Quando dare del pane a Gaza costituisce un crimine

Yvonne Ridley

25 ottobre 2019 – Middle East Monitor

L’inviato del Qatar Mohammed Al-Emadi è arrivato a Gaza lo scorso weekend con 180 milioni di dollari da distribuire ai palestinesi bisognosi. Nel caso di Gaza questo significa potenzialmente l’intera popolazione, visto che essa si dibatte da una crisi umanitaria all’altra a causa del feroce assedio imposto da Israele da un lato e dall’Egitto dall’altro.

Il denaro del Qatar è disperatamente necessario per pagare il combustibile per l’elettricità, i salari e gli aiuti economici alle famiglie palestinesi che lottano per vivere sotto l’assedio. La speciale consegna non è una sorpresa per Israele, poiché già in maggio il Qatar ha annunciato che avrebbe inviato 480 milioni di dollari alla Cisgiordania occupata e a Gaza per “aiutare il popolo palestinese fratello a far fronte ai propri bisogni primari.”

Il denaro è entrato con l’appoggio (senza dubbio riluttante) di Tel Aviv, che con la mediazione dell’Egitto ha accettato una tregua “ufficiosa” con Hamas, che sostanzialmente governa ancora la Striscia di Gaza. Il denaro sarà utilizzato per pagare i dipendenti pubblici dell’Autorità Nazionale Palestinese ed ha permesso all’ONU di incrementare gli aiuti.

Comunque, il fatto stesso che questo sta accadendo ha un enorme significato e dovrebbe ora essere usato come prova per mettere fine al dramma kafkiano che ha visto cinque americani palestinesi incarcerati in quello che è stato descritto come uno dei peggiori casi di errore giudiziario negli Stati Uniti. Il dramma è iniziato nel 2004 quando l’FBI, insieme al Dipartimento del Tesoro statunitense e ad una serie di diverse forze di polizia del Texas e della California, ha arrestato dei funzionari della ‘Holy Land Foundation’ (Fondazione Terra Santa) nel corso di ispezioni a sorpresa. I “cinque HLF” erano –e sono ancora – Shukri Abu Baker, Mohammad El-Mezain, Ghassan Elashi, Mufid Abdulqader e Abdulrahman Odeh, che nel 1990 avevano fondato l’associazione musulmana di beneficienza.

I cinque sono stati accusati di aver fornito supporto materiale a Hamas e nel primo processo la giuria non ha raggiunto un verdetto. Il nuovo processo presso il tribunale federale di Dallas è iniziato nel settembre 2008 ed ha incluso una testimonianza senza precedenti fornita segretamente da una spia israeliana nota semplicemente come “Avi”. Gli avvocati della difesa non sono stati in grado di mettere in discussione il passato e le credenziali di Avi.

Il giudice Jorge Solis ha detto alla giuria che era consentito soppesare la credibilità del soggetto alla luce del suo anonimato, ma ha respinto il diritto dell’imputato, in base al Sesto Emendamento, di “confrontarsi con i testimoni contro di lui.” Fino ad allora niente nella costituzione americana aveva permesso una condanna in base ad accuse anonime, ma il tribunale è andato avanti ed ha condannato tutti i cinque uomini.

Una delle 108 accuse contenute nella condanna affermava che la ‘Holy Land Foundation’ aveva favorito gli attacchi suicidi fornendo assistenza agli orfani degli attentatori. È poi risultato che, dei 200 attentatori suicidi che hanno agito in Palestina in quel periodo, nessuno aveva dei figli. Infatti – ed in stridente contrasto – in realtà la HLF ha fornito assistenza finanziaria ai figli di persone messe a morte da Hamas per collaborazionismo con Israele.

E’ anche emerso che le ispezioni a sorpresa e l’arresto dei cinque sono stati la conseguenza di supposizioni fatte dallo Stato di Israele che l’associazione fosse il terminale di un’operazione illecita di riciclaggio di denaro, che dirottava finanziamenti ad Hamas (dichiarata organizzazione terroristica dagli USA sotto la presidenza di Bill Clinton) attraverso i Comitati Zakat [fondati in Kuwait nel 1981 per raccogliere denaro in base alla legge islamica, ndtr.] nella Cisgiordania occupata.

Simili illazioni hanno portato gli USA a definire nel 2003 la ‘British Charity Interpal’ un “ente terrorista globale”, senza che uno straccio di prova sia mai stato prodotto dal governo americano (o israeliano). Quella definizione è ancora in vigore oggi, nonostante Interpal operi legalmente in Inghilterra e fornisca tuttora aiuti ai palestinesi in difficoltà.

Nel corso del secondo processo contro HLF gli imputati sono stati accusati di aver fornito “supporto materiale” a Hamas e, nel 2009, sono stati condannati dai 15 ai 65 anni di carcere. Il processo è stato presentato come una farsa in un duro libro pubblicato l’anno scorso da Mike Peled, figlio di un famoso generale israeliano e fervente anti-sionista.

Peled ha intervistato le persone incriminate e i loro familiari e si è anche recato nei loro luoghi di nascita in Cisgiordania. Il suo resoconto dettagliato del caso della ‘Holy Land Foundation’ prova senza ombra di dubbio che si è trattato di un caso politico messo in piedi dalle lobby sioniste e da Israele per compromettere, intimidire e criminalizzare chiunque lavori o doni denaro alle associazioni di beneficienza che assistono i palestinesi bisognosi.

La questione è semplice: è impossibile distribuire denaro nella Palestina occupata senza chiedere il permesso delle autorità al potere. Nella Cisgiordania occupata i soldi confluiscono nelle associazioni di beneficienza registrate non solo presso l’Autorità Nazionale Palestinese, ma anche in Israele e in alcuni casi presso il governo giordano. I trasferimenti monetari devono essere certificati dal sistema bancario israeliano e chiunque si presenti di persona a nome di un’associazione di beneficienza deve ottenere l’autorizzazione dalle stesse autorità per entrare nel Paese. Nel caso della Striscia di Gaza questo significa il governo democraticamente eletto in mano a Hamas e tutte le associazioni di beneficienza devono essere registrate presso l’ANP e gli israeliani. Con questa procedura i soldi non passano di mano, ma le organizzazioni assistenziali e le associazioni di beneficienza operano su autorizzazione delle autorità.

Ora che sappiamo che il Qatar ha spedito un inviato con 180 milioni di dollari in contanti a Gaza con il permesso di Tel Aviv, dovrebbe esserci spazio per un ricorso da parte dei cinque di ‘Holy land Foundation’, in quanto ciò demolisce l’insensatezza dell’onnipresente argomentazione del ”supporto materiale”.

Il sistema giudiziario statunitense dovrebbe vergognarsi del fatto che questi uomini continuino a languire in carcere per non aver svolto altro che un compito umanitario. I veri criminali non sono quelli che sfamano i bambini palestinesi, ma quelli dell’amministrazione Trump che preferirebbero vedere i bambini di Gaza morire di fame piuttosto che consentire loro una sembianza di vita normale in quelle che sono circostanze del tutto anormali.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




L’altro Benjamin: chi è Benny Gantz, il rivale di Netanyahu?

Marie Niggli

Giovedì 24 ottobre 2019 – Middle East Eye

Dopo la rinuncia di Benjamin Netanyahu lunedì, Benny Gantz è stato nominato per tentare di formare una coalizione di governo. Una missione difficile, se non impossibile, per questo ex-capo di stato maggiore dell’esercito di cui è difficile definire gli obiettivi

Bibi” contro “Benny”: negli ultimi mesi la politica israeliana si è ridotta a un duello al vertice tra i due Benjamin. Da una parte Benjamin Netanyahu, la vecchia volpe, soprannominato Bibi dai suoi sostenitori, che detiene il record di longevità come primo ministro in Israele; dall’altra il novellino Benjamin Gantz, detto Benny, un ex-militare che si è lanciato in politica da meno di un anno.

Dopo due elezioni in meno di sei mesi – lo scorso aprile e in settembre – il Paese si trova in una situazione di stallo politico. Né vincitore né vinto: di per sé per Netanyahu, che ha dominato l’arena politica negli ultimi dieci anni, è già una sconfitta. Lunedì sera è persino sembrato che vacillasse: incapace di mettere insieme un governo, il primo ministro uscente ha restituito il mandato al presidente israeliano.

Per la prima volta dal 2009 è un altro, Benny Gantz, che cercherà di formare una coalizione per prendere il suo posto. Ha 28 giorni di tempo. Una missione impossibile, prevede la maggior parte degli osservatori.

Com’è riuscito questo ashkenazita [ebreo di origine europea, ndtr.] alto e dagli occhi azzurri a far inciampare Netanyahu, là dove tanti politici esperti in precedenza si sono rotti le ossa? Sicuramente non grazie alla sua esperienza politica: non ne ha affatto.

Il suo curriculum? Quello di un militare che ha salito i gradini uno a uno. Arruolato nell’esercito nel 1977, questo figlio di un sopravvissuto alla Shoah è diventato paracadutista, nel 1991 ha partecipato all’operazione “Salomon”, che in 48 ore ha trasferito 14.000 ebrei dall’Etiopia verso Israele, ha combattuto in Libano nel 2000 e alla fine è diventato capo di stato maggiore dell’esercito israeliano dal 2011 al 2015.

Fascino militare

Gantz ha lasciato un’impronta sanguinosa: sotto il suo comando, Israele e Hamas si impegnano in due guerre a Gaza. Nel 2012 l’offensiva israeliana ha fatto 163 morti nell’enclave. Nel 2014, durante più di un mese e mezzo, un diluvio di fuoco si è abbattuto sulla stretta striscia di terra e sono stati uccisi 2.220 palestinesi, di cui più di 1.500 civili (550 minori).

Nel 2015 un rapporto dell’ONU ha affermato di aver raccolto “delle informazioni rilevanti che mettono in evidenza possibili crimini di guerra commessi sia da Israele che dai gruppi armati palestinesi.” Ha rimproverato all’esercito israeliano in particolare l’“uso intensivo di armi concepite per uccidere e ferire in un ampio raggio.”

Invece di tener nascosto questo bilancio disastroso, l’ex capo di stato maggiore l’ha utilizzato per lanciare la sua campagna elettorale. Con una serie di video scioccanti, il prudente Gantz si è trasformato in falco, vantando gli atti di guerra sanguinosi dell’esercito israeliano a Gaza nel 2014 sotto il suo comando, che secondo lui hanno riportato certe zone dell’enclave “all’età della pietra.”

