Piani di guerra contro Gaza mostrano la brutta strada che ha preso l’esercito israeliano

Shir Hever

6 agosto 2019 – Middle East Eye

Il nuovo capo dell’esercito pare intenzionato ad assecondare l’opinione pubblica di destra

Sono stati in parte rivelati piani di guerra per una possibile futura invasione di Gaza, mentre l’esercito israeliano delinea la strategia per una di campagna ad alta intensità per danneggiare le infrastrutture civili e indebolire Hamas, pur lasciandogli la possibilità di governare.

Gadi Eizenkot, capo dell’esercito israeliano prima di Aviv Kochavi, , è stato responsabile dell’ uccisione di circa 200 manifestanti palestinesi durante la Grande Marcia del Ritorno di Gaza, ma è comunque stato criticato in quanto troppo di sinistra. Ha chiesto che il soldato Elor Azaria venisse punito per aver giustiziato un palestinese ferito a Hebron, ha segnalato al governo che una crisi umanitaria danneggerebbe gli interessi di Israele e ha insistito che le truppe israeliane facciano ricorso al minimo indispensabile di forza per evitare che i palestinesi raggiungano la barriera di Gaza.

È chiaro che invece Kochavi asseconderà l’opinione pubblica israeliana di destra piuttosto che alimentare la leggenda secondo cui l’esercito israeliano è “il più morale al mondo”.

I nuovi progetti per Gaza sono l’ultima di una serie di iniziative che dimostrano come Kochavi condurrà l’esercito israeliano su un sentiero che porterà verso un aumento della violenza.

Falciare il prato”

La prima di queste mosse è stato il suo discorso di insediamento, in cui Kochavi ha affermato che avrebbe potenziato un esercito “letale”. La seconda è stata in giugno, quando si è saputo che Kochavi si aspetta centinaia di vittime nemiche al giorno e “un’eliminazione fisica aggressiva … ogni un’unità militare dovrà dimostrare la distruzione di più del 50% delle forze nemiche: vale per il Libano come per Gaza.”

Poi, a luglio, Kochavi ha nominato il noto brigadiere generale Ofer Winter al comando della 98ttesima “divisione di fuoco” dell’esercito, già comandata dallo stesso Kochavi.

Per anni Eizenkot ha ignorato Winter per la sua eccessiva aggressività contro i civili. Costui ha descritto l’invasione di Gaza nel 2014 come una guerra di religione contro gli “empi” palestinesi. Winter è stato anche responsabile dell’attacco contro Rafah noto come “venerdì nero” [le truppe israeliane attaccarono i civili palestinesi durante una tregua, causando decine di morti, ndtr.].

Non è un caso che la furia di Kochavi sembri concentrata su Gaza. Ai generali israeliani piace l’espressione “falciare il prato” in riferimento ai periodici attacchi contro Gaza, come se fosse un terreno incolto da tenere sotto controllo (al costo di migliaia di vittime) affinché non diventi una minaccia per la sicurezza di Israele.

Ma trasformare Gaza in un campo di sterminio serve anche agli interessi delle industrie belliche israeliane, che vi possono testare le proprie armi, e consente alle truppe israeliane di placare la sete di sangue e recuperare fiducia in se stesse.

Sollevare il morale

Nel 2006, dopo la fallita invasione del Libano, il morale tra le truppe israeliane era basso. In previsione delle elezioni del febbraio 2009 il governo israeliano volle ottenere una facile vittoria con il minimo di vittime da parte israeliana. Nel dicembre 2008 Israele lanciò un attacco di tre settimane contro Gaza, uccidendo più di 1.400 palestinesi.

In questi giorni il morale dell’esercito è di nuovo basso, in quanto la resistenza non violenta dei palestinesi ha obbligato le truppe israeliane ha mostrare moderazione. Negli ultimi anni i livelli di reclutamento sono scesi sotto il 50%, il che suggerisce che, anche se il servizio militare è obbligatorio, sia facile ottenere l’esonero. Le reclute si aspettano un servizio militare “gratificante”, la possibilità di “sentirsi uomini” e di usare armi letali. I mezzi di comunicazione di destra descrivono i soldati che evitano di sparare ai civili come soggetti a un’“umiliazione”.

Molti soldati hanno espresso solidarietà con Azaria, che ha infranto le regole ed ha ucciso un uomo indifeso, e disprezzo per Eizenkot, che si è rifiutato di fargliela passare liscia. Sulle reti sociali alcuni hanno manifestato la propria frustrazione nei confronti di ordini che impediscono loro di usare armi letali contro manifestanti palestinesi.

L’esercito e il ricercatore per i diritti umani Avihai Stollar hanno fatto luce sulle orrende ferite, che hanno provocato disabilità e morte, patite dai palestinesi lungo la barriera di Gaza. Stollar ha spiegato che i cecchini sono equipaggiati con due tipi di fucili, e se scelgono di utilizzare da vicino un fucile a lunga gittata possono volontariamente provocare danni e sofferenze eccessivi a manifestanti disarmati.

Reclamare a gran voce di agire

Ogni comandante militare impara che vittoria e sconfitta sono termini relativi, da misurare rispetto agli obiettivi strategici stabiliti all’inizio del conflitto. È quindi degno di nota che il piano di battaglia di Koshavi manchi di obiettivi strategici. Non c’è nessuna volontà di ristabilire il controllo diretto su Gaza, o di spodestare Hamas. È un piano per una incursione rapida, che semini morte e distruzione, per poi ritirarsi velocemente.

Credo che due obiettivi non dichiarati siano testare nuove armi e ricostituire la disciplina militare.

Per le compagnie di armamenti ogni attacco contro Gaza è un’opportunità per esibire le proprie tecnologie eperciò Kochavi ha detto alla stampa che nella sua nuova battaglia contro Gaza è incluso l’acquisto di nuove armi.

Ancor più importante, dare alle reclute l’opportunità di impegnarsi in una sanguinosa operazione militare – anche unilaterale – è fondamentale per mantenere la disciplina di un esercito israeliano indisciplinato che chiede di agire.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Shir Hever

Shir Hever è un membro del direttivo di “Jewish Voice for a Just Peace in the Middle East” [Voci Ebraiche per una Giusta Pace in Medio Oriente, organizzazione di ebrei contrari all’occupazione attiva in Germania, ndtr.].

(traduzione di Amedeo Rossi)




Forze israeliane sparano lacrimogeni e proiettili di gomma all’interno di Al-Aqsa nel primo giorno di Eid

MEE e agenzie

11 agosto 2019 – Middle East Eye

Decine di palestinesi feriti durante le proteste dopo che a centinaia di coloni è stato consentito di entrare nell’area per una festa ebraica

Domenica la polizia israeliana ha sparato proiettili di gomma e lacrimogeni all’interno del complesso di Al-Aqsa a Gerusalemme dopo che fedeli musulmani hanno protestato contro circa 450 coloni israeliani a cui è stato consentito di entrare nel luogo sacro nonostante fosse il primo giorno di Eid al-Adha.

Le celebrazioni musulmane hanno coinciso con la festa ebraica di Tisha B’av [giorno di lutto e di digiuno che ricorda vari eventi funesti nella storia del popolo ebraico, tra cui la distruzione del Secondo Tempio, ndtr.], che vede un incremento delle visite di ebrei al complesso di Al-Aqsa.

Le azioni israeliane hanno rovinato l’atmosfera festosa all’interno della zona, mentre migliaia di fedeli musulmani vi si erano riuniti per celebrare l’Eid al-Adha.

La Mezzaluna rossa ha affermato che sono rimasti feriti almeno 61 palestinesi, di cui 15 portati in ospedale per essere curati.

La radio pubblica israeliana Kan ha detto che quattro poliziotti sono rimasti feriti.

Organizzazioni palestinesi avevano in precedenza chiesto ai musulmani di andare a pregare per l’Eid domenica ad Al-Aqsa dopo che gruppi di ebrei avevano annunciato piani per fare irruzione nell’area per celebrare la festa ebraica.

