinese di Israele membro della Knesset in rappresentanza del partito Balad [partito arabo israeliano, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La sospensione di Corbyn caratterizzerà Starmer come la guerra in Iraq fece con Blair

David Hearst

2 novembre 2020 – Middle East Eye

Il silenzio di Keir Starmer sulla Palestina e il modo in cui tratta il suo predecessore hanno messo il leader laburista in rotta di collisione con molti compagni di partito

Uno degli aspetti meno conosciuti dell’attacco di Keir Starmer alla sinistra del suo partito da quando è diventato leader dei laburisti è il suo crescente silenzio sulla Palestina.

Zittire la lobby palestinese nel Regno Unito è sempre stato l’obiettivo del Ministero degli Affari Strategici israeliano che ha fatto di tutto per condizionare le discussioni su Israele all’interno del Labour Party.

Nel 2017, un documentario di Al Jazeera rivelò gli sforzi di Shai Masot, l’uomo del ministero a Londra, per dar vita a un’organizzazione giovanile nel Labour Party. Masot fu anche ripreso da un reporter sotto copertura mentre diceva di aver intenzione di “far cadere” quei ministri e parlamentari che si pensava creassero “problemi” a Israele.

Quando Masot fu beccato ed espulso, fu creato un feed sugli incontri avvenuti fino a dieci anni prima fra palestinesi e Jeremy Corbyn quando era un parlamentare, ma nelle retrovie del suo partito, per provocare scalpore nei confronti dell’allora capo laburista.

Questo feed era stato costruito ad arte.

Quando Corbyn incontrò tre politici di Hamas a cui i documenti di identità di Gerusalemme era stati revocati e avevano inscenato una protesta in una tenda della Croce Rossa (all’epoca fu un caso famoso e molti israeliani andarono a manifestare la propria solidarietà), la presenza di un secondo parlamentare laburista, Andy Slaughter, non un alleato di Corbyn, ma solidale con i palestinesi, fu rimossa dai reportage britannici.

Una foto di Slaughter apparve però durante un’esclusiva dell’emittente israeliana i24 sulla “visita segreta di Corbyn” in una trasmissione del 2018, cioè otto anni dopo la visita dei parlamentari nel novembre 2010.

Il ruolo dello Shin Bet

I dettagli precisi della visita di Corbyn in Israele nel 2010, compresi i partecipanti, gli organizzatori e chi avevano incontrato, furono monitorati e registrati dallo Shin Bet, il servizio di sicurezza interno israeliano.

Quando queste visite terminarono, lo Shin Bet invitò la persona di riferimento locale di Corbyn per quello che si rivelò essere un interrogatorio di cinque ore in una stazione di polizia ad Haifa.

Lo Shin Bet le disse che non aveva problemi con il suo lavoro a favore della causa palestinese, ma che non avrebbe tollerato che facesse propaganda nelle aule parlamentari del Regno Unito.

Se non avesse tenuto conto dell’avvertimento, avrebbe passato il resto dei suoi giorni in prigione come nemica dello Stato. Il suo avvocato le disse che in effetti avrebbero potuto fabbricare una simile accusa contro di lei e che, se fosse successo, un tribunale israeliano l’avrebbe mandata in prigione. Lei è cittadina israeliana.

Se non altro gli avvertimenti dati al contatto di Corbyn confermano che i servizi di sicurezza israeliani tenevano d’occhio il parlamentare almeno da cinque anni prima che diventasse il leader del Labour e molto prima che l’antisemitismo in quel partito diventasse un tema degno di nota.

Nessuno nel partito era interessato ai viaggi di Corbyn, che certo non erano un segreto. Sedeva all’opposizione, ai margini del partito. Solo lo Shin Bet ne prese atto.

La campagna diffamatoria è stata meravigliosamente efficace. Naturalmente molti gruppi vi hanno partecipato per ragioni diverse, persone indifferenti al conflitto in Palestina per il quale in precedenza non avevano mai mostrato alcun interesse.

Il materiale compromettente dei passati contatti di Corbyn non avrebbe avuto alcun peso se non ci fosse stata la volontà all’interno del partito e nel quartier generale Labour di bloccare Corbyn a tutti i costi. Ma nel complesso ha funzionato.

In un sondaggio condotto l’anno scorso Survation [agenzia londinese di sondaggi e ricerche di mercato, ndtr.] ha chiesto a cittadini britannici a conoscenza dell’antisemitismo nel Labour quale fosse la percentuale di membri del partito che avessero ricevuto accuse in merito.

La media delle risposte fu: “il 34%”. La cifra reale è meno dell’1%. La percezione dell’antisemitismo nel partito di Corbyn è stata sovrastimata di 300 volte rispetto a quella reale.

Palestina perduta

Da quando è diventato leader, Keir Starmer ha evitato contatti con leader palestinesi sia in Israele che in Inghilterra.

Starmer ha avuto due opportunità per occuparsene.

Il 26 giugno 2020, 15 membri della Knesset, il parlamento israeliano di cui fa parte la Lista Unita, hanno scritto a tutti i leader dei partiti del Regno Unito sollecitandoli a “contrastare attivamente ” i tentativi di annessione unilaterale dei territori da parte di Israele.

La Lista Unita, la principale coalizione che rappresenta i palestinesi cittadini di Israele, è il terzo gruppo per numero di parlamentari. La lettera è stata spedita da Yousef Jabareen, capo del comitato internazionale della Lista Unita.

Il primo ministro Boris Johnson ha incaricato di rispondere uno dei suoi ministri, James Cleverly, sottosegretario per il Medio Oriente e il Nord Africa.

Noi continuiamo a sollecitare Israele a non compiere questi passi. Il primo ministro ha espresso in numerose occasioni al primo ministro Netanyahu l’opposizione britannica alle annessioni unilaterali,” ha scritto Cleverly.

Starmer non ha risposto allora e deve ancora rispondere adesso. Jabareen ha ricevuto una risposta automatica dall’ufficio di Starmer in cui gli si diceva che il politico riceve centinaia di email al giorno.

Il 16 settembre, un gruppo di eminenti palestinesi britannici, molti dei quali, ma non tutti, membri del Labour, ha scritto una lettera aperta al partito insistendo sul “diritto dei palestinesi di illustrare con precisione le nostre esperienze di espropriazione e oppressione” e respingendo i tentativi laburisti di confondere anti-sionismo e antisemitismo.