Un macabro calcolo sulle immagini dei funerali di palestinesi si conclude con questo slogan: “Solo i forti sopravvivono.”

Questo immaginario parla al pubblico ebraico in Israele: è “una società molto militarizzata”, spiega Yara Hawari, analista politica di Al-Shabaka, un centro di analisi palestinese. Gli israeliani hanno “molto rispetto per i generali, perché c’è anche questo contesto un po’ machista, una certa mascolinità nociva e i generali vengono quindi percepiti come forti.”

Salvo il fatto che, tra tutti i militari che hanno sfondato in politica, Benny Gantz è il meno esperto.

Ehud Barak era un ex-capo di stato maggiore che è diventato primo ministro, ma da quasi due anni dirigeva il partito Laburista. Ariel Sharon, tutti lo dimenticano, è stato in politica per circa 30 anni prima di diventare primo ministro,” ricorda Dahlia Scheindlin, consigliera politica che ha aiutato a elaborare sette campagne elettorali per conto di diversi partiti israeliani, di cui l’ultima con il partito di sinistra “Unione democratica”.

Anche se figlio del responsabile politico del partito Laburista nella comunità dove è nato, Kfar Ahim – costruito sulle rovine del villaggio palestinese di Qastina –, a 60 anni Gantz ha scoperto il gioco politico nello scorso dicembre, quando ha lanciato il suo partito, “Hosen L’Yisrael” – “Resilienza per Israele”.

All’inizio la formazione sembrava un “piccolo gruppo di amici che hanno preso un anno sabbatico e di professionisti della campagna elettorale reclutati all’ultimo momento,” sfotte il quotidiano israeliano di sinistra “Haaretz”. Insomma, tutto meno che un partito di militanti impegnati.

Ma il rigido militare, un po’ austero, trova dei partner ideali: un ex-ministro, Yaïr Lapid, e due ex-capi di stato maggiore, Gabi Ashkenazi e Moshe Ya’alon, quest’ultimo anche lui con esperienza di governo. Di che rafforzare la sua base politica: ecco com’è nata, all’inizio del 2019, la coalizione “Blu e Bianco”, dai colori della bandiera israeliana.

Presentata come di centro, la lista in “altri luoghi nel mondo sarebbe definita di destra,” sottolinea Yara Hawari, che nota lo spostamento dello scacchiere politico israeliano verso l’estrema destra.

Uniti contro i palestinesi

Ormai circondato da “partner politici e consiglieri”, Gantz ha “condotto due campagne elettorali” che l’hanno fatto progressivamente maturare, ricorda Ofer Zalzberg, analista del Medio Oriente dell’ “International Crisis Group” [Ong con sede in Belgio che cerca di prevenire i conflitti, ndtr.] (ICG). Ma sul piano politico, con più di 30 anni di carriera, “Netanyahu ha un vantaggio enorme.”

In confronto il militare fatica ancora, poco presente sulle reti sociali, non sempre a suo agio, ambiguo nella linea politica. “È molto complicato sapere chi è Benny Gantz e per cosa si batte,” constata Dalhia Scheindlin.

Salvo che in politica estera e sulla questione palestinese. Benny o Bibi, sono la stessa cosa, evidenzia Yara Hawari: secondo lei entrambi applicheranno la stessa politica “violenta d’occupazione e di colonizzazione” nei territori palestinesi.

Quello che cambierà sarà il discorso, la retorica utilizzata da Israele. (Gantz e i suoi alleati) utilizzeranno un linguaggio più accattivante per perpetuare il progetto coloniale e continueranno l’annessione di fatto” della Cisgiordania, territorio sotto il controllo di Israele da 52 anni. Quanto alla prospettiva di negoziare con l’Autorità Nazionale Palestinese, essa tornerà a “negoziare i termini del nostro imprigionamento, non quelli della liberazione” dei palestinesi, sottolinea la ricercatrice.

Con un linguaggio più educato, più diplomatico, Gantz “cercherà di riconquistare gli alleati internazionali” trascurati da Netanyahu, che si accontentava del sostegno incondizionato che gli concede il presidente americano Donald Trump, in spregio al diritto internazionale.

Gli “europei sono pronti per questo,” vedono nell’ex-militare “qualcuno a cui possono parlare, lo definiscono un partner per la pace, cosa che è risibile,” continua Yara Hawari. “Penso che ciò sia pericoloso.”

A meno che le sfumature non siano anche da decifrare tra le righe. Nel 2015, dopo aver lasciato l’esercito, “Gantz ha fatto un discorso e sostenuto la soluzione dei due Stati,” ricorda Ofer Zalzberg, dell’ICG. Una posizione che non esprime più in pubblico, ma, se riuscisse ad essere eletto, “proporrà una graduale separazione tra i due popoli,” ritiene.

Resta il fatto che l’ex capo di stato maggiore non ha più evocato uno Stato palestinese durante la sua campagna elettorale. Peggio, ha chiaramente affermato la sovranità israeliana sulla valle del Giordano, nella Cisgiordania occupata, quando Netanyahu ha proposto di annetterla – tutt’al più una differenza semantica.

Religiosi contro laici

Né molto avvenente né molto carismatico, Gantz ha raggiunto da zero la cima della politica israeliana grazie a una fortunata congiunzione astrale. Dopo 10 anni di Netanyahu, il paesaggio politico si ricompone soprattutto attorno alla divisione della destra, ormai scissa tra religiosi e laici.

Il primo ministro uscente “è stato estremamente generoso con i partiti ebrei ultra-ortodossi, e la destra laica è rimasta frustrata,” analizza Ofer Zalzberg. “Non vuole più sedersi a fianco dei religiosi.”

Il grande simbolo di questo cambiamento? La rottura, insieme personale ed ideologica, tra Avigdor Lieberman, ex-ministro di Netanyahu, e il suo antico mentore: è lui che ha fatto fallire tutti i tentativi del primo ministro uscente di formare un governo dopo aver provocato le elezioni anticipate ritirandosi un anno fa dalla precedente coalizione.

Trasporti pubblici – ridotti – durante il sabato, giorno di riposo settimanale degli ebrei, durante il quale la religione vieta ai fedeli di lavorare, l’introduzione del matrimonio civile, la sua estensione agli omosessuali…il programma di Benny Gantz su alcune questioni sociali che sono diventate delle grandi sfide durante le ultime elezioni sono in netto contrasto rispetto a quanto imposto dagli alleati ultra-ortodossi di Netanyahu.

La divisione all’interno della destra tuttavia non è sufficiente a far arrivare Gantz alla guida di un governo, è solo sufficiente a impedire a Netanyahu di rimanere primo ministro,” nota Ofer Zalzberg.

Ed è lì tutta la debolezza della campagna di Benny Gantz. In pochi mesi, il militare discreto ha dolcemente instillato nell’opinione pubblica israeliana di essere l’anti-Bibi. Calmo, pragmatico, mette l’accento sull’unità quando Netanyahu ha costruito la sua carriera politica sulle polemiche e sull’incitamento all’odio verso i palestinesi, che siano o meno cittadini israeliani.

Nel mondo d’oggi si osservano due tipologie di politici,” ricorda Ofer Zalzberg. “Quelli di una sorta di politico ribelle, che si presenta come antisistema, e altri che rivendicano l’appartenenza al sistema e difendono le istituzioni. (Gantz) fa chiaramente parte di questa seconda categoria,” di fronte a un Netanyahu che si scaglia contro media e istituzioni come se gli fossero ostili.

Solo che per strappare Israele dalle mani di un dirigente così avvezzo al gioco politico come il primo ministro uscente, in un Paese frammentato e tormentato dalle divisioni, Benny Gantz non può appoggiarsi unicamente su un programma che caldeggia lo status quo.

La sua campagna elettorale non è riuscita a garantirgli la maggioranza: ha ormai poco meno di un mese per immergersi nell’aspra arena politica israeliana e andarsi a cercare il sostegno che ancora gli manca. In caso contrario, il Paese rivoterà per la terza volta in meno di un anno …

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




I nostri ragazzi: un’altra storia della superiorità morale di Israele

Joseph Massad

10 Ottobre 2019 – Middle East Eye

I tentativi cinematografici dei sionisti americani di rappresentare la colonizzazione della Palestina come una “lotta ebraica per la liberazione nazionale” ottennero un enorme successo con il film “Exodus” del 1960. Il film rese popolare la causa sionista e rimane d’ispirazione per i giovani sionisti americani ed europei.

Exodus” non fa menzione della conquista della terra dei palestinesi e dell’espulsione della maggioranza della popolazione nativa, in quanto i nativi palestinesi vengono mostrati come se non fossero altro che odiosi ostacoli per gli ebrei che costruivano una patria solo per sé.

Superiorità morale 

Un progetto cinematografico più recente che, benché di successo, non ha avuto lo stesso effetto di “Exodus”, è stato il film di Steven Spielberg “Monaco” del 2005.

Il film riguarda lo spirito degli ebrei in Israele negli anni ’70, nel contesto della campagna di Golda Meir [primo ministro israeliano dal 1969 al 1974, ndtr.] per assassinare intellettuali palestinesi in tutta Europa e vendicare l’attacco contro gli atleti israeliani durante le Olimpiadi di Monaco del 1972.

Come ho sostenuto nella mia recensione al film, concentrandosi sulla superiorità morale degli ebrei, “Monaco” non si allontana molto dalla propaganda israeliana, che sostiene che i soldati ebrei “sparano e piangono”. Il fatto che la violenza palestinese sia sempre stata in risposta alla conquista e agli assassini sionisti nella logica di “Monaco” è irrilevante.

Il bombardamento da parte dell’aviazione israeliana dei campi di rifugiati in Libano e Siria, che uccise centinaia di rifugiati palestinesi immediatamente dopo la morte degli atleti israeliani, non compare affatto nel film e non sembra compromettere lo spirito degli ebrei israeliani.

Monaco” si chiede se la politica terroristica contro singoli palestinesi scatenata da Meir possa essere stata sbagliata, ma insiste sul fatto che furono i palestinesi che imposero a Israele la scelta del terrorismo. La tesi di “Monaco” è che, poiché gli ebrei hanno un codice morale superiore, Israele non avrebbe dovuto rispondere ai palestinesi nello stesso modo.