Pressioni dei coloni

Nel tentativo di alleggerire la tensione, le autorità locali avevano detto che avrebbero vietato ai non- musulmani, compresi gli ebrei, di visitare il sito domenica.

Tuttavia alcune fonti hanno detto a Middle East Eye che a centinaia di coloni israeliani è stato permesso di entrare domenica mattina, in quella che hanno affermato essere la prima volta che questo è stato consentito che avvenisse nel primo giorno di Eid. 

Più tardi durante la giornata sarebbe stato permesso ad altri coloni di entrare.

Gruppi di coloni hanno fatto pressione sulle autorità israeliane per permettere la presenza di visitatori ebrei sul luogo durante Tisha Be’Av, in modo che essi potessero piangere la distruzione di un tempio che credono si trovasse lì 2.000 anni fa.

Temendo che ai fedeli ebrei fosse consentito di entrare, domenica centinaia di palestinesi hanno tenuto una manifestazione fuori da una delle porte per impedire loro l’ingresso nella moschea sacra.

Mentre affrontavano la polizia nell’affollato complesso, i palestinesi gridavano: “Con la nostra anima e con il nostro sangue ti libereremo, Aqsa.”

Secondo testimoni ne sono seguiti tafferugli e, quando sono esplose granate assordanti e il fumo si è sparso in tutto il complesso, la folla è scappata.

È la nostra moschea, è il nostro Eid,” ha detto Assisa Abu Sneineh, 32 anni, aggiungendo che si trovava lì quando sono scoppiati gli scontri.

Improvvisamente (forze di sicurezza) sono arrivate ed hanno iniziato a picchiare e a sparare granate assordanti,” ha detto all’agenzia di notizie AFP.

Tra i feriti c’è il capo del Waqf islamico [ente religioso di controllo dei siti islamici della Spianata delle Moschee, ndtr.], Abdel Azeem Salhab, che fa parte dell’amministrazione del complesso di Al-Aqsa.

Foto postate in rete mostrano la folla scappare dalla polizia per sfuggire ai lacrimogeni e ai proiettili di gomma.

Azione irresponsabile e aggressiva’

Hanan Ashrawi, importante dirigente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ha accusato Israele di aver provocato tensioni religiose e politiche.

L’irruzione nel complesso della moschea di Al-Aqsa da parte delle forze di occupazione israeliane in questa mattina di Eid è un’azione di sconsiderata aggressione,” ha detto in un comunicato.

Lo status del complesso di Al-Aqsa è uno dei problemi più delicati nel conflitto israelo-palestinese.

Il complesso di Al-Aqsa – che include la moschea di Al-Aqsa e la Cupola della Roccia – è considerato il terzo luogo più sacro per l’Islam.

I musulmani credono che, come affermato dal Corano, il profeta Maometto ascese in paradiso da lì.

Da quando hanno occupato Gerusalemme est nel giugno 1967, gli israeliani hanno pregato presso il Muro del Pianto, i resti del Secondo Tempio, considerato il luogo più sacro per l’ebraismo. Agli ebrei è consentito visitare il luogo durante un orario definito, ma non di pregarvi, per evitare di provocare tensioni.

Tuttavia coloni israeliani che entrano regolarmente nel complesso spesso recitano preghiere ebraiche sul posto.

Eid al-Adha commemora dio che mette alla prova la fede di Abramo ordinandogli di sacrificare suo figlio.

L’esercito [israeliano] e il ministero della Salute di Hamas hanno detto che, indipendentemente [dagli scontri ad Al-Aqsa], domenica sul confine di Gaza un palestinese ha sparato contro soldati israeliani, che hanno risposto al fuoco e lo hanno ucciso durante il terzo incidente del genere negli ultimi giorni.

(traduzione di Amedeo Rossi)




In seguito all’uccisione del soldato*, politici israeliani promuovono l’annessione della Cisgiordania

Lubna Masarwa , Daniel Hilton

9 agosto 2019 – Middle East Eye

Esperti del discorso politico affermano che la scoperta del corpo del diciannovenne spinge i politici a chiedere l’estensione della sovranità di Israele, che ora è accettata dalla maggioranza dell’opinione pubblica israeliana

Inizialmente la risposta israeliana al ritrovamento giovedì del corpo del diciannovenne Dvik Sorek nei pressi di una colonia in Cisgiordania è stata la stessa di altri momenti in cui un soldato è stato ucciso nei territori occupati.

Le forze di sicurezza hanno perlustrato la zona nelle cittadine e villaggi vicini, bloccando le strade principali tra le città di Hebron e Betlemme.

Nel contempo leader israeliani hanno emesso comunicati, esprimendo le proprie condoglianze alla famiglia di Sorek, condannando l’aggressione e le fazioni palestinesi e promettendo una punizione esemplare.

Tuttavia la piega che ha preso il discorso è stata molto significativa.

Ore dopo che è iniziata la caccia all’uomo, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha partecipato ad una cerimonia per la posa della prima pietra nella colonia di Beit El. Là ha parlato della costruzione di centinaia di appartamenti e di rafforzare il radicamento israeliano “in tutte le sue parti”.

La nostra missione è di insediare il popolo di Israele sulla nostra terra, di garantire la nostra sovranità sulla nostra patria storica,” ha detto Netanyahu.

Benché la costruzione di colonie e l’incremento della presenza ebraica siano stati da molto tempo un ritornello comune delle politiche della destra israeliana, l’estensione della sovranità e quindi la piena annessione della Cisgiordania sta diventando un discorso sempre più spesso ventilato.

E il primo ministro israeliano non è stato l’unico leader a prendere la morte di Sorek nel blocco di colonie di Gush Etzion come spunto per parlarne ancora una volta.

Il portavoce del parlamento Yuli Edelstein ha detto che la risposta di Israele all’aggressione deve essere decisiva: “L’applicazione della sovranità israeliana in ogni luogo – e prima a Gush Etzion.”

È intervenuto anche Naftali Bennet, ex-ministro dell’educazione e importante esponente della lista “Destra Unita”, da poco formata.

Oggi, sì, oggi, la legge israeliana deve essere applicata a Gush Etzion con una decisione del governo,” ha twittato.

Raggiungere il consenso diffuso

L’idea di annessione ha fatto breccia nella comune opinione pubblica ai primi di aprile, giorni prima delle elezioni politiche israeliane, quando Netanyahu ha provato a prendersi i voti di destra promettendo di applicare la sovranità [israeliana] alle colonie della Cisgiordania.

La Cisgiordania è stata ufficialmente sotto occupazione militare da quando è stata conquistata nel 1967, e da allora ogni colonia vi è stata costruita in violazione delle leggi internazionali in base a un sistema amministrativo separato dalle comunità israeliane all’interno dei confini del Paese del 1948.

Ma negli ultimi mesi la destra ha cercato di estendere la sovranità israeliana e di annettere parti o tutto il territorio, riflettendo iniziative prese in altre zone conquistate nel 1967, come Gerusalemme est e le Alture del Golan. Queste annessioni non sono mai state riconosciute dalla comunità internazionale.

È sicuramente significativo che il dibattito sia diventato una questione ampiamente condivisa,” dice a Middle East Eye Meron Rapoport, un esperto analista politico israeliano. “Le parole ‘annessione’ e ‘sovranità’ vengono dette quotidianamente dai politici.”

Il dibattito non si limita alle sole colonie israeliane.

All’inizio di questa settimana Ayelet Shaked, dirigente della coalizione di estrema destra “Destra Unita”, ha chiesto ai membri della lista di dichiarare il proprio impegno ad estendere la sovranità di Israele sui “territori di Giudea, Samaria e della valle del Giordano,” riferendosi a tutta la Cisgiordania.

Con la “Destra Unita” in corsa per vincere circa 10 seggi nel parlamento israeliano, la Knesset, tale discorso potrebbe diventare una parte importante del futuro governo di destra in seguito alle elezioni israeliane del 17 settembre.