La lettera era accompagnata da mail a Starmer in cui si chiedeva un incontro. È stato loro risposto che Starmer era troppo occupato per incontrarli. Gli è stato detto di rivolgersi a Lisa Nandy, ministra degli Esteri ombra, ma anche lei si è rifiutata di incontrarli.

Una ramanzina’

Comunque, quando Stephen Kinnock, appartenente alla destra del partito e feroce critico di Corbyn, ha chiesto un dibattito parlamentare perché il Regno Unito “vieti tutti i prodotti che provengono da colonie israeliane nei territori occupati”, Nandy ha trovato il tempo per intervenire.

Secondo una fonte citata da MailOnline [sito in rete del giornale britannico di destra Daily Mail, ndtr.], Nandy ha scritto al Board of Deputies of British Jews [comitato dei deputati degli ebrei britannici ndtr.] e al Jewish Leadership Council [Consiglio dei leader ebrei] che Kinnock, da lungo tempo coerente critico delle politiche di Israele verso i palestinesi, si è preso una bella “ramanzina ” per le sue affermazioni durante il dibattito ai Comuni.

“Lisa non ha nascosto il fatto che lei e il leader fossero arrabbiati con Kinnock,” secondo la fonte.

“Specialmente dopo tutto il lavoro fatto per cercare di ripristinare le relazioni del Labour con la comunità ebraica.”

Si disse che Starmer fosse “infuriato”.

La stessa Andy ha proposto un divieto alle importazioni di merci provenienti dalle colonie illegali della Cisgiordania, ma solo se Israele avesse proceduto all’annessione.

L’unico intervento di Starmer in questo dibattito è stato quando gli è stato chiesto delle sanzioni da Jewish News [quotidiano e sito web ebraici molto noti in Gran Bretagna ndtr.] e lui ha invece sottolineato la necessità di mantenere un “buon rapporto di lavoro con Israele”.

Starmer ha detto: “Io non sono d’accordo con l’annessione e non penso sia un bene per la sicurezza nella regione, e penso che sia molto importante che noi lo diciamo.

Se ne seguiranno sanzioni è un’altra questione, ma al momento risolviamola nel modo corretto. Ma questo non è per il bene della sicurezza nella regione. Quella dovrebbe avere la massima priorità.”

Quando incalzato, ha aggiunto: “Abbiamo bisogno di un’ottima relazione di lavoro e dobbiamo essere in grado di scambiarci punti di vista con franchezza, come si farebbe con un alleato, e io penso che su alcuni di questi temi quello di cui noi abbiamo maggiormente bisogno è uno scambio franco.”

Storia del partito laburista

Lunedì 2 novembre c’è stato il 103° anniversario della Dichiarazione di Balfour che impegnava il governo britannico a sostenere un focolare ebraico in Palestina.

Il documento del 1917 precede l’emergere del Labour come forza politica negli anni successivi alla prima guerra mondiale, ma il partito ha una sua storia in Medio Oriente che nessun leader può ignorare.

Nel 1944, quando il territorio della Palestina era ancora sotto controllo britannico, il comitato esecutivo nazionale aveva presentato una mozione, approvata dalla conferenza, che diceva: “Sicuramente la Palestina è un problema per il trasferimento di popolazione, per motivi umani e per promuovere un insediamento stabile. Che gli arabi siano incoraggiati ad andarsene, mentre gli ebrei si trasferiscono. Che siano lautamente compensati per le loro terre e che il loro reinsediamento altrove sia attentamente organizzato e finanziato generosamente.”

Ma ha una storia ancora più recente di questa.

La sospensione di Corbyn la scorsa settimana dopo il rapporto sull’antisemitismo della Commissione per i diritti umani e l’uguaglianza (EHRC) contrasta con il trattamento riservato da Corbyn a Tony Blair che, in qualità di ex primo ministro laburista, fu criticato molto severamente nel 2016 dal rapporto Chilcot per la sua decisione di invadere l’Iraq nel 2003.

John Chilcot, ex alto diplomatico, fece a pezzi Blair arrivando quasi ad accusarlo di aver mentito al parlamento.

Chilcot disse che Saddam Hussein al tempo dell’invasione “non costituiva alcuna minaccia imminente” e rivelò una nota privata che Blair aveva mandato a Bush nel luglio 2002 che diceva: “Sarò comunque con te.”

In una conferenza stampa di due ore in seguito alla pubblicazione del rapporto, Blair non si dichiarò pentito. “Credo di aver preso la decisione giusta e che il mondo sia migliore e più sicuro,” dichiarò.

Sostenne di aver agito in buona fede, basandosi sulle informazioni dell’epoca che dicevano che il presidente dell’Iraq aveva armi di distruzioni di massa. Questo “si rivelò poi errato.”

Sospensione di Corbyn

Corbyn ha presentato sincere scuse da parte del partito per la decisione di invadere l’Iraq.

Ha detto: “Quindi ora presento sincere scuse da parte del mio partito per la disastrosa decisione di entrare in guerra contro l’Iraq nel marzo 2003. Queste scuse sono dovute prima di tutto al popolo dell’Iraq. Centinaia di migliaia di vite sono state perse e il Paese vive ancora le devastanti conseguenze della guerra e delle forze che ha scatenato. Sono loro ad aver pagato il prezzo più alto per il più grave disastro in politica estera negli ultimi 60 anni.”

Ha continuato: “Le scuse sono anche dovute alle famiglie di quei soldati che sono morti in Iraq o che sono ritornati a casa feriti o handicappati. Hanno compiuto il loro dovere, ma in una guerra in cui non avrebbero mai dovuto essere mandati.”

Blair all’epoca era solo un membro del partito ed era nella stessa situazione di Corbyn la scorsa settimana.

Però Corbyn non ha sospeso Blair perché non aveva chiesto scusa e pronunciato parole che andavano contro la linea del partito.

Invece è successo l’opposto. Il “partito della guerra ” nel Labour Party è andato all’offensiva contro la leadership.

I parlamentari che avevano appoggiato la guerra in Iraq e che avevano sempre votato contro le commissioni di inchiesta, si sono scagliati contro Corbyn.

Dei 71 parlamentari che votarono la sfiducia contro Corbyn nel 2016 e che erano in parlamento nel 2003, il 92% aveva votato a favore della guerra e sette contro.

