I palestinesi che vivono in Israele sono dimenticati dall’“accordo del secolo” di Trump

Awad Abdelfattah

11 giugno 2019 – Middle East Eye

I palestinesi all’interno dei confini israeliani devono unirsi ai rifugiati fuori da Israele per contrastare questo piano di liquidazione dei loro diritti nazionali

I palestinesi all’interno di Israele non sono mai stati considerati dalla comunità internazionale come parte del conflitto arabo-sionista, ma piuttosto come un gruppo etnico non ebraico nello Stato di Israele e che subisce discriminazioni.

L’“accordo del secolo”, che va avanti da quando il presidente USA Donald Trump ha assunto il potere, è stato preceduto da un duro colpo contro milioni di rifugiati palestinesi come il taglio agli aiuti finanziari all’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite che fornisce loro servizi fondamentali.

Lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme è stato un ulteriore passo inteso a eliminare il più elementare principio della causa palestinese: il diritto dei rifugiati palestinesi alle proprie case nella Palestina storica.  

Pochi hanno dedicato attenzione al fatto che i rifugiati palestinesi, sparsi nei campi di Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria e altri luoghi, sono parenti di primo grado dei palestinesi all’interno di Israele. Io ho parenti in campi profughi di Libano, Giordania e Siria. Nel 1992 incontrai per la prima volta un’allora settantanovenne zia che, insieme a una serie di altri familiari, era stata obbligata a scappare dal nostro villaggio nel 1948. Arrivò dal Libano dopo aver ottenuto un permesso israeliano per visitare i parenti. La sua visita ci provocò grande tristezza e pena, dopo che ci sorprese chiedendoci di cercare di sapere dalle autorità israeliane il luogo in cui si trovava il corpo di uno dei suoi tre figli, ucciso durante la brutale invasione israeliana del Libano nel 1982.

Quello che ci angosciò ulteriormente fu il suo desiderio di passare il resto della sua vita con noi, nel luogo in cui era nata e cresciuta – ma l’apartheid israeliana non l’avrebbe mai permesso, perché non era ebrea. Questa storia straziante non è che un simbolo delle sofferenze di milioni di rifugiati che stanno languendo in condizioni spaventose – comprese guerre – in attesa di tornare a casa da più di settant’anni.

La “Legge del Ritorno” israeliana concede il diritto solo agli ebrei, di qualunque parte del mondo, di immigrare, e in molti casi di vivere in case da cui questi rifugiati sono stati espulsi. Ogni conferenza o iniziativa internazionale di pace intesa a trovare una soluzione al problema palestinese ha ignorato questi diritti nazionali dei rifugiati, e persino la loro stessa esistenza.

La più deludente e frustrante tra queste furono gli accordi di Oslo del 1993, che li presero di sorpresa, insieme al resto del popolo palestinese – soprattutto i rifugiati.

Questa frustrazione derivava dall’approvazione da parte della dirigenza dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) di escludere dall’accordo la comunità di 1.5 milioni di palestinesi sopravvissuti alla pulizia etnica del 1948 condotta dalle bande sioniste, e che da allora hanno vissuto sotto un sistema di discriminazioni, furto di terre, de-nazionalizzazione e altre forme di oppressione.

Aggiungere la beffa al danno

L’imminente “accordo del secolo” USA ha solo aggiunto la beffa al danno. Ma, contrariamente ad Oslo – che all’epoca sembrò a molti come una svolta fondamentale e un promettente percorso verso una vera pace – l’accordo di Trump è visto da molti palestinesi come un piano israelo-americano per liquidare definitivamente i diritti nazionali e politici di tutti i palestinesi, anche di quelli che vivono all’interno dei confini israeliani del 1948.

La cosa più umiliante riguardo a questo accordo è il modo in cui affronta come una questione economica la tragedia pluridecennale dei diritti umani dei palestinesi.

L’Arabia Saudita ha annunciato che agli uomini d’affari palestinesi con passaporto israeliano potrebbe essere concesso un permesso di residenza permanente nel regno: “Come parte di una tendenza al disgelo dei rapporti tra Israele e l’Arabia Saudita, il nuovo piano consentirà anche agli arabo-israeliani di lavorare in Arabia Saudita,” ha sottolineato un articolo sulla rivista economica israeliana “Globes”.

Questo annuncio ha sollevato tra i dirigenti politici e intellettuali palestinesi seri sospetti che si tratti di un passo nel costante processo di normalizzazione con il nemico e un mezzo per la promozione dell’“accordo del secolo” – un accordo già rifiutato ovunque dai palestinesi.

