Crepe nel muro di separazione israeliano e la fragilità del potere di Netanyahu

Shir HeverNadia Nasser-Najjab

19 agosto 2020 – MiddleEastEye

Anche se quest’estate con l’allentamento delle misure di sicurezza alcuni palestinesi sono potuti andare in spiaggia, dietro questo si celano i problemi che affliggono il primo ministro israeliano.

Questa estate i media israeliani hanno riferito con sorpresa una scena inaudita: migliaia di famiglie palestinesi sulle spiagge di Tel Aviv e di altre città israeliane. Gli israeliani si sono abituati a svolgere la loro routine senza vedere i 2 milioni e mezzo di vicini della Cisgiordania occupata, che vivono giusto dall’altra parte del muro di separazione.

Da una spiaggia di Tel Aviv, dei palestinesi hanno condiviso il video di un bagnino israeliano che lasciava entrare i palestinesi di Nablus. La voce che i soldati stessero chiudendo un occhio di fronte ai famosi varchi nel muro si è diffusa rapidamente tra i palestinesi, che si sono affrettati ad approfittare dell’occasione, pagando prezzi esorbitanti ai taxi per andare oltre il muro.

Molti giovani palestinesi hanno visto per la prima volta il mare (che dista meno di 100 chilometri da gran parte della Cisgiordania occupata) e alcune famiglie hanno approfittato dell’occasione per visitare le zone in cui vivevano le loro famiglie prima della Nakba del 1948.

Qualche giornalista ha aspettato a riferire questi fatti finché i passaggi nel muro non sono stati nuovamente chiusi. In effetti la scorsa settimana, non appena la notizia delle famiglie palestinesi sulle spiagge è apparsa sulle pagine dei giornali israeliani, l’esercito ha rapidamente e aggressivamente richiuso i varchi per evitare l’accusa di essere indulgente con i palestinesi.

Rafforzare il potere coloniale

Negli ultimi anni, migliaia di lavoratori palestinesi sono entrati in Israele attraverso i buchi nel muro di separazione in cerca di lavoro e spesso muovendosi proprio sotto gli occhi dei soldati israeliani. La richiesta di manodopera palestinese a buon mercato, e la consapevolezza tra i politici israeliani del fatto che il reddito ricavato dal lavoro fatto in Israele sia un’ancora di salvezza essenziale per l’economia palestinese in rovina hanno dissuaso l’esercito israeliano dal sigillare quei buchi.

Ma nell’epoca del coronavirus è stato davvero sorprendente vedere che i buchi nel muro venivano usati non solo dai lavoratori, ma anche da intere famiglie.

La politica arbitraria di apertura e chiusura dei passaggi attraverso il muro crea tra i palestinesi un senso di incertezza, e rafforza il potere coloniale delle autorità israeliane sulla popolazione palestinese.

Quando l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha impartito direttive alle persone perché rispettassero il blocco del Covid-19 e rimanessero a casa, sapeva benissimo che le sue istruzioni sarebbero state ignorate. E con il coordinamento della sicurezza con Israele sospeso per via dei piani di annessione del primo ministro Benjamin Netanyahu, le forze di sicurezza palestinesi non si sono nemmeno preoccupate di impedire alle persone di entrare in Israele – un’ulteriore umiliazione e indebolimento per l’autorità e la legittimità dell’ANP.

I palestinesi però sanno che l’improvvisa e inaspettata clemenza rispetto ai valichi non è un segno della generosità israeliana. Il colonizzatore “non regala niente per niente”, come disse una volta il filosofo Frantz Fanon.

Per anni, un piccolo gruppo di donne israeliane ha fatto entrare clandestinamente [in Israele] dei palestinesi sulle proprie auto attraverso i posti di blocco, prendendo le corsie riservate agli ebrei israeliani. La più famosa è Ilana Hammerman, che ha spesso sfidato le autorità israeliane portando palestinesi attraverso il checkpoint.

Non è mai stata arrestata, probabilmente perché ciò svelerebbe regole dell’apartheid che consentono agli ebrei di attraversare i posti di blocco solo se non hanno palestinesi in auto. Ma lasciando che le aperture nel muro rimangano aperte, le autorità israeliane rendono irrilevante l’attivismo di Hammerman e altri.

Distogliere l’attenzione del pubblico

Una spiegazione ancora migliore per la decisione presa dal governo di allentare il blocco è la precaria situazione politica di Netanyahu. Ogni volta che le proteste contro il suo governo si fanno sentire, Netanyahu utilizza una crisi nella sicurezza per distogliere l’attenzione pubblica dai problemi economici e legali che affliggono la sua amministrazione.

Dieci anni fa, mentre i manifestanti invocavano giustizia sociale, Netanyahu ha falsamente accusato gli abitanti della Striscia di Gaza di essere coinvolti in un attacco che aveva avuto origine in Egitto, e ha ordinato il bombardamento del territorio costiero. Allo stesso modo, nel 2014-15, mentre gli investimenti stranieri in Israele crollavano e il Paese affrontava una crisi abitativa, Netanyahu spostò l’attenzione sull’Iran, affermando che prima di potersi prendere cura della qualità della vita bisogna prendersi cura della “vita stessa”.

Adesso i manifestanti stanno protestando contro le pesanti conseguenze economiche provocate dal blocco del Covid-19, la massiccia disoccupazione e il fatto che Netanyahu sia piuttosto impegnato a combattere le accuse di corruzione che ad affrontare la crisi – e niente può essere più utile di una piccola guerra o di una rivolta palestinese per dichiarare elezioni anticipate e vincerle come “Mr. Security”.

Sembra ormai chiaro che Benny Gantz, il “primo ministro di rimpiazzo” e rivale di Netanyahu, abbia interessi opposti. Nella sua qualità di ministro della Difesa è nella posizione ideale per mettere a frutto quanto appreso come comandante dell’esercito israeliano, vale a dire che le restrizioni alla libera circolazione dei palestinesi non creano sicurezza per gli israeliani, anzi – e che lasciare le famiglie palestinesi passare attraverso i varchi del muro diminuisce la loro motivazione immediata ad attaccare Israele.

Provocazioni fallite

Netanyahu non ha perso l’occasione di scatenare un po’ di violenza e cavalcare l’ondata di paura per un altro mandato come primo ministro, ma i suoi tentativi di provocare uno scontro con Hezbollah in Libano sono falliti, con l’esplosione di Beirut che rende il momento particolarmente inopportuno perché le forze israeliane scatenino attacchi mentre il resto del mondo invia aiuti.

Quindi, proprio come il suo predecessore Ehud Olmert, Netanyahu ha spostato l’attenzione dal Libano alla Striscia di Gaza. All’inizio di questo mese, alcuni palloni che trasportavano materiali incendiari sono stati lanciati da Gaza in Israele, provocando incendi nei campi israeliani. Non sono stati riportati feriti, tuttavia Netanyahu li ha usati come giustificazione per lanciare attacchi aerei, chiudere posti di blocco, fermare l’importazione di combustibile a Gaza e persino bloccare gli aiuti del Qatar al territorio assediato.

Tutto ciò, tuttavia, non è riuscito finora a indurre Hamas ad un attacco di ritorsione. Hamas ha già una chiara comprensione della politica israeliana e sa esattamente cosa Netanyahu stia cercando di ottenere.

Qualche gita al mare non farà dimenticare ai palestinesi il dolore dell’occupazione, né allevierà lo stress e la paura di una vita senza diritti – ma questa breve storia è sufficiente a dimostrare che il muro non ha mai riguardato la sicurezza israeliana, e che separare le diverse popolazioni che vivono sotto il controllo israeliano non è sostenibile.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Shir Hever è membro del consiglio di Jewish Voice for a Just Peace in the Middle East [Voce ebraica per una pace giusta in Medio Oriente].

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




“Questa non è la pace. È la normalizzazione dell’occupazione”: per i palestinesi l’accordo tra Israele e gli Emirati è pericoloso

Akram Al-Waara Betlemme, Cisgiordania occupata

domenica 16 agosto 2020 – Middle East Eye

In tutti i territori i palestinesi ritengono che questo patto incoraggi l’occupazione israeliana a danno dei loro legittimi diritti.

In questi giorni nei territori palestinesi occupati l’annuncio dell’accordo di normalizzazione tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti (EAU) è stato sulle prime pagine dei giornali locali: i palestinesi e i loro dirigenti vi esprimono la propria indignazione di fronte a quello che considerano un “tradimento” da parte di un altro Paese arabo.

L’accordo, annunciato giovedì sera, è stato negoziato dal presidente americano Donald Trump e stabilisce che Israele sospenderà l’annessione di alcune parti della Cisgiordania in cambio di relazioni diplomatiche con gli EAU.

Se gli EAU sono il primo Stato arabo del Golfo a raggiungere un tale accordo pubblico con Israele, da molto tempo il Paese, come la vicina Arabia Saudita, si dimostra amichevole nei confronti di Israele e ha messo in pratica una normalizzazione “nascosta”.

Un comunicato congiunto del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e del principe ereditario di Abu Dhabi Mohammed ben Zayed (MBZ) ha celebrato questa decisione definendola “un progresso diplomatico storico” in grado di far avanzare la pace nella regione mediorientale. Tuttavia i palestinesi ritengono che questo nuovo accordo otterrà l’effetto contrario.

È una decisione pericolosa che non porterà che ulteriori persecuzioni contro i palestinesi,” garantisce a Middle East Eye Iyad Nasser, segretario generale di Fatah nel sud della Striscia di Gaza. Egli dice a MEE che, come tutti i palestinesi, giovedì, all’annuncio di questo accordo, gli abitanti della Striscia di Gaza assediata da Israele sono stati sopraffatti da disillusione e frustrazione.

Si percepiva nell’aria la sensazione di essere stati traditi dai nostri fratelli,” racconta. “Con questa decisione gli EAU non tradiscono solo il popolo palestinese, ma l’insieme degli arabi e persino la loro stessa popolazione.”