I nostri ragazzi”

Questa è esattamente la premessa sottintesa alla nuova serie coprodotta dalla HBO [rete televisiva e di produzione USA, ndtr.] israeliana “I nostri ragazzi”, che recentemente è stata messa in onda su HBO e su Canale 12 in Israele. La serie inizia con il rapimento e l’uccisione di tre giovani coloni ebrei israeliani in Cisgiordania nel 2014 ad opera di due uomini palestinesi che, benché membri di Hamas, agirono di loro iniziativa.

Non veniamo a sapere molto sul rapimento degli adolescenti, la cui condizione di coloni viene appena menzionata, mentre i loro rapitori vengono semplicemente identificati come palestinesi. Questi ultimi non sono nominati fino all’ultimo episodio, quando veniamo informati che l’esercito israeliano li ha uccisi ed ha distrutto con un bulldozer le case delle loro famiglie.

Ma non sappiamo niente delle ragioni per cui i due palestinesi hanno rapito i tre giovani coloni, per non parlare delle loro vicende personali, o delle loro famiglie che vivono a Al-Khalil (Hebron) e della loro lotta contro l’occupazione israeliana e la violenza dei coloni ebrei.

La campagna israeliana che fece seguito al rapimento portò a incursioni dell’esercito israeliano in 1.300 case e negozi palestinesi, all’arresto di più di 800 palestinesi e all’uccisione di 9 di loro. Ma tutto questo non interessa a “I nostri ragazzi”, che si concentra sull’angoscia dell’opinione pubblica ebreo-israeliana.

É in seguito alla scoperta che i tre adolescenti erano stati uccisi, e alla successiva violenza popolare ebraica nelle strade di Gerusalemme e altrove contro civili palestinesi, che si sviluppa la storia dell’uccisione per “vendetta” del sedicenne palestinese Mohammad Abu Khdeir, bruciato vivo da tre coloni ebrei (due cugini adolescenti e il loro zio).

Il rapimento per vendetta

La storia dei tre adolescenti uccisi aleggia sulla serie come la causa principale di tutto quanto si svolge. La serie descrive angosciosamente la macabra vendetta del rapimento del ragazzo palestinese, che si trovava di fronte a casa sua quando venne rapito e strangolato dai due ragazzi ebrei, e poi picchiato con un piede di porco dallo zio che gli diede fuoco quando era ancora vivo.

L’angoscia della serie, e quella dell’opinione pubblica israeliana, è che non avrebbe potuto essere un crimine commesso da ebrei, perché, se gli ebrei lo avessero commesso, lo spirito e la moralità degli ebrei israeliani sarebbero stati compromessi.

Ci viene fornito ogni dettaglio sui terroristi ebrei. Vediamo lo zio suonare la chitarra e cantare per la figlia, preoccuparsi dei nipoti, lottare contro il sentimento di inadeguatezza con il padre (un rabbino mizrahi [ebreo di origini arabe, ndtr.] che tiene una propria scuola religiosa), preoccuparsi per la madre malata, cenare il sabato, fumare con i nipoti nel giardino della sua casa in una colonia ebraica in Cisgiordania, costruita su terra rubata ai palestinesi.

Scopriamo persino che ha traslocato là non per ideologia sionista, che motiva i coloni di destra ashkenaziti [ebrei di origine europea, ndtr.], ma per il basso costo delle case.

Vediamo anche i nipoti adolescenti nel loro contesto familiare. Il più giovane balbetta ed è emotivamente gravato dal peso delle aspettative dei suoi genitori ortodossi perché vada ad una scuola religiosa. Lo vediamo combattere con sentimenti di colpa e disperazione che manifesta durante sedute di cura con un terapista ashkenazita che si occupa della comunità ortodossa.

Sono preoccupazioni e problemi condivisi dal detective ortodosso dello Shabbak (servizio segreto interno di Israele) che risolve il caso. Proviene anche lui da un contesto ebreo ortodosso marocchino e si sente in colpa riguardo alla cura della sua anziana madre e per le aspettative di costei e del fratello ortodosso.

Disumanizzare i palestinesi

Nessuna di queste scene che rendono umani i personaggi riguarda i palestinesi che hanno ucciso i giovani coloni ebrei. In effetti gli unici palestinesi che meritano una piccola parte di scene umanizzanti sono quelle che riguardano i genitori di Abu Khdeir, ma non i suoi fratelli, salvo una minima attenzione per il fratello maggiore. Non vediamo la vita familiare di Abu Khdeir, se non nel contesto del lutto, con palestinesi anonimi che vanno a porgere le condoglianze.

Non li vediamo mai mentre cantano, cenano o si comprano regali a vicenda. Tuttavia li vediamo lavorare per clienti e padroni ebrei e assistiamo alla discussione tra il padre e il giovane Mohammad Abu Khdeir, innamorato di una ragazza profuga siriana a Istanbul, a cui ossessivamente scrive sul suo cellulare trascurando il lavoro.

Apprendiamo che Mohammad ama il ballo di gruppo, o dabkeh. Ma a parte questo, a Mohammad viene dedicata poca attenzione. Altri palestinesi che vengono fatti parlare non hanno una storia personale, tranne Abu Zuhdi, il cui figlio era stato ucciso dall’esercito israeliano e la cui casa è stata demolita come punizione per la sua resistenza all’occupazione.

Abu Zuhdi racconta rapidamente la sua storia, ma senza scene che umanizzino lui o la sua famiglia. A parte questo, i palestinesi vengono mostrati come una folla violenta che sconvolge la tranquillità della loro città occupata, dichiarata capitale di Israele.

Questa serie è trionfalista nel suo rispettare l’obiettività solo a parole, mostrando alcuni aspetti della sofferenza dei palestinesi e della situazione kafkiana in cui si trovano gli Abu Khdeir e gli interrogatori a cui vengono sottoposti.

Tuttavia la simpatia mostrata per gli Abu Khdeir impallidisce rispetto a quella mostrata per i tre terroristi ebrei e per le loro famiglie, al cui strazio e dolore “I nostri ragazzi” dedica la maggior parte delle scene.

Proteste contro la trasmissione

Eppure le discriminazioni che i palestinesi devono sopportare da parte della polizia, dell’apparato di sicurezza, delle leggi e dei tribunali israeliani sono ampiamente mostrati. Di conseguenza ciò ha suscitato la condanna da parte di israeliani che hanno scritto centinaia di lettere di protesta contro la trasmissione e da parte del primo ministro Benjamin Netanyahu, che l‘ha definita “antisemita” e ha chiesto il boicottaggio del canale israeliano che la mette in onda. L’uccisione degli adolescenti israeliani scatenò l’attacco israeliano contro Gaza nell’estate 2014, provocando l’uccisione di 2.251 palestinesi, compresi almeno 551 minorenni, e il ferimento di 11.231 palestinesi, tra cui 3.436 minori.

I nostri ragazzi” mostra di sfuggita, senza dettagli, come i bombardamenti su Gaza siano stati raccontati dalla televisione israeliana. In realtà il giorno prima dell’uccisione di Mohammad la deputata israeliana Ayelet Shaked aveva invocato su Facebook il genocidio del popolo palestinese, una dichiarazione che ottenne migliaia di condivisioni. Meno di un anno dopo diventò ministra della Giustizia di Israele. Per quanto riguarda la serie, questi avvenimenti non sembrano minacciare la moralità israeliana.

Ma la morale della storia che “I nostri ragazzi” vuole raccontare è che i palestinesi che non si oppongono al razzismo e al colonialismo israeliani e che lavorano con o per gli ebrei (lo stesso Mohammad lavorava in un ristorante di proprietà di un israeliano) non meritano di avere un figlio bruciato vivo, in quanto ciò pregiudica la superiorità morale ebraica e danneggia lo spirito degli ebrei israeliani.

Un progetto ideologico

Invece i palestinesi che resistono ad Israele sembrano meritare di essere bruciati vivi con le bombe israeliane senza che ciò rappresenti alcuna minaccia per la superiorità morale di Israele. In effetti la serie, intitolata in ebraico “Ha-Ne’arim”, che significa “giovani uomini”, e maldestramente tradotto in arabo come “Fityan” [che significa “novizi”, ndtr.], è reso in inglese con “I nostri ragazzi”, dove il pronome possessivo si riferisce a Israele.

Il titolo inglese tradisce il progetto ideologico dei produttori della serie (nessuno di loro è palestinese) e dei suoi tre registi israeliani, uno dei quali è un palestinese cittadino di Israele, l’altro un ebreo israeliano ashkenazita e il terzo un colono ebreo americano arrivato da New York con la sua famiglia ortodossa quando aveva 5 anni.

Alla fine della trasmissione i principi morali superiori di Israele e delle sue anime ebraiche sono vittoriosi, vista la condanna del tribunale contro i tre terroristi ebrei, anche se la corte si è rifiutata di accettare la richiesta degli Abu Khdeir di demolire le case degli assassini come Israele fa con i “terroristi” palestinesi.

A parte ciò, “I nostri ragazzi”, come il film “Monaco”, non si stanca di ricordarci che la minaccia alla superiorità morale di Israele e della sua anima ebraica viene dai palestinesi violenti che resistono e non dalle conquiste coloniali, dall’occupazione militare e dal razzismo istituzionalizzato di Israele.

Così facendo, “I nostri ragazzi” segue le orme dell’affermazione razzista di Golda Meir che riassunse perfettamente l’argomento principale della serie: “Possiamo perdonarvi di uccidere i nostri figli, ma non potremo mai perdonarvi di farci uccidere i vostri.”

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye

Joseph Massad è professore di politica araba contemporanea e di storia del pensiero alla Columbia University di New York. È autore di diversi libri e di articoli accademici e giornalistici. I suoi libri comprendono: ‘Colonial effects: the making of National identity in Jordan’ [Effetti colonialisti: la creazione di un’identità nazionale in Giordania], ‘Desiring arabs’ [Arabi desideranti], ‘The persistence of the palestinian question: essays on zionism and the palestinians’ [La persistenza della questione palestinese: saggi su sionismo e palestinesi], ed il più recente ‘Islam in liberalism’ [L’Islam nel liberalismo]. I suoi libri e i suoi articoli sono stati tradotti in una decina di lingue.

(Traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele guarda con nervosismo come Trump abbandoni i suoi alleati siriani

Lily Galili – Tel Aviv, Israele

 10 ottobre 2019 – Middle East Eye

Negli ultimi giorni la leadership israeliana ha imparato due cose: a non credere di sapere cosa farà il presidente USA e a non fidarsi di lui come alleato.

Durante il Capodanno ebraico è successa una cosa incredibile: per la prima volta il presidente Trump è stato paragonato, nei media israeliani, al suo predecessore, Barack Obama.

Non è cosa di poco conto. Per la maggioranza degli israeliani, che si colloca fra il centro e l’estrema destra, Trump è un idolo americano, il migliore amico che Israele abbia mai avuto alla Casa Bianca.

Barack Hussein Obama era, per quegli stessi israeliani, l’epitome di tutti i mali.

Secondo il Pew, un centro di ricerca con sede a Washington, uno studio recente ha rilevato che solo 2 Paesi su 37 preferiscono Trump a Obama: Russia e Israele.

E probabilmente è ancora così. Ma il senso di preoccupazione e di tradimento incombente, innescato dal ritiro improvviso delle truppe americane dal nord della Siria e dall’abbandono senza scrupoli dei curdi, alleati sia dell’America che di Israele, ora cancella l’iniziale adorazione.

Né i militari né i politici israeliani considerano la riduzione delle truppe Usa e l’offensiva militare turca che ne è seguita come un pericolo imminente per Israele.

Finora ‘i disordini’, come le fonti ufficiali tendono a descrivere la situazione, sono confinati a una regione lontana dal confine tra Israele e la Siria.

Ci sono comunque due elementi che preoccupano notevolmente Israele.

Uno è il fatto che questa mossa drammatica ha sorpreso persino i più alti livelli decisionali in Israele. Un altro è che Trump si è rivelato una delusione, in pratica un alleato inaffidabile.

Il giorno prima del drammatico annuncio di Trump, il governo israeliano aveva tenuto un lungo incontro di emergenza per discutere dell’Iran.

Fonti del governo ammettono che la decisione di Trump non era neanche stata menzionata, probabilmente perché neppure gli ufficiali più alti in grado ne erano a conoscenza.

È stata una totale sorpresa, cosa che l’ex direttore del dipartimento della sicurezza e diplomazia presso il Ministero della Difesa, il generale maggiore Amos Gilad, ha definito come “un errore nella valutazione e nella politica ai più alti livelli fra Israele e gli USA”.

Secondo Gilad, la politica estera di Trump ha impattato Israele in senso negativo più che positivo.

La sua politica di non reagire, quando l’Iran ha attaccato le installazioni petrolifere dell’Arabia Saudita o quando l’Iran ha abbattuto un drone americano, ha rivelato la sua debolezza. Questo è un male per Israele dato che il deterrente americano è anche un deterrente israeliano” ha detto il militare.

D’altro lato Trump è ancora un punto di forza quando abbiamo bisogno di lui nel Consiglio di Sicurezza alle Nazioni Unite. Così la lezione per Israele ora è l’autosufficienza.”

Paura e tradimento

Sebbene “tradimento” non sia la parola ufficialmente pronunciata nel gergo politico, il sentimento è profondamente diffuso, insieme alla paura di quello che succederà.

Non c’è spazio per le sorprese”, ha detto a MEE il generale maggiore Amiram Levin, ex comandante militare del comando nord.

Per due anni ho denunciato che la politica di Israele è basata sulla falsa convinzione che Trump sia un grande amico. È ora che Israele capisca che, fino a quando Trump è al potere, Israele non ha nessuno su cui contare.”

Levin dice che gli israeliani devono abbandonare l’idea che Israele e gli USA siano un’unica cosa. Aggiunge inoltre che è stato “un grande errore” credere che Israele avrebbe diretto la lotta comune contro l’Iran.

È ora di limitarsi a obiettivi più realistici e limitati, e di focalizzarsi su situazioni che pongono un vero pericolo per Israele. L’Iran, così com’è ora, non lo è” ha detto Levin.

In sostanza il nocciolo della questione è non andare oltre il necessario solo perché possiamo, e certamente non vantarsene e non darsi delle arie.”

La reazione a livello popolare è non meno significativa di quella ufficiale e i commenti sui social hanno insinuato che, per Israele, Trump sia persino peggio di Obama.

Nel frattempo un articolo su “Mida”, un sito di destra molto vicino a Netanyahu ha insinuato che, dopo tutto, non c’è molta differenza fra i due presidenti USA.

Trump, come Obama, vuole far uscire l’America dal Medio Oriente, una regione che ha perso la sua importanza strategica. La differenza è che Trump lo fa con la sua inimitabile retorica” ha scritto Alex Greenberg sul sito.

Siamo ben lontani dai giorni, solo pochi mesi fa, quando Trump ha fatto un regalo a Netanyahu riconoscendo formalmente la sovranità israeliana sulle alture di Golan occupate.

L’atto fu suggellato da un bacio, un bacio vero, gesto non molto comune nella diplomazia occidentale.

Netanyahu ha ricambiato non solo con un bacio. Ha annunciato la fondazione di un nuovo insediamento nel Golan che prenderà il nome di Trump.

Questa potrebbe essere la parte divertente di una storia d’amore politica. Più seriamente, Netanyahu è stato il primo premier israeliano a giocare esclusivamente la carta repubblicana, a differenza dei decenni di politiche bipartisan adottate dal suo Paese in precedenza.

Si presumeva che quella love story sarebbe durata per sempre, sopravvivendo agli avvertimenti dell’opposizione israeliana e degli esperti, che ricordavano a Netanyahu che la sua relazione con Trump era basata su interessi che tendevano a cambiare.

Ma i loro consigli si sono rivelati preveggenti a settembre, quando Netanyahu non è riuscito a vincere nelle seconde elezioni parlamentari dell’anno.

Trump, l’uomo di “grande e incomparabile saggezza”, come lui stesso si è descritto in un tweet di pochi giorni fa, ama i vincitori. E Netanyahu improvvisamente non era più uno di loro.

A poche ore dagli exit poll, il presidente USA è diventato gelido con Netanyahu, nonostante il suo alleato fosse afflitto dalla crisi politica e dalle incombenti accuse di corruzione.

E tutto ciò proprio prima che Trump rendesse noto il suo piano di pace a lungo atteso fra Israele e la Palestina e siglasse un trattato di difesa che sarebbe stato una manna per Netanyahu.

Ora arriva il ritiro, l’abbandono dei curdi e la licenza di uccidere data ai turchi.

Confusi? È solo l’inizio, prima che le politiche internazionali siano tradotte in politiche interne da un primo ministro che sta ancora faticando a formare un governo.

(Traduzione di Mirella Alessio)




Palestinese ricoverato in ospedale in condizioni critiche dopo essere stato interrogato dagli israeliani

Shatha Hammad da Ramallah, Cisgiordania occupata

29 settembre 2019 – Middle East Eye

Gli avvocati e la famiglia di Samir Arbeed accusano lo Shin Bet israeliano di torture in seguito a percosse e a metodi di interrogatorio “eccezionali”

Gli avvocati e la famiglia dicono che un detenuto palestinese è stato ricoverato in ospedale e si trova in condizioni critiche dopo essere stato torturato e duramente percosso durante l’arresto e l’interrogatorio.

Secondo i suoi legali Samir Arbeed, di 44 anni, accusato di essere responsabile di un attacco nella Cisgiordania occupata, era in buone condizioni di salute prima di essere preso in custodia da Israele mercoledì. Tuttavia, dopo essere stato sottoposto a un interrogatorio da parte del servizio di intelligence interno di Israele Shin Bet è stato trasferito all’ospitale Hadassah di Gerusalemme.

Le autorità israeliane hanno accusato Arbeed di essere la mente della cellula che in agosto ha effettuato un attentato dinamitardo, che ha ucciso una diciassettenne israeliana, nei pressi della colonia illegale di Dolev, nella Cisgiordania occupata a nord est di Ramallah.

Sabato lo Shin Bet ha affermato che i membri della cellula fanno parte del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), e che tutti e quattro sono stati arrestati. Lo Shin Bet ha anche sostenuto che la cellula stava pianificando un altro attentato.

Secondo mezzi di informazione israeliani un giudice ha concesso al servizio di sicurezza il permesso di “utilizzare mezzi eccezionali per interrogare” Arbeed.

Noura Miselmani, la moglie di Arbeed, ha detto a Middle East Eye di aver visto forze speciali israeliane colpire suo marito mentre veniva arrestato mercoledì di fronte al suo posto di lavoro nella città di al-Bireh. Afferma che giovedì, quando ha detto al giudice di essere sofferente e non in condizioni di mangiare per i colpi subiti, Arbeed è comparso davanti al tribunale con evidenti lividi.

Nonostante le sue difficili condizioni, il giudice ha adottato la decisione di consentire un interrogatorio militare e l’uso della forza per ricavare informazioni da lui,” ha detto.

Condizioni critiche

Sabato le autorità israeliane hanno detto a un avvocato di “Addameer”, un gruppo per i diritti dei detenuti palestinesi, che Arbeed era stato trasferito in ospedale.

Tuttavia Miselmani sostiene che in realtà Arbeed era stato ricoverato da venerdì.

Prima di essere arrestato era in buone condizioni. Mio marito non aveva nessuna malattia e la sua salute è peggiorata a causa delle torture subite,” afferma.

Sabato lo Shin Bet ha rilasciato una dichiarazione in cui dice: “Durante l’interrogatorio del capo della cellula terroristica responsabile dell’attacco nei pressi della sorgente Ein Buvin che ha ucciso Rina Shnerb, chi lo ha interrogato ha rilevato che egli non si sentiva bene. In base alla procedura è stato trasferito all’ospedale per esami e cure mediche. Non può essere fornito nessun altro particolare.”

Gli avvocati di Arbeed hanno detto che a loro è stato concesso di vederlo solo alle 22,30 di domenica, quando hanno scoperto che era arrivato in stato di incoscienza, con fratture alla cassa toracica, lividi, segni di percosse su tutto il corpo e grave insufficienza renale.

La sua famiglia afferma che a loro è stato impedito di vederlo e che lo Shin Bet ha rifiutato di fornire ogni ulteriore informazione sul caso.