Questo approccio è in consonanza con la politica ufficiale israeliana, perseguita dal 1948, di domare e cooptare i palestinesi all’interno di Israele. Il recente cambiamento di atteggiamento dei media sauditi, degli Emirati e del Bahrain nei confronti di Israele mostra chiaramente una spinta per preparare l’opinione pubblica saudita alla normalizzazione con Israele.

Lotta contro l’apartheid        

Negli ultimi anni, dato che Israele ha virato ulteriormente verso l’estrema destra, il panorama geografico e politico della Palestina è diventato un’entità unica sottoposto a un unico sistema di separazione e colonialismo d’insediamento. Questa deriva di fatto del progetto colonialista contrasta con la soluzione dei due Stati sostenuta a livello internazionale.

Ora l’amministrazione Trump, attraverso l’imminente “accordo del secolo”, ha inflitto un colpo definitivo all’illusione dei due Stati. Sta legittimando la continua colonizzazione sionista di tutta la Palestina, aprendo la porta a ulteriori guerre e spargimenti di sangue.

Poiché una delle cause più serie al mondo dal punto di vista politico e umanitario viene ridotta dalla più grande potenza imperialista al mondo a un piano economico, ovunque i palestinesi – compresi quelli con la cittadinanza israeliana – si troveranno a dover affrontare una sfida enorme.

Devono cercare l’unità per ingaggiare una prolungata lotta per smantellare non solo l’assedio di Gaza, ma tutto il sistema dell’apartheid israeliana e sostituirlo con un’entità democratica ed egualitaria per tutti.

Voci che invocano l’unificazione della politica palestinese e movimenti di base su questa opzione stanno crescendo. Li ispira la lotta contro l’apartheid del Sud Africa.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Awad Abdelfattah

Awad Abdelfattah è un giornalista politico ed ex-segretario generale del partito Balad [partito arabo-israeliano antisionista e di sinistra, ndtr.]. È coordinatore della “Campagna per lo Stato unico democratico”, con sede ad Haifa, fondata alla fine del 2017.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’ “accordo del secolo” di Jared Kushner è stato ideato per fallire fin dall’inizio

Bill Law

6 giugno 2019 – Middle East Eye

Al di là delle critiche, Kushner sta giocando un’importante partita sulla questione israelo-palestinese

Il genero del presidente USA Donald Trump e negoziatore per il Medio Oriente, Jared Kushner, non rilascia molte interviste – perciò quando lo fa, gli organi di informazione non sono solo attenti, ma ci si buttano a capofitto. E alcuni settori dei media statunitensi lo hanno fatto, dopo l’intervista a Kushner di Axios della [emittente televisiva americana via cavo, ndr.] HBO del 2 giugno.

Slate’ [rivista americana in rete, ndtr.] ha pubblicato un articolo dal titolo: “Le più imbarazzanti risposte dell’intervista di Jared Kushner ad Axios”. ‘Vanity Fair’ ha commentato: “In un’intervista comicamente disastrosa, il ‘primo genero’ ha imbastito risposte su nazionalismo, rifugiati, Arabia Saudita e sul suo piano di pace per il Medio Oriente.” La CNN è stata più gentile, optando per una disamina selettiva punto per punto delle “29 righe più assurde” dell’intervista.

L’ipotesi di queste ed altre apprezzate pubblicazioni nell’establishment dei media progressisti, che a Trump piace odiare, è che Kushner è al massimo un perfetto idiota, che si aggira beatamente in un paesaggio complicato senza avere idea dei pericoli in agguato – che è un ragazzino ricco e privilegiato con una storia fatta di automobili e di affari immobiliari ed una moglie che è la figlia preferita del presidente, e che è troppo complicato per lui.

Vincere perdendo

Queste convinzioni sono errate. Fin dal momento in cui a Kushner è stato assegnato l’incarico sul Medio Oriente, ha giocato una partita subdola, e quindi molto efficace, a favore sia del movimento dei coloni in Cisgiordania che dell’amico di famiglia Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano.

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Kushner, la cui fondazione di famiglia ha finanziato generosamente i progetti dei coloni, ha costruito un’attenta strategia atta a vincere perdendo.

L’ “accordo” non è mai stato pensato perché funzionasse.

Piuttosto, il suo modus operandi consiste nel costringere i palestinesi in un angolo da cui non c’è via di fuga e in cui l’unica risposta all’accordo di pace è “no”.

Kushner ha imparato questo trucco nel periodo in cui pare abbia acquistato proprietà con affitto bloccato, scacciando gli inquilini, ristrutturando gli appartamenti e poi rimettendoli sul mercato come proprietà di lusso.

É un gioco al massacro: una combinazione di cancellazione di servizi e di offerta di qualche compensazione finanziaria, ben impacchettata all’interno di minacce velate e non tanto velate, sulla linea di “accettate questo o le cose andranno solo peggio”. Kushner ha accuratamente applicato all’ “accordo del secolo” in Medio Oriente le lezioni apprese a Manhattan.