A Gerusalemme est occupata, Jawad Siyam, direttore del centro d’informazione Wadi Hilweh nel quartiere di Silwan, esprime un’opinione simile: “La normalizzazione è un tradimento. Nient’altro che questo.”

Se per lui come per molti altri il momento scelto per annunciare questa decisione è una sorpresa, Siyam precisa che la normalizzazione dei rapporti tra Israele ed Emirati Arabi Uniti era prevista da molto tempo. “Bisognava essere ciechi per pensare che non sarebbe successo,” afferma Jawad Siyam. Secondo lui “da anni si poteva vederli agire insieme. Non sono solo gli Emirati, ci sono l’Egitto, l’Arabia Saudita e gli altri Paesi del Golfo. Sono i servi di Israele e degli Stati Uniti.”

A Betlemme, città della Cisgiordania occupata, gli effetti dell’occupazione israeliana sono assolutamente visibili. Circondati da muri e colonie in espansione, i palestinesi che vi abitano vivono con il ricordo costante che Israele controlla le loro vite.

George Zeidan, 30 anni, attivista locale e cofondatore del gruppo “Diritto di Muoversi”, dichiara a MEE che l’annessione è una “realtà quotidiana per i palestinesi in Cisgiordania. Utilizzare l’annessione come giustificazione per la normalizzazione è scandaloso,” ritiene l’attivista, in riferimento alla presunta promessa di Israele di sospendere questa politica in cambio delle relazioni diplomatiche con gli EAU.

L’annessione è una pratica illegale,” afferma. “Quindi il congelamento di una politica illegale non dovrebbe concedere ad Israele la pace con le Nazioni arabe. Non è una cosa per la quale dovrebbe essere ricompensato.”

D’altra parte, secondo George Zeidan l’idea che l’annessione sia stata congelata in conseguenza di questo accordo è una farsa: “Solo un’ora o due dopo questo annuncio, Netanyahu ha chiaramente promesso che non smetterà di perseguire l’annessione. È veramente patetico. Per ottenere questo rapporto diplomatico Israele non ha ceduto su niente.”

Tutti amano la pace,” continua. “Ma questa non è la pace. È la normalizzazione di un’occupazione. È un’occupazione quotidiana sul terreno, con la quale Israele continua a umiliare tutti i giorni la popolazione palestinese nei territori occupati.”

Una farsa”

Se l’annessione ufficiale della Cisgiordania è stata sospesa, il furto e l’appropriazione continui delle terre palestinesi non sono cessati, sottolinea, aggiungendo che l’annessione era stata ufficialmente rimandata parecchi mesi fa.

George Zeidan, Iyad Naser e Jawad Siyam hanno espresso la stessa opinione: che gli EAU si attribuiscano il merito della sospensione dell’annessione è una farsa.

È demoralizzante vedere che gli EAU utilizzano l’annessione per mascherare le loro iniziative di normalizzazione,” insiste Jawad Siyam con MEE. “Cercano di mostrare che attraverso questo accordo sostengono la Palestina, ma si capisce chiaramente il loro gioco.”

Si sa che non è così. Con questo accordo gli EAU hanno offerto a Trump e a Netanyahu un regalo per aiutarli a realizzare il loro programma politico,” spiega.

Trump utilizza questo successo per la sua campagna elettorale e Netanyahu per portare avanti le sue politiche nei territori occupati,” continua Jawad Siyam. “Da quando in luglio ha sospeso ufficialmente l’annessione, Netanyahu è soggetto ad una forte pressione da parte della destra israeliana, così questo accordo lo aiuta a tenersi a galla.”

Iyad Naser sottolinea che alla fine l’annessione non è stata ufficialmente annunciata come previsto il primo luglio a causa della crescente pressione internazionale, delle minacce di condizionare l’aiuto a Gerusalemme da parte del Congresso americano e della posizione dei cittadini palestinesi e dei loro dirigenti.

Con l’aiuto della comunità internazionale abbiamo fatto pressione su Israele e sugli Stati Uniti per bloccare l’annessione,” dice. “Gli emirati non hanno fatto niente. Non gli permetteremo di usarla come scusa per mascherare la loro vergogna.”

Iyad Naser ricorda l’iniziativa di pace del 2002, che offriva un più ampio riconoscimento di Israele se quest’ultimo si fosse ritirato all’interno delle frontiere del 1967 e avesse risolto il problema dei rifugiati palestinesi.

Nel quadro dell’iniziativa di pace araba la normalizzazione con Israele avrebbe dovuto essere l’ultima tappa di questo processo,” insiste. “Prima avrebbero dovuto essere garantiti i diritti dei palestinesi, restituite le loro frontiere e le loro terre, la loro libertà, poi sarebbe venuta la normalizzazione. E non il contrario.” 

In tutto lo spettro politico gli attivisti e i dirigenti palestinesi sono d’accordo sul fatto che questo accordo tra Israele e gli EAU costituisca un pericoloso precedente nella regione e a livello internazionale.

La Giordania, l’Egitto e ora gli EAU sono per il momento gli unici Paesi arabi ad avere ufficialmente relazioni diplomatiche con Israele. I palestinesi ritengono che questo nuovo accordo aprirà la strada ad altri Paesi della regione. 

Questo accordo è pericoloso perché legittima l’occupazione dal punto di vista internazionale,” dice a MEE George Zeidan.

Quando le persone vedranno che i Paesi arabi cominciano a firmare accordi con Israele sarà più difficile fare pressioni su Israele per porre fine alle sue violazioni dei diritti umani nei territori occupati.”

Il sostegno alla nostra causa e alla liberazione tra gli Stati arabi verrà inevitabilmente indebolita,” prevede il responsabile di Fatah. “Oggi dirigenti come MBZ e MBS (il principe ereditario saudita Mohammed ben Salman) tradiscono le politiche dei loro nonni che appoggiavano la Palestina. E altri Paesi finiranno per seguire l’esempio degli Emirati.”

Nonostante un futuro che sembra oscuro e la possibilità di una normalizzazione regionale con Israele, i palestinesi dicono di sperare ancora che il sostengo alla loro causa si manifesterà tra i popoli di tutto il mondo.

Malgrado il sostegno degli Stati del Golfo a Israele, abbiamo potuto constatare più volte che i popoli arabi sostengono sempre i palestinesi e la nostra lotta per la libertà,” nota Jawad Siyam.

Anche se non abbiamo il sostegno dei loro dirigenti, speriamo che i popoli di tutto il mondo continueranno a sostenere i diritti dell’uomo e a fare pressione su Israele per mettere fine all’occupazione.”

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




“Una pugnalata alle spalle”: i palestinesi denunciano l’accordo di normalizzazione tra gli Emirati e Israele

MEE e agenzie

venerdì 14 agosto 2020 – Middle East Eye

I palestinesi e i loro sostenitori hanno condannato duramente l’accordo concluso da Abu Dhabi con Israele, che ha peraltro annunciato per bocca del suo primo ministro Benjamin Netanyahu che l’annullamento del progetto di annessione che si pensava fosse previsto nel patto non è garantito

Questo giovedì in un comunicato l’Autorità Nazionale Palestinese ha denunciato l’accordo di normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti (EAU) con il sostegno degli Stati Uniti, definendolo un “tradimento di Gerusalemme, di Al-Aqsa e della causa palestinese” ed esigendone il ritiro.

Questo accordo, che dovrà essere firmato tra tre settimane a Washington, farebbe di Abu Dhabi la terza capitale araba a seguire questa via dalla creazione di Israele.

La direzione (palestinese) afferma che né gli EAU né nessun’altra controparte hanno il diritto di parlare in nome del popolo palestinese, né consente a chicchessia di intervenire negli affari palestinesi riguardanti i loro legittimi diritti sulla loro patria.”

L’Autorità Nazionale Palestinese ha richiamato il suo ambasciatore ad Abu Dhabi e chiesto una “riunione d’urgenza” della Lega Araba e dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica (OCI) per denunciare il progetto.

La normalizzazione delle relazioni tra Israele e le potenze del Golfo come Bahrein, Arabia Saudita ed Emirati è uno degli aspetti del piano dell’amministrazione Trump per il Medio Oriente, accolto dagli israeliani ma duramente criticato dai palestinesi.

Questo piano prevede anche l’annessione da parte di Israele della Valle del Giordano e di centinaia di colonie ebraiche in Cisgiordania, giudicate illegali dal diritto internazionale. Giovedì sera il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto di aver “rinviato” questo progetto, senza tuttavia “avervi rinunciato”.

La dirigenza palestinese “rifiuta questo scambio tra la sospensione dell’annessione illegale e la normalizzazione con gli EAU che avviene a spese dei palestinesi,” continua il comunicato, che definisce l’accordo tra Israele e gli Emirati “un’aggressione contro i palestinesi.”

Hanan Ashrawi, una dei maggiori esponenti dell’Autorità Nazionale Palestinese che governa la Cisgiordania, ha dichiarato che in questo modo Israele è stato ricompensato per le sue azioni illegali dal 1967 nei territori palestinesi.

Gli EAU hanno rivelato alla luce del sole i loro rapporti segreti e la normalizzazione con Israele. Vi preghiamo, non fateci dei favori. Non siamo la foglia di fico di nessuno!” ha twittato.

Possiate voi non provare mai la sofferenza di vedersi rubare il proprio paese; possiate voi non provare mai il dolore di vivere prigionieri sotto occupazione; possiate voi non assistere mai alla demolizione della vostra casa o all’uccisione dei vostri cari. Possiate voi non essere mai venduti dai vostri ‘amici’,” ha aggiunto.

Awni Almashni, un responsabile del movimento Fatah del presidente palestinese Mahmoud Abbas, e attivista della città di Betlemme, in Cisgiordania, ha dichiarato a Middle East Eye che la pace nella regione non potrà essere ottenuta che risolvendo i problemi che i palestinesi devono affrontare.

Gli accordi che Israele cerca di concludere con i Paesi musulmani ed arabi sono un mezzo per eludere ed evitare la questione palestinese, ma qualunque piano di pace con un Paese arabo non è che un’illusione e non risolverà il problema principale tra Israele e la Palestina,” ha avvertito.