Già molti nel partito Likud di Netanyahu stanno chiedendo la stessa cosa.

La maggioranza dei deputati del Likud parla di sovranità, annessione e sviluppo delle colonie,” dice Rapoport.

Ma non bisogna dimenticare che è periodo di elezioni, quando i politici sostengono posizioni sempre più radicali.” Per Rapoport l’annessione senza cittadinanza per gli abitanti palestinesi della Cisgiordania, il cui numero è di circa 2.8 milioni, renderebbe ufficialmente Israele uno Stato di apartheid. Ma, afferma, se la destra dovesse fallire, ciò porrebbero serie domande.

L’annessione è uno dei principali progetti politici della destra. Per cui se non riuscisse ad ottenere l’approvazione per l’annessione della Cisgiordania, ciò provocherebbe una grave crisi all’interno della destra.”

Salah Khawaja, un attivista palestinese contro l’occupazione, afferma che l’annessione è già in atto sul terreno.

Nota che la maggior parte della popolazione palestinese che una volta risiedeva nell’Area C, territorio direttamente amministrato da Israele, è stata cacciata altrove in Cisgiordania a causa di una serie di politiche israeliane.

Nel contempo il discorso sulla soluzione dei due Stati è totalmente assente.

I partiti di destra israeliani non parlano più di uno Stato palestinese,” dice a MEE. “L’annessione sta diventando istituzionalizzata.”

* vedi http://zeitun.info/2019/08/10/luccisione-di-un-soldato-israeliano-scatena-una-vasta-caccia-alluomo-in-cisgiordania/

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’uccisione di un soldato israeliano scatena una vasta caccia all’uomo in Cisgiordania

MEE e agenzie

8 agosto 2019 – Middle East Eye

Gli abitanti dicono a MEE che, dopo il ritrovamento nei pressi di una colonia del diciannovenne morto, l’esercito sta bloccando le uscite dei villaggi e perlustrando terreni coltivati

L’uccisione di un soldato israeliano ha scatenato una massiccia caccia all’uomo nella Cisgiordania occupata, e le forze militari stanno facendo incursione in zone in cui si sospetta siano ospitati gli assassini.

L’esercito ha affermato che giovedì, nei pressi di una colonia ebraica illegale nella Cisgiordania occupata, è stato trovato il corpo di un soldato israeliano con diverse ferite da armi da taglio. Il comunicato afferma che “oggi alle prime ore del giorno nei pressi di una comunità (ebraica) a nord di Hebron è stato trovato il corpo di un soldato con segni di ferite da accoltellamento.”

Reparti militari, polizia e membri del servizio di intelligence Shin Bet stanno setacciando la zona. Il quotidiano israeliano Haaretz afferma che il portavoce dell’esercito, brigadiere generale Ronen Manelis ha detto che le forze di sicurezza “stanno procedendo in base all’ipotesi che nella zona ci sia una cellula terroristica che ha effettuato l’attacco.”

Forze israeliane hanno fatto incursione nel villaggio palestinese di Beit Fajjar, a sud di Betlemme, perlustrando terreni coltivati alla ricerca di sospetti.

Abitanti del posto hanno detto a Middle East Eye che centinaia di soldati sono stati posizionati agli ingressi di vari villaggi e sulla strada principale tra Hebron e Betlemme.

Dvir Sorek, 19 anni, è stato trovato nei pressi della colonia illegale di Migdal Oz. Secondo i media israeliani, si ipotizza che sia stato ucciso durante un fallito tentativo di rapimento.

Nel passato fazioni palestinesi hanno utilizzato israeliani rapiti come mezzo di pressione per liberare membri della propria comunità imprigionati da Israele.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha rilasciato un comunicato definendo quanto avvenuto un attacco palestinese.

In seguito, durante una cerimonia per la deposizione della prima pietra nella colonia di Beit El, ha parlato di nuovo dell’uccisione e ha affermato che Israele si impegnerà per estendere la propria sovranità in Cisgiordania.

Israele ha occupato la Cisgiordania dal 1967 e vi ha insediato i suoi cittadini violando le leggi internazionali.

La nostra missione è insediare il popolo di Israele sulla nostra terra, garantire la nostra sovranità sulla nostra patria storica,” ha detto Netanyahu.

Sorek, un soldato appena arruolato, era studente di una yeshiva – o seminario ebraico – nella colonia di Migdal Oz, nei pressi del luogo in cui è stato trovato il suo corpo.

Era inserito in un progetto che associa il servizio militare a studi religiosi, ha detto il responsabile del seminario a una radio pubblica israeliana. Sembra che il corpo sia stato trovato a circa 30-40 metri fuori dall’entrata della colonia.

La morte arriva in un momento particolarmente delicato per palestinesi e israeliani. Eid al-Adha, una delle feste più importanti per l’islam, dovrebbe iniziare domenica ed è un periodo in cui è previsto che i palestinesi si spostino all’interno della Cisgiordania e a Gerusalemme est per visitare i parenti.

Nel contempo Israele sta preparando le elezioni politiche del 17 settembre. Quando simili fiammate di violenza avvengono prima del giorno delle elezioni e i discorsi pre-elettorali si esasperano, i politici israeliani chiedono sistematicamente una dura repressione contro i palestinesi.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’iniziativa del Canada di etichettare i vini delle colonie è un passo positivo. È necessario fare molto di più

Kamel Hawwash

2 Agosto 2019 – Middle East Eye

La comunità internazionale deve prendere provvedimenti per ricordare a Israele e ai suoi sostenitori statunitensi la fondamentale importanza delle leggi internazionali

In quello che è uno dei loro peggiori momenti, i palestinesi sono alla ricerca di qualunque iniziativa da parte della comunità internazionale a sostegno della loro richiesta di libertà, giustizia e uguaglianza.

Ogni volta che un membro dell’amministrazione Trump dice qualcosa, rimangono collettivamente a bocca aperta, in quanto concezioni di lunga data sono spazzate via, mentre le richieste israeliane vengono appoggiate e messe in pratica con una velocità sorprendente.

È per questo che i palestinesi vedono la recente decisione di un tribunale federale canadese di etichettare i vini della Cisgiordania come “un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’umanità.”

Sì, esagero, ma la sentenza del tribunale – che ha stabilito che etichettare un vino dalla Cisgiordania come un “prodotto di Israele” è fuorviante e ingannevole – è significativa perché rispetta le leggi internazionali sull’occupazione illegale della Palestina.

Negare l’occupazione

È proprio quello contro cui l’amministrazione USA dissente. Nel 2017 il presidente Donald Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele; più di recente, ha riconosciuto l’annessione delle Alture del Golan siriane a Israele, ed è stato ricompensato con la promessa di dare il suo nome a una colonia illegale.

L’ambasciatore USA in Israele, David Friedman, ha negato l’occupazione e il Dipartimento di Stato ha dovuto eliminare il termine nel suo rapporto annuale sui diritti umani. Sia Friedman che Jason Greenblatt, l’inviato per il Medio Oriente di Trump, appoggiano l’impresa di colonizzazione e preferiscono riferirsi alla Cisgiordania con il suo nome biblico, Giudea e Samaria.

Recentemente Greenblatt ha manifestato la propria preferenza per definire le colonie “quartieri e cittadine”, descrivendo la parola “insediamenti” come “peggiorativa”. Ha anche rifiutato il termine “occupata” in riferimento alla Cisgiordania, affermando: “Ritengo che la terra sia contesa… Chiamarla territorio occupato non contribuisce a risolvere il conflitto.”

Recentemente Friedman ha detto che Israele ha il diritto di conservare “parte della Cisgiordania, ma probabilmente non tutta”. Parlando alla CNN, ha escluso uno Stato per i palestinesi, notando: “Crediamo nell’autonomia palestinese, crediamo nell’autogoverno civile, crediamo che l’autonomia debba essere estesa fino al punto in cui non interferisce con la sicurezza di Israele.”

