Perché i palestinesi devono ripensare alla propria organizzazione di governo

Alaa Tartir

19 maggio 2019 – Middle East Eye

Un modello di leadership collettiva, lontana dalle strutture fallimentari di ANP e OLP, potrebbe portare i palestinesi sul cammino verso l’autodeterminazione.

Mentre imperversano voci sulle condizioni di salute di Mahmoud Abbas, nei circoli politici statunitensi e israeliani infuria il dibattito su chi succederà al presidente palestinese, che ha 83 anni. Vi si sono aggiunti anche mezzi di comunicazione e centri di ricerca, discutendo nomi e presentando candidati, speculando in merito a come sarebbe un possibile processo di transizione, o la sua assenza. Con i mantra riguardo alla priorità da assegnare alla stabilità, i dirigenti della sicurezza palestinese sono i primi della lista.

Ma dal punto di vista palestinese, questa dinamica dovrebbe attivare un serio dibattito a lungo atteso sulla revisione dei sistemi politico e di governo palestinesi, così come su tutta la questione della leadership politica.

Smantellare il comando di un solo uomo

Tre cose potrebbero aiutare a costruire un sistema politico inclusivo e partecipativo, che potrebbe rafforzare i palestinesi nel loro percorso verso l’autodeterminazione, lo Stato e una democrazia efficace.

Primo, il modello del potere di un uomo solo dovrebbe essere sostituito con una forma di leadership collettiva. Il modello del “leader supremo” non solo è obsoleto, disfunzionale e antidemocratico, ma ha anche danneggiato la lotta palestinese e il progetto di liberazione nazionale.

Nel corso degli anni i palestinesi e il loro percorso verso l’autodeterminazione hanno sofferto di gravi conseguenze negative in seguito ai contrastanti stili di governo personalistici (dall’Arafatismo, al Fayyadismo all’Abbasismo) e i paradigmi dell’uomo solo al comando che hanno adottato. È tempo di seppellire quel modo di governare e adottare un modello di leadership collettiva.

Benché in teoria il modello di leadership dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) sia per sua natura collettivo, in pratica non lo è per niente. Per questo l’OLP è stata cooptata dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), e poi l’ANP è stata cooptata da Israele – il potere occupante – spogliando il popolo palestinese della Cisgiordania e di Gaza del proprio potenziale di trasformazione.

È anche la ragione per cui i palestinesi sono stati tenuti lontani dal cuore del sistema politico palestinese e in ultima analisi continuano a rimanere soggetti all’occupazione israeliana e all’autoritarismo palestinese. Il modello del leader unico – che sia il padre della Nazione (Yasser Arafat), il partner per la pace (Abbas) o il tecnocrate appoggiato a livello internazionale (Salam Fayyad) – ha deluso miseramente il popolo palestinese.

Consigli di supervisione

Di conseguenza è tempo di ripensare alle stesse posizioni e titoli del capo dell’OLP e del presidente dell’ANP e ai loro simbolici orpelli di statualità, e di abolirli del tutto.

Al contrario, il popolo palestinese necessita di un comitato elettivo di dirigenti – un piccolo gruppo (l’ideale sarebbe di quattro, con la presenza di entrambi i sessi) che possa formare un ufficio politico, ognuno dei quali assuma responsabilità diverse ma complementari e con lo stesso peso politico. Uno potrebbe occuparsi di questioni interne e sociali, un altro di affari esteri, un terzo di questioni economiche e di sviluppo e un quarto di educazione e giovani.

Questa divisione del lavoro a livello di leadership garantirebbe che il progetto nazionale non possa essere monopolizzato da un leader e dal suo partito politico, dalla sua visione e dal suo programma. Ciò garantirebbe miglior controllo, trasparenza, inclusività e positivi effetti a cascata sulla vita quotidiana dei palestinesi.

L’ufficio politico non funzionerebbe nel vuoto, ma piuttosto sarebbe supportato e controllato da due diversi consigli di supervisione: uno formato da anziani e l’altro da giovani (da 35 anni in giù). I due consigli, con equilibrio di genere e rappresentanti di diversi gruppi di soggetti interessati, classi e provenienza geografica – non più di 15 membri per consiglio, in carica per un massimo di tre anni – giocherebbero un ruolo fondamentale nella formulazione di strategie e nella verifica della loro messa in pratica.

Un governo ombra

Certamente ci si potrebbe giustamente chiedere: che ne sarebbe del Consiglio Legislativo Palestinese (PLC) [il parlamento dell’ANP, ndtr.] e del Consiglio Nazionale Palestinese [organo legislativo dell’OLP, ndtr.] (PNC)? Perché aggiungere ulteriore burocrazia a quella delle strutture e del sistema amministrativo simili già esistenti?

Sono domande legittime, ma ritengo che, proprio a causa dell’assenza di tali consigli, né il PLC né il PNC siano efficienti, efficaci, rappresentativi o persino legittimi. Il PLC e il PNC sono anche stati facilmente divorati da politiche di fazione e da stili di governo personalistici.

I due consigli di anziani e giovani contribuirebbero a consolidare i pilastri del controllo all’interno del sistema politico palestinese, aggiungendo un sistema di pesi e contrappesi estremamente necessario. Il loro ruolo sarebbe per sua natura di supervisione e consulenza; non sarebbero organi legislativi, esecutivi o giudiziari. Ma il loro potere deriverebbe dalla loro capacità di indicare i leader, sostenere una visione su scala nazionale e rendere chiunque responsabile.

Terzo, i vari organi succitati nominerebbero un primo ministro che formi un governo e un vice primo ministro, con una di queste cariche affidata a una donna. Poiché il primo ministro nomina membri del parlamento e altri dirigenti, l’opposizione dovrebbe organizzarsi in un governo parallelo con ministri ombra, come nel modello inglese.

Questo governo ombra non sarebbe un vero e proprio governo, come nelle democrazie consolidate, ma sarebbe costituito in base alle condizioni reali palestinesi. L’idea sarebbe quella di garantire un miglior controllo e ulteriore inclusività nelle strutture politiche palestinesi.

Il cammino futuro

Questo triangolo di dirigenza collettiva, consiglio di anziani e consiglio di giovani, e un governo ombra possono sembrare irrealizzabili data l’attuale situazione di occupazione israeliana, divisioni tra i palestinesi, frammentazione verticale e orizzontale, il quadro degli accordi di Oslo e la prospettata soluzione dei due Stati. Un simile progetto sembrerebbe irrealistico, estraneo alla situazione di oggi e persino in gran parte da sinistra moderata e ingenua.

Eppure è altrettanto ovvio che né i modelli di governo dell’OLP/ANP né la cornice degli accordi di Oslo hanno funzionato a favore del popolo palestinese – perciò, perché continuare a muoversi all’interno di questo quadro tentando di salvare ciò che non può essere salvato?

È tempo di un nuovo e innovativo modello di leadership palestinese – una visione futura per la quale i palestinesi dovrebbero lavorare, invece di rimanere intrappolati all’interno di un contesto politico corrotto che non riesce a fornire soluzioni sensate o durature.

Le tre idee summenzionate sollevano una serie di domande, tra cui quali prerequisiti sarebbero necessari per garantire la loro concretizzazione, come potrebbe essere chiaramente stabilito un piano d’azione, quali attori guiderebbero il processo di cambiamento, se funzionerebbe nonostante l’occupazione israeliana e come si applicherebbe a partire da Gaza e la Cisgiordania fino ai palestinesi in Israele e nella diaspora, tra gli altri problemi.

È per questo che abbiamo bisogno di un serio dibattito sul sistema politico e di governo palestinese. Questo processo è intrinsecamente legato a quello per realizzare la libertà e l’autodeterminazione: solo quando immaginiamo modelli e strutture politiche differenti possiamo sperare di trasformare questa visione in realtà.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Alaa Tartir

Alaa Tartir è consulente di programma per Al-Shabaka, la Rete di Politica Palestinese, ricercatore associato presso il Centre on Conflict, Development and Peace-building [Centro su Conflitto, Sviluppo e Costruzione della Pace] (CCDP) al Graduate Institute of International and Development Studies [Istituto Universitario di Studi Internazionali e dello Sviluppo] (IHEID) di Ginevra, Svizzera, e professore ospite alla Paris School of International Affairs [Scuola di Parigi di Affari Internazionali] (PSIA) alla facoltà di scienze politiche. Tartir è co-autore di Palestine and Rule of Power: Local Dissent vs. International Governance [Palestina e Gestione del Potere: dissenso locale e governance internazionale] (Palgrave Macmillan, 2019).

(traduzione di Amedeo Rossi)




“Questo è ‘art-washing’”: attivisti israeliani protestano contro l’Eurovision

Megan Giovannetti da Tel Aviv, Israele

17 maggio 2019 – Middle East Eye

Decisi a denunciare la situazione dell’occupazione e dell’assedio di Gaza da parte di Israele, un gruppo di israeliani ha organizzato manifestazioni quotidiane

Questa settimana centinaia di persone hanno affollato ogni giorno il villaggio Eurovision sulla spiaggia di Tel Aviv, godendosi i festeggiamenti che hanno circondato la competizione musicale che quest’anno è arrivata in Israele.

Ma, mentre l’ambiente potrebbe sembrare benevolo e accogliente, un gruppo di attivisti israeliani ha preso l’impegno di svelare un lato molto diverso della competizione canora Eurovision 2019.

Shahaf Weinstein, 26 anni, ha detto a Middle East Eye: “Siamo qui perché Eurovision, e naturalmente Eurovillage, sono una grande e lucrativa attività che aiuta Israele a promuovere i suoi cosiddetti valori di luogo giovane, alla moda, multiculturale, ospitale con gli LGBTQ, quando di fatto è uno Stato dell’apartheid.”

Questo è pink-washing, art-washing [utilizzo di tematiche omosessuali o artistiche per trasmettere un’immagine positiva, ndtr.], e noi siamo contrari.”

Eurovision 2019: perché Israele ospita la competizione musicale?

Il nome della competizione canora suggerisce che si tratti di una questione europea, quindi perché Israele, un Paese mediorientale, può parteciparvi e perché ospita la gara di quest’anno?

L’ammissione all’Eurovision non è basata sulla geografia ma sul fatto di essere membro della “European Broadcasting Union [Unione Europea di Radiodiffusione] (EBU), che organizza l’evento, e l’“Israeli Public Broadcasting Corporation” [Compagnia Pubblica Israeliana di Radiodiffusione] ne fa parte.

Tecnicamente ciò significa che anche Paesi arabi come Egitto, Giordania, Libano, Siria, Marocco e Tunisia hanno i titoli per parteciparvi.

In effetti il Marocco vi partecipò nel 1980, dopo che Israele si era ritirato perché la data della competizione si sovrapponeva alla festa della Pasqua ebraica.

Israele è entrato per la prima volta nell’Eurovision nel 1973 ed ha vinto la competizione quattro volte, compreso lo scorso anno, quando Netta Barzilai ha vinto in Portogallo. In precedenza ha ospitato l’evento nel 1979 e nel 1999, tutte e due le volte a Gerusalemme.

Weinstein, ebrea israeliana, fa parte di un collettivo di attivisti di vari gruppi che ha organizzato proteste quotidiane contro il fatto che Israele ospiti l’Eurovision e la positiva ribalta internazionale che ne deriva.