In passato Israele ha cercato di costruire la pace con certi Paesi arabi, ma noi sappiamo che non ha raggiunto nessun tipo di pace nella regione.”

L’attivista nota che l’annessione è stata congelata molto prima dell’annuncio di giovedì, grazie al popolo palestinese e al rifiuto categorico da parte della comunità internazionale.

Secondo lui legare l’annessione all’intesa tra gli EAU e Israele “è un tentativo di presentare l’accordo con Israele come un successo, cosa che non è affatto.”

Hamas, il movimento palestinese che governa la Striscia di Gaza assediata da Israele, ha definito “pericoloso” l’accordo tra Israele e gli Emirati.

L’accordo tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti è uno sviluppo pericoloso nel segno della normalizzazione e un colpo a tradimento contro i sacrifici del popolo palestinese,” ha dichiarato.

Per i comitati di resistenza popolare della Striscia di Gaza l’accordo “rivela l’ampiezza della cospirazione contro (il) popolo e (la) causa (palestinesi).”

Lo consideriamo una pugnalata alle spalle perfida e velenosa contro la nazione e la sua storia,” ha aggiunto l’organizzazione.

Anche la Jihad islamica, un altro gruppo della resistenza che opera da Gaza, ha condannato il patto: “Chiunque non sostenga la Palestina con una pallottola dovrebbe vergognarsi,” ha dichiarato.

Da parte sua l’Alleanza Nazionale Democratica, nota anche con il nome di partito Balad [gruppo politico arabo-israeliano, ndtr.], ha dichiarato che la decisione “incoraggia Israele a continuare con le attuali politiche (…) che privano i palestinesi dei loro legittimi diritti storici. Gli EAU si sono ufficialmente uniti a Israele contro la Palestina e si sono collocati nel campo dei nemici del popolo palestinese.”

Una “sciocchezza strategica di Abu Dhabi e di Tel Aviv”

Anche vari Paesi della regione hanno condannato l’accordo.

Questo venerdì la Turchia ha così accusato gli Emirati Arabi Uniti di “tradire la causa palestinese” accettando di firmarlo.

Gli Emirati Arabi Uniti cercano di presentarlo come una sorta di sacrificio per la Palestina, mentre tradiscono la causa palestinese per i propri meschini interessi,” ha reagito in un comunicato il ministero degli Esteri turco.

La storia e la coscienza dei popoli della regione non dimenticheranno questa ipocrisia e non la perdoneranno mai,” ha aggiunto.

Ardente difensore della causa palestinese, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan critica regolarmente i Paesi arabi che accusa di non adottare un atteggiamento sufficientemente fermo di fronte a Israele.

La vivace reazione di Ankara arriva anche nel momento in cui le relazioni tra la Turchia e gli Emirati Arabi Uniti, due rivali regionali, sono tese. I due Paesi si scontrano in particolare in Libia, dove sostengono campi opposti.

Anche l’Iran ha condannato duramente l’accordo, descritto come una “sciocchezza strategica di Abu Dhabi e di Tel Aviv, che rafforzerà senza dubbio l’asse della resistenza nella regione. Il popolo oppresso di Palestina e tutte le Nazioni libere del mondo non perdoneranno mai la normalizzazione dei rapporti con l’occupante e il regime criminale di Israele, così come la complicità con i crimini del regime,” ha dichiarato in un comunicato il ministero iraniano.

La Giordania, che nel 1994 ha firmato un trattato di pace con Israele, diventando il secondo Paese arabo dopo l’Egitto a farlo, non ha né accolto favorevolmente né condannato l’accordo, ritenendo che il suo futuro dipenderà dalle prossime iniziative di Israele e in particolare dal fatto che possa spingere Israele ad accettare uno Stato palestinese sulla terra che ha occupato dopo la guerra arabo-israeliana del 1967.

Se Israele l’ha considerato come un incitamento a mettere fine all’occupazione (…) ciò porterà la regione verso una pace giusta,” ha dichiarato il ministro degli Affari Esteri Ayman Safadi in un comunicato ai mezzi di informazione statali.

Annullamento o semplice rinvio dell’annessione?

Secondo Abu Dhabi, in cambio di questo accordo Israele ha accettato di “mettere fine alla realizzazione dell’annessione dei territori palestinesi.”

Durante una telefonata tra il presidente Trump e il primo ministro Netanyahu si è trovato un accordo per mettere fine a una qualunque ulteriore annessione,” ha affermato il principe ereditario di Abu Dhabi, lo sceicco Mohammed ben Zayed al-Nahyane sul suo account twitter.

Ma il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non lo ha confermato, parlando di un semplice “rinvio”.

L’annessione di parti di questo territorio palestinese occupato è “rinviata”, ma Israele non vi ha “rinunciato”, ha affermato Netanyahu. “Ho portato la pace, realizzerò l’annessione,” ha persino proclamato.

La formulazione è stata scelta con cura dalle diverse parti. ‘Pausa temporanea’, non è definitivamente scartata,” ha sostenuto da parte sua l’ambasciatore americano in Israele David Friedman.

Ciononostante l’accordo è stato ben accolto da gran parte della comunità internazionale.

Così la Francia ha giudicato che “la decisione presa in questo contesto dalle autorità israeliane di sospendere l’annessione dei territori palestinesi (è) una tappa positiva, che (dovrebbe) diventare una misura definitiva,” secondo il capo della diplomazia francese, Jean-Yves Le Drian.

Per le Nazioni Unite questo accordo potrebbe creare “un’occasione per i dirigenti israeliani e palestinesi di riprendere negoziati concreti, che portino a una soluzione dei due Stati in base alle risoluzioni dell’ONU a questo riguardo,” ha dichiarato il segretario generale dell’organizzazione, António Guterres.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Israele attacca la Striscia di Gaza come “rappresaglia” per i palloni incendiari

MiddleEastEye

12 agosto 2020 middleeasteye

L’esercito israeliano afferma di aver colpito delle infrastrutture controllate da Hamas, comprese “infrastrutture sotterranee e posti di osservazione”

Israele ha ripetutamente attaccato la Striscia di Gaza come rappresaglia per il lancio nei giorni scorsi dall’enclave assediata di palloni incendiari.

L’esercito israeliano ha detto mercoledì di aver effettuato attacchi notturni su bersagli di Hamas, comprese “infrastrutture sotterranee e posti di osservazione”.

“Jet, elicotteri d’attacco e carri armati hanno colpito diversi obiettivi di Hamas”, si legge in un comunicato.

L’esercito ha detto che gli attacchi sono stati di “rappresaglia” per il lancio di molti palloni dall’enclave gestita da Hamas. I vigili del fuoco nel sud di Israele hanno detto che solo martedì i palloni hanno causato 60 incendi ma nessuna vittima.

Gli esplosivi legati a palloncini e aquiloni sono apparsi per la prima volta come arma a Gaza durante le intense proteste del 2018, quando i dispositivi improvvisati attraversavano il confine ogni giorno, provocando migliaia di incendi nelle fattorie e nelle comunità israeliane.

La scorsa settimana, per tre volte questi palloni sono stati lanciati da Gaza verso Israele, provocando ogni volta attacchi di rappresaglia contro le posizioni di Hamas.

Lunedì Hamas ha lanciato anche diversi razzi in mare dopo i ripetuti scambi di fuoco con Israele degli ultimi giorni, come hanno riferito fonti della sicurezza palestinese e testimoni oculari.

I razzi erano un “messaggio” a Israele per fargli sapere che i gruppi armati di Gaza non “rimarranno in silenzio” di fronte all’assedio israeliano e all’ “aggressione”, ha detto all’Agenzia France-Press una fonte vicina ad Hamas.

Un altro funzionario di Hamas ha detto che si è trattato di un tentativo di attrarre l’attenzione sul blocco ai tentativi di fornire aiuti alla Striscia.

“Hanno affermato che c’erano intese e accordi sull’avanzamento dei progetti, principalmente nel campo delle infrastrutture e sul piano umanitario, ma tutto sembra essere bloccato”, ha detto il funzionario ad Haaretz.

Chiusi i passaggi di frontiera

In risposta ai recenti lanci di palloncini Israele ha chiuso il passaggio delle merci verso la Striscia di Gaza a Kerem Shalom.

Hamas ha detto che la mossa dimostra “l’ostinazione di Israele nell’assedio” a Gaza, e segnalato che la cosa potrebbe causare un ulteriore peggioramento della situazione umanitaria nel territorio.

Dopo la chiusura del valico di Kerem Shalom, martedì per la prima volta da aprile è stato aperto il valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto.

Il traffico in entrambe le direzioni avrebbe dovuto essere consentito per tre giorni, permettendo agli abitanti di Gaza di lasciare l’enclave per la prima volta dall’inizio della pandemia.

Il valico di Rafah rappresenta per Gaza l’unico accesso al mondo esterno non controllato da Israele.

Il territorio palestinese è sotto il blocco israeliano dal 2007.

Hamas e Israele hanno combattuto tre guerre dal 2008.

Nonostante una tregua l’anno scorso, sostenuta da Nazioni Unite, Egitto e Qatar, le due parti si scontrano sporadicamente con razzi, colpi di mortaio o palloni incendiari.

Alcuni analisti palestinesi affermano che il fuoco transfrontaliero da Gaza è spesso usato come moneta di scambio perché Israele dia il via libera all’ingresso nel territorio degli aiuti finanziari dal Qatar.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Gestire l’occupazione e nascondere i crimini di guerra: come Israele ha trasformato il paesaggio in Palestina

Clothilde Mraffko

sabato 1 agosto 2020 – Middle East Eye

Vegetazione, architettura, strade, muri…Il progetto sionista ha rimodellato il paesaggio in Israele e nei territori occupati, creando complessi intrecci in cui la presenza palestinese è nascosta, quando non è messa sotto sorveglianza o rinchiusa

Per il viaggiatore europeo che arriva dall’aeroporto di Tel Aviv l’ingresso a Gerusalemme offre un panorama stranamente familiare. Poco prima che la città santa scopra le sue prime colline, l’autostrada si snoda tra monti verdeggianti. Qui gli alberi ricordano più le foreste europee che i paesaggi del vicino Libano. Lungi dall’immagine biblica di uliveti, sono pini e cipressi a coprire i rilievi.