La sua posizione è contraria alle leggi e al consenso internazionali, ma quello che importa a questa amministrazione USA è l’opinione degli USA, e poi di Israele.

Israele una vittima?

Greenblatt è andato oltre nello smentire l’importanza delle leggi internazionali per risolvere il conflitto israelo-palestinese. In un recente discorso al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che ha scatenato l’opposizine di altri membri, ha affermato che la pace non può essere raggiunta “attraverso l’imposizione delle leggi internazionali o queste risoluzioni (ONU) verbosissime e poco chiare.”

A quanto risulta Greenblatt avrebbe detto: “Israele è in realtà più la vittima che il responsabile” del conflitto mediorientale. Ai suoi occhi, mentre Israele non è “perfetto”, riguardo al governo israeliano egli non ha “trovato niente da criticare che vada oltre i limiti”.

È stato bello vedere alcuni membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU respingere il disprezzo di Greenblatt nei confronti delle leggi internazionali. “Per noi, le leggi internazionali non sono un menu da cui uno sceglie quello che vuole,” ha detto al Consiglio l’ambasciatore tedesco all’ONU Christoph Heusgen. “Ci sono altri esempi in cui i rappresentanti degli USA insistono qui sulle leggi internazionali, sulla messa in pratica delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU, ad esempio riguardo alla Corea del Nord.”

Se questa posizione si fosse tradotta in un reale tentativo di imporre ad Israele la messa in pratica delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, il conflitto sarebbe già stato risolto. Invece altri Paesi stanno a guardare mentre Israele, protetto e ora incoraggiato dagli USA, continua a ignorare le risoluzioni [dell’ONU] e le leggi internazionali.

Se i membri del Consiglio di Sicurezza fossero seri, avrebbero interrotto ogni rapporto e imposto sanzioni a Israele fino a quando non le rispetterà. Invece giocano a nascondino. Vogliono apparire come rispettosi dei principi, ma si nascondono quando Israele costruisce più colonie o demolisce le case dei palestinesi, provocando inimmaginabili sofferenze a chi viene colpito.

Vietare i prodotti delle colonie

La recente decisione del Canada è un piccolo passo – un modo per fare pressione su Israele, che tutti i Paesi che credono nelle leggi internazionali dovrebbero seguire. Però riguarda solo l’etichettatura dei prodotti invece del necessario blocco dei beni delle colonie illegali, che molti Paesi non si sentono di adottare.

In giugno la Corte di Giustizia Europea ha emesso una dichiarazione che conferma la richiesta che in base alle leggi UE i prodotti dei territori occupati vengano chiaramente etichettati come tali. Nel contempo in Irlanda un divieto totale di importazione dei prodotti delle colonie sta per diventare legge.

Mentre i palestinesi accoglierebbero positivamente “un grande passo per l’umanità” in appoggio alle loro richieste di libertà, giustizia e uguaglianza, una serie di piccoli passi serve a ricordare a Israele e ai suoi sostenitori negli USA che i diritti e le leggi internazionali sono fondamentali.

L’amministrazione USA dovrebbe ricordare che la bibbia di oggi, che garantisce l’ordine mondiale, sono le leggi internazionali – non quella a cui Friedman, Greenblatt e compagnia fanno riferimento per realizzare il Grande Israele.

Riguardo al ruolo del Canada nell’insistere per l’etichettatura dei vini delle colonie, evviva!

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Kamel Hawwash è un professore anglo-palestinese di ingegneria all’università di Birmingham. Hawwash è da molto tempo un attivista per la giustizia, soprattutto per il popolo palestinese. È il presidente della Palestine Solidarity Campaign [Campagna per la Solidarietà con la Palestina] (PSC) e membro fondatore del British Palestinian Policy Council [Consiglio Britannico per la Politica Palestinese] (BPPC).

(traduzione di Amedeo Rossi)




“È l’inferno”: l’incubo burocratico dei palestinesi di Gerusalemme est

Dall’inviato di MEE – Wadi Al-Joz

Mercoledì 24 luglio 2019 – Middle East Eye

Secondo gli abitanti e i loro avvocati, i funzionari dell’ufficio del ministero degli Interni israeliano ritardano deliberatamente le pratiche per rendere la vita dei palestinesi insopportabile al punto tale da spingerli a lasciare Gerusalemme

Il quartiere di Wadi al-Joz (“valle delle Noci”) a Gerusalemme est occupata ospita un ufficio dell’autorità del ministero degli Interni israeliano che si occupa della popolazione e dell’immigrazione.

Registrare una nascita o un decesso? Chiedere un passaporto o una carta d’identità? È il solo luogo che offre questi servizi a circa 300.000 abitanti palestinesi di Gerusalemme est.

Nella maggior parte dei Paesi questi servizi di base sarebbero forniti senza problemi – o almeno non troppi. Ma per i palestinesi di Gerusalemme est ottenere dei servizi essenziali è una dura lotta.

Secondo gli abitanti e i loro avvocati i funzionari israeliani dell’ufficio ritardano deliberatamente le cose per rendere la vita dei palestinesi insopportabile al punto tale da spingerli a lasciare Gerusalemme.

È l’inferno. È proprio l’inferno”, confessa Erez Wagner, coordinatore di “HaMoked: Center for the Defence of the Individual” [Centro per la Difesa dell’Individuo], un’organizzazione di Gerusalemme che all’inizio di quest’anno si è presentata davanti alla Corte Suprema israeliana per cercare di migliorare delle condizioni che giudica “disumane”.

Il tribunale ha stabilito che gli uffici del ministero a Gerusalemme ovest dovrebbero fornire alcuni servizi ai palestinesi di Gerusalemme est; tuttavia, spiega, anche questa concessione non ha provocato che pochi cambiamenti concreti sul terreno.

Le sfide che gli abitanti devono affrontare nell’ufficio non sono che una tessera del più vasto mosaico dell’occupazione israeliana che da decenni fa della vita dei palestinesi a Gerusalemme est un incubo burocratico.

A causa dell’occupazione israeliana, in atto dal 1967, ogni palestinese nato a Gerusalemme est non beneficia che dello status di residente temporaneo, il che fa sostanzialmente di lui un apolide.

Eppure persino restare aggrappati a questo status temporaneo rappresenta una sfida. Tra gli altri ostacoli giuridici, i palestinesi di Gerusalemme devono provare in continuazione che la città è il “centro della loro vita”, presentando decine di documenti, soprattutto contratti di affitto, buste paga, bollette dell’elettricità e dell’acqua, ma anche versando delle imposte.

I bambini devono essere registrati come abitanti di Gerusalemme est per poter frequentare le scuole locali e beneficiare di un’assicurazione sanitaria, mentre i matrimoni devono essere registrati perché le coppie possano vivere insieme a Gerusalemme est.

Tutti questi servizi sono disponibili unicamente nell’ufficio, il che pone i palestinesi decisi a restare a Gerusalemme est di fronte a una scelta difficile: assumere un avvocato o fare la coda.

Umiliazione

Sotto a un torrido sole o alla pioggia battente, a Wadi al-Joz lunghe code di persone di ogni età, tra cui neonati, anziani e disabili, si snodano regolarmente davanti alle porte dell’ufficio del ministero.

Non è previsto niente per fare ombra e non c’è a disposizione nessun posto a sedere o gabinetto. Molti preferiscono andarci prima dell’alba per prendere posto nella coda, e non è raro vedere persone che svengono. Secondo HaMoked, persone malate che non possono rimanere in piedi per ore rinunciano a servizi essenziali.

Ma, spiega Fida Abbasi, che vive nel quartiere di Silwan a Gerusalemme est, le ore d’attesa, spesso passate vicino a guardie che tendono a umiliare quelli che fanno la coda, non sono che la punta dell’iceberg.