Mercoledì, mentre israeliani e turisti stavano festeggiando su una spiaggia del villaggio del festival Eurovision, i palestinesi stavano commemorando il 71° anniversario della Nakba – la “catastrofe” in arabo – quando centinaia di migliaia [di palestinesi] vennero cacciati dalle proprie case nel conflitto che ha accompagnato la creazione di Israele.

Lo stesso giorno Weinstein e altri 12 attivisti hanno messo in scena presso la sede [dell’Eurovision] “die-in” [una protesta in cui i partecipanti simulano la propria morte, ndtr.], manifestando contro la Nakba e la continua uccisione di manifestanti palestinesi nella Striscia di Gaza assediata.

Indossando magliette con la scritta sulla schiena “Gaza libera”, gli attivisti hanno recitato le morti stendendosi per terra. Avevano appeso al collo foto di palestinesi uccisi durante la violenta repressione da parte di Israele contro il movimento di protesta della Grande Marcia del Ritorno di Gaza durata un anno.

Essendo stata rafforzata la sicurezza in previsione di queste proteste, a cinque attivisti è stato negato l’ingresso nel villaggio Eurovision e sono stati tolti i documenti di identità. Altri otto sono riusciti a superare i controlli di sicurezza e a mettere in pratica il piano.

Sono ebreo. Ho il privilegio di essere qui e protestare mentre ai palestinesi di Gaza che protestano viene sparato,” ha detto Omer Shamir, un ventiseienne di Tel Aviv.

Io rischio molto poco, ho la ‘democrazia’ – quella democrazia che stanno cercando di mostrare al mondo,” ha detto Shamir. “Ce l’ho in quanto ebreo, ma i palestinesi non ce l’hanno.”

In quanto israeliani siamo responsabili”

La sera prima, durante un corteo a Tel Aviv, Nimrod Flashenberg ha esposto le proprie ragioni per scendere in piazza.

Penso che noi, in quanto israeliani, lo Stato di Israele, siamo responsabili delle sofferenze (dei palestinesi),” ha detto Flachenberg, 28 anni, a MEE. “Quindi dobbiamo dire ‘basta con l’occupazione e con l’assedio.’”

La manifestazione di martedì notte ha coinciso di proposito con il giorno in cui la cantante israeliana Netta Barzilai ha vinto l’Eurovision 2018, consentendo che Israele ospitasse la gara canora di quest’anno.

È stato anche il primo anniversario dello spostamento ufficiale dell’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme, mentre in contemporanea 68 palestinesi venivano colpiti a morte durante le proteste.

Il corteo ha coinvolto 300 sostenitori, e Flashenberg ha denunciato una mancanza di sentimenti contrari all’occupazione tra gli ebrei israeliani come una ragione della scarsa partecipazione.

In Israele la popolazione ebraica sta andando verso destra,” ha detto. “Si sta chiudendo. Sta chiudendo gli occhi alle sofferenze dei palestinesi attorno a noi.”

Weinstein crede che la conquista della politica israeliana da parte della destra sia “parte del processo internazionale di neo-fascistizzazione che stiamo vedendo avvenire in molti Paesi, compresi gli USA (e) l’Europa.

In molti posti la popolazione sta diventando più rancorosa, più islamofoba e più razzista. La gente sta ascoltando sempre meno.”

Secondo Weinstein “l’occupazione continua a causa della complicità della comunità internazionale,” che secondo lei è la ragione per cui la protesta e le azioni di boicottaggio dell’Eurovision in Israele sono importanti nella lotta per i diritti dei palestinesi.

In effetti Israele sta lavorante senza sosta con la sua hasbara,” ha detto Flashenberg, utilizzando il termine ebraico per intendere la diffusione di informazioni positive [riguardo a Israele], “ed ha avuto molto successo nel suo tentativo di mettere da parte la questione palestinese nell’agenda internazionale.”

Secondo Flashenberg ospitare l’Eurovisione è solo un esempio del tentativo di Israele di normalizzare la sua occupazione delle terre palestinesi.

Shamir, che ha manifestato martedì notte, è d’accordo.

Ospitare la competizione dell’Eurovision vuol dire pretendere che (Israele) sia un normale Paese europeo, progressista e ospitale per i gay,” ha detto.

Per cui l’unico modo per svegliarsi da questo inganno è la pressione internazionale, che avviene nella forma delle sanzioni e del boicottaggio.”

Ma Shamir non pensa che le persone attorno a lui siano sufficientemente “scosse” da far scoppiare la bolla del comfort.

In genere direi che Tel Aviv è considerata piuttosto di sinistra, ma molti dei miei amici, i miei coetanei, non vengonoa protestare,” ha detto.

Il fatto che siano occupanti è ancora molto comodo (per loro), il che penso ci riporti al punto del perché sia importante ora sottolineare che (Israele) non è un posto normale.”

Dovrebbero divertirsi”

Le proteste giornaliere nel periodo che ha preceduto la finale dell’Eurovisione di sabato sono un modo per cercare di ricordare alla gente la realtà della vita dei palestinesi sotto occupazione israeliana, ha affermato Shamir. Anche se si tratta solo di “un pizzicotto”.

Lunedì Shamir e altri attivisti hanno proiettato inquietanti immagini da Gaza su un grande schermo davanti al principale palco del villaggio dell’Eurovision. Lentamente una folla danzante sotto di esso ha iniziato a capire quello che stavano vedendo, e le cose hanno preso una piega violenta.

È stato tutto un po’ ironico per Shamir, che ha detto che l’Eurovision doveva mostrare quanto pacifico e “normale” sia Israele. Invece “alcune persone ci hanno picchiati, hanno rubato il nostro proiettore e sono scappati,” ha detto.

Weinstein ha sperimentato una reazione simile mercoledì.

Subito dopo il “die-in”, circa una decina di israeliani l’ha circondata, gridando insulti volgari e facendo rumore per impedirle di essere intervistata dalla stampa.

Dicevano che i miei genitori dovevano vergognarsi di me – cosa che non fanno,” dice Weinstein. “Dicevano che dovrei vivere ad Ashkelon (una città del sud vicino a Gaza), e che dovrei andare a Gaza. Mi hanno detto un sacco di orribili insulti.”

Nani, una donna di Ashkelon, ha detto a MEE di essersi unita alla folla che gridava contro Weinstein perché la giovane attivista è israeliana e considera questo comportamento come un tradimento.

Sta contro e non con Israele perché vuole liberare la Palestina,” ha detto Nani.

Ruthie, 42 anni, pensa che sia una vergogna che attivisti siano andati al villaggio dell’Eurovision per protestare.

Sono venuti qui, quindi dovrebbero divertirsi,” ha affermato.

Ruthie è arrivata dal lontano confine del deserto meridionale per godersi dei festeggiamenti e crede che ospitare la competizione musicale sia una buona cosa per l’immagine di Israele.

Penso che stiano protestando perché non conoscono davvero la situazione e quello che succede realmente,” ha detto Ruthie a MEE. “Come puoi vedere qui va tutto bene, questa è la situazione qui. Impariamo a conviverci.

Siamo venuti per divertirci e accogliamo chiunque perché venga in Israele e si diverta. È un posto veramente sicuro.”

Flashenberg vive vicino al villaggio Eurovision e sente ogni notte i gioiosi festeggiamenti, che trova fastidiosi.

C’è qualcosa in questa accettazione ed esaltazione internazionale riguardo a Israele che ovviamente è, agli occhi dei palestinesi e di chi vuole la pace, sconvolgente,” ha detto.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Nakba nella Valle del Giordano: le esercitazioni dell’esercito israeliano gettano il caos tra i palestinesi

Shatha Hammad da Khirbet Humsa al-Fawqa, Cisgiordania occupata

15 maggio 2019 – Middle East Eye

Cacciati dalle loro case perché Israele testa le proprie armi, la commemorazione di quest’anno degli avvenimenti del 1948 vede nuove espulsioni.

A Khirbet Humsa al-Fawqa, sul pavimento di una tenda abitata giacciono giocattoli sparpagliati. Per i bambini del villaggio i giochi sono finiti quando l’esercito israeliano ha dichiarato l’area zona militare proibita e nelle prime ore di domenica ha obbligato la comunità palestinese ad andarsene dalle proprie abitazioni.

In seguito a un ordine di espulsione di quattro giorni prima, ai 98 abitanti è stato vietato l’accesso alle loro abitazioni per tre giorni. L’esercito li ha informati che tra maggio e giugno verranno cacciati 12 volte per tre giorni ciascuna.

Ai palestinesi è stato detto che le abitazioni sarebbero state nel raggio di gittata dei proiettili dei carri armati poiché l’esercito israeliano utilizza l’area per effettuare esercitazioni militari.

La mattina dell’espulsione Mohammed Sulaiman Abu Qabbash, padre di cinque figli, li ha accompagnati in una vicina comunità ed è corso indietro nel tentativo di proteggere le tende e le pecore. Il trentacinquenne è andato avanti e indietro controllando ansiosamente la zona. Ha aspettato che i soldati israeliani arrivassero e lo buttassero fuori.

Nei prossimi tre giorni dormiremo all’aperto. Non abbiamo alternative, non possiamo opporci a una potenza simile,” ha detto Mohammed a Middle East Eye.

Se la comunità rifiuta di andarsene quando gli viene ordinato rischia l’espulsione con la forza, l’esproprio delle greggi e una multa retroattiva.

In base alle leggi internazionali cacciare dalle proprie case gli abitanti di un territorio occupato è considerato trasferimento forzato di persone protette, il che costituisce un crimine di guerra. Ma gli abitanti delle comunità palestinesi nella Valle del Giordano conoscono bene tali devastanti politiche israeliane.

La valle, una striscia di terra fertile che corre a ovest lungo il fiume Giordano, è abitata da circa 65.000 palestinesi.

Dal 1967, quando l’esercito israeliano ha occupato la Cisgiordania, Israele ha trasferito almeno 11.000 suoi cittadini ebrei nella Valle del Giordano. Alcune delle colonie in cui vivono sono state interamente costruite su terre palestinesi di proprietà privata.

Da quando è iniziata l’occupazione, circa il 46% della Valle del Giordano è stata dichiarata dall’esercito israeliano zona militare proibita.

Circa 6.200 palestinesi risiedono in 38 comunità in luoghi destinati a usi militari e devono ottenere un permesso delle autorità israeliane per entrare e vivere nelle loro comunità.

In violazione del diritto internazionale l’esercito israeliano non solo scaccia regolarmente in modo temporaneo le comunità, ma a volte demolisce anche case e infrastrutture.

Oltre a subire espulsioni temporanee, le famiglie palestinesi che vi vivono devono affrontare una miriade di limitazioni nell’accesso a risorse e servizi. Nel contempo la confisca di terre da parte di Israele ha espropriato risorse naturali a favore dei coloni.

Vivere la Nakba

Il digiuno durante l’espulsione e le temperature che hanno raggiunto i 40° hanno raddoppiato le difficoltà di questo Ramadan, dice Khadija Abu Qabbash mentre si prepara ad andarsene. La donna incinta, madre di cinque figli, la mattina ha lavato a mano una pila di vestiti. La sua figlia di 15 anni, Deema, l’ha aiutata a stendere in gran fretta i panni ad asciugare prima che arrivassero i soldati israeliani.