Ancor prima della creazione di Israele nel 1948 “gli immigrati sionisti che arrivarono qui dall’Europa, in particolare da quella dell’est, volevano che il paesaggio fosse più verde, con alberi, che assomigliasse a quello che conoscevano”, ricorda a Middle East Eye Noga Kadman, ricercatrice indipendente, autrice del libro Erased from Space and Consciousness: Israel and the Depopulated Palestinian Villages of 1948 [Cancellati dallo spazio e dalla consapevolezza: Israele e i villaggi palestinesi spopolati del 1948].

Allora molti emigrarono con in testa un mito: la Palestina è una terra senza popolo per un popolo senza terra, gli ebrei. Solo che in realtà, all’inizio del 1948 circa 900.000 palestinesi vivevano all’interno delle frontiere di quello che sarebbe diventato Israele.

Nell’immaginario dei nuovi arrivati ebrei sussisteva nonostante tutto l’“idea che il paese fosse stato abbandonato per centinaia di anni,” continua Noga Kadman. Quindi gli immigrati si misero a piantare a tutto spiano sul territorio, ricorrendo principalmente a due specie di alberi: l’eucalipto e il pino di Aleppo, o pino di Gerusalemme.

Importato dall’Australia l’eucalipto venne inizialmente piantato ovunque: serviva a prosciugare le paludi e soprattutto cresceva molto in fretta. Ma, troppo avido di acqua, non era effettivamente adatto alla Palestina.

Venne sostituito un po’ alla volta dal pino di Aleppo che, a differenza di quello che farebbe pensare il suo nome, non è neppure lui una specie locale. Si trova piuttosto nel Mediterraneo occidentale, ad esempio nel sud della Francia. Anch’esso cresce rapidamente, resiste alla siccità, ma al contempo è più vulnerabile agli incendi.

Il paesaggio si trasformò dunque un po’ alla volta, soggetto alle iniziative del Fondo Nazionale Ebraico (FNE). L’agenzia, creata dall’inizio del XX secolo per acquisire terre in Palestina per gli immigrati ebrei, dal 1948 venne incaricata di occuparsi delle terre da cui erano stati cacciati i palestinesi, definite, in assenza dei loro proprietari, proprietà dello Stato.

Attualmente il Fondo gestisce soprattutto le foreste in Israele e si vanta di aver piantato “centinaia di milioni di alberi”, asserisce in sua difesa uno dei portavoce del Fondo, Alon Brandt, in una lettera di risposta a Middle East Eye. Precisa che l’organizzazione non ha piantato solo pini di Aleppo, ma anche ulivi, la specie locale per eccellenza.

Ma alcune critiche fanno notare che le piantagioni del FNE non hanno creato dei veri ecosistemi. Al contrario, dato che queste specie non sono abbastanza diversificate, questi luoghi non hanno l’aspetto di vere foreste: i pini hanno reso il suolo acido e gli animali non abitano effettivamente in questi luoghi in cui il sottobosco non ha messo radici.

Prendere possesso della terra”

Ma il FNE non cerca solo di rinverdire la Palestina. “Piantare alberi era un modo per prendere possesso della terra,” sostiene Noga Kadman. A tutt’oggi, nelle “località palestinesi in Israele, se non si vuole che le città si ingrandiscano con la costruzione di nuove case, gli si piantano attorno dei boschi,” aggiunge.

Nel Negev, nel sud di Israele, le autorità israeliane hanno demolito addirittura un intero villaggio per rimboschire il deserto. Lo scorso 12 febbraio la località di al-Araqib è stata distrutta per la 175sima volta. Su appezzamenti di terra che gli abitanti, beduini arabi israeliani discendenti dei palestinesi rimasti sulle loro terre nel 1948, sostengono essere loro, nel 2006 il FNE ha iniziato a piantare alberi: conta di crearvi con il tempo due boschi.

Gli alberi servono anche a nascondere le stigmate della nascita violenta di Israele: “La priorità della politica di riforestazione portata avanti dal FNE è di nascondere i suoi crimini di guerra in modo che Israele sia considerato come l’unica democrazia del Medio Oriente,” denunciava nel 2005 il militante israeliano dei diritti civili Uri Davis.

Tra il 1947 e il 1949, dai 750.000 agli 800.000 palestinesi vennero espulsi dalle proprie terre dalle milizie sioniste, cacciati con la forza o in fuga dai combattimenti per trovare rifugio nei Paesi confinanti. Nel maggio 1948 venne creato lo Stato di Israele; per i palestinesi questa data infausta è commemorata come la Nakba, la “catastrofe” in arabo.

Più di 400 villaggi vennero allora distrutti, ricorda Noga Kadman: “La metà di questi villaggi sono sepolti sotto cittadine israeliane o sono stati inglobati in esse.”

Ma una parte di essi, secondo lei 68, si trovano oggi su terre appartenenti al FNE, di cui “46 sono sepolti sotto un bosco.” Dal 1948 gli alberi vennero rapidamente piantati sulle rovine delle case palestinesi; Israele sperava così di dissuadere i rifugiati dal tentare di tornare e ricostruire le loro abitazioni.

Una politica proseguita nel 1967. Durante la guerra dei Sei Giorni le battaglie di Latrun permisero agli israeliani di impossessarsi di tutta Gerusalemme. Spinsero anche sulla via dell’esilio circa 10.000 palestinesi che vivevano in questa enclave, all’epoca sotto controllo della Transgiordania, molto vicina alla città santa.

Oggi palestinesi e israeliani conoscono il luogo soprattutto perché è uno degli spazi di svago più belli nei dintorni di Gerusalemme: 700 ettari con cascate, piste ciclabili e tavoli per scampagnate all’ombra.

Solo che il parco Ayalon in realtà è stato costituito sulle rovine di due villaggi palestinesi, Amwas e Yalu, totalmente rasi al suolo nel 1967, così come sulle terre di un’altra località, Beit Nuba. Oggi non ne resta che un santuario e dei fichi d’india che, in Palestina, servivano per delimitare i terreni delle famiglie. Le forme spinose con frutti rossi e gialli, che hanno paradossalmente dato il loro nome agli israeliani (sabra [frutto dei fichi d’india in ebraico. Si riferisce agli ebrei nati n Palestina, ndtr.]), costellano i sentieri del parco, come per ricordare che una volta vi si trovavano dei villaggi palestinesi.

I generosi donatori canadesi che resero possibile la costituzione del parco Ayalon, inaugurato dal FNE nel 1976, di questa tragica storia non ne sapevano niente.

Nel 1991 un servizio della televisione canadese rivelò al pubblico d’oltre Atlantico che il parco non solo venne in parte costituito dall’altra parte della Linea verde, la frontiera internazionalmente riconosciuta nel 1949 tra un futuro Stato palestinese e Israele – quindi su territorio occupato -, ma che servì soprattutto a seppellire le rovine di più di un migliaio di case distrutte. Il FNE fu costretto a scusarsi. Non ha risposto alle domande di MEE su questo argomento.

Si dovrà attendere il 2006 e una decisione della giustizia israeliana perché i visitatori potessero finalmente venire a conoscenza della tragica storia del luogo, sintetizzata in ebraico su cartelli in legno. L’organizzazione israeliana “Zochrot”, “Ricordi” in ebraico [associazione israeliana che si dedica a mantenere viva la memoria dei villaggi palestinesi distrutti da Israele, ndtr.], ha intentato un’azione legale contro il FNE per obbligarlo a non cancellare la memoria di Amwas e Yalu.

Una segregazione visibile

Se centinaia di villaggi palestinesi vennero rasi al suolo quando fu creato Israele, le grandi città vennero preservate, ma depurate da ogni presenza araba. Così, racconta lo storico israeliano Ilan Pappé nella sua opera “La pulizia etnica della Palestina”, nel 1948, insieme al mercato, “uno dei più belli del suo genere”, 227 case furono demolite a Haifa e circa 500 altre abitazioni palestinesi furono ridotte in polvere a Tiberiade, nel nord-est del Paese, a Jaffa e ancora a Gerusalemme ovest.

Israele si costruì così su un principio: nessuna mescolanza tra ebrei israeliani e quelli che vengono chiamati arabi israeliani, discendenti dei palestinesi rimasti sulle loro terre nel 1948 e che vissero sotto amministrazione militare fino al 1966.

Salvo rare eccezioni, spesso nelle zone più povere, “su tutto il territorio si nota una segregazione tra israeliani e palestinesi,” spiega a Middle East Eye Efrat Cohen-Bar, architetto dell’Ong israeliana per la difesa dei diritti umani “Bimkom”. L’idea principale “è che non si voglia stare insieme, e questo vale per entrambe le parti,” ritiene. A ognuno il suo quartiere, ognuno nella sua città.

Un credo ancora più evidente in Cisgiordania, territorio palestinese sotto occupazione israeliana dal 1967. Qui due mondi, i coloni israeliani e i palestinesi sotto occupazione, si incrociano ma non si incontrano mai. Una segregazione iscritta, in modo molto più brutale, nel paesaggio.

Così, dall’uscita da Gerusalemme, lungo la strada di Betlemme, il simbolo più evidente di questi paesaggi sotto occupazione compare da quando si supera il primo tunnel: a volte fatto di blocchi di cemento, a volte di staccionate più alte dei muri antirumore delle autostrade o ancora imponente recinzione, il muro di separazione costruito da Israele negli anni 2000, giudicato illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia chiude l’orizzonte. In basso le case palestinesi si distinguono appena.