Una volta all’interno [dell’ufficio], i palestinesi devono poi attraversare porte metalliche dove uomini e donne vengono separati. In seguito le guardie israeliane li chiamano uno alla volta per passare sotto al metal detector e sottoporli a una minuziosa perquisizione delle borse. Se una persona ha una bottiglia d’acqua, ne deve bere un sorso davanti alle guardie.

È come una base militare. Non si può fare nessuna foto e a volte le guardie confiscano la nostra bottiglia d’acqua o altri oggetti”, dice Fida Abbasi a Middle East Eye.

Nel 2018 il governo israeliano ha lanciato un’applicazione telefonica in ebraico e ha obbligato i palestinesi a usare questa procedura per prendere appuntamento per ottenere ogni tipo di servizio al ministero.

Ma gli unici appuntamenti disponibili sono proposti in un periodo di tempo da sei mesi a un anno, spiegano gli abitanti a MEE. Nel contempo, quelli che cercano di entrare senza appuntamento sono bloccati dalle guardie alle porte d’ingresso.

Nell’agosto 2018 sono stati arrestati quattro impiegati dell’ufficio di Wadi al-Joz sospettati di aver intascato varie centinaia di migliaia di shekel [unità di moneta israeliana, ndtr.] in cambio di tempi di attesa più corti. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, gli investigatori hanno scoperto che gli impiegati avevano prenotato centinaia di appuntamenti e li avevano venduti a parecchie centinaia di shekel l’uno.

Nell’impossibilità di ottenere un appuntamento in tempo utile o di utilizzare l’applicazione per l’incapacità di capire l’ebraico, numerosi palestinesi fanno ricorso a un’assistenza giuridica e pagano fino a 500 dollari per essere assistiti per il semplice fatto di prendere un appuntamento o compilare dei moduli. 

Quelli che hanno i mezzi per incaricare un avvocato pagano circa 5.000 dollari per recuperare il proprio status di residenti e circa 10.000 dollari per registrare vari bambini.

Una lotta infinita

Per quelli che non possono pagare a Gerusalemme est occupata esistono delle organizzazioni come il “Community Action Center” [Centro per l’Azione Comunitaria], che offrono aiuto giuridico gratuito ai palestinesi. 

Mohammad al-Shihabi, che dirige il centro, può elencare innumerevoli esempi di persone venute a cercare aiuto per delle pratiche burocratiche israeliane rese intenzionalmente difficili.

Spiega che la maggior parte dei casi riguarda la registrazione di bambini e “ricongiungimenti familiari”, una pratica imposta da Israele ai palestinesi di Gerusalemme est che sposano una persona palestinese della Cisgiordania o di un’altra nazionalità.

Sostiene che all’ufficio del ministero dell’Interno a Wadi al-Joz i palestinesi sono sottoposti a un esame minuzioso, sono interrogati come se fossero di fronte ad agenti dei servizi di intelligence e sono vittime di un trattamento autocratico.

Due persone titolari dello status di residenti a Gerusalemme aiutate da Mohammed al-Shihabi hanno avuto un bambino in Cisgiordania per ragioni indipendenti dalla loro volontà; tuttavia i funzionari del ministero hanno respinto la richiesta di registrazione del bambino presentata dalla coppia. La loro risposta alla madre in lacrime è stata la seguente: “Chi è responsabile di questo errore merita il peggio.”

Cita anche l’esempio di una donna di Gerusalemme est che fino al loro divorzio nel 1994 ha vissuto a Gaza con suo marito gazawi. Quando è tornata a Gerusalemme con uno dei suoi figli, i funzionari israeliani si sono rifiutati di concederle il diritto di residenza perché aveva vissuto a Gaza.

Ora vive in città senza carta d’identità né conto bancario né assistenza sanitaria, nonostante sia proprietaria di due alloggi a Gerusalemme e vi abbia vissuto senza interruzione per 25 anni.

MEE ha cercato di intervistare parecchi palestinesi che vivono a Gerusalemme est in merito alle loro difficoltà con il ministero degli Interni, ma sono stati molti quelli che hanno rifiutato per timore di rappresaglie.

Il ministero degli Interni in cifre

Rami Saleh, responsabile del “Jerusalem Legal Aid and Human Rights Center” [Centro per l’Aiuto Giuridico e i Diritti Umani di Gerusalemme], riferisce che, secondo le cifre che gli sono state fornite dal ministero, tra il 2013 e il 2018 su un totale di 9.966 richieste di dichiarazioni di nascita presentate all’ufficio di Wadi al-Joz ne sono state approvate 7.236.

Le altre, gli è stato spiegato, sono ancora all’esame. E su un totale di 3.236 richieste di ricongiungimento familiare, solo 1.534 sono state approvate. Saleh si è rivolto al ministero per chiedere perché un solo ufficio serva parecchie centinaia di migliaia di palestinesi, mentre i residenti israeliani di Gerusalemme possono recarsi in un qualunque ufficio del Paese e ricevere rapidamente il servizio.

Gli è stato risposto che gli impiegati dell’ufficio del ministero a Wadi al-Joz sono più abituati ad avere rapporti con i residenti temporanei.

All’inizio di quest’anno le autorità israeliane hanno aperto un altro ufficio del ministero al check point militare di Qalandia, che separa Gerusalemme dalla città di Ramallah, in Cisgiordania. Tuttavia i servizi forniti sono ridotti e sono a disposizione solo in giorni e orari specifici.

Una portavoce del ministero degli Interni israeliano ha dichiarato a MEE che sono al corrente dei problemi dell’ufficio di Wadi al-Joz e che nel corso degli ultimi due anni hanno cercato di migliorare la situazione, soprattutto fornendo servizi all’ufficio di Qalandia e autorizzando la prenotazione di appuntamenti attraverso l’applicazione che, ha precisato, fornisce le opzioni di appuntamento entro un lasso di tempo di qualche settimana e non di parecchi mesi.

Ha aggiunto che il ministero stava pensando di aprire un altro ufficio a Gerusalemme est. “Ci preoccupiamo davvero di questo problema e lavoriamo per trovare delle soluzioni perché gli abitanti di Gerusalemme est possano beneficiare di un servizio migliore, più rapido”, ha affermato la portavoce in un’e-mail.

Tuttavia Erez Wagner, l’avvocato di HaMoked, dichiara che i cambiamenti apportati non hanno eliminato la maggior parte degli ostacoli contro i quali si scontrano i palestinesi di Gerusalemme est.

Sottolinea che ogni palestinese che va all’ufficio di Qalandia deve attraversare il check-point per due volte – e anche in quel caso viene fornita solo una serie limitata di servizi.

A Gerusalemme ovest, continua, dove ci sono degli uffici del ministero meno affollati e dove la Corte Suprema ha ordinato al ministero di fornire dei servizi ai palestinesi di Gerusalemme est, gli uffici non hanno ancora apportato delle modifiche sostanziali.

La maggior parte dei servizi, compresi il rinnovo dei permessi di soggiorno e le dichiarazioni di nascita, non viene fornita, gli impiegati non parlano arabo e molti di loro, ignorando l’ordine del tribunale, finiscono per rispedire i palestinesi all’ufficio di Wadi al-Joz.

Il fatto che, nonostante i tentativi del tribunale, non sia cambiato niente sul terreno non stupisce Rami Saleh.

Non sorprende che rifiutino le richieste che cercano di migliorare le condizioni di vita dei palestinesi,” dichiara.

Abbiamo a che fare con un’entità colonialista che cerca di stremare gli abitanti palestinesi di Gerusalemme e non di allentare le restrizioni che sono loro imposte.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




‘Muoiono e basta’: villaggio palestinese soffocato da discarica della colonia israeliana

Megan Giovannetti, Ramallah, Cisgiordania occupata
24 luglio 2019 –
Middle East Eye

Il flusso d’acqua fognaria vicino al villaggio di Bruqin ha avuto effetti devastanti sulla salute e sui mezzi di sussistenza dei palestinesi.