Per giustificare la sua decisione di sospendere Corbyn, Starmer ha detto che l’ex leader aveva disobbedito alla sua risposta al rapporto dell’EHRC, in cui condannava chiunque tentasse di sostenere che l’antisemitismo era stato esagerato per motivi politici.

La notte precedente la pubblicazione del rapporto, Starmer ha telefonato a Corbyn per dirgli che non l’avrebbe citato nella sua dichiarazione in risposta al rapporto dell’EHRC. Corbyn e il suo team avevano ripetutamente chiesto a Starmer cosa avrebbe detto nella sua dichiarazione. Starmer aveva risposto che gli avrebbe mandato il testo.

Anche la vice segretaria Angela Rayner aveva promesso al team di Corbyn che avrebbe mandato il testo di Starmer. Nessuno dei due l’ha fatto. Le reazioni dei due uomini erano quindi in rotta di collisione.

Sembra che sia stato Corbyn a disobbedire alla leadership, anche se al momento di parlare non aveva idea di cosa Starmer avrebbe detto su un punto chiave che ha determinato il loro scontro.

Di conseguenza Corbyn non si è tirato indietro, ma c’è una possibilità che il gruppo di Starmer sapesse cosa avrebbe detto, mentre Corbyn è stato tenuto all’oscuro fino a quando era troppo tardi.

La sinistra controbatte

Corbyn non si è difeso contro le accuse di aver tollerato l’antisemitismo o di essere lui stesso un antisemita, affermazioni ripetute ancora oggi. Dato che ha permesso a questa campagna di procedere incontrastata fino all’Alta Corte, lui stesso è responsabile.

Il giorno della sospensione di Corbyn, La Campagna Contro l’Antisemitismo che ha originariamente presentato denuncia all’EHRC, ha scritto a Starmer e David Evans, il segretario generale, chiedendo di investigare 32 membri del partito laburista, inclusa Angela Rayner, l’attuale vice di Starmer, e altri 10 parlamentari. 

In risposta, sette membri di sindacati affiliati al partito laburista e uno che ha appoggiato Starmer come candidato [a segretario], hanno reso pubblica una dichiarazione in cui esprimono una “seria preoccupazione” sul modo e il motivo della sospensione di Corbyn, affermando che essa ha minato l’unità del partito e il processo democratico.

Molto diversa dalla “Clausola 4” che Tony Blair con il suo New Labour aveva usato per definire l’abbandono dello storico impegno del partito per la proprietà statale di industrie chiave, la sospensione di Corbyn potrebbe caratterizzare la leadership di Starmer come la decisione di Blair di invadere l’Iraq, gettando un’ombra su tutto quello che ha fatto un uomo eletto tre volte primo ministro. Gli spettri dell’Iraq perseguitano Blair ancor oggi.

A parte il destino di Corbyn, il sostegno alla Palestina nel partito è molto maggiore di quello che Starmer vorrebbe. La Palestina che lui conosce molto meno di Corbyn è il suo tallone di Achille.

A meno che Corbyn non venga riammesso rapidamente, la decisione di sospenderlo dal partito potrebbe macchiare permanentemente e definitivamente la leadership di Starmer.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

David Hearst

David Hearst è caporedattore di Middle East Eye. Ha lasciato The Guardian come caporedattore esteri. Nel corso di 29 anni di carriera ha scritto sulla bomba di Brighton [attentato dell’IRA contro la Thatcher il 12 ottobre 1984 con l’uccisione di 5 membri del Partito Conservatore, ndtr.], sullo sciopero dei minatori, sulla violenta reazione lealista in seguito all’accordo anglo-irlandese nell’Irlanda del Nord, sui primi scontri in Slovenia e Croazia dopo la dissoluzione dell’ex Jugoslavia, sul crollo dell’Unione Sovietica, sulla Cecenia, e sui conseguenti molteplici conflitti. Ha descritto il declino morale e fisico di Boris Eltsin e le condizioni che hanno creato l’ascesa di Putin. Dopo l’Irlanda, è stato nominato corrispondente dall’Europa per la sezione europea del Guardian, poi è entrato a far parte dell’ufficio di Mosca nel 1992, prima di diventare direttore di redazione nel 1994. Ha lasciato la Russia nel 1997 per entrare nell’ufficio esteri, è diventato direttore per l’Europa e quindi direttore associato per gli esteri. È passato a The Guardian da The Scotsman, dove aveva lavorato come corrispondente per il settore istruzione.

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il razzismo dei coloni israeliani non è un’anomalia. È parte di un sistema di apartheid

Ben White

14 ottobre 2020 – Middle East Eye

Molti di coloro che hanno criticato la recente istigazione anti-araba nella colonia di Yitzhar continuano a sostenere la discriminazione istituzionale contro i palestinesi

La colonia israeliana di Yitzhar [in Cisgiordania, a sud della città di Nablus, ndtr.], a lungo sinonimo di estremismo nazionalista e violenza anti-palestinese, è tornata all’onore delle cronache lunedì, dopo che i suoi abitanti hanno collocato all’esterno della colonia un cartello che recita: “Questa strada conduce alla comunità di Yitzhar – L’ingresso per gli arabi è pericoloso.”

Come illustrato da Haaretz, il retroscena della trovata è un fatto avvenuto due settimane fa, quando “è stato rifiutato l’ingresso a Yitzhar ad un operatore sanitario arabo inviato per somministrare un test per il Covid-19”, in quanto, secondo quanto riportato, “era un arabo”.

In risposta il comandante in capo israeliano della regione “ha chiarito agli abitanti di Yitzhar che devono consentire l’ingresso degli arabi”, interpretando la posa del cartello stradale come un segnale di “protesta”.

Le foto del cartello sono state rapidamente condivise su Twitter, suscitando indignazione e contrarietà generali.

Secondo alcuni, il motivo per cui la scritta è diventata virale è che rappresenterebbe un momento rivelatore del fatto che un sistema di segregazione sia stato espresso in modo brutale ed esplicito. Questo potrebbe essere parzialmente vero, ma racconta solo una parte della storia, come possiamo vedere dalla ampia varietà di individui che hanno espresso irritazione per il cartello di Yitzhar.

Tra chi ha manifestato delle critiche sono compresi, ad esempio, apologeti e persino compartecipi del processo di colonizzazione israeliana nella Cisgiordania occupata, come l’ex leader delle colonie e diplomatico israeliano Dani Dayan, che ha definito il cartello “razzista”.