Questa frontiera, iscritta nel paesaggio, incarna di per sé sola tutte le altre strutture militari contro cui vanno a sbattere i palestinesi quando si avventurano fuori dalle loro città e villaggi: blocchi stradali, check point, torri di guardia, barriere…

Al contrario, attraverso un ingegnoso dedalo di tunnel, strade riservate alle vetture israeliane e ponti, i coloni israeliani passano da una colonia all’altra senza mai entrare in contatto con una località palestinese. Uno stato di fatto che l’annessione delle colonie, promessa da Israele in questi ultimi mesi con l’appoggio degli Stati Uniti, dovrebbe rafforzare. La segregazione non potrà che essere più impressionante.

La collocazione stessa delle colonie racconta questa storia di dominazione: “Storicamente i villaggi palestinesi erano costruiti in base a dove si trovavano le fonti d’acqua, quindi generalmente non sulla cima delle colline,” spiega Efran Cohen-Bar.

Ma praticamente tutte le colonie israeliane sono iniziate dalla cima. Anche un modo per dire: noi possediamo questa terra, è nostra.” La cima delle colline, meno fertile, è anche spesso il luogo più a disposizione per nuove costruzioni.

L’occupazione israeliana si sviluppa in modo strategico: il paesaggio cambia in base all’evoluzione degli interessi israeliani.

All’inizio era un tentativo di controllare il territorio, un po’ come se le colonie fossero dei mezzi corrazzati e delle basi militari. Poi sono state piazzate in modo da bloccare la creazione di uno spazio palestinese contiguo, distruggendo così la possibilità di uno Stato,” precisa a Middle East Eye Eyal Weizman, fondatore di “Forensic Architecture” [Architettura Forense], un’organizzazione che indaga le violazioni dei diritti dell’uomo utilizzando, tra le altre cose, l’architettura.

Del resto la mappa dello Stato palestinese immaginato da Donald Trump nel quadro del suo “piano di pace” è il risultato di questa strategia: vi si individua un insieme di isolette palestinesi legate le une alle altre da tunnel e ponti, senza omogeneità geografica.

Così in Cisgiordania il visitatore può identificare due mondi con un solo colpo d’occhio: da una parte case palestinesi con i tetti piatti, sparse sul fianco della collina, sopra i campi, dall’altra le colonie, spesso un insieme di edifici tutti uguali, identificabili per i loro tetti rossi, a punta, all’occidentale, e arroccati sulla cima dei rilievi.

In Israele non abbiamo bisogno di quel tipo di tetti, che servono per la neve,” rileva Efran Cohen-Bar. “Ma non volevamo assomigliare a loro (ai palestinesi), volevamo differenziarci.”

Per parte sua Eyal Weizman sostiene che i tetti rossi erano obbligatori: permettono all’esercito israeliano di individuare rapidamente dal cielo le colonie, e quindi i luoghi da non bombardare.

Le case dei coloni israeliani sono disposte in cerchio e “si affacciano sul paesaggio per sorvegliare, per ragioni militari e di sicurezza e per godere del panorama”, spiega. “Da un lato gli israeliani non vogliono palestinesi sul posto, hanno distrutto la loro cultura e vogliono che se ne vadano. Ma dall’altra leggono gli elementi tradizionali del paesaggio, ad esempio gli uliveti e le case di pietra, come rappresentazioni bibliche.”

Perché Israele, pur avendo modificato profondamente il paesaggio palestinese per i suoi scopi strategici, continua a vendere ai turisti e ai suoi abitanti l’immagine di una terra vergine, identica a quella dove gli ebrei vivevano ai tempi della Bibbia.

Quando fanno pubblicità (per spingere la gente a sistemarsi nelle colonie) dicono: ‘Venite a vivere nella natura, venite a vivere nel Paese della Bibbia’,” evidenzia Eyal Weizman. Un paesaggio tuttavia plasmato da quelli che essi [gli israeliani] non vogliono vedere: i palestinesi. È un paradosso,” conclude l’architetto.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Netanyahu incita alla violenza definendo i manifestanti un chiaro e tangibile pericolo

Lily Galili da Tel Aviv, Israel

30 luglio 2020 – Middle East Eye

Nel 1995 il primo ministro provocò l’odio che portò all’assassinio di Rabin, Questa volta sta facendo in modo che gli eventi producano direttamente l’odio contro i manifestanti

Nell’aria c’è violenza, un senso di pericolo. Di fatto c’è violenza anche sul campo. Settimana dopo settimana, in manifestazioni eccezionalmente persistenti e burrascose, c’è una costante violenza. Si teme un altro tipo di violenza, che uccide non solo la democrazia, ma può davvero uccidere anche le persone.

Lo stesso primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu pone le basi per questo tipo di violenza.

Giorno dopo giorno, provoca i manifestanti e li offende. Essi sono “anarchici”, tramano un “golpe” contro di lui e contro il governo di destra. Non si fa neppure scrupoli riguardo all’argomento antisemita degli “ebrei che diffondono malattie”.

Nella versione dello Stato ebraico di Netanayhu, i dimostranti pisciano nei cortili e quindi diffondono malattie infettive. Ciò è quanto ha detto riguardo alle proteste di massa davanti alla sua residenza a Gerusalemme.

In precedenza il suo figlio alter ego, Yair, ha twittato la foto di un manifestante che urinava davanti alla residenza del primo ministro. L’unico problema è che la fotografia era stata scattata negli Stati Uniti, un esempio di una lunga lista di notizie false intenzionalmente diffuse per gettare benzina sul fuoco.

Giorno dopo giorno Netanyahu solleva la questione di un pericolo chiaro e tangibile per lui e per la sua famiglia. Egli ne scrive continuamente nei suoi molto attivi interventi sulle reti sociali e agisce su questo mobilitando misure di protezione senza precedenti fornitigli dai servizi di sicurezza israeliani.

La sua residenza ufficiale a Gerusalemme e la villa privata della sua famiglia a Cesarea, entrambi luoghi in cui si svolgono manifestazioni di massa, sembrano più che altro fortezze.

Questa è in effetti una reazione molto inusuale per gli standard israeliani. In precedenza molti ex-primi ministri e importanti politici sono stati vittime di incitamenti all’aggressione e di esplicite minacce: per citarne solo qualcuno, i primi ministri Ariel Sharon, Menachem Begin e Yitzhak Rabin, che venne effettivamente ucciso da un giovane ebreo di estrema destra.

Tutti minimizzarono le minacce, forse per orgoglio e machismo fuori luogo.

Netanayhu, tuttavia, ingigantisce ed esagera a dismisura il “pericolo incombente”. Politici del Likud sono impegnati a sollevare in ogni occasione l’argomento del “pericolo per la vita del primo ministro”.

Non siamo spaventati dalle critiche, ma piuttosto della violenza contro il primo ministro e la sua famiglia,” ha detto durante un’intervista radiofonica Amir Ohana, ministro della Sicurezza Pubblica.

Ma quando gli è stato chiesto se la vita di Netanyahu sia realmente in pericolo, il generale di divisione in congedo Amiram Levin, ex-comandante in capo di un’unità militare d’élite ed ex- vice capo del Mossad, ha subito ribattuto: “Assolutamente no!”

È tutta una sua invenzione per delegittimare la protesta contro di lui,” ha detto a Middle East Eye. Però Levin ha dato brutte notizie: “Nelle prossime settimane uno o due manifestanti contro Netanyahu verranno uccisi da un proiettile, una granata o una qualunque altra arma. È solo una questione di tempo, un tempo piuttosto breve.”

L’avvertimento di Levin è arrivato quando un piccolo numero di dimostranti ha subito accoltellamenti, lanci di pietre e percosse da un gruppo violento di sostenitori di destra di Netanyahu, decisi a proteggere il loro uomo.

La sua fosca previsione è profondamente radicata nella storia delle proteste in Israele: la pallottola, o la granata, è sempre lanciata dalla destra contro la sinistra. Non ci sono precedenti di un proiettile sparato in direzione contraria.

È ancora più temibile ora, quando un super propagatore di incitamenti all’odio come Netanayhu sta giocando un ruolo da protagonista in questo pericoloso processo. È quello che fece 25 anni fa, partecipando attivamente all’istigazione che terminò con l’assassinio di Rabin.

Fortunatamente per lui, non c’è un Netanayhu che inciti contro Bibi [diminutivo dello stesso Netanayhu, ndtr.].

Un’atmosfera analoga

Amiram Goldblum, da moltissimi anni attivista per la pace ed ex-capo del movimento Peace Now [Pace Subito, movimento israeliano per la fine dell’occupazione e la pace con i palestinesi, ndtr.], ha ricordato che in precedenza importanti dirigenti e primi ministri hanno chiaramente evitato questo comportamento.

Al contrario di oggi, ai tempi della nostra protesta dell’‘83, l’incitamento venne dalla base del Likud, mai dallo stesso Begin,” dice, in riferimento ad una serie di manifestazioni di massa contro la prima guerra del Libano.

In modo più specifico, si riferisce alla manifestazione del 10 febbraio 1983 a Gerusalemme, dove uno dei dimostranti, Emil Grunzweig, venne ucciso da una granata lanciata contro il raduno per la pace da Yonah Avrushmi. L’assassino era l’esatto prototipo degli autoproclamati mercenari di destra, imbevuti di odio, che agiscono oggi contro le proteste.

Goldblum stava marciando accanto a Grunzweig quando esplose la granata. “L’atmosfera è molto simile a quella di decenni fa,” dice Goldblum a MEE.

Di fatto si tratta di un’altra fase della guerra civile iniziata con l’assassinio di Rabin e ora l’odio è molto più tangibile. Non ho paura, ma sicuramente quando partecipo alle manifestazioni cerco di fare attenzione. Li posso riconoscere da lontano e alcuni di loro mi possono riconoscere.”

Il parallelo finisce qui. Le proteste del 1983 erano concentrate su un problema: la guerra in Libano. Il corteo del 1995 era in appoggio alla democrazia e agli accordi di Oslo. Le dimostrazioni del 2020 sono invece uno scoppio di rabbia, frustrazione e sconforto avvertiti da almeno tre generazioni, che sono disperate per quello che è diventato il loro Paese e per quello che il loro Paese ha fatto a loro.