Seduti fuori dalla casa di Ahmed Abdulrahman nella valle di Al-Matwa, l’umidità dell’estate rende intollerabile l’odore di escrementi umani.

Le colonie israeliane e gli stabilimenti industriali sulle colline circondano tutta la vallata. Un flusso costante di acque fognarie scorre verso la valle.

Le zanzare non ci fanno dormire. Siamo preoccupati per il diffondersi di malattie, specialmente per i bambini”, commenta Adbulrahman, 62 anni, al Middle East Eye, la faccia cupa e stanca. Sua moglie è una dei tanti residenti a cui negli ultimi tre anni è stato diagnosticato un tumore.

Le valli di Matwa e al-Atrash – situate nel distretto di Salfit della Cisgiordania occupata, tra le città palestinesi di Ramallah e Nablus – raccolgono acqua di scarico non trattata sia dai residenti palestinesi di Salfit che da quelli israeliani delle colonie illegali di Ariel e Barkan.

Secondo una relazione del 2009 dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, i palestinesi che vivono nelle valli sono esposti ad “acque di scarico non depurate, contenenti virus, batteri, parassiti e metalli pesanti tossici dannosi per la salute di esseri umani e animali”.

Il flusso tossico ha avuto un effetto devastante sulla salute e sui mezzi di sostentamento dei palestinesi di quell’area – e mentre le autorità israeliane hanno negato ogni responsabilità, numerosi studi hanno denunciato con preoccupazione gli effetti a lungo termine di questo disastro ambientale e sanitario.

Muoiono e basta’

L’intero villaggio di Bruqin si estende attraverso la valle di Matwa, i versanti delle colline punteggiati di case.

Stando sulla cima, Murad Samara, impiegata comunale a Bruqin e volontaria per la Medical Relief Society, indica le case in cui qualcuno che conosce è malato o morto di una malattia presumibilmente correlata al flusso di scarico fognario.

Ci tiene a sottolineare la loro età: un uomo sui cinquanta in quella casa è morto di cancro cinque anni fa; una ragazza di quindici anni in quell’altra ha avuto un collasso nel cortile della sua scuola l’anno scorso e due mesi dopo è morta di un’altra forma di cancro in stato terminale.

Ogni giorno scopriamo che qualcuno che conosciamo è malato” dice Ammar Barakat, 37 anni, che ha vissuto da vicino l’impatto dell’inquinamento sulla sua famiglia e sulla comunità di Bruqin, uno dei villaggi più colpiti nel distretto di Salfit.

Suo fratello è deceduto due anni fa per un cancro diagnosticato troppo tardi. Il vicino di casa di Ammar, Farou Barakat, vive nella sua abitazione con 24 figli. La moglie di Farouq, Maye, è costantemente preoccupata per la salute dei suoi figli e figliastri.

Suo figlio più piccolo ha un anno e mezzo e soffre di problemi respiratori, mentre Rasha, che ha tre anni, è affetta da leucemia da quando ne aveva uno.

Qui è normale essere malati” dice Maye Barakat. “L’odore, l’acqua, qui tutto è cattivo”.

Se già solo la fogna non trattata ha un impatto notevole sulla salute pubblica, i rifiuti chimici tossici delle industrie circostanti che penetrano nella falda acquifera rappresentano una minaccia addirittura peggiore.

Nel 2017 B’Tselem ha denunciato lo sfruttamento delle terre palestinesi da parte dello Stato d’Israele riguardo al trattamento dei rifiuti prodotti non solo nelle colonie illegali ma anche all’interno della Linea Verde [il confine tra Israele e i Territori occupati, quindi all’interno di Israele, ndtr.].

Nella relazione si afferma che gli insediamenti di Ariel e Barkan contengono due dei 14 impianti di trattamento dei rifiuti a conduzione israeliana nel territorio occupato della Cisgiordania e Gerusalemme Est.

Le zone industriali di Ariel e Barkan trattano olio esausto e rifiuti elettronici considerati troppo pericolosi per essere trattati in Israele in base alle sue leggi di protezione ambientale, e vengono quindi trasferiti nel territorio palestinese occupato dove tali regolamentazioni non sono in vigore.

I tubi scoperti vicino a queste zone industriali sono sotto gli occhi di tutti, con le acque di scarico che si riversano nelle valli di Matwa e Atrash.

Osservando il miscuglio di liquami tossici che scorre accanto alla sua casa, Ammar Barakat commenta sconsolato: “Sul serio, viviamo all’inferno”.

Per Abdulrahman Tamimi, dottore dell’unico ospedale di Salfit, la correlazione è chiara:

Le persone di questi specifici villaggi [vicino agli stabilimenti industriali] hanno le stesse caratteristiche cliniche, le stesse malattie” spiega. “Se ne può dedurre facilmente che lì c’è qualche problema. Ultimamente vediamo molte persone entrare in ospedale con il cancro… che è una condizione davvero rara in giovane età, tra i 20 e i 25 anni”, continua Tamimi.

I casi che vede spaziano dal cancro ai polmoni a quello alle ossa, ma in ogni caso si tratta di forme molto aggressive. Per svariati motivi di carattere sociale ed economico, spesso Tamimi visita i pazienti quando ormai è troppo tardi.

Dopo la diagnosi vivono per tre mesi e poi muoiono. Muoiono e basta. Non vengono mai nei primi stadi della malattia”, racconta Tamimi al Middle East Eye.

Tre anni fa il comune di Bruqin ha costruito una tubatura per cercare di alleviare i problemi più palesi causati dal flusso fognario, come l’odore e le zanzare. Ma tali sforzi si sono dimostrati insufficienti.

Il villaggio di Bruqin si estende su un’area di 10 chilometri lungo la valle di Matwa, mentre la tubatura è lunga solo due chilometri. Inoltre, molto spesso i rifiuti solidi la intasano.

Le tubature non hanno risolto alcun problema perché si intasano e iniziano a perdere, creando un mare di liquami dannosi per la nostra terra”, dice Abdulrahman, il cittadino di Bruqin la cui moglie è affetta dal cancro.

Due mesi fa, la sua terra è stata sommersa da acque di scarico filtrate dai tubi intasati. Abdulrahman racconta che 22 dei suoi 50 ulivi sono morti o si sono ammalati in seguito all’inondazione, con i rami completamente spogli a due mesi dalla stagione di raccolta.

Temiamo che le olive che raccoglieremo quest’anno non siano commestibili perché le acque di scarico contengono anche i rifiuti chimici delle industrie”, dice Abdulrahman al Middle East Eye.

Stima che perderà all’incirca 2.000 shekels (circa 510 €) per i danni causati al raccolto di quest’anno – per non parlare del rischio a lungo termine di perdere circa metà del suo uliveto.

L’inondazione non rovina solo la sua terra, ma disgrega anche la sua famiglia. Le mogli dei suoi figli e vicini lasciano le case quando c’è un’esondazione, e portano i bambini altrove.

Se ne vanno un mese fin quando i liquami non vanno via, poi tornano” dice Abdulrahman, “ma dopo un mese le acque ritornano e loro se ne vanno di nuovo”.

Il problema principale è l’occupazione’

In una dichiarazione ufficiale al Middle East Eye, il comune di Ariel respinge ogni responsabilità dell’insediamento israeliano per la crisi ecologica e sanitaria nell’area di Salfit.

Tutto lo scarico fognario della città passa attraverso un impianto di depurazione e tutto ciò che si riversa da Ariel è acqua già trattata”, si legge nella dichiarazione.

Tuttavia, B’Tselem afferma che l’impianto di depurazione nella colonia di Ariel “ha cessato l’attività nel 2008”.

Il comune della colonia ha continuato a dare la colpa esclusivamente ai palestinesi – chiamati spesso semplicemente “arabi” dagli israeliani.