Un colono della Cisgiordania, insegnante Uri Pilichowski, ha dichiarato: “Sono un colono e ho trovato quella scritta spregevole”. Ha aggiunto in un post di Facebook: “Ogni gruppo ha le sue mele marce e la comunità dei coloni non è diversa”.

In modo significativo, Pilichowski ha concluso così il suo post: “Il mio unico sollievo è che Yitzhar si comporta continuamente in questo modo, il che evidenzia come tutte le altre comunità ebraiche in Giudea e Samaria [cioè le colonie in Cisgiordania] non fanno mai queste cose”.

Sulla base di questo modo di vedere, i comportamenti dei cittadini di Yitzhar, sebbene deplorevoli, diventano in realtà una prova della moralità del 99% dei coloni (si noti che l’immagine di Yitzhar come eccezione, o anomalia, è una risposta abituale di fronte al verificarsi di questo tipo di episodi).

Storia della violenza

In effetti, il razzismo dei coloni di Yitzhar può essere compreso solo in quanto parte, piuttosto che elemento estraneo o eccezionale, delle politiche attuate nel corso della storia e attualmente e sostenute dalla leadership politica, militare e giudiziaria di Israele e dalla maggioranza dell’opinione pubblica ebraica.

L’esclusione e l’allontanamento dei palestinesi dalla terra e dalle comunità attraverso la violenza, le leggi e la prassi sono parte integrante della storia di Israele, a cominciare dall’esodo causato dai coloni sionisti prima della fondazione dello Stato e dalla pulizia etnica della Nakba.

Oggi il controllo ebreo israeliano sulla terra e sulle risorse – a spese dei cittadini palestinesi – è assicurato attraverso varie leggi e meccanismi di pianificazione, incluso il rifiuto di consentire ai palestinesi esiliati di tornare nelle loro terre e il ruolo dei comitati di ammissione residenziale [in alcune zone di Israele queste commissioni possono negare il diritto di residenza a persone indesiderate ed escludono metodicamente i palestinesi cittadini di Israele, ndtr.].

Nella Cisgiordania occupata, nel frattempo, le autorità israeliane hanno a lungo escluso i palestinesi da aree estese della regione, un divieto di accesso che è inseparabile dalla colonizzazione del territorio [che avviene] principalmente attraverso la creazione di colonie ebraiche.

Come ha evidenziato su Twitter l’esperto della colonizzazione Dror Etke, è il massimo dell’ipocrisia che qualcuno come Dayan condanni l’episodio del cartello di Yitzhar quando, come documentato in dettaglio nel rapporto di Kerem Navot [organizzazione di valutazione e ricerca sulle politiche israeliane del territorio in Cisgiordania, ndtr.] del 2015, i settori amministrativi delle colonie giocano un ruolo chiave nell’esclusione dei palestinesi da aree della Cisgiordania occupata.

Il rapporto ha rilevato che quasi un terzo della Cisgiordania e più della metà dell’Area C [il 60% della Cisgiordania dove, in base agli accordi di Oslo, Israele esercita il pieno controllo civile e della sicurezza, ndtr.] sono state “definite come aree militari chiuse” – l’obiettivo principale è “ridurre drasticamente le possibilità da parte della popolazione palestinese di utilizzare la terra e consegnarne il più possibile ai coloni israeliani.”

“Minaccia demografica”

I coloni che imbrattano i muri delle case e delle moschee palestinesi con graffiti razzisti sono condannati da vaste fasce della società israeliana, ma l’istigazione anti-araba e anti-palestinese è diffusa sui media e nella politica israeliana, a partire dai commenti dei lettori fino alle politiche strategiche nei confronti dei palestinesi.

Secondo l’indice annuale di 7 amleh [ONG palestinese ndtr.] su razzismo e istigazione nei media informatici israeliani, il 2019 ha visto un commento razzista ogni 64 secondi. Nel frattempo, le comunità palestinesi nella Cisgiordania occupata sono descritte nelle riunioni di commissione della Knesset [parlamento israeliano, ndtr.] come un “virus” e un “cancro”.

I più importanti leader israeliani abitualmente trattano con sufficienza, minacciano e disumanizzano i palestinesi su entrambi i lati della Linea Verde [linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio arabo-israeliani del 1949, ndtr.] con politici come Gideon Saar [membro del parlamento israeliano, ndtr.] del Likud o il defunto Shimon Peres [laburista, presidente di Israele dal 2007 al 2014, ndtr.] che si preoccupavano dei “tassi di fertilità” ebrei rispetto a quelli arabi o definivano i cittadini palestinesi una “minaccia demografica”.

Concentrarsi su attori come i coloni “estremisti” può essere indispensabile e vantaggioso, in particolare quando vengono alla ribalta gli attacchi violenti commessi contro i palestinesi e le loro proprietà, condotti nell’impunità e persino con la cooperazione attiva delle forze israeliane.

Tuttavia, è importante contestualizzare eventi come il cartello di Yitzhar in modo tale da non oscurare gli abusi pluridecennali e quotidiani subiti dai palestinesi per mano dello Stato israeliano di apartheid. Il parlamentare del Meretz [partito politico della sinistra sionista, ndtr] ed ex generale dell’esercito Yair Golan è stato tra coloro che hanno condannato la scritta dei coloni di Yitzhar, chiedendo retoricamente: “È questo quello che vogliamo essere, uno Stato razzista?”

Una simile risposta mostra che i momenti rivelatori possono anche essere utili come opportunità di autocompiacimento morale da parte di coloro che disdegnano e prendono le distanze in modo assertivo dal volgare razzismo dei coloni, pur sostenendo la discriminazione e la segregazione istituzionalizzata la cui portata e impatto fanno sì che gli attivisti di Yitzhar appaiano, al confronto, ben poca cosa.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ben White

Ben White è uno scrittore, giornalista e analista specializzato sul tema Palestina / Israele. I suoi articoli sono apparsi ampiamente sui media internazionali, tra cui Al Jazeera, The Guardian, The Independent e altri. È autore di quattro libri, l’ultimo dei quali, ‘Cracks in the Wall: Beyond Apartheid in Palestine / Israel’ [Crepe nel muro: dietro l’apartheid in Palestina, ndtr.] (Pluto Press), è stato pubblicato nel 2018.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Hebron, colpita dal coronavirus, lotta contro lo stigma sociale e l’occupazione israeliana

Mustafa Abu Sneineh

15 luglio 2020 – Middle East Eye

La più grande città della Cisgiordania è un microcosmo delle sfide che affrontano i palestinesi mentre cercano di combattere il Covid-19.