Ha colto la sua opportunità quando Trump ha sorpreso il mondo vincendo le presidenziali del novembre 2016. Nel dicembre di quell’anno Trump ha annunciato che l’avvocato fallimentarista David Friedman veniva nominato ambasciatore USA in Israele.

Nel marzo 2017 Friedman, che ha alle spalle una lunga storia di sostegno all’illegale movimento dei coloni in Cisgiordania, è stato debitamente confermato dal Senato. A Kushner è stato affidato il portafoglio del Medio Oriente, mentre un altro avvocato di Trump e strenuo difensore dei coloni, Jason Greenblatt, lo ha affiancato in qualità di inviato.

Uccidere la soluzione di due Stati

Kushner ha convinto il presidente che il suo primo viaggio oltreoceano avrebbe dovuto essere in Arabia Saudita nel maggio 2017. In quel momento Kushner aveva già instaurato uno stretto rapporto di lavoro con il vice principe ereditario Mohammed Bin Salman, che in seguito è diventato il principe ereditario. Un elemento centrale della strategia di Kushner è stato allontanare i sauditi dall’iniziativa araba di pace proposta nel 2002 dall’ex re saudita Abdullah, che all’epoca era principe ereditario.

Il piano di Abdullah includeva il riconoscimento di un credibile Stato palestinese a fianco di Israele. Quando l’ Arabia Saudita ed altri Stati del Golfo, in particolare gli Emirati Arabi Uniti, si sono avvicinati ad Israele, Kushner sembrava, almeno in privato, essere riuscito a distruggere la soluzione di due Stati di Abdullah.

Nel dicembre 2017 il presidente ha annunciato che l’ambasciata USA sarebbe stata spostata a Gerusalemme. Gli esperti erano sconcertati e Trump è stato attaccato perché concedeva qualcosa senza ottenere niente in cambio. Ma Kushner non mirava a nulla: voleva semplicemente fare una dichiarazione forte di fronte ai palestinesi. Lo ha fatto e gli USA l’hanno spuntata: il 14 maggio 2018, nel settantesimo anniversario della fondazione di Israele, l’ambasciata è stata aperta a Gerusalemme, mentre a circa 90 chilometri di distanza i palestinesi venivano abbattuti a fucilate sul confine di Gaza.

In quel momento il presidente ha annunciato che gli USA stavano abbandonando la soluzione dei due Stati. Mettendo sale sulla ferita, Washington ha tagliato più della metà del previsto finanziamento (65 milioni di dollari dei 125 milioni di aiuti complessivi) all’UNRWA, l’agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi che assiste oltre cinque milioni di rifugiati registrati. Lentamente ed inesorabilmente stava avvenendo un giro di vite.

Cadono colpi di maglio

Ad agosto 2018 gli USA hanno tagliato più di 200 milioni di dollari di aiuti economici, e poi hanno proseguito cancellando il resto dei finanziamenti all’UNRWA. A settembre è stato chiuso uno dei pochi programmi di aiuti rimasti, 25 milioni di dollari per i palestinesi negli ospedali di Gerusalemme est. Poi è stato chiuso l’ufficio di Washington dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, il contatto diplomatico formale con i palestinesi.

Mentre i colpi di maglio continuavano a cadere, i governi occidentali non hanno detto niente. Kushner ha capito, al di là di ogni dubbio, che stava vincendo.

La mossa successiva sono state le Alture del Golan, annesse da Israele con il pieno appoggio ed approvazione dell’amministrazione Trump a marzo. La vittoria di Netanyahu nelle elezioni israeliane di aprile doveva essere la ciliegina sulla torta per poi procedere con l’annessione delle colonie della Cisgiordania nel grande Israele.

Purtroppo per Netanyahu e Kushner, è intervenuto il destino, sotto forma di Avigdor Lieberman. L’ex Ministro della Difesa e acerrimo rivale di Netanyahu ha rifiutato di entrare nella coalizione, mandando tutto all’aria e costringendo a nuove elezioni a settembre.

Trump non è stato contento. Il suo piano, che guardava al 2020 e alla speranza della rielezione, era di lasciare la sua impronta avvantaggiando Israele e mettendo i palestinesi al loro posto. “Israele è proprio messo male con le elezioni”, ha detto. “Bibi (Netanyahu) è stato eletto, adesso all’improvviso dovranno passare di nuovo per un processo elettorale, fino a settembre? É ridicolo. Perciò noi non siamo contenti di questo.”

Incrollabile fiducia

Intanto gli Stati arabi del Golfo hanno frenato l’entusiasmo per l’accordo di Kushner. Il padre di Bin Salman, il re Salman, ha criticato il sostegno di suo figlio a Israele, riabilitando pubblicamente la soluzione di due Stati. L’accordo che non doveva essere un accordo si sta allontanando e Kushner sta per vedere il suo lavoro completamente cancellato.