Sfortunatamente, le comunità arabe adiacenti non trattano i loro scarichi fognari, soprattutto nell’area di Salfit” prosegue la dichiarazione. “Le loro fogne scorrono direttamente nel Wadi [torrente, ndtr.] e penetrano nelle falde acquifere montane, contaminando l’acqua e attentando alla salute di tutti.”

Il problema principale è l’occupazione, perché non abbiamo alcun potere” sostiene sicura Samara, l’impiegata comunale.

Samara ci spiega che il comune e la città di Salfit hanno tentato di creare un impianto di depurazione delle acque reflue per servire il distretto sin dal 1989.

I due progetti del 2000 e del 2009, finanziati da fondi europei, fallirono perché le autorità israeliane si rifiutarono di rilasciare i permessi edilizi per costruire l’impianto sul territorio di Matwa, essendo esso situato nell’area C della Cisgiordania e dunque sotto il totale controllo militare israeliano.

Il progetto del 2009 fu accolto da un ultimatum di Israele, che avrebbe concesso i permessi per un impianto finanziato dalla Germania solo se esso avesse purificato anche gli scarichi di Ariel.

L’Autorità Nazionale Palestinese denunciò la proposta in quanto avrebbe rappresentato un riconoscimento de facto di Ariel come una colonia legittima, mentre per le leggi internazionali non lo è.

Benché un cartello nuovo di zecca sul territorio di Bruqin annunci un nuovo tentativo di costruire un depuratore finanziato dalla Cooperazione Finanziaria Bilaterale Tedesca entro il 2022, anche se i lavori venissero terminati entro la scadenza stabilita gli effetti di decenni di esposizione alle acque tossiche potrebbero essere irreversibili.

Danni irreversibili

Il dottor Mazin Qumsiyeh, professore di genetica e biologia molecolare all’Università di Betlemme nonché noto attivista, ha aperto la strada allo studio degli effetti a lungo termine e intergenerazionali dovuti all’esposizione ai rifiuti tossici.

Qumsiyeh e un team di dottorandi hanno raccolto campioni di sangue di un gruppo di controllo e di due gruppi di confronto in due studi separati – uno che analizza i palestinesi provenienti da Bruqin nel 2013 e uno del 2016 sui cittadini di Idhna, un altro villaggio palestinese pericolosamente vicino a una zona industriale israeliana.

I risultati mostrano un numero significativo casi di rottura cromosomica nelle cellule dei residenti vicini alle zone industriali rispetto al gruppo di controllo. La rottura cromosomica o altri danni al DNA aumentano le probabilità di infertilità, malformazioni congenite alla nascita e cancro.

Le prove sono schiaccianti, non si può trattare semplicemente di una differenza casuale tra i campioni (del gruppo di test e di controllo)”, dichiara Qumsiyeh a Middle East Eye.

Questa è una scoperta molto significativa che indica che la presenza di questi impianti industriali è ciò che causa questi danni.”

Anche se Qumsiyeh crede che “questa possa essere un’arma importante per affrontare Israele nei tribunali internazionali”, i residenti di Bruqin come i Barakat desiderano soluzioni più immediate.

Gran parte dei palestinesi pensa alla liberazione dall’occupazione”, sostiene Ammar Barakat. “Tutto ciò che chiedo io è aria pulita. Fino ad allora, non posso pensare a nient’altro.”

(Traduzione di Maria Monno)




Rassegna della stampa israeliana: ministro definisce i matrimoni con non-ebrei un “secondo Olocausto”

Da un corrispondente di MEE

10 luglio 2019 – Middle East Eye

Nel contempo ai richiedenti asilo è vietato iscrivere i bambini a scuola e il governo approva iniziative USA contro Hezbollah

Cittadina chiude scuole ai richiedenti asilo

Il giornale israeliano Haaretz ha informato che la cittadina israeliana di Petah Tikva sta impedendo ai richiedenti asilo, la maggioranza dei quali provenienti da Paesi africani, di iscrivere i figli nelle scuole della cittadina.

Secondo Haaretz i genitori di 129 bambini eritrei non hanno potuto iscrivere i propri figli negli asili e nelle scuole, aggiungendo che le famiglie hanno avviato un ricorso legale contro il Comune.

Benché la legge israeliana preveda che i genitori devono mandare i propri figli a scuola dai tre ai diciotto anni e stabilisca che l’educazione di base debba essere gratuita, a Petah Tikva i richiedenti asilo hanno scoperto di non poter iscrivere i propri figli, anche se hanno frequentato la scuola della città durante l’anno scorso.

La città utilizza due meccanismi per impedirne l’iscrizione: rifiuta di riconoscere i documenti che dimostrano che i richiedenti asilo sono residenti a Petah Tikva o sostiene che i bambini non possono completare l’anno scolastico perché i loro genitori sono in possesso di un visto che scade prima della fine dell’anno scolastico.

Il ministero dell’Interno israeliano emette permessi di permanenza a tempo determinate per periodi da tre a sei mesi.

In febbraio il Canale 13 israeliano ha informato che il sindaco di Petah Tikva Rami Greenberg ha chiesto agli abitanti della cittadina di dare notizia di richiedenti asilo nei loro quartieri per organizzare la loro deportazione.

Un ministro sostiene che i matrimoni misti sono un secondo Olocausto

Secondo notizie che hanno avuto ampio risalto, durante una recente riunione del governo il neoministro dell’Educazione, Rafi Peretz, ha affermato che i matrimoni tra ebrei e non ebrei – noti anche come matrimoni misti – sono un “secondo Olocausto”, che mette a rischio di distruzione il popolo ebraico.

Per anni l’organizzazione di destra contro i matrimoni misti “Lehava”, guidata dal Benzi Gupstein, è stata coinvolta in incitamenti all’odio e anche in attacchi fisici contro coppie miste in Israele. Tuttavia l’ufficio del procuratore generale israeliano, persino dopo che è stato presentata una denuncia ufficiale, rifiuta di incriminare Gupstein.

Prima delle elezioni Peretz ha tentato di prendere le distanze da Gupstein per mantenere un’immagine presentabile dell’Unione dei Partiti di Destra di cui è segretario, ma da quando è ministro ha apertamente manifestato le stesse opinioni sull’importanza della purezza razziale degli ebrei.

Netanyahu ammonisce l’Iran

Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha usato lo sfondo di un gruppo tattico di caccia Stealth F-35 (importato dagli USA) per registrare un video in cui rivolge un monito all’Iran, affermando che “l’Iran deve ricordare che i nostri aerei da guerra lo possono raggiungere.”

Ben Kaspit, del giornale Maariv, sostiene che Netanyahu sta cercando di convincere il presidente USA Donald Trump ad affermare esplicitamente che esiste un’“alleanza militare” tra gli USA e Israele per aumentare le possibilità di Netanyahu nelle prossime elezioni.

In cambio Netanyahu farebbe una dichiarazione in appoggio al piano di Washington denominato “accordo del secolo” per risolvere la crisi israelo-palestinese.

Anche la decisione della Casa Bianca di imporre sanzioni a due deputati libanesi e ad un ufficiale della sicurezza del partito Hezbollah è stata ampiamente riportata ed in Israele è vista come una tacita accettazione dell’opinione del governo israeliano riguardo a Hezbollah come nient’altro che un rappresentante dell’Iran.

Silverstein rivela il nome del presunto uccisore di un ebreo etiope

Gli ebrei israeliani di origine etiope continuano a protestare in Israele e chiedono che il poliziotto che il 30 giugno avrebbe sparato e ucciso il diciottenne Salomon Teka ad Haifa venga chiamato a risponderne.

Su richiesta delle autorità israeliane l’identità del poliziotto sospettato è stata tenuta segreta, ma il blogger residente negli USA ed editorialista di Middle East Eye Richard Silverstein ha rivelato che il suo nome è Baruch Ben Azari.

Tuttavia Silverstein ha informato che, in conformità con le norme israeliane sulla censura, il motore di ricerca Google ha impedito alla gente in Israele di leggere il suo post.