Miselmani afferma che solo sabato lo Shin Bet ha emanato un comunicato nel tentativo di evitare ogni responsabilità legale nel caso Arbeed fosse morto.

Chiediamo a tutte le organizzazioni internazionali per i diritti umani di intervenire rapidamente per salvare mio marito Samir e di contribuire a garantire il suo immediato rilascio,” afferma.

Sahar Francis, direttrice di “Addameer”, sottolinea che la tortura di detenuti è illegale e che ogni confessione ottenuta in simili circostanze è inattendibile e dovrebbe essere ignorata.

In base allo Statuto di Roma quello che Samir ha subito è un crimine, soprattutto in quanto è entrato in condizioni critiche entro le 48 ore in conseguenza del fatto di essere stato torturato,” dice a MEE, aggiungendo che il suo ricovero in ospedale “conferma che è stato sottoposto a violenza e a gravissime torture.”

Francis sostiene che durante gli interrogatori militari di detenuti palestinesi le autorità israeliane usano normalmente metodi che costituiscono torture.

Ci sono decisioni della Corte Suprema israeliana che consentono allo Shin Bet di utilizzare la tortura come mezzo per estorcere confessioni,” afferma.

Estesa caccia all’uomo

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, Arbeed è stato arrestato per la prima volta due settimane fa in quanto sospettato di altri delitti, ma è stato rilasciato.

Nuove informazioni secondo cui sarebbe stato in possesso di esplosivi, lo hanno visto di nuovo in arresto mercoledì, informa Haaretz.

Le forze israeliane hanno condotto una vasta caccia all’uomo in seguito all’attacco nei pressi di Dolev il 23 agosto. Anche il padre e il fratello della diciassettenne Shnerb sono rimasti feriti nell’esplosione.

Domenica il FPLP ha affermato che le forze israeliane hanno arrestato decine di suoi membri in varie località della Cisgiordania, aggiungendo che non si farà intimidire dagli arresti.

Siamo impegnati in un percorso di resistenza e ciò continuerà ad aumentare finché il vulcano palestinese erutterà in faccia all’occupazione e ai coloni,” afferma il FPLP in un comunicato.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Alcune donne palestinesi che manifestavano contro la violenza domestica sono state aggredite dalla polizia israeliana

Shatha Hammad

26 settembre 2019– Middle East Eye

Il gruppo ‘Free Homeland, Free Women’ ha tenuto proteste contro la violenza domestica in tutta la Cisgiordania occupata, a Gaza e in Israele

Giovedì, davanti alle mura del castello turrito che per secoli ha difeso la Città Vecchia di Gerusalemme, centinaia di donne si sono riunite per protestare e chiedere la fine della violenza domestica per poi essere affrontate e, nel caso di alcune di loro, aggredite dalle forze di sicurezza israeliane.

Il gruppo “Free Homeland, Free Women” [Patria Libera, Donne Libere] si è radunato per denunciare che, secondo i dati stilati dal Women’s Centre for Legal Aid and Counselling [Centro per il Sostegno Legale e di Ascolto delle Donne] (WCLAC), lo scorso anno almeno 23 donne palestinesi sono state uccise durante liti domestiche.

Le manifestanti sono state anche motivate dalla recente morte in un ospedale di Betlemme di Israa Ghrayeb, una ‘makeup artist’ diciannovenne, in seguito a quello che i suoi amici e sostenitori hanno descritto come un “delitto d’onore”. Eppure le forze israeliane avevano in mente qualcos’altro. Hanno represso con violenza la protesta pacifica attaccando alcune delle donne mentre marciavano verso il centro della Città Vecchia.

Immagini postate su Facebook mostrano una fila di poliziotti che spingono le dimostranti su per la scalinata e lontano dall’entrata della Porta di Damasco verso la Città Vecchia.

Poi si possono vedere parecchi poliziotti che urtano violentemente le manifestanti gettando a terra alcune di loro.

Nimir al-Mughrabi, un’attivista del gruppo di donne, racconta a Middle East Eye che le forze israeliane hanno colpito molte manifestanti, ferendo una donna a un occhio e un’altra a una mano.

Forze israeliane a cavallo hanno anche inseguito le dimostranti, cercando di procedere ad arresti, dice al-Mughrabi. Uno degli arrestati è un tredicenne identificato come Majdi Abu al-Arabi.

Al-Mughrabi ha raccontato a MEE che le forze israeliane hanno iniziato a usare tattiche intimidatorie quando le donne hanno cominciato a riunirsi in strada dalla Città Vecchia, aggiungendo che le bandiere palestinesi sono state confiscate, mentre le forze israeliane cercavano di sbarrare la strada alla manifestazione.

Un portavoce della polizia israeliana ha detto a MEE che la protesta è stata consentita a patto che non disturbasse l’ordine pubblico.

Ma, ha affermato, alcune manifestanti hanno sventolato bandiere palestinesi, il che rappresenta una violazione dell’ordine pubblico.

Le dimostranti hanno iniziato ad affrontare la polizia ed hanno anche lanciato lattine contro di essa. Ciò ha obbligato la polizia a disperdere il raduno per mantenere l’ordine pubblico,” ha detto il portavoce.

Proteste simili, organizzate da gruppi per i diritti delle donne, si sono tenute durante il giorno nelle città palestinesi di Ramallah, Gaza, Arrabeh,Taybeh, al-Jish, Nazaret, Giaffa e Haifa le ultime 4 località si trovano in Israele, ndtr.], ed anche a Berlino e a Beirut.

https://twitter.com/i/status/1177269621109534720

Il gruppo si definisce un collettivo di donne palestinesi indipendenti che chiedono la fine di ogni forma di violenza contro le donne palestinesi ovunque.

Si è formato dopo che lo scorso mese Israa Ghrayeb è stata uccisa da membri della sua famiglia, scatenando una piccola ondata di proteste nelle comunità palestinesi.

Alcune componenti del gruppo hanno detto di essere particolarmente preoccupate per il “temporeggiamento” da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese nel denunciare il crimine e nel farne pagare le conseguenze ai responsabili.

“Noi (donne) rifiutiamo il fatto di essere una priorità che è rinviata a dopo la liberazione nazionale,” dice a MEE Razan Hazim, un’aderente a “Free Homeland, Free Women” che ha partecipato alla protesta di Ramallah. “Rifiutiamo la parola ‘dopo’,” afferma. “Intendiamo ridefinire la liberazione nazionale sulla base della libertà, della giustizia e della dignità sociale.”

Sottolinea che il gruppo intende espandersi progressivamente e continuare il movimento finché la violenza contro le donne palestinesi verrà bloccata.

A Ramallah le manifestanti hanno terminato il corteo davanti al Complesso Medico Palestinese, il principale ospedale pubblico della città, in cui una donna di 39 anni di Jenin viene curata per le percosse che ha subito.

La donna sarebbe stata picchiata dalla sua famiglia ed ha sofferto fratture alle gambe talmente gravi che, secondo i media locali, i medici potrebbero doverle amputare.

Ma, pur dicendo che la protesta del gruppo è concentrata sulle donne uccise durante litigi domestici, Hazim sottolinea anche che l’occupazione israeliana ha solo reso più grave questa violenza.

Le donne che vivono nelle zone controllate da Israele sono più vulnerabili di quelle della Cisgiordania e di Gaza, dice Hazim, dato che sanno di non poter ricorrere all’applicazione della leggi israeliane.

Le manifestazioni oggi rappresentano una garanzia per noi come palestinesi che possiamo sconfiggere la situazione imposta dal colonialismo, la divisione della Palestina e la nostra espulsione,” dice Hazim a MEE.

Le dimostranti hanno sollevato anche un’altra questione nazionale, includendo le pretese da parte di Israele di una Gerusalemme indivisa come sua capitale e i continui arresti di migliaia di prigionieri politici palestinesi.

La marcia di oggi è parte del tentativo di recuperare spazi pubblici confiscati dall’occupazione a Gerusalemme,” dice Hazim, aggiungendo che il suo gruppo appoggia la liberazione di “tutta la Palestina occupata, dal fiume [Giordano] al mare [Mediterraneo].”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Kamila Shamsie è solo l’ultima vittima della tendenziosità della Germania contro i palestinesi

Abir Kopty

 26 settembre 2019 – Middle East Eye

Più di 70 eventi in diverse città sono stati annullati negli ultimi 4 anni in seguito a pressioni da parte della lobby israeliana

La recente decisione della città tedesca di Dortmund di ritirare un premio letterario alla scrittrice anglo-pakistana Kamila Shamsie per la sua posizione a favore dei palestinesi non è certo una sorpresa.

Non è la prima volta che questo cambiamento di una decisione avviene in seguito alle pressioni della lobby sionista in Germania. Pochi giorni fa un evento pubblico organizzato dal “Jewish-Palestinian Dialogue Group” [Gruppo per il Dialogo Ebraico-Palestinese] a Monaco è stato annullato a causa del suo appoggio ai diritti dei palestinesi e al movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS). L’organizzazione Caritas, che doveva ospitare l’avvenimento, lo ha annullato a causa di pressioni della comunità ebraica di Monaco.

Far tacere critiche legittime

L’evento avrebbe dovuto ospitare il giornalista Christoph Sydow, co-autore di reportage sul campo per “Der Spiegel” [settimanale tedesco di centro sinistra, ndtr.] su come le organizzazioni della lobby ebreo-tedesca e filo-israeliana hanno giocato un ruolo fondamentale nella recente risoluzione del Bundestag [il parlamento tedesco, ndtr.] contro il BDS. Questo reportage ha fatto scalpore, provocando un violento attacco da parte della lobby filoisraeliana.

Sydow non è un attivista, ma un giornalista che ha fatto il proprio lavoro per svelare la verità sulla lobby filoisraeliana. Eppure ogni critica può essere messa a tacere sventolando la bandiera dell’antisemitismo. In Germania questa strategia sembra sempre funzionare, in quanto la lobby filoisraeliana continua ad (ab)usare della storia tedesca di genocidio contro gli ebrei per far tacere le legittime critiche alle continue violazioni dei diritti dei palestinesi da parte di Israele.

Una lista stilata da attivisti tedeschi di cui sono venuta in possesso documenta più di 70 eventi in diverse città che negli ultimi quattro anni sono stati annullati per pressioni da parte della lobby israeliana.