Kushner non ha una buona faccia da poker. La sua arroganza e la certezza di essere vincente trapelano in ogni cosa dica e faccia. Ma i suoi critici sbagliano a sottovalutarlo.

Kushner finora ha giocato una significativa partita. La sua fiducia di vincere a favore del movimento dei coloni e di un Israele più grande, di Netanyahu o di chiunque gli succederà, e di suo suocero il presidente, resta assolutamente incrollabile.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Bill Law

Bill Law è un giornalista vincitore del premio Sony. É entrato alla BBC nel 1995 e dal 2002 è stato corrispondente dal Medio Oriente. Si è recato molte volte in Arabia Saudita. Nel 2003 è stato uno dei primi giornalisti a informare sull’inizio della rivolta che ha travolto l’Iraq. Il suo documentario ‘Il Golfo: armato e pericoloso’, che è stato trasmesso alla fine del 2010, ha anticipato le rivoluzioni che sono diventate la Primavera Araba. In seguito ha lavorato sulle rivolte in Egitto, Libia e Bahrein. É stato anche corrispondente dall’Afghanistan e dal Pakistan. Prima di lasciare la BBC nel 2014, Law è stato il suo analista esperto del Golfo. Adesso lavora come giornalista indipendente che si occupa del Golfo.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




L’inviato USA dice che Israele ha ‘il diritto’ di annettersi parte del territorio della Cisgiordania: intervista al NYT

MEE e Agenzie

8 giugno 2019 – Middle East Eye

L’Autorità Nazionale Palestinese ha denunciato le affermazioni di David Friedman in quanto ‘non hanno nulla a che vedere con la logica, la giustizia o la legge’

L’ambasciatore USA in Israele ha detto al New York Times che Israele ha il diritto di annettersi almeno “parte” della Cisgiordania occupata, facendo considerazioni che probabilmente accentueranno l’opposizione palestinese a un piano USA atteso da lungo tempo.

I dirigenti palestinesi hanno rigettato il piano prima ancora che sia totalmente reso noto, facendo riferimento a una serie di iniziative da parte dell’amministrazione del presidente USA Donald Trump che secondo loro mostra la sua irrimediabile parzialità a favore di Israele.

Nell’intervista pubblicata sabato dal New York Times l’ambasciatore USA in Israele David Friedman ha affermato che un certo livello di annessione della Cisgiordania sarebbe legittimo.

A determinate condizioni penso che Israele abbia il diritto di tenersi parte della Cisgiordania, ma difficilmente tutta,” ha detto.

Non è chiaro a quali territori della Cisgiordania si riferisca Friedman e se la presa di possesso da parte di Israele rientrerebbe in un accordo di pace che includa scambi di terre – un’idea ventilata in precedenti negoziati – piuttosto che un’iniziativa unilaterale come l’annessione, ha detto la Reuter [agenzia di notizie inglese, ndtr.].

Il segretario generale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) Saeb Erekat ha condannato sulle reti sociali le affermazioni di Friedman.

Nel contempo un portavoce dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha affermato che Friedman è una delle molte figure di rilievo della politica USA che sul problema israelo-palestinese sono “estremiste” e mancano di “maturità politica”.

Il ministero degli Esteri dell’ANP ha affermato che sta pensando di presentare sulla questione una denuncia alla Corte Penale Internazionale (CPI).

In base a quale logica Friedman pensa che Israele abbia il diritto di annettersi parte della Cisgiordania?” ha chiesto domenica il ministero in un comunicato stampa. “Su quale realtà basa la sua convinzione? Sulla legge internazionale che vieta l’annessione di territori con la forza? O sulla realtà imposta dalle autorità dell’occupazione?”

Il ministero ha proseguito chiamando Friedman una “persona ignorante in politica, in storia e in geografia e che appartiene allo Stato delle colonie…(Egli) non ha niente a che vedere con la logica, la giustizia o la legge finché è al servizio dello Stato dell’occupazione, che egli è desideroso di difendere con ogni mezzo.”

Sabato il centro israeliano di monitoraggio delle colonie Peace Now ha chiesto a Trump di rimuovere Friedman dal suo incarico se vuole che i suoi tentativi di pace abbiano una qualche credibilità.

L’ambasciatore Friedman è un cavallo di Troia inviato dalla destra dei coloni, che sabota gli interessi di Israele e le possibilità di pace. Il prezzo sarà pagato dagli abitanti dell’area, non da Friedman o Trump. Se intende fungere da mediatore corretto, stasera il presidente USA dovrebbe mandare Friedman a fare i bagagli,” avrebbe detto Peace Now citato da Haaretz.