Questa mattina abbiamo accompagnato fuori i bambini ed ora la macchina è tornata a prenderci,” dice a MEE mentre piange. “Non potrò cucinare niente per iftar [pasto serale che interrompe il digiuno del Ramadan, ndtr.]. Ci dovremo accontentare di cibo in scatola.”

Le forze israeliane espellono regolarmente le famiglie di Khirbet Humsa al-Fawqa. Tuttavia in genere le espulsioni avvengono durante il giorno, mentre agli abitanti è consentito tornare alla sera.

Non so se stanno effettivamente facendo esercitazioni militari. A volte ci cacciano e non fanno niente. Intendono obbligarci ad andarcene per sempre,” dice Khadija.

Le attività di Israele nella Valle del Giordano sono state ben documentate da gruppi per i diritti umani e da Ong locali, che affermano che l’obiettivo di queste misure è cacciare i palestinesi e soffocare il loro sviluppo nella zona.

Essendo assolutamente strategica, i politici israeliani, anche prima delle recenti affermazioni del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu riguardo ai suoi progetti di annettere zone della Cisgiordania occupata, hanno chiarito in varie occasioni che la Valle del Giordano rimarrà in ogni caso sotto il loro controllo.

Nel 2013 negoziati di pace sono stati rifiutati da Israele quando è stata ipotizzaa la cessione di parte del controllo sulla valle.

Commentando l’evacuazione di Khirbet Humsa al-Fawqa di domenica, Walid Assaf, capo della Commissione Nazionale per la Resistenza al Muro e alle Colonie dell’Autorità Nazionale Palestinese, ha detto in un comunicato che ci sono stati tentativi con l’intervento di legali per bloccare l’espulsione temporanea, ma non si è potuto mettere in discussione l’ordine militare israeliano.

Proprio come hanno cacciato i palestinesi dale loro case nel 1948, oggi stanno facendo lo stesso. Non cederemo,” ha aggiunto Khadija, riferendosi alla Nakba, la pulizia etnica della Palestina storica da parte delle milizie sioniste 71 anni fa, che si commemora ogni anno il 15 maggio.

Qui non vogliono palestinesi”

Principalmente composte di pastori, le famiglie di Khirbet Humsa al-Fawqa si alzano alle 3 del mattino per mungere le proprie pecore e preparare il formaggio prima di andare ai mercati della vicina cittadina di Tubas.

Harb Abu Qabbash, 40 anni, dice a MEE che ogni famiglia possiede circa 300 pecore. Dato che è difficile spostarle fuori dalla zona, quando i palestinesi vengono evacuati molti degli agnelli rimangono indietro e spesso muoiono di fame senza nessuno che si occupi di loro.

Aggiunge che durante le esercitazioni militari migliaia di ettari di orzo e grano rischiano di essere bruciati. Secondo Harb ciò avviene regolarmente. “Il nostro maggior timore è che una bomba cada su una delle nostre tende. Se ciò accadesse sarebbe una catastrofe e perderemmo tutto,” dice Harb.

Gli israeliani vogliono impossessarsi della zona e svuotarla dei suoi abitanti. Non vogliono palestinesi qui,” aggiunge.

Nel 2005 hanno demolito le nostre tende e infrastrutture con il pretesto che erano state costruite senza permesso. Quando facciamo richiesta di un permesso loro non lo concedono.”

Quando non devono affrontare un’evacuazione, le esercitazioni militari e le demolizioni, i palestinesi della comunità lottano per approvvigionarsi dell’acqua sufficiente per le loro necessità sotto l’occupazione israeliana.

Ogni famiglia con le sue pecore utilizza un totale di due o tre serbatoi d’acqua al giorno,” dice Harb.

Per trasportare il camion cisterna alla comunità ci vogliono due ore. C’è un pozzo d’acqua a cinque minuti da qui, ma l’esercito israeliano ci ha vietato di utilizzarlo e lo ha destinato all’uso esclusivo dei coloni israeliani.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Decine di feriti nella marcia dei palestinesi alla barriera di Gaza nel Giorno della Nakba.

MEE and agencies

15 maggio 2019 – Middle East Eye

Le forze israeliane hanno ferito decine di palestinesi a Gaza, quando migliaia di manifestanti si sono radunati vicino alla barriera di confine tra Gaza e Israele per commemorare il giorno della Nakba.

Il Ministero della Salute di Gaza ha comunicato che mercoledì sono stati feriti almeno 65 manifestanti, compresi 15 che hanno presentato ferite da armi da fuoco.

La protesta è stata organizzata per commemorare il Giorno della Nakba (catastrofe), l’anniversario dell’espulsione forzata di circa 750.000 palestinesi nel 1947-48, prima e durante la fondazione dello Stato di Israele.

Mercoledì un portavoce dell’esercito israeliano ha detto a Middle East Eye che almeno 10.000 palestinesi hanno preso parte ai “disordini” nei dintorni della barriera.

Il portavoce ha detto che vi sono stati “molti tentativi” di infrangere la barriera e che le forze israeliane hanno reagito con “mezzi antisommossa”.

Quest’anno le manifestazioni per il Giorno della Nakba si svolgono due settimane dopo che un’offensiva aerea israeliana ha ucciso oltre 20 palestinesi a Gaza e ne ha feriti molti di più.

Il 6 maggio Israele e le fazioni palestinesi hanno raggiunto un cessate il fuoco.

Ogni anno, il 15 maggio, i palestinesi di tutto il mondo commemorano la Nakba, organizzando manifestazioni e chiedendo una soluzione alla loro grave situazione in modo che possano tornare alle case da cui sono stati espulsi.

Si stima che 15.000 palestinesi siano stati uccisi durante la fondazione dello Stato di Israele 71 anni fa. Vennero anche distrutti quasi 500 villaggi palestinesi.

L’agenzia di informazioni Reuters ha riferito che Khader Habib, un membro della fazione palestinese Jihad Islamica, parlando in uno dei siti della protesta a Gaza, ha chiamato i palestinesi a “sollevarsi” e “affermare i propri diritti in Palestina.”

“La Palestina è nostra. Il mare è nostro, la terra è nostra e gli stranieri devono essere cacciati”, ha detto.

Lo scorso anno la Nakba ha coinciso con il trasferimento dell’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme, una contestata decisione dell’amministrazione Trump che è stata accolta con generale rabbia e frustrazione.

In seguito al trasferimento dell’ambasciata, circa 40.000 palestinesi hanno manifestato l’anno scorso a Gaza e le forze israeliane hanno ucciso almeno 60 persone e ne hanno ferite più di 1.000.

Associazioni per i diritti umani e ricercatori delle Nazioni Unite hanno criticato l’esercito israeliano per uso eccessivo della forza nel reagire alle manifestazioni prevalentemente non violente a Gaza.

Nelle frequenti proteste presso la barriera di confine sono stati uccisi quasi 300 palestinesi e alcune migliaia sono rimasti feriti.

Tali proteste, note come la “Marcia del Ritorno”, sono iniziate nel marzo 2018. Chiedono che i palestinesi possano tornare alle loro case in quello che oggi è Israele.

Per decenni Israele ha respinto quella richiesta, nonostante la Risoluzione 194 dell’ONU [del 1948, ndtr.] sancisca il diritto al ritorno dei palestinesi.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Accordo del secolo

L’“accordo del secolo”? La benedizione americana al furto di terre e alla ghettizzazione dei palestinesi da parte di Israele

Nel corso degli ultimi 18 mesi la squadra di Trump per il Medio oriente sembra aver iniziato ad applicare il piano anche se non l’ha ancora reso pubblico

 

Jonathan Cook

 

Venerdì 10 maggio 2019 – Middle East Eye

 

Un rapporto pubblicato questa settimana dal giornale Israel Hayom che svelerebbe in apparenza “l’accordo del secolo” di Donald Trump dà l’impressione di un piano di pace che avrebbe potuto essere elaborato da un agente immobiliare o da un venditore di automobili.

Ma se l’autenticità del documento non è dimostrata, e al contrario persino messa in discussione, esistono seri motivi per credere che apra la strada a ogni futura dichiarazione dell’ amministrazione Trump.

 

Grande Israele

Si tratta soprattutto di una sintesi della maggior parte delle pretese della destra israeliana per la creazione del Grande Israele, con qualche concessione destinata ad ammansire i palestinesi – la maggior parte delle quali con l’obiettivo di alleggerire parzialmente lo strangolamento dell’economia palestinese da parte di Israele.

È esattamente ciò a cui assomiglierebbe l’“accordo del secolo” in base alle dichiarazioni del mese scorso di Jared Kushner che davano un primo quadro di questo piano.

L’organo di stampa che ha pubblicato la fuga di notizie è altrettanto significativo: Israel Hayom. Questo giornale israeliano appartiene a Sheldon Adelson, un miliardario americano dei casinò, uno dei principali donatori del partito repubblicano [USA, ndtr.] e uno dei maggiori finanziatori della campagna elettorale di Trump per la campagna presidenziale.

Adelson è anche un fedele alleato del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Nell’ultimo decennio il suo giornale non ha fatto altro che servire da portavoce dei governi ultranazionalisti di Netanyahu.

 

Netanyahu responsabile della fuga di notizie?

Adelson e Israel Hayom  hanno facile accesso alle figure più rappresentative delle amministrazioni americana e israeliana. Ed è stato ampiamente denunciato che nel giornale si scrivono poche cose interessanti senza che non siano state approvate in precedenza da Netanyahu o dal suo proprietario all’estero.

Il giornale ha rimesso in dubbio l’autenticità e la credibilità del documento, che è stato diffuso sulle piattaforme delle reti sociali, suggerendo persino che “è assolutamente possibile che il documento sia un falso” e che il ministero degli Esteri israeliano aveva deciso di occuparsi della questione.

La Casa Bianca aveva già informato che, dopo lunghi rinvii, aveva l’intenzione di svelare finalmente “l’accordo del secolo” il mese prossimo, dopo la fine del mese sacro per i musulmani del Ramadan.

Un responsabile anonimo della Casa Bianca ha dichiarato al giornale che il documento divulgato era “ipotetico” e “inesatto” – il genere di debole smentita che potrebbe ugualmente significare che il rapporto è, in effetti, in gran parte esatto.

Se il documento si rivela autentico, Netanyahu sembra essere il colpevole più probabile della divulgazione. Ha supervisionato il ministero degli Esteri per anni e Israel Hayom è spesso definito come il “Bibiton”, o il giornale di Bibi, dal soprannome del primo ministro.

Tastare il terreno

Il presunto documento, come l’ha pubblicato Israel Hayom, sarebbe un disastro per i palestinesi. Supponendo che Netanyahu ne approvi la divulgazione, le sue motivazioni non sarebbero forse molto difficili da individuare.

Da un certo punto di vista la divulgazione potrebbe costituire un mezzo efficace per Netanyahu e l’amministrazione Trump per tastare il terreno, per lanciare un ballon d’essai e decidere se osare pubblicare il documento così com’è o se devono apportarvi delle modifiche.

Ma è anche possibile che Netanyahu sia forse arrivato alla conclusione che mettere palesemente in pratica l’essenza di quello che già riesce a fare di nascosto potrebbe avere un prezzo non gradito – un prezzo che al momento potrebbe preferire evitare.

La fuga di notizie intende provocare un’opposizione anticipata al piano che arrivi sia da Israele che dai palestinesi e dal mondo arabo, nella speranza di impedire chee venga reso pubblico?