Solo quest’anno agli attivisti palestinesi Rasmea Odeh e Khaled Barakat è stato impedito di partecipare ad iniziative pubbliche in Germania; tre attivisti sono stati processati per aver interrotto una conferenza presso l’università Humboldt di una deputata della Knesset [parlamento] israeliana che ha appoggiato l’attacco di Israele contro Gaza nel 2014; il direttore del Museo Ebraico di Berlino, Peter Schafter, è stato obbligato a dimettersi in seguito a pressioni della comunità ebraica per un tweet critico nei confronti della presa di posizione della Germania contro il BDS.

Sempre quest’anno, dopo che il gruppo Jewish Voice for a Just Peace in the Middle East [Voci Ebraiche per una Pace Giusta in Medio Oriente, gruppo di ebrei tedeschi contro l’occupazione, ndtr.] ha vinto un premio per la pace nella città di Gottinga, funzionari di alto livello hanno cercato di farlo revocare – benché la giuria alla fine abbia confermato la propria decisione ed abbia finanziato il premio.

Situazione di timore

Mentre queste misure dovrebbero impensierire tutti i difensori dei diritti umani e in particolare il movimento filo-palestinese, esse dovrebbero in primo luogo preoccupare gli stessi tedeschi.

I tedeschi dovrebbero cogliere l’occasione per prendere in considerazione lo stato di timore che devono affrontare se vogliono esprimere le proprie opinioni sulle politiche di Israele. Molti tedeschi in privato mi hanno detto di non sentirsi tranquilli quando si esprimono in pubblico “a causa della nostra storia”.

Il significato sottinteso è che temono di perdere il proprio lavoro o di essere presi di mira da una campagna di calunnie che potrebbe distruggere le loro vite.

I tedeschi parlano a voce alta di persone oppresse in tutto il mondo; i palestinesi sono l’eccezione. Sembrerebbe che la Germania valorizzi la democrazia e la libertà di parola, salvo quando si tratta della Palestina. Molti semplicemente non sono abbastanza coraggiosi da schierarsi chiaramente contro quelli che soffocano la loro libertà di parola e impediscono loro di vivere secondo i propri valori.

Mentre questa condizione di timore è predominante, ci sono ancora quelli che rifiutano di essere messi a tacere e che continuano a reagire – soprattutto sul piano legale.

Motivo di speranza

Due settimane fa il tribunale amministrativo di Colonia ha ordinato alla città di Bonn di accettare la “German-Palestinian Women’s Association” [Associazione Tedesco-Palestinese delle Donne] all’annuale “Festival della Cultura e dell’Incontro” di Bonn, dopo che in un primo tempo la città aveva escluso il gruppo per il suo appoggio al BDS. Secondo il tribunale, la città non ha “neppur lontanamente dimostrato” alcuna ragione plausibile per l’esclusione.

Secondo l’“European Legal Support Centre” [Centro di Sostegno Legale Europeo] la decisione ha fatto seguito ad altre due precedenti sentenze da parte del tribunale amministrativo di Oldenburg e dell’Alta Corte Amministrativa della Bassa Sassonia, a Luneburg, che hanno anch’esse garantito l’accesso di attivisti del BDS a strutture pubbliche dopo che inizialmente erano state loro negate dalle autorità locali. 

Benché queste decisioni siano motivo di speranza, le azioni legali da sole non sono sufficienti. La vera lotta riguarda la sfera pubblica.

I tedeschi dovrebbero porsi domande scomode e decidere se intendono continuare a vivere in una condizione di timore che sabota i loro diritti fondamentali di libertà di parola e di pensiero.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Abir Kopty

Blogger, conduttrice radio-televisiva e dottoranda.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Netflix e Israele: un rapporto speciale

Belen Fernandez

24 settembre 2019 – Middle East Eye

Come numerose piattaforme dell’intrattenimento, Netflix si è fatta inglobare nell’industria della hasbara israeliana

Nel 2016 l’ambasciata israeliana negli Stati Uniti ha twittato riguardo all’espansione di Netflix a livello globale: “Per circa 5 giorni all’anno il tempo non è buono…@Netflix, ora in Israele!”

Certo, che fortuna che Israele sia riuscito a fondarsi su terra rubata con un clima così favorevole. E, parlando di fortuna, Netflix si è dimostrato un vero dono del cielo per lo Stato ebraico per molto più di cinque giorni all’anno. Come numerose piattaforme di intrattenimento, Netflix si è fatta inglobare nell’industria della hasbara [propaganda, ndtr.] israeliana.

Onorare il Mossad

L’ultimo prodotto filo-israeliano per abbellire gli schermi degli utenti a pagamento è la serie in sei parti “La Spia” di Netflix, con Sacha Baron Cohen che interpreta l’agente del Mossad [servizio segreto per l’estero, ndtr.] israeliano Eli Cohen, giustiziato a Damasco nel 1965.

Prevedibilmente la serie umanizza Cohen in quanto umile, amorevole e zelante patriota impegnato in un nobile inganno a favore degli innocenti israeliani sotto attacco da parte dell’ignobile Siria. Non si fa alcun riferimento al ruolo prevalente di Israele come aggressore-provocatore, mentre la sua storia di stragi di massa al servizio di disegni predatori a livello regionale è – come al solito – sparita sotto il mantra dell’“autodifesa”.

Ma “La Spia” è solo l’inizio. Cercate “Israele” su Netflix e sarete bombardati da ogni sorta di offerte, da “Dentro al Mossad” a “Fauda”, una serie su “un importante agente (che) ritorna in servizio dalla pensione per dare la caccia a un combattente palestinese che pensava di aver ucciso”. Nel trailer, apprendiamo che “Abu Ahmad ha sulle mani il sangue di 116 israeliani” e che “nessun altro terrorista ne ha uccisi così tanti: uomini, donne, bambini, anziani, soldati.”

Non importano, allora, gli episodi della vita reale come quella volta in cui nel 2014 l’esercito israeliano ha avuto sulle sue mani il sangue di 2.251 palestinesi, compresi 299 donne e 551 minorenni. Quello che interessa alla propaganda israeliana è invertire il rapporto tra carnefice e vittima, cosicché il terrorismo istituzionalizzato di Israele a danno dei palestinesi sarebbe in qualche modo per sua natura una reazione, mentre le vittime di più di settant’anni di aggressioni israeliane si ritrovano nel ruolo degli aggressori.

La morale della storia

La lista di Netflix continua. Vi sono ospitati anche due film intitolati “L’angelo” e “La spia caduta sulla terra”, usciti rispettivamente nel 2018 e nel 2019, e riguardanti lo stesso personaggio: l’egiziano Ashraf Marwan, genero del defunto presidente Gamal Abdel Nasser.

Nel loro libro “Spies Against Armageddon: Inside Israel’s Secret Wars” [Spie contro l’Armageddon: dentro le guerre segrete di Israele] Dan Raviv e Yossi Melman notano che nel 1973 Marwan è stato il coordinatore del complotto libico-egiziano-palestinese per abbattere un aereo della linea aerea israeliana El Al in Italia, in risposta all’abbattimento da parte di Israele di un velivolo libico che aveva ucciso le 105 persone a bordo.

Marwan consegnò personalmente i missili richiesti a incaricati palestinesi a Roma, ma “il piano fallì…Quello che i cospiratori libici, egiziani e palestinesi non hanno mai saputo è il segreto riguardante Marwan: era un agente al soldo del Mossad, uno dei migliori che Israele abbia mai avuto.”

Mentre per gli arabi la morale della storia è forse che fare la spia per Israele è un buon modo per raggiungere una fama postuma su Netflix, questo specifico aneddoto dovrebbe anche annullare concretamente le affermazioni israeliane di avere a cuore il benessere e la sicurezza dei propri cittadini.

Poi c’è “When Heroes Fly” [Quando volano gli eroi], la serie del 2018 su quattro veterani dell’esercito israeliano traumatizzati dalla guerra del 2006 in Libano; solo per il fatto che Israele fece la grande maggioranza delle uccisioni ed altri danni non significa che il ruolo di vittima dovrebbe essere tolto ai suoi soldati.

Un articolo di Haaretz ci assicura che “il nuovo thriller israeliano di Netflix ‘When Heroes Fly’ è divertente quasi quanto ‘Fauda’” e la serie è “abbastanza avvincente da soddisfare chiunque abbia perso ‘Fauda’ nella propria vita.” Di certo è difficile pensare a qualcosa di più divertente di una guerra e di un trauma.

Ultimo ma non per importanza, c’è il film di Netflix “Il Centro Immersioni del Mar Rosso”, sui tentativi da salvatore bianco del Mossad negli anni ’80 di evacuare gli ebrei etiopi attraverso il Sudan verso la Terra Promessa (ovviamente per molti la terra in questione non sarebbe risultata così promessa, come possono probabilmente testimoniare gli etiopi a cui sono stati somministrati a forza farmaci contraccettivi o a cui la polizia israeliana ha sparato).

Il film è diretto da Gideon Raff, che ha ideato anche “La Spia” e “Hatufim”, che ha ispirato la serie razzista considerata da tutti la preferita, “Homeland” [Patria] – alla quale Raff ha contribuito. Discussione su come trovare il proprio posto.

Spettacolo vergognoso

Evidentemente non c’è niente di contraddittorio riguardo agli israeliani che compiangono la morte e l’espulsione in Etiopia – e all’imperativo morale di salvare le vittime – quando tutta l’impresa israeliana è costruita su, proprio così, morte ed espulsione.

Nel 1948 la Nakba vide centinaia di villaggi palestinesi distrutti, l’uccisione di 15.000 palestinesi ed altri 750.000 costretti a fuggire dalle loro case. Da allora il modello della pulizia etnica è solo continuato, punteggiato da veri e propri picchi di massacri.

In quello che non può che essere descritto come un’esibizione di totale spudoratezza, “The Red Sea Diving Resort” include battute come questa, detta da una bionda agente israeliana: “Non siamo tutti solo dei rifugiati?”

Il film finisce ricordando che “attualmente ci sono più di 65 milioni di rifugiati in tutto il mondo”; al diavolo il fatto che, grazie a Israele, di palestinesi rifugiati ce ne sono oltre sette milioni.