La fondazione di uno Stato palestinese nei territori, compresa la Cisgiordania, che Israele ha occupato nella guerra dei Sei Giorni del 1967, è stata al centro di ogni piano di pace in Medio Oriente del passato. Tuttavia i palestinesi hanno sempre più spesso affermato che la soluzione dei due Stati, come è nota, è da tempo diventata impraticabile a causa dei tentativi israeliani di consolidare il controllo sulle terre palestinesi e incrementare la costruzione di colonie illegali.

Alcuni sostengono che lo status quo rende una soluzione per uno Stato unico con uguali diritti per cittadini sia israeliani che palestinesi l’unica opzione equa per garantire l’autodeterminazione e i diritti umani per tutti. Non è stata fissata nessuna data certa per la presentazione del piano dell’amministrazione Trump, comunemente noto come l’accordo del secolo, anche se alla fine di questo mese si terrà in Bahrein una conferenza sui suoi aspetti economici.

Le affermazioni pubbliche rese da funzionari dell’amministrazione USA suggeriscono finora che il piano si baserà in modo consistente sull’appoggio finanziario all’economia palestinese, per la maggior parte con fondi degli Stati arabi del Golfo, in cambio di concessioni sul territorio e sulla fondazione di uno Stato.

Assolutamente l’ultima cosa di cui il mondo ha bisogno è uno Stato fallito palestinese tra Israele e la Giordania,” ha affermato Friedman nell’intervista al Times. “Forse non lo accetteranno, forse non risponde alle loro condizioni minime. Ci basiamo sul fatto che il giusto piano, nel momento giusto, col tempo riscuoterà la giusta reazione.”

Friedman, un fiero sostenitore delle colonie illegali israeliane, ha detto al Times che il piano di Trump mira a migliorare la qualità della vita dei palestinesi ma non è in grado di ottenere “una soluzione permanente del conflitto.”

Comunque ha detto che gli Stati Uniti intendono avere uno stretto coordinamento con la Giordania, alleato arabo, che potrebbe affrontare rivolte tra la vasta popolazione palestinese riguardo a un piano percepito come apertamente favorevole a Israele. I palestinesi rifiutano in modo massiccio un piano centrato sull’economia per risolvere un conflitto durato 71 anni che ha portato all’espulsione forzata e all’esilio di milioni di rifugiati e all’imposizione di un’occupazione militare brutale e discriminatoria su quelli che sono rimasti.

La pubblicazione dell’accordo del secolo si prevede sarà ulteriormente rimandata dopo che il parlamento israeliano ha convocato elezioni anticipate per settembre, le seconde di quest’anno.

Il piano potrebbe essere considerato troppo delicato da essere reso noto nel corso della campagna elettorale.

In aprile, durante la campagna per le prime elezioni generali [di quest’anno], il primo ministro Benjamin Netanyahu si è impegnato ad annettere colonie a Israele, un’iniziativa a lungo sostenuta da molti parlamentari della sua alleanza di destra e di partiti religiosi.

In seguito alla continua espansione delle colonie da parte dei successivi governi di Netanyahu, più di 600.000 coloni ebrei vivono ora in Cisgiordania e nella Gerusalemme est occupata, in violazione delle leggi internazionali.

Un funzionario USA, parlando in forma anonima, ha detto alla Reuter: “Nessun piano per l’annessione unilaterale da parte di Israele di qualunque parte della Cisgiordania è stato presentato da Israele agli USA, né è in discussione.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele: perché il parlamento convoca nuove elezioni ?

Giovedì 30 maggio 2019 – MEE

MEE esamina le ragioni per cui Benjamin Netanyahu non è riuscito a formare un governo e gli avvenimenti che ne sono seguiti

In seguito al fallimento del tentativo del Primo Ministro Benjamin Netanyahu di formare un governo di coalizione prima di mercoledì a mezzanotte e al conseguente scioglimento della Knesset [parlamento israeliano, ndtr.], approvato con 74 voti contro 45 dai deputati israeliani, Israele terrà nuove elezioni legislative il prossimo 17 settembre.

Nonostante avesse proclamato con sicurezza la propria vittoria alle elezioni legislative del 9 aprile scorso, Benjamin Netanyahu ha visto la sua autorità pesantemente compromessa da questi sviluppi che derivano dalla sua incapacità di formare un governo di coalizione, nonostante quanto si attendeva.

Nello scrutinio del mese scorso il Likud di Netanyahu e i partiti di destra e religiosi considerati suoi alleati naturali hanno ottenuto una maggioranza di 65 seggi su 120.