Proprio come un terremoto mette in luce tutto quello che è nascosto sotto le rovine, la pandemia da coronavirus ha scoperto tutta la decadenza sottostante. Un primo ministro imputato per corruzione c’era già, come l’erosione sistematica della democrazia.

Entrambi avevano già spinto gli israeliani in piazza con rabbia, ma solo in pochi.

C’è voluto un terribile virus perché molti israeliani si rendessero conto che il sistema non era solo corrotto, ma anche totalmente inefficiente, cinico e slegato dalla vita quotidiana dei cittadini di cui dovrebbe essere al servizio.

Di fatto questa è una delle pochissime occasioni in cui lo scoppio della rabbia che ha occupato le strade praticamente ogni giorno può essere fatto risalire a una serie di avvenimenti.

In primo luogo ci sono state le foto di Netanyahu che festeggiava la tradizionale cena del Seder della Pasqua ebraica con il suo figlio adulto, mentre a milioni di israeliani sottoposti al blocco totale veniva ordinato di passare in totale solitudine la serata [da passare] in famiglia. Soli, tristi e senza lavoro.

Poi c’è stata la riunione della commissione finanze del parlamento per discutere (ed approvare) la richiesta del primo ministro di retrodatare i rimborsi fiscali sulle spese nella sua villa privata a Cesarea. Durante la discussione il parlamentare del Likud [il partito di Netanyahu, ndtr.] Miki Zohar ha sostenuto che le tasse avrebbero lasciato Netanyahu “finanziariamente in ginocchio”. Netanyahu è multimilionario.

Questo dibattito tragicomico ha avuto luogo alla fine di giugno, all’inizio della seconda ondata della pandemia da coronavirus, con un milione di israeliani disoccupati e ormai migliaia alla fame. Ciò ha fatto colpo sugli israeliani perplessi, persino ardenti sostenitori di Netanyahu.

Poi c’è stata la farsa dei “finestrini aperti”. Il governo che doveva occuparsi del contagio ha elaborato una soluzione per il trasporto pubblico ed ha escogitato una soluzione veramente sensata: alla maggior parte delle linee degli autobus sarebbe stato consentito di riprendere a circolare con i finestrini aperti, per evitare la diffusione del virus.

Ha senso? Per niente. Da circa un decennio gli autobus in Israele non hanno finestrini che si aprono. Ma i parlamentari da oltre dieci anni non sono saliti su un autobus, quindi, come potevano saperlo?

Cos’altro non sanno della vita delle persone di cui si devono occupare? Di fatto, molto di più. Pochi giorni dopo il governo ha deciso di chiudere tutti i ristoranti a cui avevano consentito di riaprire solo qualche giorno prima. Ristoratori obbedienti e sul lastrico hanno buttato via tutti i prodotti che avevano comprato e annullato tutte le prenotazioni, solo per venire a sapere poche ore dopo che di fatto i ristoranti potevano rimanere aperti. Da allora la maggior parte di loro non ha più seguito le decisioni del parlamento.

Nel pieno della seconda ondata e dell’inizio delle dimostrazioni di massa, Netanyahu ha convocato un’altra conferenza stampa e ha orgogliosamente promesso un corona bonus universale per ogni cittadino, che secondo lui sarebbe arrivato sui conti bancari in pochi giorni. Ciò il 15 luglio. Non ci sono ancora soldi in banca.

Offesi, disillusi, arrabbiati

Potrebbe sembrare una volgare litania di piccoli problemi nel bel mezzo di una pandemia mondiale. Non lo è. È il vero scontro tra gli israeliani, i loro dirigenti e il regime. Hanno imparato che il sistema sanitario non funziona: c’è una carenza di letti e di personale sanitario negli ospedali.

Hanno appreso che il sistema di welfare non funziona: nel bel mezzo della crisi sanitaria ed economica, quando i più deboli avevano bisogno di aiuto e di sostegno, gli operatori sociali sottopagati hanno fatto un lungo sciopero. Ci sono volute settimane prima che il governo prestasse attenzione e raggiungesse un accordo con loro.

Soprattutto, gli israeliani vedono i loro politici autoreferenziali, slegati dalla vita quotidiana dei loro elettori, come se vivessero su un altro pianeta.

È stato allora che sono scesi in piazza. Grandi folle con un’energia e una resilienza senza precedenti. Offesi, disillusi e arrabbiati, profondamente preoccupati per il loro futuro.

La forza e la debolezza di questa protesta è nella sua diversità. Alcuni protestano contro la corruzione di Netanyahu e vogliono che se ne vada. Dato che egli si è vantato di tutto quello che ha funzionato nei primi mesi della pandemia, è a lui che va data la colpa quando le cose vanno male. Altri sono scesi in piazza per salvare la democrazia israeliana; altri ancora sono terrorizzati per il loro futuro economico. Tutte queste persone hanno perso fiducia nella classe politica del Paese.

Molti non sono neppure sicuri che gli ultimi “incidenti per la sicurezza con Hezbollah” sul confine settentrionale non siano altro che un evento mediatico per distrarre l’attenzione. Ogni tanto compare tra la folla persino un manifestante contro l’annessione.

La buona notizia è la riapparizione della giovane generazione nelle manifestazioni di massa. Per anni israeliani di mezz’età o anche anziani si sono costantemente guardati intorno alla ricerca della giovane generazione che guidasse la protesta. Oggi le organizzazioni studentesche hanno annunciato che si uniranno alle manifestazioni.

Si sentono abbandonati. Finalmente sono lì, gli unici che possano determinare il cambiamento indispensabile.

Nel frattempo la minaccia di una quarta tornata elettorale minaccia gli israeliani. Netanyahu non sta governando il Paese. Nelle ultime settimane sta facendo una campagna elettorale.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




I coloni israeliani incendiano una moschea nella città di Al-Bireh in Cisgiordania

Redazione di MEE

27 Luglio 2020 Middle East Eye

Slogan razzista scritto sui muri dell’edificio nell’ultimo attacco “del prezzo da pagare” contro i palestinesi

Secondo l’agenzia di stampa Wafa dei coloni israeliani hanno organizzato un assalto incendiario contro una moschea palestinese nella città di Al-Bireh, vicino alla città di Ramallah, nella Cisgiordania occupata.

I bagni e i sevizi igienici della moschea di Al-Bir wa al-Ehsan sono stati incendiati, e lasciati bruciare e distruggere dal fuoco, ma non è stato riportato nessun ferito.

Gli incendiari hanno imbrattato le pareti della moschea con graffiti che dichiarano “Assedio ad arabi e non ebrei” e “la terra di Israele è per il popolo di Israele”.

Il sindaco del comune di Al-Bireh, Azzam Ismail, ha detto a Wafa che i coloni israeliani sono entrati in città nelle prime ore del mattino di lunedì e, oltre ad innescare l’incendio, hanno imbrattato con graffiti e slogan razzisti le pareti interne della moschea,.

I residenti di Al-Bireh si sono accorti dell’incendio intorno alle 3 del mattino prima che i vigili del fuoco lo estinguessero e la polizia palestinese arrivasse per indagare sull’incidente.

Al-Bireh è circondato dagli edifici della colonia israeliana di Biet El a nord e dall’insediamento coloniale illegale di Psagot a sud. Ad ovest della cittadina si trova la città palestinese di Ramallah.

La moschea di Al-Birr wa al-Ehsan si trova ai margini della città.

Husam Abu al-Rub, il referente del awqaf [fondazione di matrice religiosa con fini sociali e benefici, ndtr.] dell’Autorità palestinese e del Ministero degli affari religiosi, ha condannato l’attacco dicendo: “È un un atto criminale e razzista di cui è responsabile il governo d’occupazione, dal momento che sostiene questi gruppi terroristici”, riferendosi a Israele.

A gennaio, i coloni israeliani hanno dato alle fiamme una moschea e scritto slogan anti-arabi sulle sue mura nel sobborgo dj Sharafat a Gerusalemme Est occupata.

Tali atti vandalici da parte dei coloni israeliani contro le comunità palestinesi sono attacchi noti come il prezzo da pagare” e sono usati per intimidire i residenti e affermare la supremazia ebraica nei territori che Israele ha occupato militarmente dal 1967.

Gli attacchi “il prezzo da pagare” sono diventati sempre più comuni in Cisgiordania.

Includono il taglio di pneumatici e le scritte con la vernice di slogan anti-arabi sulle automobili, aggressioni contro palestinesi, incendi dolosi contro proprietà e luoghi sacri e abbattimenti di alberi appartenenti a agricoltori palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele distrugge un centro palestinese per la diagnosi del coronavirus a Hebron

Akram Al-Waara , Mustafa Abu Sneineh – Cisgiordania occupata

22 luglio 2020 – Middle East Eye

I soldati israeliani avrebbero assistito per due mesi alla costruzione di questa struttura indispensabile prima di inviare i bulldozer

Le autorità israeliane hanno distrutto un centro palestinese per la diagnosi del coronavirus che doveva fungere da guida nella città di Hebron, nel sud della Cisgiordania occupata.

La Cisgiordania fatica a contenere la seconda ondata di infezioni da coronavirus, dopo che sembrava aver avuto successo nel bloccare la pandemia con un rigido isolamento per parecchie settimane in marzo.

Hebron, la città più grande del territorio e locomotiva economica dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), è stata particolarmente colpita. Fino ad oggi nei territori palestinesi l’Autorità Nazionale Palestinese ha registrato 65 decessi legati al coronavirus.

Il Comune di Hebron ha realizzato un centro di crisi dedicato al coronavirus, ma la stigmatizzazione sociale e le difficoltà causate dall’occupazione israeliana hanno ostacolato il suo lavoro.

Raed Maswadeh, ingegnere trentacinquenne la cui famiglia possiede il terreno sul quale è stata costruita la struttura, riferisce a Middle East Eye che tre mesi fa il Comune si è rivolto ai palestinesi per raccogliere denaro per la costruzione di questo centro.