Forse ha sperato che le indiscrezioni, e la reazione che esse suscitano, obblighino la squadra di Trump per il Medio Oriente a rimandare di nuovo la pubblicazione del piano o a impedirne totalmente la diffusione.

Tuttavia, che “l’accordo del secolo” sia o no svelato tra poco, il documento divulgato – se è autentico – dà un’idea plausibile del pensiero dell’amministrazione Trump.

Dato che la squadra di Trump per il Medio oriente sembra aver cominciato ad applicare il piano, anche se quest’ultimo non è stato reso pubblico, durante gli ultimi otto mesi – dallo spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme al riconoscimento dell’illegale annessione da parte di Israele delle alture siriane del Golan – questa fuga di notizie permette di far luce su come si articolerebbe la “soluzione” americano-israeliana del conflitto israelo-palestinese.

 

Annessione della Cisgiordania

L’entità palestinese proposta sarebbe denominata “Nuova Palestina”, ciò che costituirebbe probabilmente una pagina del manuale di strategia di Tony Blair, ex-primo ministro britannico diventato ambasciatore della comunità internazionale in Medio oriente dal 2007 al 2015.

Negli anni ’90 Blair ha allontanato il suo stesso partito, il partito Laburista, dalla sua tradizione socialista, poi lo ha ribattezzato il partito favorevole alle imprese, che ha dato come risultato – sbiadita copia di quello che era – il “New Labour”.

Il nome “Nuova Palestina” maschera efficacemente il fatto che questa entità demilitarizzata sarebbe sprovvista dei caratteri e dei poteri normalmente attribuiti a uno Stato. Secondo le rivelazioni, la Nuova Palestina non esisterebbe che su un’infima frazione della Palestina storica.

Tutte le colonie illegali di popolamento in Cisgiordania sarebbero annesse a Israele, ciò che sarebbe in linea con l’impegno preso da Netanyahu poco prima delle elezioni legislative dello scorso mese. Se il territorio annesso comprende la maggior parte della zona C, il 62% della Cisgiordania su cui in base agli accordi di Oslo Israele si è visto accordare un controllo temporaneo e che la destra israeliana intende insistentemente annettere, alla Nuova Palestina resterebbe il controllo del 12% della Palestina storica.

In altre parole l’amministrazione Trump sembra pronta a dare la propria benedizione a un Grande Israele che comprenda l’88% delle terre rubate ai palestinesi nel corso degli ultimi 70 anni.

“Nuova Palestina”

Ma è molto peggio di questo. La Nuova Palestina esisterebbe sotto forma di una serie di cantoni separati, o Bantustan, circondati da un oceano di colonie israeliane – ormai definite parte di Israele. L’entità sarebbe fatta a pezzi e tagliata come nessun altro Paese al mondo.

La Nuova Palestina non avrebbe un esercito, ma solo una forza di polizia con armi leggere. Non potrebbe agire che come una serie di municipalità scollegate tra loro.

In realtà è difficile immaginare come la “Nuova Palestina” cambierebbe in modo sostanziale la triste situazione attuale dei palestinesi. Non si potrebbero spostare tra questi cantoni se non attraverso lunghi giri, delle circonvallazioni e dei tunnel. Più o meno come ora.

 

Municipalità osannate

Il solo vantaggio proposto dal presunto documento è un progetto di bustarelle proveniente dagli Stati Uniti, dall’Europa e da altri Stati sviluppati, anche se finanziato principalmente dai ricchi Stati petroliferi del Golfo, in modo da alleviare la loro coscienza per aver spogliato i palestinesi delle loro terre e della loro sovranità.

Questi Stati forniranno 30 miliardi di dollari (26 miliardi di euro) in cinque anni per aiutare la Nuova Palestina a creare e a gestire i suoi municipi osannati. Se vi sembra una grossa somma di denaro, ricordatevi che ciò rappresenta otto miliardi di dollari in meno rispetto all’aiuto che gli Stati Uniti consegnano da un decennio a Israele per comprare armi e aerei da guerra.

Nel documento non compare chiaramente quello che succederà alla Nuova Palestina dopo questo periodo di 5 anni. Ma, considerato che il 12% della Palestina storica attribuita ai palestinesi costituisce il territorio più povero di risorse della regione – privato da Israele di risorse idriche, di coesione economica e di risorse chiave utilizzabili come le cave della Cisgiordania – è difficile non vedere il naufragio annunciato dell’entità dopo l’affievolirsi del flusso iniziale di denaro.

Anche se la comunità internazionale accettasse di destinare più soldi, la Nuova Palestina sarebbe per sempre totalmente dipendente dagli aiuti.

Gli Stati Uniti e altri Paesi sarebbero in grado di aprire o chiudere i rubinetti in base al “buon comportamento” dei palestinesi – come avviene attualmente. I palestinesi vivrebbero in modo permanente nel timore per le conseguenze delle critiche dei guardiani della loro prigione.

Fedele al suo impegno di far pagare al Messico la costruzione del muro lungo la frontiera sud degli Stati Uniti, a quanto pare Trump vorrebbe che l’entità palestinese pagasse Israele per fornirle una sicurezza militare. In altri termini, gran parte di questo aiuto di 30 miliardi di dollari ai palestinesi si ritroverebbe probabilmente nelle tasche dell’esercito israeliano.

È interessante notare che il presunto articolo sostiene che sono gli Stati produttori di petrolio, e non i palestinesi, che sarebbero i “principali beneficiari” dell’accordo. Ciò indica come l’accordo di Trump sia venduto agli Stati del Golfo: è un’occasione per loro di legarsi totalmente a Israele, alla sua tecnologia e alle sue capacità militari, in modo che il Medio oriente possa seguire le orme delle “tigri economiche” dell’Asia.

 

Pulizia etnica a Gerusalemme

Gerusalemme è descritta come una “capitale condivisa”, ma le clausole scritte in piccolo dicono tutt’altro. Gerusalemme non sarebbe divisa, con da una parte l’est palestinese e dall’altra l’ovest israeliano, come per lo più si era previsto. Invece di ciò, la città sarebbe diretta da una municipalità unificata sotto controllo israeliano. Esattamente come ora.

La sola concessione significativa ai palestinesi sarebbe che gli israeliani non sarebbero autorizzati a comprare case palestinesi, impedendo – almeno in teoria – l’assunzione del controllo di Gerusalemme est in modo più pesante da parte dei coloni ebrei.

Ma, dato che in cambio i palestinesi non sarebbero autorizzati a comprare delle case israeliane e che la popolazione palestinese a Gerusalemme est soffre già di una grave carenza di alloggi e che un’amministrazione comunale israeliana avrebbe il potere di decidere dove le case potrebbero essere costruite e per chi, è facile immaginare che la situazione attuale – Israele che si serve del controllo della gestione del territorio per cacciare i palestinesi da Gerusalemme – semplicemente continuerebbe.

In più, siccome i palestinesi a Gerusalemme sarebbero dei cittadini della Nuova Palestina, e non di Israele, quelli che sarebbero incapaci di installarsi in una Gerusalemme sotto dominazione israeliana non avrebbero altra scelta che emigrare in Cisgiordania. Sarebbe esattamente la stessa forma di pulizia etnica burocratica che i palestinesi stanno sperimentando attualmente.

Gaza aperta verso il Sinai

Riprendendo le recenti affermazioni di Jared Kushner, genero di Trump e consigliere per il Medio oriente, i vantaggi del piano per i palestinesi sono tutti legati ai potenziali utili economici e non politici.

I palestinesi sarebbero autorizzati a lavorare in Israele, come avveniva normalmente prima di Oslo, e verosimilmente, come allora, unicamente nei lavori peggio pagati e più precari, nei cantieri edili e in agricoltura.

Un corridoio terrestre, sicuramente sorvegliato da contractors militari israeliani che i palestinesi dovranno pagare, dovrebbe ricollegare Gaza alla Cisgiordania. Confermando informazioni precedenti relative ai progetti dell’amministrazione Trump, Gaza sarebbe aperta al mondo, e sul vicino territorio del Sinai sarebbero creati una zona industriale e un aeroporto.

Questa terra – la cui estensione sarebbe da definire nei negoziati – sarebbe presa in affitto all’Egitto.

Come sottolineato in precedenza da Middle East Eye, tale decisione rischierebbe di incoraggiare progressivamente i palestinesi a considerare il Sinai, invece di Gaza, come il centro della loro vita, un altro mezzo per procedere alla progressiva pulizia etnica.

Nel contempo la Cisgiordania sarebbe collegata alla Giordania da due passaggi di frontiera – probabilmente attraverso corridoi terrestri che attraverserebbero la valle del Giordano, che dovrebbe essere annessa anch’essa a Israele. Di nuovo, con i palestinesi chiusi in cantoni non collegati e circondati dal territorio israeliano, c’è da supporre che con il tempo molti cercherebbero una nuova vita in Giordania.

Nel corso di tre anni i prigionieri politici palestinesi sarebbero liberati dalle prigioni israeliane sotto l’autorità della Nuova Palestina. Tuttavia il piano non dice niente sul diritto al ritorno per i milioni di rifugiati palestinesi, i discendenti di quelli che sono stati cacciati da casa loro durante le guerre del 1948 e del 1967.

Pistola alla tempia

Alla maniera di don Corleone, l’amministrazione Trump sembra pronta a mettere una pistola alla tempia dei dirigenti palestinesi per obbligarli a firmare l’accordo.

Secondo il rapporto divulgato, gli Stati Uniti vieterebbero qualunque trasferimento di denaro ai palestinesi dissidenti, con lo scopo di obbligarli a sottomettersi.

Questo presunto piano esigerebbe che Hamas e la Jihad islamica si disarmino consegnando le loro armi all’Egitto. Se rifiutassero l’accordo, il rapporto sostiene che gli Stati Uniti autorizzerebbero Israele ad “attentare” contro i dirigenti – per mezzo di assassini extragiudiziari che costituiscono da molto tempo il pilastro della politica israeliana riguardo ai due gruppi.

Ciò che è meno credibile è il fatto che il presunto documento suggerisce che la Casa Bianca sarebbe pronta a dimostrare la propria fermezza anche nei confronti di Israele, tagliando l’aiuto americano se Israele non rispettasse i termini dell’accordo.

Dato che Israele ha regolarmente infranto gli accordi di Oslo – e il diritto internazionale – senza dover affrontare gravi sanzioni, è facile immaginare che in pratica gli Stati Uniti troverebbero delle soluzioni per evitare che Israele debba pagare le conseguenze di ogni violazione dell’accordo.

Imprimatur americano

Il presunto documento presenta tutte le caratteristiche del piano Trump, o almeno di una sua versione recente, perché descrive nero su bianco la situazione che Israele ha creato per i palestinesi nel corso di questi ultimi vent’anni.

Ciò dà semplicemente a Israele l’imprimatur ufficiale degli Stati Uniti per il furto massiccio delle terre e la riduzione in cantoni dei palestinesi.

Dunque, se offre alla destra israeliana la maggior parte di quello che vuole, che interesse ha Israel Hayom – portavoce di Netanyahu – a compromettere il suo successo divulgandolo?

Alcune ragioni potrebbero spiegarlo.

Israele ha già raggiunto tutti i suoi obiettivi – rubare la terra, annettere le colonie di insediamento, consolidare il suo controllo esclusivo su Gerusalemme, fare pressione sui palestinesi perché se ne vadano dalla loro terra e partano per gli Stati vicini – senza annunciare ufficialmente che si tratta del suo piano.