L’identità di Ben Azari non è un segreto ben custodito, in quanto il suo nome è filtrato anche sulle reti sociali ed egli è stato identificato in un hotel. Si è anche lamentato di aver ricevuto minacce di morte.

A titolo di confronto, anche Mahmoud Qatusa, un palestinese falsamente accusato dello stupro di una bambina di sette anni in una colonia israeliana illegale nella Cisgiordania occupata, ha ricevuto minacce di morte, mentre delinquenti hanno fatto scritte nella sua città chiedendo la sua esecuzione e danneggiando veicoli nella zona.

A differenza di Ben Azari, l’identità di Qatusa non è stata protetta quando la polizia israeliana lo ha sospettato di un crimine che non aveva commesso e il suo nome e la sua foto sono stati pubblicati dai mezzi di comunicazione israeliani.

* La rassegna della stampa israeliana è un compendio di notizie la cui accuratezza non è stata verificata in modo indipendente da Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele afferma che l’uccisione di un membro di Hamas a Gaza è stata frutto di un ‘malinteso’

MEE e agenzie di stampa

11 luglio 2019 – Middle East Eye

Hamas dice che la morte di un membro del suo braccio armato, che stava seguendo altri palestinesi che si avvicinavano alla barriera, “non resterà impunita”

Giovedì un portavoce dell’organizzazione ha detto che un membro palestinese del braccio armato di Hamas è stato colpito a morte dalle forze israeliane vicino alla barriera di confine nel nord della Striscia di Gaza.

Hamas ha indicato il nominativo dell’uomo ucciso come Mahmoud al-Adham.

In una dichiarazione ha affermato che non lascerà questa morte “impunita” e che Israele “pagherà le conseguenze di questo atto criminale.”

Secondo una fonte di Hamas che ha parlato con Haaretz, il compito di Adham era di “impedire (ai palestinesi) di oltrepassare la barriera di confine.”

L’esercito israeliano lo ha confermato al sito di informazioni, dicendo che “una prima indagine evidenzia che un membro di Hamas si è avvicinato alla zona della barriera di confine seguendo due palestinesi che si avvicinavano alla barriera.”

Le truppe dell’esercito israeliano sono giunte sul luogo e hanno identificato il membro di Hamas come un terrorista armato. Hanno iniziato una sparatoria che è nata da un equivoco. Sull’incidente verranno fatte indagini.”

Il braccio armato di Hamas ha dei punti di osservazione vicino alla barriera di confine.

Da quando massicce proteste sostenute da Hamas sono iniziate lungo la barriera di confine nel marzo 2018, a Gaza sono stati uccisi dal fuoco israeliano almeno 295 palestinesi.

La maggior parte di loro è stata uccisa nel corso delle manifestazioni, ma altri sono stati uccisi da attacchi aerei o dal fuoco di carri armati. Sono stati uccisi sei israeliani.

L’enclave è sotto assedio dal 2007, il che ha causato grave penuria e stagnazione economica.

In base ad un accordo informale raggiunto a novembre, Israele avrebbe dovuto alleggerire le restrizioni in cambio di una tregua, ma da allora Hamas ha accusato Israele di non rispettare l’accordo.

lLe forniture di combustibile, che sono coordinate con le Nazioni Unite e pagate dallo Stato del Golfo del Qatar, facevano parte di quell’accordo di tregua.

Secondo l’ONU, esse hanno migliorato la fornitura di elettricità nell’enclave, dove gli abitanti attualmente usufruiscono di circa 12 ore di elettricità al giorno.

Prima dell’accordo la fornitura quotidiana di elettricità era abitualmente solo di sei ore.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La polizia israeliana espelle una famiglia palestinese a Gerusalemme est, mentre entra un gruppo di coloni

Redazione di MEE

10 luglio 2019 – Middle East Eye

La famiglia Siyam ha sostenuto una battaglia legale di 24 anni sulla proprietà contro il potente gruppo di coloni “Elad”

Mercoledì la polizia israeliana ha espulso una madre con i suoi quattro figli dalla loro casa nel quartiere della Gerusalemme est occupata di Silwan per consegnarla all’organizzazione di coloni “Elad”.

Negli ultimi 24 anni Jawad Siyam, un importante attivista locale che ha condiviso la titolarità della proprietà con la sua famiglia, è stato impegnato in una interminabile battaglia legale contro la ricca e potente “Elad” riguardo alla proprietà.

Secondo i media locali, è stato arrestato durante lo sfratto di sua sorella e dei suoi figli.

Dagli anni ’90 la famiglia Siyam ha vinto vari ricorsi nei tribunali israeliani contro Elad, ma il gruppo di coloni ogni volta ha presentato appello e esibito documenti ai giudici per dimostrare il proprio possesso della proprietà.

Lo scorso mese il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha sentenziato a favore di Elad, una potente organizzazione il cui patrimonio è stimato ammontare a oltre 300 milioni di shekel (circa 74 milioni di euro).

Ora alla famiglia Siyam sono rimaste solo due unità abitative di un edificio di otto unità, dopo che Elad ne ha ottenute quattro.

Altre due unità immobiliari sono andate alla “Custodia israeliana delle proprietà di assenti” – un ente coloniale istituito in seguito alla Nakba (Catastrofe) del 1948 per prendere il controllo delle proprietà di palestinesi fuggiti dalla repressione durante la creazione dello Stato di Israele.

Secondo testimoni, mercoledì membri di Elad hanno occupato l’ultimo appartamento dei Siyam, buttando fuori gli effetti personali della famiglia, cambiando le serrature, erigendo cancelli tra loro e i Siyam e tagliando alberi in giardino.

Il capo di Elad, David Beeri, è stato filmato mentre esaminava la proprietà e poi stringeva la mano a un ufficiale della polizia israeliana. Nel 2017 Beeri ha ricevuto il Premio Israel alla carriera.

Jawad Siyam è il fondatore e direttore del centro d’informazione “Wadi al-Hilweh”, una Ong che intende fornire informazioni ai media e all’opinione pubblica sulle attività israeliane di colonizzazione nei quartieri di Silwan e Wadi al-Hilweh e e sugli scavi e i tunnel realizzati sotto le case palestinesi dalle autorità israeliane.

A lungo i palestinesi hanno accusato Israele di cercare di “ebraicizzare” la Gerusalemme est occupata e di cacciare i suoi 300.000 abitanti palestinesi per avere il controllo totale sulla città santa.

I due quartieri si trovano a sud delle mura della Città Vecchia di Gerusalemme e nei pressi della moschea di Al-Aqsa. Il quartiere è stato una zona di attività dei coloni e delle autorità israeliane, dove vengono tuttora effettuati scavi sotto le case dei palestinesi per trovare la perduta Città di Davide.

Negli ultimi 30 anni Elad ha occupato circa 75 case palestinesi. Lo scorso mese l’ambasciatore USA in Israele David Friedman e l’inviato della Casa Bianca per il Medio Oriente Jason Greenblatt hanno partecipato all’inaugurazione di un discusso tunnel sotto Silwan.

Il progetto del tunnel, chiamato dal governo israeliano “Via del pellegrinaggio”, è stato costruito nel corso degli ultimi otto anni con il sostegno di Elad. Passa sotto il quartiere in maggioranza palestinese di Wadi al-Hilweh.

Dal 1995 l’Autorità Israeliana per le Antichità, con l’appoggio della fondazione di coloni “Ir David”, ha scavato siti archeologici a Wadi al-Hilweh, ufficialmente per creare una nuova attrazione turistica e scoprire nella zona prove dell’esistenza della trimillenaria “Città di David”.

Il completamento del progetto della nuova “Città di David”, compreso un viale di stile romano costruito su strade che hanno ospitato generazioni di palestinesi, rafforzerebbe la posizione dei 450 coloni illegali che attualmente vivono a Silwan sotto scorta pesantemente armata, ed emarginerebbe i 10.000 abitanti palestinesi del quartiere.

(traduzione di Amedeo Rossi)