E mentre nel film un agente sostiene che c’è “un altro sanguinoso genocidio” che sta avvenendo in Etiopia, ma che “a nessuno gliene fotte niente perché avviene in Africa”, il tentativo di genocidio di Israele per spazzare via l’identità palestinese non merita evidentemente la stessa preoccupazione.

A conti fatti la mia ricerca di “Palestina” su Netflix – e lo stesso vale per “Libano” e “Siria” – ha prodotto in buona misura la stessa ampia scelta di thriller con spie israeliane e altre “piacevolezze”. Quando ho tentato di cercare “Nakba”, il principale risultato è stato “Bad Boys II” [Cattivi ragazzi 2, serie poliziesca USA, ndtr.], interpretato da Martin Lawrence e Will Smith; un po’ più in basso si trova “The Red Sea Diving Resort”.

Sparizione

Recentemente ho contattato Netflix per avere risposte alle critiche sul fatto che funge da mezzo per la propaganda israeliana, ed ho ricevuto la seguente dichiarazione da un portavoce: “Ci occupiamo dell’industria dell’intrattenimento, non dei media o della politica.

Comprendiamo che non tutti gli spettatori apprezzano tutta la programmazione che offriamo. È per questo che abbiamo una vasta gamma di contenuti da tutto il mondo – perché crediamo che le grandi storie arrivino da qualunque parte. Tutti gli spettacoli di Netflix mostrano la classificazione e l’informazione per aiutare gli utenti a prendere le proprie decisioni su quello che va bene per loro e per le loro famiglie.”

La mia attenzione era rivolta anche ad alcuni esempi dei “diversi contenuti arabi che si trovano nel servizio e in via di sviluppo”, di cui il primo è “comici del mondo”, uno spettacolo che ospita 47 comici internazionali – quattro dei quali mediorientali.

Ma i comici del Medio Oriente sono molto lontani dagli apprezzamenti per “The Spy” – che, come ogni spettacolo di intrattenimento centrato su Israele, è intrinsecamente politico – e il solo fatto che su Netflix ci sia un “contenuto arabo” non significa che faccia qualcosa per umanizzare o contestualizzare la lotta dei palestinesi.

Il rapporto speciale di Netflix con Israele potrebbe essere redditizio per chi ne è coinvolto, ma, contribuendo ad alzare gli indici di gradimento di Israele in un’esibizione di brutalità che è già durata per settant’anni di troppo, la compagnia è totalmente complice nella sparizione dei palestinesi operata da Israele.

Le opinioni espresse in quest’articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Belen Fernandez  è autrice di Exile: Rejecting America and Finding the World [Esilio: rifiutare l’America e trovare il mondo”] e di “The Imperial Messenger: Thomas Friedman at Work” [“Il messaggero dell’impero: Thomas Friedman [giornalista del NYT noto per le sue posizioni filoisraeliane] al lavoro]. È una collaboratrice della rivista “Jacobin” [“Giacobino”, rivista della sinistra radicale USA, ndt.].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Le forze di sicurezza israeliane hanno ucciso una donna palestinese a un checkpoint in Cisgiordania

 Shatha Hammad a  Ramallah, Cisgiordania occupata

 18 settembre 2019 – Middle East Eye

Testimoni hanno riferito a Middle East Eye che la donna è stata uccisa dopo aver sbagliato corsia pedonale al checkpoint di Qalandia.

La polizia israeliana e testimoni palestinesi riferiscono che mercoledì mattina le forze di sicurezza israeliano hanno sparato e ucciso una donna palestinese al checkpoint di Qalandia, nella Cisgiordania occupata.

Un video che circola sui social, ritenuto autentico da Middle East Eye, mostra degli uomini che, con le uniformi del personale di sicurezza privato e armati di fucili, affrontano una donna a parecchi metri di distanza da loro. Si sente uno sparo e subito dopo lei crolla a terra, lasciando cadere un oggetto che una delle guardie sembra colpire con un calcio e mandare fuori dalla portata della donna.

Testimoni hanno riportato a Middle East Eye che la donna è stata colpita quattro volte, dopo aver sbagliato corsia pedonale a Qalandia, il più importante checkpoint israeliano che separa Gerusalemme est dalla Cisgiordania centrale.

Mohammed Hammad Jaradat, un abitante di Gerusalemme, ha riferito a MEE che apparentemente la donna era entrata a piedi nel settore sbagliato del posto di blocco e stava cercando di raggiungere la zona degli autobus.

Le forze di sicurezza israeliane hanno quindi cominciato a urlare e inseguirla e, a questo punto, secondo Jaradat, lei ha tirato fuori un piccolo coltello.

 “Avrebbero potuto tenerla sotto controllo” ha detto Jadarat. “Erano cinque soldati e lei era a circa sette metri di distanza. L’hanno uccisa deliberatamente, hanno voluto non solo uccidere lei, ma anche spaventare noi palestinesi che attraversiamo il posto di blocco ogni giorno tra Ramallah e Gerusalemme.”.

Il ministero della Sanità dell’Autorità Palestinese ha confermato che la donna, non ancora identificata, è morta in un ospedale israeliano a Gerusalemme est a causa delle ferite. La Mezzaluna Rossa palestinese ha detto in un comunicato che le forze israeliane hanno impedito ai suoi medici di raggiungere la donna e prestarle i primi soccorsi.

Un portavoce della polizia israeliana ha dichiarato che “una terrorista ha cercato di compiere un attacco con un coltello” al posto di blocco di Qalandia, ed è stata pubblicata una foto di un coltello sull’asfalto.

Alaa Rimawi, il direttore del Center for Jerusalem Studies [Centro per gli Studi su Gerusalemme, programma di studi dell’università palestinese Al Quds, ndtr.], ha riferito a MEE che uno studio effettuato dal centro ha stimato che il 56% dei palestinesi uccisi dalle forze israeliane nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme dal 2015 è stato ucciso ai checkpoint, aggiungendo che Qalandia è un punto critico per tali sparatorie mortali.

Dopo la sparatoria, le forze israeliane hanno attaccato i civili palestinesi presenti nell’area con gas lacrimogeni e hanno bloccato l’accesso dei lavoratori al checkpoint, che poi è stato chiuso in entrambe le direzioni.

Secondo fonti ufficiali palestinesi la Cisgiordania era già stata blindata martedì per le elezioni generali in Israele, impedendo a circa 150.000 palestinesi con un permesso di lavoro israeliano di attraversare i checkpoint.

Rimawi ha denunciato procedure scorrette, come la mancanza di avvertimento da parte dei soldati prima di sparare, l’uso di cartucce vere e l’inosservanza delle regole dell’esercito che prevedono che si spari agli arti inferiori di un presunto aggressore onde evitare perdite di vite umane.

Ha anche aggiunto che la sua organizzazione ha documentato dal 2015 almeno 36 casi in cui dei palestinesi sono stati uccisi nonostante “mancasse la prova che fossero in possesso di un oggetto che costituisse una minaccia per le vite dei soldati”.

Documentare le uccisioni

Secondo Helmi al-Araj, il direttore del Centre for Defense of Liberties and Civil Rights [Centro per la Difesa delle Libertà e dei Diritti Civili, Ong palestinese per la difesa dei diritti umani e politici dei palestinesi, ndtr]  foto e video di uccisioni da parte delle forze israeliane costituiscono un’utile prova per rendere nota una prassi corrente nei territori palestinesi occupati indipendentemente dal fatto che si tenga conto se i palestinesi costituiscano una minaccia reale o meno.

 “Tutta la documentazione è molto importante da usare contro i soldati israeliani e i coloni e per procedere contro di loro per crimini di guerra e continuo incitamento a uccidere i palestinesi” riferisce Araj al MEE, citando l’uccisione del palestinese Abd al-Fattah al-Sharif a Hebron nel 2016.

Il video dell’uccisione di Sharif, una vera e propria esecuzione, ha suscitato la condanna internazionale e ha portato a un processo ampiamente pubblicizzato in cui Elor Azarya è stato uno dei pochi soldati israeliani a essere condannato al carcere, seppure per un breve periodo, per aver ucciso un palestinese.

Secondo l’United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari; OCHA), quest’anno, fino al 2 settembre, le forze israeliane hanno ucciso in Cisgiordania 20 palestinesi.

Si stima che, fra il 2015 and 2016, un’ondata di violenza abbia causato la morte di 236 palestinesi e circa 34 israeliani, con un numero significativo di palestinesi uccisi dalle forze israeliane nella Gerusalemme est annessa  e nella Cisgiordania occupata.

(traduzione di Mirella Alessio)




Il piano di annessione di Netanyahu ucciderà Israele

David Hearst

17 settembre 2019    Middle East Eye

L’annessione elimina tutti i muri accuratamente eretti da Israele per dividere i palestinesi, distruggendo dall’interno il sogno sionista di uno Stato a maggioranza ebraica.

Questa doveva essere la promessa elettorale più importante. Benjamin Netanyahu, l’uomo che governa Israele da quasi 30 anni, aveva previsto di assestare così il colpo di grazia ai suoi rivali politici della destra colonizzatrice. Avigdor Lieberman, l’ago della bilancia? Ora non più.

Tuttavia l’annuncio di Netanyahu che, se sarà rieletto, annetterà la Valle del Giordano e con essa quasi un terzo della Cisgiordania, non ha avuto l’effetto previsto.

Netanyahu si è vantato di essere in grado di annettere tutte le colonie  al centro della sua patria, grazie alla “sua relazione personale con il presidente Trump”.

Ma il presidente americano Donald Trump questa volta non è stato al gioco.

Bolton licenziato

La Casa Bianca ha emesso un comunicato che afferma che la politica americana al momento non è cambiata e per rafforzare il concetto Trump ha licenziato il suo consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, a lungo considerato dai dirigenti israeliani il proprio uomo a Washington.

Ben Caspit, corrispondente di Maariv (quotidiano israeliano, ndtr.), ha affermato che Netanyahu aveva chiesto a Trump un riconoscimento per l’annessione della Valle del Giordano simile a quello dato per le Alture del Golan. Bolton era d’accordo, ma Trump si è rifiutato.

Caspit ed altri corrispondenti hanno sottolineato che Netanyahu non aveva neppure bisogno di chiedere il permesso di Trump per annettere la Valle del Giordano, che ha una storia giuridica molto diversa da quella delle Alture del Golan, che sono state sottratte alla Siria.