Ha realizzato grandi progressi in tutti i suoi obiettivi senza dover ammettere pubblicamente che la creazione di uno Stato per i palestinesi è un’illusione. Per Netanyahu, la questione deve essere sapere perché dovrebbe rendere pubblica la visione globale di Israele quando può essere realizzata di nascosto.

Timore di un contraccolpo

Ma, peggio ancora per Israele, una volta che i palestinesi e il mondo che sta a guardare capiranno che l’attuale situazione catastrofica per i palestinesi non migliorerà, ci sarà probabilmente un contraccolpo.

L’Autorità Nazionale Palestinese potrebbe crollare, la popolazione palestinese scatenerebbe una nuova ribellione, la cosiddetta “opinione pubblica araba” accetterebbe probabilmente questo piano meno di quanto i suoi dirigenti o di quanto Trump non desideri, e gli attivisti solidali in Occidente, soprattutto il movimento per il boicottaggio, beneficerebbero di un’ enorme spinta per la loro causa.

Inoltre sarebbe impossibile per i difensori di Israele continuare a negare che Israele ha messo in atto quello che l’accademico israeliano Baruch Kimmerling aveva definito “politicidio”: la distruzione dell’avvenire dei palestinesi, del loro diritto all’autodeterminazione e della loro integrità in quanto un solo popolo.

Se questa è la versione della pace in Medio oriente proposta da Trump, egli gioca alla roulette russa – e Netanyahu esiterà forse a lasciargli premere il grilletto.

 

 

Jonathan Cook è un giornalista britannico residente dal 2001 a Nazareth. E’ l’autore di tre libri sul conflitto israelo-palestinese. È stato vincitore del Martha Gellhorn Special Prize for Journalism.

 

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

 

 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Occidente e Stato di apartheid

L’Israele di Netanyahu dichiarerà uno Stato dell’apartheid. L’Occidente non farà niente?

I leader del mondo non avranno altra scelta che riconoscere che, di nascosto, è stato dichiarato un secondo Stato di apartheid in stile Sudafrica

Gideon Levy

30 Aprile 2019 – Middle East Eye

Il mondo continua a girare sul suo asse, nulla è cambiato nemmeno dopo le recenti elezioni in Israele.

Eletto alla guida di Israele per la quinta volta, Benjamin Netanyahu è pronto a dare vita al governo più nazionalista e di destra nella storia del Paese – e intanto il mondo sembra andare avanti come niente fosse.

Da decenni Israele sputa continuamente in faccia al resto del mondo, con noncurante disprezzo del diritto internazionale e con totale indifferenza riguardo alle esplicite decisioni e precise politiche adottate dalle istituzioni mondiali e dalla maggioranza dei governi nazionali del mondo.

Tuttavia nel mondo tutto quel disprezzo scivola via come fosse acqua fresca. Le elezioni sono arrivate e passate senza evidenti effetti sul sostegno ciecamente automatico a Israele da parte dei governi europei e, ovviamente, anche da parte americana: incondizionato, senza riserve, appartenente invariato. Evidentemente ciò che era è ciò che sarà.

Però Israele è cambiato nel corso del lungo regno di Netanyahu. Questo abile statista israeliano sta lasciando il segno sul volto del suo Paese, con un profondo e duraturo effetto – molto più di quanto previsto o di quanto appaia.

È pur vero che anche i governi di sinistra in Israele hanno fatto il possibile per mantenere l’occupazione israeliana per sempre e non hanno avuto intenzione neppure per un istante di porvi fine – ma Netanyahu sta portando Israele molto più lontano, verso livelli ancor più estremi.

Sta compromettendo ciò che costituisce un governo accettabile entro il territorio sovrano riconosciuto di Israele, anche nei confronti dei suoi cittadini ebrei. Il volto stesso dell’“unica democrazia in Medio Oriente”, che ha a lungo funzionato soprattutto a beneficio degli ebrei israeliani che costituiscono la sua classe privilegiata, viene adesso sfigurato da Netanyahu e soci.

Beniamino dell’Occidente

Intanto, incredibilmente, la risposta del mondo è di non cambiare affatto il sostegno che ha offerto a Israele in tutti gli anni del governo Netanyahu, come se in quest’ultima fase lui non stesse modificando niente, come se le mutate posizioni assunte da Israele non facessero aumentare né diminuire quel sostegno.

Con o senza Netanyahu, Israele resta il beniamino dell’Occidente. Nessun altro Paese gode dello stesso livello di sostegno militare, economico, diplomatico e morale, senza condizioni. Ma la prossima amministrazione israeliana, il quinto governo Netanyahu, è pronta ad annunciare un cambiamento che alla fine il mondo avrà difficoltà ad ignorare.

Il nuovo governo è pronto a strappare l’ultimo lembo di maschera dal suo volto reale. La principale risorsa di Israele, nel proporsi come una democrazia liberale che condivide i valori cari all’Occidente, sta per essere annientata.

L’Occidente continuerà allora a sostenerlo? L’Occidente, che chiede che la Turchia introduca profondi cambiamenti prima di concederle una piena ammissione, che impone sanzioni alla Russia quando invade la Crimea, questo Occidente continuerà a sostenere la nuova repubblica di Israele che Netanyahu e i suoi partner di governo stanno preparandosi a varare?

Un cambiamento radicale

Il livello del cambiamento atteso non può essere sopravvalutato. Israele sarà diverso. Dove il precedente governo ha appiccato l’incendio, questo attizzerà il fuoco appena si propagherà. Il sistema giudiziario, i media, le organizzazioni di difesa dei diritti umani e dei diritti degli arabi in Israele presto proveranno una cocente sensazione.

Gli editoriali, se criticano per esempio i soldati israeliani o appoggiano un boicottaggio contro Israele, tra breve per legge non verranno più pubblicati sui media israeliani. L’aeroporto Ben Gurion amplierà i divieti di ingresso per chi critica il regime israeliano.

Le organizzazioni della società civile verranno private del loro status giuridico. Gli arabi verranno più rigorosamente esclusi in vista della realizzazione di uno Stato ebraico in cui tutti i parlamentari sono ebrei.  E ovviamente vi è l’annessione, attualmente in attesa dietro le quinte.

Il nuovo governo sarà il governo israeliano dell’annessione. Se il previsto appoggio di Washington sarà imminente – il riconoscimento americano dell’annessione delle Alture del Golan è stato il primo passo, il ‘ballon d’essai’ – allora Netanyahu farà la mossa che finora si è trattenuto dal fare durante tutto il suo regno.

Annuncerà l’annessione almeno di parte dei territori occupati.

Il significato sarà inequivocabile: Israele ammetterà per la prima volta che la sua occupazione militare della Cisgiordania, durata 52 anni, sarà permanente; che non è, come per molto tempo sostenuto, un fenomeno transitorio.

Drastici cambiamenti di politica

I territori non sono “merce di scambio” in negoziati per la pace, come sostenuto all’inizio dell’occupazione, bensì possedimenti coloniali che rimarranno in modo permanente sotto il governo israeliano. Non vi è alcuna intenzione che i territori annessi ora, che potranno poi espandersi, vengano mai restituiti ai palestinesi.

Quindi il nuovo governo Netanyahu annuncerà due drastici cambiamenti di politica. Primo, si chiuderà la questione della soluzione di due Stati, che persino Netanyahu ha appoggiato e a cui tutti i leader mondiali si sono dichiarati favorevoli.

Quell’opzione verrà dichiarata morta. Al tempo stesso Israele si dichiarerà uno Stato di apartheid non solo di fatto, ma adesso, per la prima volta, anche di diritto.

Poiché nessuno di coloro che sono a favore dell’annessione intende garantire uguali diritti ai palestinesi nei territori che verranno annessi, e poiché una annessione mirata solo sulla terra su cui si trovano le colonie è palesemente una mistificazione, gli uomini di Stato del mondo non avranno altra scelta che riconoscere che, di nascosto, nel XXI secolo, è stato dichiarato un secondo Stato di apartheid in stile sudafricano.

L’ultima volta un regime di apartheid è stato miracolosamente abbattuto senza alcuno spargimento di sangue. Questa volta il mondo si riunirà e ripeterà l’impresa?

Quale Israele state ancora appoggiando?

Questa domanda va posta anzitutto ai leader dell’Europa, da Angela Merkel a Emmanuel Macron, compresa Theresa May – a tutti i leader dell’Unione Europea. Hanno ripetuto all’infinito il mantra che il loro appoggio ad Israele e al suo diritto di esistere in sicurezza è fermo e irrevocabile.

Hanno continuamente dichiarato il loro sostegno ad una soluzione negoziata di due Stati. Quindi chi sostenete adesso? Che cosa sostenete? Quale Israele, esattamente? In quale mondo pensate di vivere? Forse in un mondo dei sogni che evidentemente trovate comodo, ma che ha sempre meno rapporti con il mondo reale.

L’Europa riuscirà a continuare a sostenere che Israele condivide i suoi valori liberali, quando in Israele sono vietate le organizzazioni della società civile? Quando quasi tutti i politici sionisti israeliani dichiarano che non hanno niente da discutere con i deputati arabi eletti in parlamento?

Provate a immaginare un diplomatico europeo che dichiari che i membri ebrei del suo parlamento nazionale non possono partecipare ad alcun dialogo politico. O che un diplomatico europeo dichiari che i cittadini ebrei del suo Paese sono dei traditori e una quinta colonna.

Questo genere di cose sono politicamente corrette in Israele, in tutti i partiti. E che dire della libertà di parola, tanto sacra nel discorso europeo, quando il ‘World Press Freedom Index’ (Indice mondiale della libertà di stampa) del 2019 di Reporter senza Frontiere classifica già Israele al numero 88 – dopo Albania, Kirghizistan e l’Ungheria di Victor Orban?

Questo è l’Israele che state appoggiando.

La soluzione dei due Stati è morta

Anche il sostegno automatico dell’Occidente alla soluzione dei due Stati deve essere aggiornato. Credete davvero, cari uomini e donne di Stato, che questo Israele abbia qualsivoglia intenzione di applicare una simile soluzione?

Vi è mai stato anche un solo politico israeliano che volesse, o potesse, trasferire circa 700.000 coloni, anche da Gerusalemme est occupata?

Credete davvero che senza un ritiro da tutte le colonie, che rappresenterebbe il minimo di giustizia per i palestinesi, vi sia qualche prospettiva che una simile soluzione si affermi e si trasformi in realtà?

Si potrebbe notare che la maggior parte dei diplomatici occidentali che sono ben informati su ciò che accade sanno già da tempo che questa soluzione è morta, ma nessuno di loro ha il coraggio di ammetterlo.

Ammetterlo richiederebbe di ridefinire tutte le loro posizioni sul conflitto in Medio Oriente, compreso il sostegno all’esistenza di uno Stato ebraico.

Con l’arrivo del nuovo governo Netanyahu il mondo occidentale non può semplicemente continuare a chiudere un occhio e sostenere che tutto va bene. Niente va bene.

Perciò ora la domanda è: siete pronti ad accettare questo? Rimarrete in silenzio, muti, concederete il vostro appoggio e chiuderete gli occhi sulla realtà?