La mia famiglia ha deciso di donare il proprio terreno all’ingresso settentrionale di Hebron per costruire una clinica di tracciamento del COVID-19”, racconta Maswadeh.

È stata costruita in memoria del nonno, morto recentemente di coronavirus. Maswadeh riferisce che il progetto è costato alla sua famiglia circa 250.000 dollari.

Questo terreno si trova nella zona C, una parte della Cisgiordania sotto totale controllo di Israele, che non rilascia quasi mai i permessi edilizi agli abitanti palestinesi. I coloni israeliani nella regione invece non hanno alcun problema di questo genere.

Maswadeh dice che, come per molte strutture nella regione, hanno cominciato a costruire il centro senza il permesso edilizio.

Se lo avessimo richiesto non lo avremmo ottenuto. Pensavamo che forse, con il COVID-19, ci sarebbero state delle eccezioni”, spiega.

Strumento di pressione

Il progetto mirava ad alleviare la pressione sugli ospedali di Hebron dove vengono curati i pazienti colpiti dalla malattia, che hanno raggiunto la loro capacità massima.

Maswadeh racconta a MEE che la costruzione è stata inaugurata due mesi fa e che i soldati israeliani pattugliavano la zona. Hanno visto che i bulldozer e i materiali da costruzione entravano sul posto, ma non hanno detto niente, prosegue.

Tuttavia il 12 luglio hanno ricevuto un ordine militare, consegnato da un comandante dell’esercito israeliano, di interrompere la costruzione.

Farid al-Atrash, avvocato specializzato nei diritti umani ed attivista di Hebron, spiega a MEE che la città è stata colpita dalla crisi ed ha un disperato bisogno di questo centro.

In questo modo possiamo controllare meglio le persone che entrano ed escono da Hebron e controllare il virus”, spiega.

Secondo lui la demolizione potrebbe essere un modo per Israele di far pressione sull’ANP perché riprenda il coordinamento amministrativo, che è stato interrotto come segno di protesta contro i progetti israeliani di annessione di alcune aree della Cisgiordania.

In generale Israele complica la lotta contro il virus per i palestinesi. Dopo che l’ANP ha interrotto ogni coordinamento con Israele, gli israeliani usano ogni mezzo a loro disposizione per fare pressione sull’ANP perché lo ripristini”, sostiene.

Faranno tutto ciò che possono per renderci la vita qui ancora più difficile.”

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Come i lobbysti israeliani si sono impossessati dell’eredità di Mandela

Nkosi Zwelivelile Mandela

21 luglio 2020 – Middle East Monitor

I tentativi di chi difende Israele di presentare mio nonno come un pacifista moderato è un travisamento della sua eredità

Dov’è il Mandela palestinese?” è la domanda che ho sentito spesso fare dai sostenitori di Israele. Quello che in realtà chiedono è dov’è l’equivalente palestinese di Nelson Mandela – un uomo che, secondo quello che credono, offrì solo ramoscelli d’ulivo e dialogo. Dov’è la versione palestinese di Mandela che – nella loro immaginazione – adorava tanto il proprio oppressore da essere disposto a riconciliarsi con lui condizionatamente?

I gruppi di pressione di Israele – sia in Sudafrica come nel resto del mondo – hanno risuscitato mio nonno come pacifista moderato che ha fatto la pace con i suoi nemici in modo benevolo. Ridurre la vita di Rolihlahla (secondo nome di Nelson Mandela, che significa “quello che sradica”) a pacificatoria e riconciliatrice è una deliberata distorsione della sua eredità.

Il presidente Mandela fu all’altezza del suo secondo nome. Fu un rivoluzionario, intellettuale e combattente per la libertà. La sua vita fu dedicata a resistere all’oppressione e a riconquistare la dignità. La forma di resistenza che difendeva era definita dall’oppressore. “ E’ assolutamente inutile che continuiamo a parlare di pace e nonviolenza contro un governo che risponde solo con brutali aggressioni,” affermò Mandela nel maggio 1961, sette mesi prima di diventare il primo comandante del neonato braccio armato del Congresso Nazionale Africano, chiamato uMkhonto we Sizwe [Lancia della Nazione].

Tuttavia quando i sostenitori di Israele parlano di Nelson Mandela si concentrano esclusivamente nel suo messaggio di dialogo e riconciliazione. Di conseguenza la storia della transizione di Madiba e del Sudafrica alla democrazia si riduce a un raccontino per bambini del perdono, invece che una lunga e dura – a volte rabbiosa – cronaca di giustizia e libertà. Il dialogo, il perdono e la riconciliazione debbono tornare ad essere inseriti nel contesto e nel luogo come meritano nella storia di Mandela e del Sudafrica.

La causa di Mandela non era pace e riconciliazione, ma giustizia e liberazione. La riconciliazione e il perdono sono arrivati dopo che si è ottenuta la liberazione. Prima Nelson Mandela considerava qualunque forma di “riconciliazione” con l’oppressore come una sottomissione e uno strumento di cooptazione per ingabbiare il movimento di liberazione.

Né gli alleati del Sudafrica nel movimento mondiale contro l’apartheid ci hanno mai chiesto di fare la pace con i nostri oppressori prima di ottenere la liberazione. Chiedere ai sudafricani di dialogare con il governo dell’apartheid nel contesto del brutale stato di polizia caratterizzato dalla spoliazione implacabile, dalle restrizioni contro la libertà di movimento, dalla repressione violenta delle proteste e dalla detenzione senza processo, avrebbe significato chiederci di collaborare con i nostri oppressori. Il mondo non ci ha mai chiesto né si è aspettato questo dai sudafricani, ma lo chiede ai palestinesi che vivono la stessa, se non peggiore, condizione.

Il Mandela che perdona è adorato in particolare dai gruppi di pressione israeliani. Si dilettano a raccontare di come si conquistò la fiducia dei suoi nemici, o prese il tè con Betsie Verwoerd, la vedova dell’architetto dell’apartheid, Hendrik Verwoerd. Gli apologeti di Israele vogliono che il mondo creda che, appena Nelson Rolihlahla Mandela venne liberato, abbandonò la lotta armata ed iniziò tranquillamente negoziati con il governo dell’apartheid, senza prerequisiti né precondizioni.

Persino dopo 27 anni di prigione, quando venne liberato, Mandela offrì dialogo, non violenza,” dice lo scrittore sudafricano [israeliano di origini sudafricane, ndtr.] Benjamin Pogrund. Non è vero.

Il giorno in cui venne liberato dalla prigione, Nelson Mandela disse: “I fattori che hanno reso necessaria la lotta armata continuano tuttora ad esistere. Non abbiamo altra opzione che continuare. Manifestiamo la speranza che presto si determini un clima propizio per un accordo negoziato, in modo che la lotta armata non sia più necessaria.”

Mandela non iniziò negoziati mentre i negri sudafricani erano ancora spogliati e perseguitati violentemente, o mentre i dirigenti della nostra liberazione erano in carcere, torturati ed assassinati. “La continuazione dei negoziati e la retorica sulla pace mentre contemporaneamente il governo sta portando avanti una guerra contro di noi è una posizione che non possiamo accettare,” dichiarò Madiba nel settembre 1990 davanti all’allora Organizzazione dell’Unità Africana (OUA).

Prima che Mandela iniziasse i negoziati c’erano condizioni fondamentali che dovevano essere rispettate. Esse includevano la fine della spoliazione e della violenza organizzate dallo Stato contro i negri sudafricani, la liberazione dei prigionieri politici e il ritorno degli esiliati. Quando i palestinesi chiedono le stesse condizioni prima di iniziare trattative vengono definiti irragionevoli e cocciuti.

I difensori di Israele sono convinti che i palestinesi siano il contrario di quello che rappresentava Mandela. Quando i palestinesi resistono ad essere cooptati da Israele, gli si dice che Madiba non si sarebbe mai comportato così.

Secondo loro Mandela, a differenza di Yasser Arafat, avrebbe accettato i posti di controllo, la costruzione di colonie illegali e sette anni di negoziati infruttuosi durante gli accordi di Oslo e Camp David.

Nella loro immaginazione Nelson Mandela, a differenza di Mamhoud Abbas, avrebbe accettato l’accordo segreto del 2008 di Ehud Olmert del bantustan [territori che nel Sudafrica dell’apartheid erano autonomi e gestiti da “governi” dei neri sudafricani, ndtr.] palestinese, abbozzato in fretta e furia su un tovagliolo. I Madiba che hanno creato non avrebbero mai rifiutato l’“accordo epocale” di Israele per uno Stato palestinese smilitarizzato con i suoi principali centri abitati separati tra loro e con Israele che avrebbe controllato gli spostamenti tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, lo spazio aereo palestinese, la sua politica economica ed estera, le risorse idriche e le frontiere.

Il Mandela che hanno in testa i sostenitori di Israele sarebbe sempre stato disponibile ad arrivare a compromessi sulla giustizia e la dignità. In vero Mandela, tuttavia, rifiutò varie “offerte generose” del governo dell’apartheid, tra cui l’immediata liberazione se avesse rinunciato alla lotta armata, ai diritti del suo popolo e si fosse limitato al Bantustan Traskei.

I sostenitori di Mandela il Perdonatore dimenticano che Madiba non cedette mai su nessun argomento che compromettesse il suo obiettivo finale: la liberazione dei sudafricani. Durante i negoziati lui e i suoi compagni, come i palestinesi, spesso preferirono non arrivare ad alcun accordo che non rispettasse almeno la dignità e i diritti umani.

Negli ultimi vent’anni Israele non ha mai avviato conversazioni di pace per negoziare realmente con i palestinesi. Ha utilizzato il processo di pace come un giochetto per tenere occupati (letteralmente e in senso figurato) i palestinesi, mentre rafforzava con la violenza l’occupazione della Cisgiordania e intensificava l’assedio di Gaza. Però, finché il “processo di pace” continua, Israele può mettere a tacere gli appelli al boicottaggio. Ciò sarà più difficile da fare ora che i dirigenti israeliani discutono apertamente dell’annessione, ammettendo che non ci sarà mai uno Stato palestinese.