Se si cammina per le strade di Hebron è facile sentire le persone salutarsi con lo stesso modo di dire: “Ti bacerò sulle guance nonostante il coronavirus.”

È una frase che sta destando sempre più preoccupazione tra le autorità della più grande città della Cisgiordania.

Hebron è stata colpita duramente dalla seconda ondata di coronavirus, che si è manifestata all’inizio di giugno dopo che sembrava che la Cisgiordania avesse superato la fase peggiore della pandemia. In questa sola settimana sono morti di Covid-19 una bambina di 12 anni, tre donne e un uomo di 90 anni.

Complessivamente i territori palestinesi hanno registrato un tasso di mortalità relativamente basso, con 47 decessi contro i 371 di Israele. Ma il numero dei casi sta rapidamente crescendo, con 8.153 contagi da marzo in Cisgiordania, Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza.

Mai al-Kauleh, la Ministra della Sanità dell’Autorità Nazionale Palestinese, ha affermato che sono stati identificati 27 focolai di coronavirus attivi in Cisgiordania, nei villaggi, nei campi profughi e nelle città.

Kaiuleh ha detto che attualmente sono ricoverati in ospedale 111 palestinesi, di cui sette intubati in terapia intensiva.

Hebron, città socialmente conservatrice, divisa dall’occupazione israeliana e centro propulsore dell’economia della Cisgiordania, è un microcosmo delle sfide che i palestinesi affrontano mentre cercano di combattere il coronavirus.

In base ad un accordo del 1997 firmato dal governo israeliano e dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, la città è di fatto divisa in due parti.

Hebron è suddivisa in H1, sotto il pieno controllo amministrativo e di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), e H2, sottoposta alla gestione amministrativa dell’ANP, ma controllata dall’esercito israeliano, che ha potere decisionale su chi entra e chi esce dall’area.

Tayseer Abu Sneineh, sindaco e capo del comune di Hebron, ha detto a Middle East Eye che questa divisione si è dimostrata una sfida per il personale medico che combatte la pandemia, con le ambulanze a cui spesso è impedito di entrare nella zona H2, dove circa 40.000 palestinesi vivono accanto a 800 coloni israeliani.

Nella zona H2 vi sono 18 checkpoint militari israeliani permanentemente presidiati.

L’occupazione israeliana, in generale, è un ostacolo allo sviluppo della città e controlla il confine, l’acqua ed ogni cosa. A partire dall’occupazione nel 1967, non è stato aggiunto un singolo posto letto all’ospedale pubblico di Hebron, fino a quando l’Autorità Nazionale Palestinese ha iniziato a governare la città negli anni ‘90”, ha affermato Abu Sneineh.

Attualmente nel distretto di Hebron ci sono diversi ospedali che si occupano di pazienti con coronavirus, compreso l’ospedale della Mezzaluna Rossa ad Halhul e l’ospedale Dura, aperto prima della data prevista in giugno. Si sta predisponendo anche l’apertura di un reparto nell’ospedale pubblico di Hebron.

Complessivamente questi ospedali sono a disposizione dei 215.000 palestinesi che vivono nella città e nei villaggi circostanti, un’area in cui ci sono quasi 120 checkpoint militari israeliani. Secondo Abu Sneineh 120.000 palestinesi di Hebron vivono in zone prive di ambulatori o persino di stazioni di polizia e la grande quantità di posti di blocco impedisce loro l’accesso agli ospedali del distretto.

Detto questo, le politiche dell’ANP e le risposte pubbliche alla pandemia non hanno fatto che aggravare una situazione già difficile.

A marzo l’ANP ha posto la Cisgiordania in completo isolamento fino alla fine di maggio, replicandolo per nove giorni a giugno quando i casi hanno ricominciato ad aumentare.

Ma Hebron, polo manifatturiero del territorio, non ha mai realmente aderito alle restrizioni ed ora ne sta subendo le conseguenze.

Purtroppo alcuni si rapportano ancora alla pandemia di coronavirus come se non esistesse e fosse parte di una cospirazione globale, e questo ha portato alla diffusione del virus”, ha detto Abu Sneineh.

Il Comune di Hebron ha istituito un centro di emergenza per coordinare la sua risposta ed ha pubblicato opuscoli e manifesti per mettere in guardia contro il rischio mortale del Covid-19, ma con scarsi risultati.

L’11 luglio le autorità hanno chiesto il rispetto delle misure di distanziamento sociale quando sono stati annunciati gli esiti degli esami della scuola secondaria, ma molta gente invece si è ammassata nelle macchine e ha fatto il giro della città per festeggiare.

Noi popolo palestinese abbiamo qualcosa nel nostro carattere che è lo spirito di sfida. Certamente sfidare l’occupazione è positivo, ma sfidare un virus in questo modo è una cosa negativa”, ha detto Abu Sneineh.

Bashar al-Atrash, un abitante della zona H1 che lavora nell’industria alimentare, ha detto a MEE di essere tornato a lavorare in fabbrica dopo aver rispettato i 20 giorni del primo isolamento.

Per Atrash il coronavirus è sconcertante perché molte persone risultate positive non hanno mostrato alcun sintomo.

Abbiamo appreso del coronavirus dai media, dalle autorità e dalla moschea, che dopo il richiamo alla preghiera ha fatto un annuncio dicendo alla gente di pregare a casa”, ha detto Atrash.

Che cos’è questo virus che non ti provoca tosse, mal di testa, febbre o diarrea? Cinque miei parenti sono risultati positivi ai test del coronavirus e quando sono andato a trovarli a casa dopo che sono usciti dall’ospedale sembravano sani e in buone condizioni. Allora che cos’è il coronavirus?”

Atrash ha mostrato a MEE un messaggio che è circolato sui social media ad Hebron, scritto da un sedicente dottore che ha proposto una “cura” per il Covid-19, che consiste nel tagliare a fette sottili l’aglio e mangiarlo crudo due volte al giorno durante i pasti.

Il messaggio diceva che “l’esperimento ha dimostrato… che è sufficiente per proteggersi dal coronavirus e dai virus dell’apparato respiratorio, a prescindere da quanto siano violenti e senza ricorrere alle misure di prevenzione.”

Atrash ha detto anche di aver sperimentato questa “cura”, ma di aver aggiunto uno spicchio d’aglio in base al consiglio di un parente.