Chi di voi si preoccupa per il futuro di Israele dovrebbe essere il primo a svegliarsi e trarre le dovute conclusioni. Certamente, ogni persona di coscienza dovrebbe farlo.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye

Gideon Levy

Gideon Levy è un editorialista di Haaretz e membro della direzione editoriale del quotidiano. E’ entrato in Haaretz nel 1982 ed è stato per quattro anni vicedirettore del giornale. Ha vinto il premio ‘Euro-Med Journalist’ nel 2008; il premio ‘Leipzig Freedom’ nel 2001; il premio ‘Israeli Journalists’Union’ nel 1997; il premio ‘The Association of Human Rights in Israel’ nel 1996. Il suo nuovo libro, ‘The Punishment of Gaza’ (La punizione di Gaza) è stato appena pubblicato da Verso.

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Un Stato democratico e laico

Ofra Yeshua-Lyth: “La sola soluzione in Medio Oriente è uno Stato democratico e laico”

La giornalista rilascia a MEE le sue riflessioni sul sionismo e sulla società israeliana, che secondo lei non troverà la propria salvezza che in uno Stato unico ed egualitario per tutti i suoi cittadini

 

Di Hassina Mechaï

Martedì 7 maggio 2019 – Middle East Eye

 

Perché uno Stato ebraico non è una buona idea? La tesi sottesa al libro di Ofra Yeshua-Lyth, giornalista e scrittrice israeliana, è semplice: la situazione attuale in Israele – occupazione, militarizzazione della società, mescolanza di nazionalismo e religione – non è affatto una rottura con il sionismo o una deviazione dalla sua dinamica.

Nel suo libro, con prefazione dello storico israeliano Ilan Pappé, l’autrice, che è stata corrispondente a Washington e in Germania di “Maariv”, uno dei principali quotidiani israeliani, ne deduce che la sola soluzione a quello che viene definito (in modo errato, secondo lei) il “conflitto israelo-palestinese” è uno Stato unico laico e democratico. Un incontro.

 

Deviazione dal sionismo o logica intrinseca

Durante gli anni di militanza in “Shalom Arshav” (Pace Ora [movimento pacifista israeliano contrario all’occupazione, ndtr.]), Ofra Yeshua-Lyth ha osservato una sinistra invischiata in illusioni pericolose. Questa sinistra, al potere dal 1948 al 1977, ha potuto credere e far credere che sionismo, ebraismo e democrazia potessero stare insieme in un vero Stato di diritto. E che il solo ostacolo fosse l’occupazione.

La soluzione sarebbe dunque stata la pace in cambio della restituzione di questi territori occupati. Un’equazione semplice, ovvero semplicistica per l’autrice, che pensa che l’occupazione sia la conseguenza e non la causa della situazione.

“La sinistra israeliana crede che il solo problema sia l’occupazione, che sia sufficiente mettervi fine e che tutto si sistemerà. Che Israele diventerà un “buon piccolo Israele”, un piccolo Stato per gli ebrei. Ma il problema è più profondo e riguarda l’idea stessa di sionismo.” Il fallimento di quello che è comunemente chiamato “il campo della pace” sarebbe dunque ineluttabile. “La sinistra illuminata vorrebbe togliere gli ebrei dalle zone abitate in maggioranza da non ebrei, mentre la destra nazionalista spera di cacciare i non ebrei dai territori che brama”, riassume l’autrice.

Per lei e per molti israeliani la vera rottura c’è stata con la seconda Intifada. “Confesso di aver creduto ad Oslo. Anche degli amici palestinesi. Ma altri, molto pochi, hanno visto che quegli accordi non erano che menzogne. Tuttavia la seconda Intifada ha scosso le due società. Israele è diventato antipalestinese in misura senza precedenti.

Gli israeliani rifiutavano di vedere e di capire la collera dei palestinesi. Per loro ciò significava che non avevano interlocutori. Per altri, ciò ha giustificato sempre più l’idea di uno Stato ebraico da una riva all’altra [dal Mediterraneo al Giordano, ndtr.]”, aggiunge.

Secondo Ofra Yeshua-Lyth la soluzione dei due Stati ha lasciato la società israeliana indifesa davanti alle proprie contraddizioni, alle sue linee di frattura. Gli strati di immigrazioni successive coesistono più di quanto non vivano insieme. Il sionismo non sarebbe dunque riuscito a unire la società?

“Ciò che minaccia il sionismo non è l’esplosione, ma l’implosione. Il sionismo non è riuscito a costruire una società unificata. La sola cosa che la rende coesa è la paura, l’idea che Israele sia sempre minacciato e che lo Stato e l’esercito debbano essere forti. L’odio e la paura sono delle emozioni molto forti che fanno da collante.”

Ofra Yeshua-Lyth, lei che è nata da quella che potrebbe essere definita una “coppia mista”, lo può testimoniare. Sua madre era un’ebrea russa e suo padre un ebreo yemenita. Se “gli ebrei askenaziti [dell’Europa centro- orientale, ndtr.] hanno imparato a dissimulare – ed alcuni sono realmente riusciti a superare – la ripugnanza per l’atmosfera araba e medio-orientale”, la realtà del razzismo subito dagli ebrei arabi emigrati in Israele rimane concreta.

“Questa cultura doppia mi ha resa sensibile alla questione dei diritti dei palestinesi. Negli anni ’80 il molto influente movimento “Shalom Archav” sosteneva che la democrazia israeliana non potesse essere perfetta perché gli ebrei mizrahim (orientali) lo impedivano. Si diceva di loro che non capissero la democrazia. Anche se tutti erano ebrei, le classi sociali continuavano a essere divise tra ashkenaziti e mizrahi,” spiega a MEE.

 

La società israeliana tra religione e nazionalismo

Il movimento sionista si iscrive nella dinamica nazionalista laica del diritto dei popoli a disporre di se stessi. Theodore Herzl voleva lasciare i rabbini nelle sinagoghe e confinare i militari nelle caserme.

“Herzl non era credente. Ben Gurion, Sharon e Netanyahu non mangiano kosher [cibo ammesso dalla religione ebraica, ndtr.]. Si ignora che Ben Gurion ha potuto sostenere l’idea che i palestinesi attuali discendano dagli ebrei convertiti al cristianesimo o all’islam”, sottolinea Ofra Yeshua-Lyth, che non è cresciuta in una famiglia religiosa e ha sposato un non ebreo.

Eppure l’attuale situazione israeliana è l’esatto contrario: i militari e i religiosi fanno parte del potere e plasmano la vita degli israeliani fin nell’intimità. “La società cosiddetta laica nella quale sono cresciuta non si è mai separata davvero dal passato religioso tradizionale,” nota Ofra Yeshua-Lyth. Fin dalle origini del sionismo si sono dovute tenere insieme le diverse stratificazioni d’immigrazione. La soluzione è stata trovata in questa religione che è servita, secondo l’autrice, da “collante” nazionale.

Così in Israele i problemi familiari sono discussi davanti ai tribunali rabbinici. “La religione ha generato un groviglio ideologico, civico e teologico a spese del buon senso. Milioni di israeliani vi sono rimasti intrappolati e non osano liberarsene”, osserva la scrittrice. Secondo lei aver fatto della religione il criterio dell’identità nazionale fa naufragare “qualunque possibilità di creare una vera nuova Nazione.”

 

Un uomo, una voce, una cittadinanza

Ofra Yeshua-Lyth se la prende anche con il mito della ‘sola democrazia del Medio Oriente’. “Quando i principi della democrazia entrano in conflitto con quanto prescrive l’ebraismo, questa democrazia cede il passo alla religione”, deplora. “L’unità nazionale” e “gli imperativi securitari” sono le “scuse abituali”, scrive.

È esattamente in nome di questa mescolanza di religione e nazionalismo che “gli arabi devono essere descritti soprattutto come crudeli, dei nemici che non transigono sulla messa in discussione dello Stato ebraico”, analizza Ofra Yeshua Lyth. “Che gli arabi possano essere non violenti e privi di qualunque forma di odio ‘innato’ verso gli ebrei è così poco accettabile che qualunque fiero nazionalista israeliano lo nega quasi in preda al panico.”

L’occupazione è quindi sia quello che paralizza la società israeliana che ciò che la fa stare insieme, in una volontà di vivere che si costruisce “contro”. Perché, come dice giustamente la giornalista, “nel registro dei media israeliani, solo i ragazzini che lanciano pietre sono dei ribelli violenti. I criminali che li picchiano sono i nostri cari ragazzi.”

Partendo da questa cruda realtà Ofra Yeshua-Lyth osserva con distacco la dichiarazione di Emmanuel Macron che mette in relazione antisemitismo e antisionismo. “Trovo molto sorprendente che la critica alle politiche, alle azioni e alle leggi israeliane sia definita come ‘antisemitismo’”. Bisogna parlare della discriminazione a danno della popolazione autoctona non ebraica della Palestina in virtù delle leggi israeliane e dell’occupazione militare di vaste zone popolate.

I sionisti farebbero bene a prendere in considerazione la situazione del nostro regime invece di mascherarla con false grida, con la pretesa di essere vittime perseguitate. È vero che l’antisemitismo è vivo e vegeto. Deve essere condannato – così come tutte le altre forme di razzismo, compresa la retorica antiaraba e antimusulmana che è molto presente e aggressiva, nello spazio pubblico israeliano come altrove.”

Ofra Yeshua-Lyth propone uno Stato laico e democratico per tutti quelli che vivono tra il Giordano e il Mediterraneo, per il 20% di popolazione israeliana che è palestinese come per i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania.

“Ciò che mi lega ai palestinesi laici è più importante dell’affinità che potrei avere con gli israeliani religiosi o di destra. Si parla della dimensione patriarcale dell’islam, ma l’ebraismo lo è altrettanto. Sono per uno Stato laico. Non sono ottimista, tuttavia è la sola soluzione, o meglio la sola soluzione logica: uno Stato democratico e laico. Sono per il principio di una persona un voto”, dichiara a MEE.

L’altra rivoluzione da compiere sarebbe accettare che la popolazione ebraica non sia maggioritaria nello Stato così creato. Allora si prospetta lo spettro della questione demografica che tormenta tanti dirigenti israeliani: “La politica deve essere definita dall’ideologia, dalla religione. Gli israeliani hanno paura di essere controllati dai palestinesi. I palestinesi sono persone moderne e laiche. Penso che siano alcuni israeliani che non vorrei veder arrivare al potere.”

Infine, questa ipotesi di uno Stato laico presuppone anche un diritto al ritorno per i palestinesi rifugiati in altri Paesi. “Bisogna ammettere la realtà della Nakba. Non tutti i palestinesi della diaspora vogliono necessariamente tornare. Ma bisogna riconoscere loro questo diritto al ritorno.”

La creazione di una cittadinanza sui generis nello Stato unico sarebbe dunque la panacea? “Non sono ottimista. Il fanatismo religioso è talmente grande, il nazionalismo è così forte che persino i palestinesi di cittadinanza israeliana sono minacciati. Ormai in Israele addirittura le parole ‘sinistra’ e ‘diritti dell’uomo’ sono diventate dei dispregiativi, delle parole estranee,” conclude Ofra Yeshua-Lyth.