In Palestina – Israele c’è più che mai bisogno dell’eredità di Nelson Mandela, non per predicare perdono e riconciliazione, ma per elaborare soluzioni politiche radicate nella giustizia e nella dignità. La principale lezione che Israele e i suoi sostenitori possono imparare dalla vita di Nelson Mandela è che la pace, il perdono e la riconciliazione si otterranno solo quando tutti godranno della giustizia, della libertà e della dignità.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

Nkosi Zwelivelile Mandela è un deputato sudafricano e nipote di Nelson Mandela.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




Proteste contro Netanyahu: si sta preparando una rivoluzione?

Orly Noy

20 luglio 2020 – Middle East Eye

Le recenti manifestazioni in Israele mostrano il potenziale sostanziale della sinistra ebraica per imporre un cambiamento radicale

Le vaste proteste di piazza della scorsa settimana di fronte al complesso residenziale del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a Gerusalemme sono iniziate quasi come una festa: percussioni all’aperto, gente che ballava nelle strade attorno a piazza Paris – una specie di Hyde Park, dove oratori si sono spontaneamente alternati su un palco improvvisato per fare i loro discorsi.

Parecchie ore dopo, prima della conclusione definitiva, verso l’una, l’assembramento è degenerato in duri scontri tra i manifestanti e la polizia, con il blocco per un lungo periodo di tempo sia di una importante arteria che della metropolitana leggera di Gerusalemme. La polizia a cavallo ha caricato la folla, mentre altri usavano cannoni ad acqua per cercare di disperdere i dimostranti, decine dei quali sono stati arrestati.

La strenua resistenza dei manifestanti e la loro volontà di scontrarsi con la polizia hanno sorpreso molti. Alcuni commentatori hanno suggerito che in realtà ci siano state due diverse dimostrazioni: una protesta “perbene” contro la corruzione, seguita da disordini da parte di radicali, anarchici di sinistra che si sarebbero “impadroniti” della protesta originaria. Niente potrebbe essere più lontano dalla verità. Sì, la prima parte della protesta è stata più calma e più “rispettabile”, ma solo un cieco e sordo potrebbe non aver individuato l’intensità della rabbia presente fin dall’inizio in quella piazza di fronte alla residenza di Netanyahu.

In quanto veterana manifestante di sinistra a Gerusalemme, non riesco a ricordare di aver mai visto in città un profilo tanto diverso di dimostranti: giovani e anziani, laici e religiosi, persino ultra-ortodossi. In un periodo in cui il timore del coronavirus fa sì che la gente ci pensi due volte prima di partecipare a riunioni di massa, questa ha attirato persone anziane con deambulatore e altri di gruppi molto radicali, tutti riuniti insieme.

I giovani che in seguito si sono scontrati con la polizia non erano separati dai manifestanti anziani che si sono riuniti lì all’inizio, ma erano piuttosto il loro servizio d’ordine.

Non c’erano palestinesi alla manifestazione, tranne un giovane che è salito sul palco ed ha parlato di apartheid e occupazione ed è stato molto applaudito dalla folla. Il giorno dopo, quando ho parlato con un’amica palestinese a questo proposito, mi ha detto: “Non è la nostra protesta.”

E naturalmente ha ragione: noi, l’opinione pubblica ebraica, siamo responsabili per aver introiettato le dimensioni dell’ingiustizia dell’attuale sistema; spetta a noi lavorare per sostituirlo con un sistema che offra uguale giustizia per tutti. La principale domanda oggi è se l’attuale movimento di protesta cerchi solo dei cambiamenti di facciata o se abbia un potenziale più radicale. Io penso di sì.

Corruzione di Stato

L’ultima manifestazione a Gerusalemme è avvenuta nove anni dopo le proteste sociali di massa del 2011. Quell’estate orde di giovani piazzarono tende lungo corso Rothschild nel centro di Tel Aviv per protestare contro la situazione, soprattutto l’alto costo della vita e i prezzi inaccessibili delle abitazioni. La delusione seguita a quell’ondata di proteste può facilmente suscitare dubbi sulle prospettive di quella attuale, ma ci sono fondamentali differenze.

Cosa più importante, a differenza delle proteste del 2011, che vennero a ragione viste come manifestazioni di giovani privilegiati di Tel Aviv che faticavano ad arrivare a fine mese nella città con gli affitti più elevati del Paese, dove era impossibile comprare anche uno yoghurt al cioccolato a un prezzo decente, l’attuale rivolta è significativamente più vasta in termini sia della sua base che del suo messaggio.

Non riguarda il prezzo del nostro yoghurt gelato preferito. Riguarda la corruzione nelle, e delle, regole generali. Non riguarda più neppure solo Netanyahu. Sì, la richiesta delle sue dimissioni è ancora centrale, ma ora Benny Gantz, il generale che era stato visto come l’alternativa più onesta a Netanayhu, si è unito al governo arrogante e corrotto di quest’ultimo.

Evidentemente ora più israeliani comprendono che il problema non è Netanyahu in sé, ma qualcosa di più profondo e marcio. Nell’emergere di questa consapevolezza c’è, credo, un grande potenziale di radicalizzazione.

Un’altra significativa differenza è che le proteste del 2011, come molte altre in Israele, evitarono accuratamente ogni etichettatura politica, cioè come qualcosa di sinistra, mentre i dirigenti dell’attuale movimento non sono caduti nella trappola della delegittimazione, riproposta dalla destra.

Niente scuse

Dopo i duri scontri con la polizia e i numerosi arresti di martedì, i mezzi di comunicazione e i politici di destra hanno cercato di definire la protesta come disordini di sinistra, anarchici. Come prova, notano tra le altre cose che alcuni degli arrestati quella notte erano rappresentati dalla nota avvocatessa per i diritti umani Leah Tsemel, che spesso difende i diritti dei palestinesi in Israele.

Gli organizzatori della protesta, evitando saggiamente di lasciarsi intrappolare in questo modo, non si sono scusati. Tra gli oratori invitati all’ultima manifestazione c’era Ofer Cassif, un ben noto membro ebraico della Lista Unita, a maggioranza araba, il quale ha parlato sul palco dei rapporti tra la corruzione politica e la corruzione morale dell’occupazione. Non solo il pubblico di Cassif non è rimasto scioccato, ma lo ha applaudito entusiasticamente.

Martedì a piazza Paris ho visto cartelli che chiedevano giustizia per Iyad al-Hallaq [palestinese affetto da autismo, ndtr.], ucciso da poco nella Gerusalemme est occupata, e la gente che li esponeva sembrava una componente assolutamente naturale di quest’ultima manifestazione.

C’è qualcos’altro che vale la pena di notare: con un’iniziativa astuta, invece di chiedere scusa, gli organizzatori dell’ultima dimostrazione sono riusciti a sfruttare la violenza poliziesca contro di loro per portare più persone alla protesta. I gruppi di giovani arrestati includevano più di qualche ben noto attivista di sinistra.

È da notare in modo particolare che sono stati fermati dalla polizia non durante una manifestazione contro l’occupazione a Bilin [villaggio della Cisgiordania occupata noto per le proteste settimanali, ndtr.], ma durante una protesta contro la corruzione nel cuore di Gerusalemme ovest. Il movimento di protesta contro la corruzione ha beneficiato della notevole esperienza nello scontro con le autorità. Ha portato il suo programma di sinistra su un palco davanti a una folla diversa in via Balfour, dove le loro prospettive di essere ascoltati sarebbero state altrimenti molto ridotte. Anche questo ha un notevole potenziale.

Massimo vantaggio

È vero che, rispetto alle manifestazioni dei palestinesi da entrambi i lati della Linea Verde [il confine tra Israele e i Territori occupati, ndtr.], la risposta della polizia contro i dimostranti di via Balfour è stata molto moderata. Il punto è che noi eravamo manifestanti ebrei in un Paese fondato sulla supremazia ebraica.

Alcuni poliziotti a cavallo si sono lanciati in mezzo alla folla, una tattica minacciosa che indubbiamente ha provocato timore, ma non ci hanno sparato né proiettili veri né ricoperti di gomma. Ci hanno sparato contro con cannoni ad acqua, ma era solo acqua, non il disgustoso liquido cosiddetto “puzzola” che usano contro i palestinesi. E la maggior parte degli arrestati è stata rilasciata dopo poche ore.

Senza dubbio una manifestazione palestinese sarebbe finita in modo ben diverso. Ma vedere questa dimostrazione solo e nient’altro che come un ennesimo esempio dei privilegi degli ebrei vorrebbe dire non vedere il potenziale di radicalità dell’attuale momento. Esso è sicuramente presente. La domanda in gioco riguardo a questa protesta è molto semplice: se il nostro obiettivo politico è cacciare Netanyahu per le accuse di corruzione oppure no. La risposta è sì. Non solo perché una società che si rivolta contro la corruzione è una società più sana, ma anche perché praticamente ogni cambiamento per cui si batte la sinistra ebraica inizia dalla rimozione di Netanyahu dal potere.

Il modo in cui Netanyahu ha rafforzato il suo dominio come primo ministro, l’identificazione che ha creato tra se stesso e lo Stato e i suoi continui tentativi di incitare diversi settori della popolazione uno contro l’altro sono cose molto pericolose, e rendono la sua cacciata un compito necessario per ottenere un qualunque cambiamento. Ora è arrivato un momento interessante, in cui il regime stesso sta trasformando in dissidenti politici quelli che sono considerati il “sale della terra”, gli ebrei privilegiati e sionisti convinti.

La questione più impellente ora è se noi, la sinistra ebraica, saremo abbastanza saggi da approfittare al massimo di questo potenziale, spingendo in avanti verso il cambiamento più sostanziale che stiamo cercando di determinare.

Le opinioni espresso in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Orly Noy è una giornalista e attivista politica che risiede a Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)