Quando a marzo la pandemia ha colpito il mondo arabo, sui social media si sono diffusi molti messaggi di questo genere.

Il più famoso rimedio falso è stato proposto nel corso di un’intervista televisiva con un medico egiziano, che ha sostenuto che una cura per il coronavirus esiste già nel shalawlaw, un cibo copto consumato durante il digiuno della vergine Maria, costituito da molokhia [pianta simile alla malva, ndtr.] secca, aglio, acqua fredda, limoni e spezie.

Non sappiamo a chi credere: al governo, ai media, o alle autorità? Ognuno agisce di propria iniziativa per proteggersi”, ha detto Atrash.

Intanto Hebron resta aperta, con visitatori provenienti dalla comunità palestinese beduina dell’interno del Negev israeliano, famiglie di Gerusalemme est originarie della città e palestinesi cittadini di Israele provenienti da città come Oum al-Fahim, Nazareth, Kafr Qasim e Kafr Kanna, che vengono a fare acquisti e a pregare nella storica moschea di Ibrahim.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Coronavirus: Israele si rivolge all’esercito mentre si intensifica il giro di vite contro la pandemia

Lily Galili da Tel Aviv, Israele

25 settembre 2020 – Middle East Eye

Mentre peggiora la crisi da Covid-19, gli israeliani stanno vedendo nell’esercito un salvatore, ma il Paese assomiglia sempre più a un regime militare

Lasciate vincere l’esercito”, è un vecchio slogan israeliano coniato dai dirigenti della destra durante la Seconda Intifada (2000-2005).

Voleva dire: non lasciate che i politicanti vigliacchi, la sinistra amante dei palestinesi, i tribunali di parte e i media ostili interferiscano con l’azione dell’esercito, basta lasciare che faccia quello che ci vuole per vincere.

Circa 20 anni dopo questo slogan ha subito una curiosa modifica. Ora dice: “Lasciate che le IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.] vincano il Covid-19.”

Sottinteso: dato che nessun altro ha la più pallida idea di come fare, sicuramente non i politici né altre istituzioni civili al potere, lasciamo che l’esercito israeliano si prenda in carico la gestione della pandemia. Ha le competenze, la tecnologia e, cosa più importante, non è tra i 120 membri del parlamento israeliano, ognuno dei quali ha una propria agenda.

In un sondaggio dell’opinione pubblica reso noto in luglio da Channel 12 [canale televisivo privato israeliano, ndtr.], il 57% delle persone interpellate appoggiava la posizione del ministro della Difesa Benny Gantz [del partito di centro destra Blu e Bianco, ndtr.], che sosteneva che “la gestione del coronavirus deve essere trasferita al Comando del Fronte Interno (dell’esercito israeliano) e al ministero della Difesa”. Solo il 20% si opponeva a questa idea.

Gantz non è stato il primo a sostenerla. Il suo predecessore come ministro della Difesa, Naftali Bennett [del partito di estrema destra Yamina, ndtr.], e molti altri ufficiali di alto grado della riserva hanno affermato la stessa cosa. Ma all’epoca il primo ministro Benjamin Netanyahu era restio ad affidare la gestione della crisi al suo arci-rivale.

Ma il Covid-19 aveva progetti diversi. Durante un’intervista del 13 aprile un importante funzionario della sicurezza in anonimato ha detto ad Amos Harel, principale esperto del giornale Haaretz per le questioni militari, che “l’esercito israeliano non può risolvere la crisi da coronavirus.” Lo stesso giornale progressista ha messo in guardia contro l’intervento dell’esercito nella crisi civile.

Lasciate che l’esercito ci salvi

Arriviamo velocemente a cinque mesi dopo: questa settimana Harel ha chiesto esplicitamente al capo di stato maggiore Aviv Kochavi di “accettare la sfida mentre Israele affronta una dilagante epidemia da coronavirus.”

Il cambiamento è principalmente un riflesso della disperazione totale e della perdita di fiducia nel disastroso governo Netanyahu.

Questi risultati non sorprendono affatto, considerando l’enorme fallimento del governo nell’affrontare la crisi. Secondo tutti i sondaggi la maggioranza degli israeliani ha perso fiducia nel modo in cui il governo sta affrontando la pandemia, una bella differenza rispetto alla generale soddisfazione per l’operato del governo in occasione della prima ondata del virus in marzo-aprile.

Un numero crescente di israeliani crede che gli interessi politici e personali di Netanyahu, soprattutto le accuse di frode e corruzione che lo minacciano, siano la principale motivazione per il modo in cui affronta la crisi, mentre altri ministri del suo governo sembrano semplicemente del tutto incompetenti.

Il sentimento prevalente è che i cittadini israeliani siano stati abbandonati da una dirigenza indifferente, più preoccupata di salvare il proprio lavoro o grandi, irrilevanti gesti come l’“accordo di pace” con gli EAU e il Bahrein, venduto dallo stesso Netanyahu per lo più come una miniera d’oro turistica.

L’esercito, che gode ancora di un alto livello di fiducia da parte dell’opinione pubblica, sembra essere il naturale salvatore, tanto più che la crisi sanitaria è stata definita con un chiaro gergo militare. La pandemia è una “guerra”, il coronavirus è un “nemico” e ogni cittadino è mobilitato per combattere un’ardua battaglia che i suoi dirigenti stanno continuando a perdere giorno dopo giorno.

Sono profondamente turbata dal gergo militare che viene imposto a tutti noi riguardo a questo maledetto coronavirus,” ha scritto sulla sua pagina Facebook Rana Abu Fraiha, una premiata regista israelo-palestinese.

Linguaggio bellico

Persino il fallimento nella gestione di questa crisi viene dipinto con tinte guerresche. In un’intervista televisiva il generale in pensione ed ex-capo della direzione dell’intelligence militare dell’esercito Amos Yadlin ha paragonato la pandemia all’esperienza traumatica della guerra arabo-israeliana del 1973.

Anche nel 1973 fu l’arrogante ed egocentrico governo che venne visto come responsabile del disastro, mentre l’esercito israeliano salvò la Nazione. Questa narrazione è in sintonia con gli israeliani, nonostante una grande differenza: al contrario della guerra, una crisi sanitaria è una questione civile. Il pericolo, per quanto riguarda l’intervento dell’esercito, è di annullare questa distinzione.