La ragione principale del fallimento del Primo Ministro è stata la sua incapacità di ottenere il sostegno di ‘Israel Beitenu’, il partito di estrema destra guidato dal suo ex Ministro della Difesa Avigdor Lieberman, che nell’ultimo scrutinio ha ottenuto cinque seggi alla Knesset.

Lieberman ha dichiarato che non avrebbe fatto parte di un governo in cui sedessero anche i partiti ultra-ortodossi Shas e ‘Giudaismo unito della Torah’, a causa di un disaccordo relativo ad un progetto di legge sul servizio militare.

Quest’ultimo obbligherebbe gli ‘haredim’ (ultra-ortodossi), che si occupano dello studio della Torah, a entrare nelle forze armate israeliane – obbligo dal quale sono attualmente esentati. Avigdor Lieberman afferma da tempo che gli uomini israeliani dovrebbero suddividersi equamente l’onere del servizio militare.

Mercoledì, sulla sua pagina Facebook, Lieberman ha addossato al Likud la responsabilità della convocazione di nuove elezioni, affermando che il partito aveva rifiutato di votare il progetto di legge ultra-ortodosso.

Tuttavia, poche ore prima di mezzanotte, il portavoce del Likud, Jonathan Urich, ha twittato : «Non si tratta di servizio militare né di ‘principi’. Lieberman vuole distruggere Netanyahu. Tutto il resto sono chiacchiere. »

Anche se è molto improbabile che Lieberman possa vincere le prossime elezioni, gli ultimi avvenimenti sembrano aver notevolmente rafforzato la sua posizione, attribuendogli verosimilmente alle prossime elezioni il ruolo di “ago della bilancia”.

Alcuni commentatori hanno anche visto le azioni di Avigdor Lieberman come un tentativo di rafforzare la propria posizione nella corsa alla guida del governo una volta che sarà terminata l’era Netanyahu.

Quinta elezione in dieci anni

Se da un lato lo scioglimento del parlamento israeliano ha permesso a Benjamin Netanyahu di evitare quello che per lui è lo scenario peggiore – cioè che il Presidente israeliano Reuven Rivlin scegliesse un’altra persona per cercare di formare un governo – esso ha riportato il Paese di fronte alla prospettiva di un’altra campagna elettorale divisiva.

Nessun partito ha mai ottenuto la maggioranza assoluta alla Knesset, facendo dei governi di coalizione la norma, ma lo svolgimento di elezioni così ravvicinate è senza precedenti nella storia di Israele. Lo scioglimento della Knesset significa che Israele terrà la quinta elezione dal 2009.

Benjamin Netanyahu, che nell’attesa resta in carica, dovrebbe pur sempre diventare a luglio il Primo Ministro israeliano più a lungo in carica, superando il padre fondatore di Israele, David Ben Gurion. A 69 anni, Netanyahu ha chiaramente fatto sapere di avere l’intenzione di ripresentarsi e di vincere queste elezioni.

La sfida non potrebbe essere più importante per il dirigente israeliano, che è di fronte a tre mesi di indagine per corruzione. Netanyahu ha negato qualunque azione illecita in questi affari e dovrebbe dichiararsi non colpevole in un’udienza preliminare fissata per l’inizio di ottobre dal procuratore generale, che lo scorso febbraio ha annunciato l’intenzione di incriminare il Primo Ministro.

Dopo le elezioni di aprile l’attenzione dell’opinione pubblica era del resto meno incentrata sulla formazione della coalizione che sulle iniziative che i sostenitori di Netanyahu avrebbero potuto prendere in parlamento per garantirgli l’immunità.

Non c’è alcun dubbio che Netanyahu avrebbe preferito elezioni più vicine, ma in base alla legge del Paese le campagne elettorali israeliane devono durare almeno 90 giorni, da cui la data del mese di settembre.

Ora, la data di queste nuove elezioni, che cade appena due settimane prima dell’udienza preliminare del suo processo, sembra escludere le sue possibilità di beneficiare dell’immunità, anche se le vincesse.

Un’altra sfida Netanyahu-Gantz ?

Anche se finora il Likud ha serrato i ranghi intorno a Netanyahu, questo potrebbe cambiare se i membri del partito avvertissero che il Primo Ministro è in una posizione di debolezza, incapace di formare una coalizione. Gideon Saar e Israel Katz sono possibili rivali di Netanyahu all’interno del Likud.

Benny Gantz sarà probabilmente di nuovo uno dei principali rivali di Benjamin Netanyahu nella lotta per la carica di Primo Ministro. Benché sia nuovo alla politica, Gantz, ex capo di stato maggiore, si è rivelato un valido rivale nelle elezioni di aprile.

Figlio di sopravvissuti all’Olocausto, Benny Gantz ha servito nell’esercito dal 1977 al 2015, data in cui si è dimesso dalla sua carica di comandante.