 

 

(traduzione di Amedeo Rossi)




Da Israele al Brasile: dichiarazione di guerra alle popolazioni indigene

Ahmad Moussa

28 aprile 2019, Middle East Eye

Sotto la presidenza Bolsonaro, il Brasile sta perpetuando il razzismo e l’oppressione sionista-colonialista

Le recenti affermazioni del presidente brasiliano Jair Bolsonaro sul “perdonare l’Olocausto” hanno innescato le critiche da parte di Israele, ma ciò che non bisogna dimenticare sono i rapporti e l’identità sionisti del Brasile.

Gli osservatori internazionali sono rimasti turbati dalle recenti vittorie elettorali, in Brasile e Israele, dei candidati di estrema destra Bolsonaro e Benjamin Netanyahu, che hanno entrambi sostenuto e messo in atto apertamente politiche genocide contro le popolazioni indigene.

Il Brasile ha rivelato la propria anima nera, riflettendo l’israelizzazione del Paese ai giorni nostri.

La recente dichiarazione di Bolsonaro, secondo cui l’Olocausto può essere “perdonato ma mai dimenticato”, potrebbe sembrare una rottura nell’orientamento sionista, ma ciò è tutt’altro che vero.

Favoreggiamento della Nakba

Al di là della decisione di Bolsonaro di trasferire l’ambasciata brasiliana a Gerusalemme, e delle foto dei suoi due figli che indossano magliette dell’esercito israeliano e del Mossad – facendo pubblicità ai servizi segreti israeliani, noti per terrorizzare i palestinesi – la storia politica del Brasile dimostra una profonda lealtà all’ideologia sionista.

Il Brasile porta avanti il razzismo colonialista e l’oppressione sionista attraverso l’annichilimento della cultura indigena. È stato uno dei primi Paesi a riconoscere lo Stato di Israele, contribuendo e collaborando quindi alla Nakba – o “catastrofe”, l’espulsione, nel 1948, dei palestinesi dalle loro case – e alla pulizia etnica della Palestina tutt’ora in corso.

Il diplomatico brasiliano Ozvaldo Aranha, ex presidente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nel 1947 è stato determinante nel garantire la creazione di Israele.

Aranha promosse la divisione della Palestina in favore del movimento sionista e contro la volontà del popolo palestinese, rinviando per tre giorni la votazione per far sì che si arrivasse all’approvazione con il sostegno della maggioranza.

Vinse poi il Nobel per la Pace per il suo impegno a sostegno degli interessi sionisti.

Il Piano di Partizione dell’ONU ha fornito il precedente giuridico per giustificare la pulizia etnica della Palestina nel 1948, cioè la Nakba, che continua ancora oggi.

Questa procedura irregolare riecheggia oggi in Brasile, con gli attacchi alla popolazione indigena del Paese.


Occultamento di atrocità

La condivisione della linea contro gli indigeni tra Israele e il Brasile ha iniziato ad emergere più chiaramente negli ultimi anni, con la cooperazione per la sicurezza di alto livello durante i Mondiali di calcio in Brasile nel 2014 e le Olimpiadi del 2016.

Il Brasile ha realizzato questi due grandi eventi mondiali a spese della propria popolazione emarginata.

Ha voluto garantire sicurezza e protezione da un potenziale “terrorismo” nascondendo le atrocità e le conseguenze della repressione di stato e della violenza contro i brasiliani emarginati, soprattutto persone indigene nelle favelas ghettizzate e sovrappopolate, simili ai bantustan palestinesi creati da Israele.

Gli attivisti hanno lanciato l’allarme: Israele sta esportando il “modello di sicurezza a Gaza” in Brasile, dove la popolazione indigena è sotto costante minaccia di furto e sfruttamento dei propri territori tradizionali per fini politici ed economici.

Il motivo di questa relazione speciale è che il Brasile vuole imparare dalle tattiche israeliane contro i palestinesi. Tattiche che Israele sta esportando in tutto il mondo.

Campagna memoricida

Il “risanamento”, o “pulizia”, delle aree da parte della polizia brasiliana attraverso meccanismi repressivi è una strategia insegnata dagli agenti della sicurezza israeliani. Promuovere la colonizzazione e la cancellazione delle aree indigene è particolarmente interessante per il Brasile, nello stesso modo in cui Israele opprime la propria popolazione palestinese.

Questi eventi recenti sono utili a ricordarci l’inquietante identità del Brasile e quale strada sta imboccando il Paese.

Con i proclami fermamente pro-israeliani e anti-indigeni di Bolsonaro sull’appropriazione della terra, l’assimilazione e lo sterminio, in Brasile continua l’esportazione israeliana della cancellazione degli indigeni.

Le popolazioni indigene dei due Stati stanno fronteggiando una campagna di cancellazione della memoria; un tentativo di far loro dimenticare il passato, cosicché non possano avere un futuro.

È questo che non può essere perdonato né dimenticato.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ahmad Moussa


Ahmad Moussa è uno studioso e attivista per i diritti umani, nonché collaboratore fisso ed editorialista freelance per varie agenzie stampa internazionali. È docente di questioni indigene e mediorientali e attivista per i diritti umani con un Master in Diritto Internazionale e Diritti Umani. Moussa è attualmente impegnato in una ricerca per un dottorato in Studi sulla guerra.

(traduzione di Elena Bellini)




Venezuela: perché Israele vuole che Maduro venga rovesciato *

Ahmad Moussa

Lunedì 11 febbraio 2019 , Middle East Eye

Il sostegno americano-israeliano al rovesciamento di Maduro si iscrive nel quadro di un più complessivo progetto regionale che prende di mira la solidarietà con la Palestina

*Nota redazionale: Abbiamo deciso di tradurre questo articolo, benché risalga al febbraio scorso, in quanto la crisi venezuelana è diventata di drammatica attualità in questi giorni e il testo che segue offre interessanti indicazioni sul rapporto tra quanto avviene nel Paese latinoamericano e le vicende mediorientali.

Diversi fattori e importanti elementi hanno alimentato l’attuale disastrosa situazione in Venezuela, ma l’ingerenza israeliana negli affari latino-americani è raramente citata.

Dopo la morte del presidente venezuelano Hugo Chávez il suo successore, Nicolás Maduro, ha rapidamente dovuto affrontare le sfide di un’economia sull’orlo del naufragio, di un’iperinflazione e di una mancanza di medicine e prodotti alimentari dovuta alla caduta del prezzo del barile di petrolio nonostante le notevoli riserve del Paese.

Le manifestazioni contro l’aggravamento della situazione socio-economica hanno portato a una polarizzazione e a un’impasse politica. I campi pro e contro il governo si scontrano senza una terza opzione alternativa né speranza di riconciliazione interna.

La comparsa dell’autoproclamato presidente ad interim, Jaun Guaidó, sostenuto da Paesi come gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia e Israele – anche se le Nazioni Unite, la più alta carica giudiziaria del Paese e i militari rifiutano la sua leadership e Maduro ha chiesto elezioni anticipate – pone questa domanda: quali interessi rappresenta?

Lotta a favore dell’autodeterminazione

Il caos politico in Venezuela è il risultato di una combinazione tra l’estrema vulnerabilità di uno Stato petrolifero e le conseguenze delle politiche imperialiste e delle iniziative che alimentano la corruzione interna. Ciononostante il sostegno americano-israeliano al rovesciamento di Maduro si iscrive in un programma più vasto che intende consolidare una campagna antipalestinese in America latina a spese del popolo venezuelano.

Benché nel 1947 la maggioranza dei Paesi dell’America latina abbia appoggiato il piano di partizione [della Palestina] delle Nazioni Unite, che costituì ufficialmente lo Stato di Israele e portò alla Naqba [l’espulsione della popolazione palestinese, ndt.], la regione è stata nettamente favorevole ai palestinesi, e accoglie la più grande presenza palestinese al di fuori del mondo arabo.

La solidarietà con la lotta palestinese a favore dell’autodeterminazione ha raggiunto il suo apogeo durante gli anni di Chávez fino ad oggi, in quanto i dirigenti hanno apertamente criticato le flagranti violazioni del diritto internazionale commesse da Israele. Il Venezuela ha rotto i suoi rapporti diplomatici con Israele nel 2009, in seguito alla sua campagna militare contro Gaza [operazione “Piombo Fuso”, ndt.].

L’Alleanza Bolivariana per i Popoli della nostra America (ALBA) è stata creata dal Venezuela e da Cuba durante l’era di Chávez. Gli Stati Uniti e Israele restano i soli Paesi ad aver votato contro la risoluzione annuale dell’ONU intesa a mettere fine al blocco di più di mezzo secolo contro Cuba. Inoltre il recente voto dell’ONU a favore della creazione di uno Stato palestinese, così come i tentativi fatti dalla Palestina per ottenere il riconoscimento internazionale, beneficiano di un consistente appoggio in America latina, soprattutto in Venezuela.

Sotto l’amministrazione Trump si assiste a un lento e constante cambiamento per imporre delle politiche antipalestinesi, come la riduzione dell’aiuto americano all’agenzia per i rifugiati dell’UNRWA [agenzia ONU per i rifugiati palestinesi nei campi profughi, ndt.] e all’Autorità Nazionale Palestinese, e l’adozione dell’“accordo del secolo” che distrugge ogni speranza per le aspirazioni nazionali palestinesi.

Ideologia neoconservatrice

L’amministrazione Trump ha rafforzato l’estrema destra politica diffondendo l’ideologia neoconservatrice del sionismo cristiano in tutta l’America Latina. Il voto dell’ONU di condanna dello spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme è stato respinto dal Guatemala, dall’Honduras e dal Brasile in un contesto regionale di rafforzamento dei legami “per la sicurezza” con Israele. Paesi come il Cile, il Brasile, l’Argentina, il Costa Rica, la Colombia, il Perù, il Paraguay e l’Ecuador hanno riconosciuto Guaidó.

È estremamente indicativo che l’amministrazione Trump abbia fatto di Elliot Abrams il suo nuovo inviato americano per il Venezuela, rafforzando l’idea che gli Stati Uniti e Israele vedano in questa situazione un’occasione per rovesciare Maduro e instaurare un regime filo-israeliano nel Paese.

Abrams è stato condannato per il suo ruolo nello scandalo Iran-Contra, che implicava un piano americano-israeliano inteso a fornire segretamente armi all’Iran, in un contesto di embargo sulle armi in nome della liberazione degli ostaggi [dell’ambasciata americana a Teheran, ndt.]. Il fine ultimo era finanziare la contro-insurrezione e i guerriglieri, sostenuti dagli Stati Uniti, che lottavano contro il socialismo o il comunismo [del governo sandinista in Nicaragua, ndt.].

Abrams è stato anche implicato nella massiccia violazione dei diritti umani perpetrata da regimi filo-americani nel Salvador e in Guatemala, come dai ribelli nicaraguensi della Contra negli anni ’80, che hanno fatto decine di migliaia di morti.

Prospettive per il futuro

Abrams è stato in seguito graziato dall’amministrazione Bush e nominato consigliere aggiunto alla sicurezza nazionale in vista della promozione di una strategia dell’ex-presidente George H. W. Bush che consisteva nell’ “adozione di un approccio democratico all’estero”, sulla falsariga del ruolo giocato nel fallito tentativo di colpo di Stato contro Chavez.

Abrams è al contempo ferocemente filo-israeliano. Ha criticato l’amministrazione Obama per aver penalizzato l’illegale espansione delle colonie di insediamento nei territori palestinesi, il che fa di lui il candidato ideale per il programma antipalestinese in America latina.