L’uso del gergo militare nel contesto del Covid-19 e la ridotta mobilitazione dell’esercito non sono una particolarità di Israele. Sta succedendo negli Stati Uniti e anche in altri Paesi colpiti dal coronavirus. Ma in Israele, dove la presenza dell’esercito nella sfera pubblica è una realtà quotidiana, incaricare i soldati della vita di civili ha una lunga storia.

Per oltre 50 anni gli israeliani hanno controllato le vite dei palestinesi sotto occupazione militare. La costruzione del muro di separazione tra Israele e la Cisgiordania occupata ha persino fatto nascere un nuovo titolo militare, “coordinatore della vita quotidiana”, un ufficiale incaricato di risolvere le difficoltà che affrontano i palestinesi che vivono nei pressi del muro, come l’accesso alle proprie terre. Essere controllati da un “coordinatore della vita quotidiana” in mezzo alla crisi da coronavirus agli israeliani può quindi sembrare assolutamente normale.

Le forze dell’esercito e della sicurezza sono ovunque ed hanno un importante ruolo nella gestione della pandemia.

Solo per citare qualche esempio, il Comando del Fronte Interno ha organizzato alberghi del coronavirus per i malati meno gravi e gestisce case di cura; il servizio segreto ha la licenza di tracciare i telefonini per individuare casi di contagio; il Mossad è stato mobilitato per cercare e procurare apparecchiature mediche; sono stati schierati battaglioni nelle città a maggioranza ultra-ortodossa per aiutare la popolazione.

Parlando con MEE, il professor Yagil Levy, esperto in rapporti civico – militari presso la Open University [università a distanza, ndtr.] del dipartimento di sociologia di Israele, definisce questa situazione unica come la “securizzazione della crisi da coronavirus in Israele.”

Inquadrare l’epidemia come una questione securitaria ha iniziato a svilupparsi quando la gestione della crisi è stata affidata (da Netanyahu) al Consiglio per la Sicurezza Nazionale,” afferma. “Ciò è sensato in un Paese in cui il sistema della sicurezza rimane potente, ed è davvero una tentazione, dato che le IDF sono percepite come competenti e libere da condizionamenti politici.

Tuttavia la legittimazione della securizzazione della salute può facilmente portare alla legittimazione dell’uso di metodi illeciti e alla facile accettazione di violazioni dei diritti civili,” aggiunge Levy. Questo slittamento giunge in un periodo in cui Netanyahu e il suo entourage sono impegnati con successo in un attacco contro tutte le istituzioni della democrazia israeliana.

L’interminabile dibattito parlamentare sul nuovamente rigido blocco totale non ha affatto dedicato tempo a discutere del suo impatto sulla società israeliana. Al contrario, molte ore sono state dedicate a trovare il modo per contrastare le settimanali manifestazioni di massa davanti alla residenza di Netanyahu.

Lockdown o repressione?

Sembra che la vera intenzione del nuovo rigido lockdown non sia interrompere la catena dell’infezione ma piuttosto quella delle manifestazioni.

Ciò è particolarmente problematico in quanto oggi Israele si trova in mezzo ad una crisi istituzionale, in cui le vecchie norme dell’emergenza invocate fin dal 1948 lasciano il posto a uno stile di governo dittatoriale. In questo clima, non c’è una discussione pubblica sugli immediati pericoli nel superare la distinzione tra un appoggio costruttivo dell’esercito e una totale sostituzione da parte dei militari.

Un pubblico dibattito è una missione impossibile in una società profondamente divisa e preoccupata della sopravvivenza individuale. La società israeliana ora sta pagando il prezzo di un decennio di politica interna intenzionalmente divisiva e di erosione di ogni elementare senso di solidarietà.

In assenza di un pubblico dibattito sulla linea che separa la sfera civile da quella militare, l’Institute for National Security Studies [Istituto per gli Studi sulla Sicurezza Nazionale, legato all’esercito e diretto da Yadlin, ndtr.] e l’Israeli Democracy Institute [Istituto della Democrazia Israeliana, centro di ricerca indipendente, ndtr.] hanno pubblicato una serie di articoli sotto il titolo “Rapporti tra società ed esercito sotto il coronavirus: indicazioni dalla prima ondata.”

In un documento sotto questo titolo, il politologo Stuart Cohen pone la domanda: “Intervento militare e coronavirus: si tratta davvero di una china pericolosa?”

Cohen si riferisce a una preoccupazione manifestata dal professor Eviatar Matania, fondatore ed ex- capo dell’Israel National Cyber Directorate [Direzione Nazionale Informatica di Israele, che si occupa di difesa informatica e di sviluppo di tecnologie legate alla sicurezza, ndtr.], che ha messo in guardia contro l’affidamento della crisi a un ente essenzialmente non democratico come l’esercito.

Cohen sostiene che le preoccupazioni sono esagerate e che tutte le forze di difesa sono lì per assistere e non per prendere il potere.

La sua opinione deriva dalla prima ondata della pandemia, relativamente ben gestita. In base a queste circostanze, persino quelli che hanno sollevato dubbi hanno sostenuto che affidare la gestione della crisi all’esercito sia stato accettabile solo in circostanze eccezionali e a causa dell’imminente collasso del sistema civile.

Tuttavia, dato che i casi in Israele sono in forte aumento e gli ospedali sotto organico dichiarano lo stato d’emergenza, l’esercito ora si sta preparando a proporsi come l’ultima istituzione a disposizione in questa crisi nazionale.

In assenza di un equilibrio democratico, con dirigenti politici per i quali la democrazia non è altro che un ostacolo, il pericolo è appena dietro l’angolo.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Pace senza giustizia: perché la sinistra in Israele sostiene gli accordi di Netanyahu coi Paesi del Golfo

Orly Noy,

23 settembre 2020 – Middle East Eye

Senza coraggio storico e priva di una solida determinazione morale, la sinistra sionista plaude ai pericolosi accordi conclusi dal governo più di destra che Israele abbia mai avuto

Se ci fosse stato bisogno di un’ulteriore prova dell’intrinseca incapacità della sinistra sionista di Israele di analizzare correttamente le circostanze politiche e rispondere di conseguenza, l’abbiamo avuta quando i leader di questo fronte si sono affrettati a concedere la loro benedizione agli “accordi di pace” tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti e successivamente con il Bahrain.