Ha recentemente creato un partito di centro, ‘Blu e Bianco’, che ha fatto campagna elettorale in aprile promettendo un governo pulito, pace e sicurezza. Il partito ha ottenuto 35 seggi alla Knesset, tanti quanti il Likud.

‘Blu e bianco’ conta tra i suoi esponenti più in vista Yair Lapid, ex Ministro delle Finanze (di centro-sinistra) e Moshe Ya’alon, ex Ministro della Difesa (di destra).

Benny Gantz ha invitato a proseguire le trattative di pace con i palestinesi, salvaguardando nel contempo gli interessi israeliani in materia di sicurezza. Ha detto che avrebbe fatto delle concessioni territoriali ai palestinesi, ma ha evitato la questione della creazione di uno Stato palestinese.

Da parte sua prima delle elezioni di aprile Benjamin Netanyahu aveva annunciato che, se avesse ottenuto un altro mandato, avrebbe dichiarato la sovranità israeliana sulle colonie nella Cisgiordania occupata – cioè una possibile annessione.

Anche le sue strette relazioni con il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump dovrebbero rivestire un ruolo importante nella campagna elettorale.

Tuttavia è difficile dire come le vicissitudini politiche in Israele influenzeranno le prospettive di riuscita del piano di pace elaborato dall’amministrazione Trump, noto come l’accordo del secolo, il cui annuncio viene rinviato da molto tempo.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Perché la Germania ha condannato il BDS

Nada Elia

Giovedì 23 maggio 2019 – Middle East Eye

La risoluzione tedesca non è la prima: si aggiunge nella stessa linea di precedenti risoluzioni simili adottate dalla Francia e dal Regno Unito

Il 17 maggio il Bundestag, il parlamento tedesco, ha adottato una mozione che condanna il BDS, definendolo “antisemita”.

Questa risoluzione non vincolante, proposta dai cristiano-democratici e dai socialdemocratici di centro sinistra, che fanno parte della coalizione al potere, ha raccolto l’appoggio di diversi partiti tedeschi, tra cui il partito liberal-democratico e i Verdi.

Il partito di estrema destra AfD (Alternativa per la Germania) ha presentato una propria mozione che chiedeva la messa al bando totale del movimento BDS, mentre il partito di estrema sinistra tedesca, Die Linke, non ha appoggiato la mozione del governo, ma ne ha presentato una propria che chiedeva una condanna di tutte le dichiarazioni antisemite del BDS.

Una spiegazione convincente

Poco dopo hanno iniziato a circolare articoli allarmisti, alcuni dei quali affermavano che la Germania era “il primo Paese al mondo a rendere illegale il BDS.”

Per esempio, un’intervista con l’economista politico che vive a Berlino Shir Hever [studioso israeliano degli aspetti economici dell’occupazione dei territori palestinesi, ndtr.] inizia così: “Il parlamento tedesco, il Bunderstag, ha appena adottato un testo legislativo senza precedenti che condanna il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni [contro Israele], noto con l’acronimo BDS. Ha considerato il BDS antisemita e illegale. Ciò fa della Germania il primo e unico Paese al mondo a rendere illegale il movimento BDS.”

Hever offre una spiegazione molto interessante (per non dire molto convincente) del perché la Germania abbia condannato il BDS. Ricordando che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato per due volte che era stato Hadj Amin al-Husseini, il Gran Muftì di Gerusalemme, e non Adolf Hitler, ad aver avuto per primo l’idea dello sterminio degli ebrei, Hever suggerisce che Netanyahu offra ai tedeschi una via d’uscita dal loro senso di colpa relativo all’Olocausto.

“Invece di sentirvi colpevoli dell’Olocausto, di dovervi scusare e prendervi la responsabilità dei crimini che sono stati commessi tanti anni fa, in realtà potete attribuire la colpa ai palestinesi,” spiega Hever.

“Ed è un messaggio in codice rivolto alla destra tedesca,” prosegue, aggiungendo: “A quanto pare alcuni partiti di sinistra hanno manifestato il desiderio di liberarsi del proprio senso di colpa per l’Olocausto equiparando il movimento BDS, promosso dai palestinesi, all’antisemitismo. Ovviamente non è un movimento antisemita.

Ma così facendo dicono: «Oh, noi lottiamo contro l’antisemitismo scegliendo di sostenere Israele, lo Stato d’Israele, piuttosto che sentirci responsabili della protezione del popolo ebraico.»

La sinistra tedesca

Un altro militante che vive a Berlino, Ronnie Barkan, dissidente israeliano e sostenitore del BDS, offre una spiegazione più convincente della ragione per cui certi partiti della sinistra tedesca abbiano sostenuto la legge anti-BDS: essa [la sinistra tedesca, ndtr.] è razzista.