Netanyahu ha bisogno soltanto di una maggioranza semplice alla Knesset [parlamento israeliano, ndtr.] per annettere la Valle del Giordano, perché la legge che glielo permette esiste già. Questa legge, adottata dai deputati di sinistra nel 1967, perfezionava un’ordinanza risalente al mandato britannico, che autorizzava il governo ad emanare un decreto che enunciava in quali regioni della Palestina si dovevano applicare la giurisdizione e l’amministrazione dello Stato di Israele. È questa legge che ha permesso a Levy Eshkol [all’epoca primo ministro israeliano, ndtr.] di annettere Gerusalemme est nel 1967.

Poco importa. Questa defezione sensazionale è stata seguita da un’altra : la sua.

Netanyahu ha dovuto essere portato via dal palco dalle guardie del corpo nel mezzo di un discorso  della campagna elettorale a Ashdod, nel sud di Israele, quando dei razzi lanciati da Gaza hanno fatto suonare le sirene di allarme che annunciavano un attacco dal cielo. Era un avvertimento indirizzato a Netanyahu e a tutti i coloni israeliani dalla terra sulla quale si sono insediati.

La finzione ANP

Nessuna annessione, per quanto ampia, porrà fine a questo conflitto. I palestinesi se ne infischiano di sapere in che modo le loro terre sono occupate, o se effettivamente un ulteriore 33% sarà sottratto al 20% della Palestina storica che rimane loro.

Sapere in quale enclave, in quale bantustan o in quale prigione sono detenuti, o se l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) è davvero dissolta, o se il presidente Mahmoud Abbas consegna le chiavi della Cisgiordania al più vicino comandante dell’esercito israeliano, tutti questi sono sofismi per loro. Allo stato attuale delle cose, Abbas deve chiedere il permesso all’esercito israeliano per ogni suo atto.

L’ANP non esiste veramente, non è che uno strumento con cui Israele obbliga i poliziotti palestinesi a liberare le strade prima che le sue forze armate entrino in tutta la Cisgiordania con incursioni notturne.

L’autonomia della zona A [in base agli accordi di Oslo sotto totale controllo palestinese, ndtr.] è in gran parte fittizia. Se l’ANP dovesse essere sciolta, l’unica preoccupazione di Israele sarebbero le circa 100.000 armi detenute dalle forze di sicurezza palestinesi.

A causa della loro natura priva di sostanza, tutte le istituzioni e le strutture palestinesi sono diventate ampiamente irrilevanti – tranne che come fonte di reddito – per gli stessi palestinesi. Poco importa sapere chi gestisce l’occupazione, né quante leggi vengono adottate per privarli della loro identità nazionale, dei loro diritti di proprietà e del loro Stato.

Qualunque cosa accada e qualunque sia il numero delle enclave create per i palestinesi, il nodo demografico di questo conflitto resterà lo stesso: oggi ci sono più palestinesi che ebrei israeliani tra il fiume [Giordano] e il mare [Mediterraneo].

Apartheid israeliano

Il vice capo dell’Amministrazione civile israeliana [ente che governa sui territori palestinesi occupati, ndtr.], generale Haim Mendes, ha presentato i seguenti dati alla Commissione affari esteri e difesa della Knesset lo scorso dicembre : vi sono attualmente 6,8 milioni di palestinesi tra il fiume e il mare (5 milioni a Gaza e in Cisgiordania, 1,8 milioni all’interno di Israele e di Gerusalemme est). Di contro, secondo l’Ufficio Centrale di Statistica, gli ebrei in Israele sono 6,6 milioni.

Il solo modo di cambiare il cuore del conflitto è sapere se, o quando, Israele procederà ad un’altra espulsione di massa o ad un’azione di pulizia etnica, come è avvenuto nel 1948 e nel 1967.

Diversamente, la vita dei palestinesi non cambierà. Questo significa che, qualunque siano le dichiarazioni fatte durante le campagne elettorali, gli ebrei israeliani stanno diventando una minoranza su quella che affermano essere la propria terra e non possono imporre la loro supremazia che attraverso l’apartheid.

Anche se ciò non modifica niente rispetto alla situazione di sudditanza imposta ai palestinesi nel loro Paese, modifica però la narrativa di Israele tra le elite politiche in Europa e negli Stati Uniti, alle quali Israele ha devoluto miliardi di shekel [valuta israeliana] per ingraziarsele.

Prima dell’annessione, e quando il principio “terra in cambio di pace” era ancora la narrazione dominante del processo di Oslo, la classe politica di sinistra e di destra in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e in tutta Europa poteva aderire simultaneamente a interpretazioni che si escludevano l’un l’altra  per una soluzione del conflitto.

Potevano impegnarsi ad essere “sostenitori di Israele”, approvando al tempo stesso il diritto all’autodeterminazione palestinese in un Stato palestinese ipotetico – però mai realizzabile.

Perdita di legittimità internazionale

Per quanto riguardava Israele, il mito che ribadivano era che c’era qualcosa chiamato “Israele propriamente detto”, che è stato riconosciuto a livello internazionale – e poi, ahimè (grosso sospiro) c’erano cose chiamate colonie, che erano illegali, ma (altro grosso sospiro) che cosa ci si può fare? L’idea era che se soltanto le due parti fossero riuscite a fare dei compromessi, si sarebbe potuta trovare una soluzione territoriale.

Con l’annessione come politica ufficiale, tutto questo cambierebbe. Il momento in cui lo Stato di Israele consideri le colonie come facenti parte del proprio territorio,  sarà il momento in cui “Israele propriamente detto” cesserà di esistere. Tutto Israele diventerebbe una colonia. Lo Stato israeliano perderebbe la sua legittimità internazionale.

Se l’annessione è letale per l’immagine internazionale di Israele come Stato europeo avanzato in un deserto di arabi selvaggi, irragionevoli e agitati, lo è ancor di più nella prospettiva di costruire e mantenere uno Stato ebraico all’interno.

La concessione più deleteria che Yasser Arafat e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) hanno fatto nel corso del processo di Oslo non è stato il riconoscimento dello Stato di Israele, ma l’abbandono dei palestinesi – il 20% della popolazione – che ci vivono.

Lotta per la sovranità

Questo ha creato ogni sorta di anomalie. Gerusalemme era il cuore del conflitto e la capitale dello Stato palestinese, ma l’ANP, in quanto tale, non esercitava alcuna autorità sugli abitanti di Gerusalemme che là vivono.

Per una gran parte del processo di pace i “palestinesi del 1948” – quelli che sono stati autorizzati a restare, o che sono stati spostati all’interno del Paese al momento della creazione dello Stato di Israele – non hanno preso parte alla lotta contro l’occupazione. Avevano la cittadinanza israeliana e sono stati chiamati dai loro padroni “arabi israeliani”.

L’annessione cambia tutto ciò. Elimina in un colpo solo tutti i muri accuratamente eretti che Israele ha costruito per dividere i palestinesi, creando una gamma di blocchi carcerari sotto sorveglianza. Gaza, la Cisgiordania, i “palestinesi del 1948” e quelli della diaspora diventano un solo popolo che lotta per la sovranità nel proprio Paese.

Inconsapevolmente, l’annessione distrugge dall’interno il sogno sionista di uno Stato a maggioranza ebraica.

I dirigenti palestinesi che non sono stati assassinati o imprigionati da Israele erano essenziali per il mantenimento dello status quo, grazie al quale aree come la Valle del Giordano sono state annesse di fatto, se non ufficialmente.

Non è come se i palestinesi potessero realmente utilizzare e coltivare la Valle del Giordano, la loro terra più fertile. Essa si estende su circa 160.000 ettari e rappresenta quasi il 30% della Cisgiordania. Israele sfrutta la quasi totalità della Valle del Giordano per le proprie necessità e impedisce ai palestinesi di entrare o di utilizzare circa l’85% dell’area, sia per edilizia che per infrastrutture, per scopi agricoli o abitativi.

Nel 2016 ci vivevano 65.000 palestinesi e 11.000 coloni. Ciò significa che una minoranza della popolazione è autorizzata a spostarsi nell’85% della terra.

Una morte lenta

Israele non ha bisogno di annettere la Valle del Giordano. In realtà lo ha già fatto.

Dato che i dirigenti palestinesi sono moribondi, le future generazioni di palestinesi andranno alla ricerca di una prospettiva molto diversa. Saranno obbligati a riformulare la loro strategia, a correggere gli errori del passato e a considerarsi nuovamente come parte di un popolo espulso da un Paese.

L’annessione è la morte dell’Israele del 1948, uno Stato a maggioranza ebraica.

E’ la nascita di uno Stato ebraico minoritario che non può sopravvivere se non eliminando e controllando la sua maggioranza palestinese. Fare questo, in un continente a maggioranza araba e musulmana, equivale a votarsi ad una morte lenta e costante.

Quale che sia il numero di dirigenti palestinesi che compra, Israele suscita continuamente l’ira degli arabi e dei musulmani, dovunque vivano. Nessun muro, nessun esercito, nessuna flotta di droni, nessun arsenale nucleare, nessun presidente americano proteggeranno a lungo termine uno Stato con una minoranza ebraica.

 

David Hearst è caporedattore di Middle East Eye. Quando ha lasciato The Guardian, era capo editorialista della rubrica Esteri del giornale. Durante i suoi 29 anni di carriera, si è occupato dell’attentato con una bomba a Brighton, dello sciopero dei minatori, della reazione lealista in seguito all’accordo anglo-irlandese in Irlanda del nord, dei primi conflitti scoppiati in Slovenia e Croazia al momento della dissoluzione della ex-Yugoslavia, della fine dell’Unione Sovietica, della Cecenia e delle guerre che hanno contraddistinto l’epoca a lui contemporanea. Ha seguito il declino morale e fisico di Boris Eltsin e le circostanze che hanno permesso l’ascesa di Putin. Dopo l’Irlanda, è stato nominato corrispondente europeo per la rubrica Europa del Guardian, prima di trasferirsi nel 1992 all’ufficio di Mosca, assumendone la direzione nel 1994. Ha lasciato la Russia nel 1997 per andare all’ufficio Esteri, prima di diventare redattore capo della rubrica Europa e poi vice redattore capo della rubrica Esteri. Prima di lavorare al Guardian, David Hearst è stato corrispondente per la rubrica Educazione nel giornale The Scotsman.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)