Tamar Zandberg, leader del partito Meretz [storico partito della sinistra sionista, ndtr.], ha dichiarato di “plaudire alla decisione di rinunciare all’annessione e di passare invece a un accordo con un importante Paese arabo”. Peace Now [movimento israeliano non-governativo pacifista, ndtr.] ha dichiarato che “l’accordo con gli Emirati Arabi Uniti è un grande passo nella giusta direzione”.

Nitzan Horowitz, presidente del partito Meretz, ha affermato che “l’instaurazione di relazioni con gli Emirati Arabi Uniti dimostra che la revoca dell’annessione e [il perseguimento] di una soluzione a due Stati è la via per la normalizzazione regionale”.

Il New Israel Fund [organizzazione statunitense no profit per la giustizia e uguaglianza in Israele, ndtr.] lo ha descritto come un importante sviluppo. Anche Gideon Levy, il giornalista di solito più critico e attento, ha plaudito all’iniziativa: “Qualsiasi tentativo da parte di Israele di essere accettato con mezzi non violenti nel contesto regionale in cui è entrato con passo pesante circa un secolo fa è uno sviluppo positivo”.

Un triste scherzo

Indaffarata a concedere le sue benedizioni, la sinistra ebraica israeliana è stata del tutto cieca alla reazione ovunque profondamente critica dei palestinesi all’accordo. Che avrebbe dovuto essere in sé un campanello di allarme.

Ma a prescindere dalla ferma opposizione palestinese, la natura problematica della posizione della sinistra israeliana sarebbe stata evidente, se qualcuno si fosse preso la briga di chiedersi in cosa consistessero veramente quegli accordi, cosa spingesse il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a firmarli, a favore di chi fossero stati progettati e quale fosse il loro obiettivo.

Normalizzazione: che scherzo triste.

Basta guardare agli accordi di pace che Israele ha firmato con l’Egitto e la Giordania per capire esattamente quanto Israele sia oggi “normalizzato” agli occhi dei cittadini di quei Paesi. Non solo non si sono mai visti turisti egiziani o giordani per le strade di Israele, gli accordi non sono serviti a mitigare il modo in cui gli egiziani e i giordani vedono Israele – come un brutale occupante.

Non appena i nuovi accordi sono stati resi pubblici, il popolo del Bahrein stava già protestando con rabbia contro qualsiasi normalizzazione con Israele. Mentre gli accordi di Israele con l’Egitto e la Giordania hanno portato almeno a un’era senza guerre con due dei vicini e hanno risolto controversie di confine di vecchia data, l’accordo con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein non servono nemmeno a qualcosa di simile. Quale conflitto risolvono esattamente questi accordi?

Quand’è che abbiamo paventato una guerra con gli Emirati Arabi Uniti? Quale nostro confine è ora più sicuro? Israele non ha confini con gli Emirati Arabi Uniti o il Bahrein.

Eludere la questione palestinese

È triste e scoraggiante che la sinistra ebraica in Israele si sia affrettata a sposare un accordo il cui obiettivo principale, oltre all’apertura di un altro mercato per l’industria delle armi israeliana, è di eludere la questione palestinese e ottenere la legittimità regionale pur continuando a perpetrare l’occupazione, le violenze e la spoliazione del popolo palestinese.

L’argomento della sinistra secondo cui un accordo con Emirati Arabi Uniti e Bahrein “ha tolto dal tavolo l’opzione dell’annessione” è infantile in modo imbarazzante. Sin dall’inizio l’annessione è stata una minaccia architettata per fornire a Israele proprio questo spazio di manovra.

Bisognerebbe essere davvero ingenui per pensare che le relazioni con gli Emirati Arabi Uniti o il Bahrein possano eliminare dal programma l’annessione. Dopotutto, Netanyahu e il suo governo di estrema destra esistono da oltre un decennio. Se davvero avessero voluto l’annessione, l’avrebbero realizzata molto tempo fa.

Ma poiché l’annessione de facto si rafforza quotidianamente senza comportare alcun costo reale per Israele né a livello locale né internazionale, Netanyahu non ha alcun interesse a scatenare l’opinione pubblica mondiale attraverso un’annessione de jure.

Al contrario con quella vuota minaccia miete capitale politico, mentre la deplorevole stoltezza della sinistra alimenta la sua corsa.

Contrariamente a quanto sostiene la sinistra, non solo questi accordi non fanno nulla per risolvere il conflitto con i palestinesi, peggio, ribadiscono il vecchio slogan della destra: puoi ottenere la pace per la pace, non è necessario pagare per la pace restituendo la terra.

L’etica della “pace”

Come spiegare allora il sostegno della sinistra ebraica israeliana a un accordo così irrealistico e dannoso?

Ha molto a che fare con l’etica della “pace” abbracciata tanto orgogliosamente dalla sinistra israeliana come fronte israeliano della pace. Penso non sia un caso che la sinistra sionista abbia scelto come emblema la “pace”, piuttosto che l’idea di giustizia.

Questo è in realtà da sempre uno dei maggiori inganni nel ruolo di quella che è conosciuta come la sinistra sionista: convertire la richiesta di giustizia in vaghi sogni di pace. Non che la pace non sia un valore importante; anzi. I Paesi, come le persone, dovrebbero certamente aspirare alla pace. Ma quando la pace diventa una via per aggirare la giustizia, non solo la giustizia viene fatta a pezzi, di fatto non si raggiunge nemmeno la pace.

La ragione per cui la sinistra sionista in Israele preferisce parlare più di pace e meno di giustizia ha a che fare con il carattere del sionismo. Il sionismo può offrire vuoti accordi di pace ma non può offrire alcun tipo di giustizia, perché per sua natura aspira a preservare ed estendere la superiorità ebraica e i privilegi che ne derivano.

Così, questa sinistra immaginaria a Oslo è stata in grado di imporre ai palestinesi un “accordo di pace” progettato per perpetuare l’inferiorità palestinese nei confronti di Israele (e nemmeno il poco che Oslo ha promesso ai palestinesi è stato reso effettivo da Israele) – ma Israele si è attentamente astenuto da qualsiasi accenno alla giustizia storica per non aprire il vaso di Pandora dell’ingiustizia intrinseca che è stata la Nakba.

Oggi, senza coraggio storico e priva di una solida determinazione morale, una sinistra che sta gradualmente scomparendo plaude agli accordi manipolatori e pericolosi conclusi dal primo ministro del governo più a destra che Israele abbia mai avuto.

Le opinioni espresse in questo articolo sono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica della redazione di Middle East Eye.

Orly Noy è una giornalista e attivista politica che risiede a Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)