La direzione che sta prendendo il Venezuela non è di buon auspicio per la regione, soprattutto dal punto di vista della solidarietà con la Palestina, vista la storica e attuale ingerenza sionista.

La presa del potere riuscita del Venezuela da parte delle forze filo-americane implicherà il rafforzamento della politica antipalestinese con una strategia interventista che cancelli e “tolga di mezzo” la Palestina da questa regione.

La speranza è nelle mani del popolo venezuelano, della società civile e dei movimenti di base latino-americani. Solo il futuro ci dirà se potranno mettere fine a questo progetto, sostenuto da Israele, di porre fine alla solidarietà con la Palestina nel continente.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ahmad Moussa è uno studioso e attivista per i diritti umani, e collaboratore regolare ed editorialista di numerose agenzie di notizie internazionali. È professore di questioni indigene e mediorientali. È anche attivista per i diritti umani con un master in Diritto internazionale e Diritti umani. Moussa è attualmente coinvolto in una ricerca per un dottorato in Studi sulla guerra.

(traduzione di Amedeo Rossi)




«Un vuoto che nessuno può colmare » : i bambini di Gaza traumatizzati dalla perdita di familiari

Hind Khoudary

Gaza 23 aprile 2019, Middle East Eye

Wassal Sheikh Khalil sapeva che sarebbe morta. Il 13 maggio, durante la cena, l’adolescente di 14 anni ha detto a sua madre: “È il mio ultimo giorno di scuola e l’ultimo giorno in cui ceno con voi.”

Reem Abu Irmana ricorda che sua figlia le ha detto : « Mi spareranno alla testa. Non sentirò il colpo, non proverò dolore.”

Il giorno dopo, mentre decine di migliaia di palestinesi manifestavano a Gaza per denunciare il trasferimento dell’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme, l’inquietante profezia dell’adolescente si è realizzata.

Mentre si trovava in mezzo a una folla di donne e bambini con il suo fratellino Mohammed, Wassal è stata centrata alla testa da un cecchino israeliano. Un altro manifestante stava filmando quando lei è stata colpita e il suo corpo si è accasciato al suolo.

Figura tra i 68 palestinesi uccisi quel giorno.

Secondo la commissione d’inchiesta indipendente delle Nazioni Unite e secondo altre associazioni di difesa dei diritti umani, a partire dal 30 marzo 2018 le forze israeliane hanno ucciso almeno 40 minori nel contesto della Grande Marcia del Ritorno.

Almeno 32 di loro sono stati uccisi da proiettili veri o da scoppi di granate. Secondo la commissione, altri 1.642 minori sono stati feriti da pallottole vere, da scoppi di granate, da pallottole d’acciaio rivestite di gomma e dall’impatto di candelotti lacrimogeni.

Nella piccola striscia di terra che è Gaza, in cui metà della popolazione ha meno di 18 anni, molti ragazzi non si ricordano del periodo precedente gli 11 anni di blocco israeliano. La maggior parte di loro ha già vissuto tre guerre devastanti.

Centinaia di migliaia di rifugiati sono nati a Gaza e non hanno mai visto i villaggi da cui le loro famiglie furono espulse al momento della creazione dello Stato di Israele.

Per molti palestinesi che crescono in condizioni disperate, la Grande Marcia del Ritorno simbolizza un grido collettivo a favore della sopravvivenza.

Tuttavia, un anno dopo, la repressione letale delle manifestazioni da parte dell’esercito israeliano costituisce una nuova esperienza traumatica per i ragazzi di Gaza. L’UNICEF stima che più di 25.000 ragazzi abbiano urgente bisogno di sostegno psico-sociale.

La marcia della vita e della morte

Wassal viveva nel campo profughi di al-Maghazi, nel centro della Striscia di Gaza, con la madre divorziata ed i suoi sei fratelli e sorelle.

Ha partecipato alla Grande Marcia del Ritorno fin dal suo inizio con suo fratello Mohammed, di 12 anni.

«Le abbiamo sempre detto che era rischioso e che avevamo paura che venisse ferita », dice sua madre Reem a Middle East Eye.

Ma la ragazza non demordeva. La mattina del 14 maggio Reem ricorda di aver vietato a Wassal di andare nella zona della manifestazione vicino alla frontiera con Israele.

«Wassal piangeva, mi ha detto : ‘Aspetto questo giorno da tanto tempo, devo andarci, non voglio perdermi questa giornata.’”

Per Nadera Shalhoub-Kevorkian, universitaria palestinese che studia l’impatto dell’occupazione sui ragazzi, la Grande Marcia del Ritorno ha risvegliato in molti giovani palestinesi di Gaza un senso di potere, in circostanze in cui si sentono altrimenti impotenti – pur essendo consapevoli dei rischi.

A marzo, durante una conferenza organizzata dalla Rete per la Salute Mentale UK-Palestina a Londra, Nadera Shalhoub-Kevorkian ha citato un ragazzo di Gaza : «Gaza non è una prigione, è un luogo senza vita. La Marcia del Ritorno è la vita – ma è anche la morte.

Partecipare alla Grande Marcia del Ritorno implica un rischio di morte, di ferite o di mutilazioni. Ma dai ragazzi viene percepito come un atto liberatorio per difendere la vita.»

Molti ragazzi, come Wassal, hanno partecipato alle manifestazioni con un senso di appartenenza e di rendersi utili, ma il pericolo intrinseco alla situazione ha avuto un effetto devastante – non solo per quelli che sono stati uccisi, ma anche per quelli che restano.

Mohammed era accanto a Wassal quando è stata uccisa davanti ai suoi occhi.

«É improvvisamente caduta a terra, le usciva il sangue, non si muoveva più », racconta il ragazzino a MEE.

Mohammed e Wassal sono sempre stati vicini per via della ridotta differenza d’età, precisa la madre Reem.

Dopo la morte della sorella, Mohammed ha accusato lo choc. Si è depresso, è diventato violento, non riesce più a concentrarsi a scuola e bagna spesso il letto – il che ha spinto uno dei vicini della famiglia, uno psicologo, ad iniziare a curare il ragazzo preso nella morsa del suo dolore.

Anche adesso, aggiunge Reem, suo figlio continua a parlare di Wassal come se lei fosse sempre lì e appende fotografie della sorella in tutta la casa. Nonostante il sostegno psicologico che ha ricevuto, la maggior parte dei sintomi del suo trauma permangono.

Perdita del migliore amico e confidente

A Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza, gli Shalabi conoscono quello che ha passato la famiglia di Wassal.

L’8 febbraio Hassan Shalabi, di 14 anni, è stato colpito al petto dalle forze israeliane mentre partecipava a una manifestazione.

Meno di due mesi dopo, la morte del ragazzo lascia una ferita aperta nella vita dei suoi familiari ed amici.

«Io ero la sorella, l’amica e la confidente di Hassan», dice Aseel Shalabi, sforzandosi di parlare di suo fratello senza piangere. «Hassan ha lasciato un immenso vuoto che nessuno può colmare. »

Abdel Fattah Shalabi, uno dei fratelli di Hassan, ha sempre dormito sullo stesso materasso di Hassan. Mentre gli altri membri della famiglia parlavano con MEE del fratello morto, lui è rimasto in silenzio, gli occhi pieni di lacrime.

«Hassan è scomparso improvvisamente, è molto difficile abituarsi a vivere senza di lui», confida Fatima Shalabi, la madre di Hassan.

Fatima e suo marito, Iyad, spiegano che i loro figli sono gravemente colpiti da questa perdita, sono in preda a incubi, insonnia e depressione.

Il più piccolo, di 4 anni, non capisce ancora che suo fratello maggiore è morto, ma spesso tocca delle foto di Hassan e le indica col dito.

«Cerco di far coraggio ai miei figli, dicendo loro che Hassan è in un mondo migliore», dice Iyad Shalabi.

Un mese dopo la morte di Hassan i suoi compagni di classe sono ancora sotto choc.

«Hassan non è soltanto il mio migliore amico, è la mia anima gemella. Ho passato più tempo con lui di chiunque altro », confida Ahmed Abu Qusai, di 14 anni.

« Ogni venerdì ci sedevamo sullo stesso sedile dell’autobus per andare alla marcia», continua – tranne nel fatidico giorno in cui il suo amico è stato ucciso, quando Ahmed, che era malato, è rimasto a casa.

Rasmi Abu Sabla, di 16 anni, racconta a MEE che tutti i giorni giocava a calcio con Hassan, Ahmed e altri ragazzi del quartiere.

«Le partite di pallone non sono più le stesse », dice. « Hassan era il miglior giocatore e il calcio non è più lo stesso dopo la sua morte. »

I danni emotivi di un’intera generazione

Secondo il Consiglio Norvegese per i Rifugiati (NRC), la Grande Marcia del Ritorno ha causato un’acuta sofferenza tra i ragazzi di Gaza.

In un rapporto pubblicato a fine marzo l’NRC ha segnalato che i giovani ragazzi pativano un grado di sofferenza elevato a causa della perdita di un membro della famiglia.

Il dottor Sami Oweida, consulente psichiatrico del programma di salute mentale comunitario a Gaza, ha segnalato a MEE che dall’inizio della Grande Marcia del Ritorno molti bambini bagnano il letto, hanno difficoltà a scuola, soffrono di incubi, di paure e di ansia.

«I ragazzi palestinesi presentano i tassi più elevati di disturbi mentali di tutti i Paesi del Medio Oriente», afferma.

Durante la conferenza «Infanzia palestinese» a Londra, la psichiatra palestinese Samah Jabr ha messo in guardia dal separare la diagnosi psicologica dal contesto politico.

«L’occupazione incide sulla percezione che i ragazzi hanno di sé stessi, del mondo e delle loro relazioni», ha affermato. “Questo crea una patologia psicologica che va oltre le definizioni ufficiali conosciute in psichiatria.”

«Non dobbiamo cercare di inserire l’esperienza dei palestinesi nel quadro abituale della psicopatologia individuale.

Dobbiamo invece discutere di emancipazione, di rappresentazione, di creazione di modelli – di ciò che aiuta i palestinesi ad uscire dalla loro condizione di oggetti e di individui patologici e a recuperare il loro potere.»

Kate O’Rourke, direttrice del NRC per la Palestina, insiste anche lei sull’importanza fondamentale di affrontare il contesto politico.

«Le violenze di cui i ragazzi sono quotidianamente testimoni, compresa la perdita di persone care, nel contesto del devastante assedio di Israele, che perpetua ed aggrava la crisi umanitaria a Gaza, hanno provocato danni emotivi a un’intera generazione », spiega a MEE.

«Ci vogliono anni di lavoro con questi ragazzi per attenuare l’impatto dei traumi e restituire loro la speranza nel futuro.

Gaza, come il resto del territorio palestinese occupato, ha disperatamente bisogno di una soluzione politica giusta e duratura – anche per i profughi della Palestina – che metta al centro la vita, il benessere e la dignità dei palestinesi e degli israeliani.»

Tuttavia, in assenza di soluzioni politiche in vista, ai ragazzi di Gaza non restano altro che dei palliativi per curare il loro dolore e i loro traumi.

Ogni settimana la famiglia Shalabi si reca sulla tomba di Hassan. Pensano che i fiori che depositano accanto alla sua tomba lo faranno felice e sostengono che, anche se il suo corpo se ne è andato, la sua anima resterà per sempre.

Chloé Benoist ha collaborato a questo reportage da Londra.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)