Dobbiamo capire che, come il movimento ha recentemente ricordato alla gente, «il BDS prende di mira la complicità e non l’identità.»

Barkan paragona la risoluzione tedesca contro il BDS alla legge israeliana sullo Stato-Nazione. Mentre la legge sullo Stato-Nazione non ha fatto altro che codificare il razzismo latente nel Paese, scrive Barkan, senza cambiare niente, il fatto che sia stata finalmente formulata in termini semplici, spogliata del suo «linguaggio sionista-liberal orwelliano», ha risvegliato tutti gli spettatori in delirio che avevano fino ad allora creduto alla «democrazia israeliana».

Allo stesso modo, sostiene Barkan, la mozione tedesca anti-BDS non fa che evidenziare la vera natura del popolo tedesco, che resta profondamente razzista. La collera di Barkan è però rivolta soprattutto contro la sinistra tedesca, che secondo lui si rende gravemente complice delle azioni intese a far tacere la dissidenza e la militanza a favore dei diritti dei palestinesi.

In effetti l’abbandono del sostegno alla Palestina da parte di un gruppo di sinistra europeo era stato segnalato qualche anno fa in un articolo della rivista “Jacobin” [periodico della sinistra radical americana, ndtr.] intitolato “Il problema palestinese della sinistra tedesca”, che sottolineava, tra i principali tradimenti, come il presidente di “Die Linke” a Berlino, Klaus Lederer, fosse intervenuto ad un raduno filo-israeliano durante la guerra contro Gaza [l’operazione “Piombo Fuso”, ndtr.] del 2008-2009.

Non si era trattato di un caso isolato. In quanto “senatore per la cultura”, Lederer ha anche cercato di annullare altre manifestazioni filo-palestinesi, come ad esempio la “conversazione con Manal Tamimi [zia di Ahed, la ragazza palestinese condannata da Israele per aver schiaffeggiato due soldati, ndtr.]” dell’anno scorso, organizzata dal gruppo “Donne sotto occupazione”.

Con Stavit Sinai e Majed Abusalama, Barkan è membro di “Humboldt 3” [i tre attivisti denunciati per aver manifestato contro un incontro all’università Humboldt, ndtr.], che di recente è stato imputato per aver interrotto la conferenza di un membro della Knesset [parlamento, ndtr.] israeliano che aveva appoggiato l’attacco israeliano contro Gaza nel 2014 [operazione “Margine protettivo”] all’università Humboldt. Nella sua dichiarazione al tribunale, Abusalama ha spiegato: «Migliaia di musulmani e di palestinesi in Germania non si sentono liberi di esprimersi senza rischi. Hanno la sensazione che potrebbero essere perseguitati in qualunque momento semplicemente per aver gridato ‘Liberate la Palestina’, o per sognare di tornare liberamente nel proprio Paese, in base al diritto al ritorno imposto dall’ONU. Temono le persecuzioni per aver chiesto l’uguaglianza, la dignità, la libertà e la giustizia a Gaza.»

Combattere le menzogne

Qualunque siano le ragioni complesse che spiegano l’abbandono da parte della sinistra tedesca del sostegno popolare ai diritti dei palestinesi, è necessario contrastare alcune menzogne contenute in quest’ultima risoluzione. In primo luogo, come sottolinea Middle East Eye, questa iniziativa non è vincolante, è assolutamente simbolica.

In altri termini la Germania non ha “reso illegale” il BDS, ha adottato una risoluzione che lo condanna (a torto) come antisemita. In secondo luogo, la risoluzione tedesca non è la prima, si iscrive nella linea tracciata da precedenti risoluzioni simili prese dalla Francia e dall’Inghilterra.

Nel 2015 la Francia aveva condannato un collettivo di attivisti del BDS a una ammenda di 14.000 euro, più le spese legali, per aver promosso il BDS in un supermercato, affermando che è un reato promuovere il boicottaggio in quanto esso è intrinsecamente «discriminatorio» in base alla Nazione di provenienza.

E nel 2016 la Gran Bretagna ha emanato una legge per vietare a enti pubblici di boicottare i prodotti israeliani. Così finora solo la Francia ha «reso illegale» il BDS, infliggendo un’ammenda a dei militanti.

Tuttavia, nonostante la dichiarazione del sistema giuridico francese secondo cui il BDS è intrinsecamente discriminatorio, bisogna capire che, come ha ricordato di recente il movimento BDS, «esso prende di mira la complicità e non l’identità».

In effetti numerose industrie boicottate, come Caterpillar, Hewlett-Packard e G4S, non sono israeliane.

Negli Stati Uniti ogni tentativo di applicazione di risoluzioni statali che vietano il BDS è stato contestato con sentenze favorevoli nei tribunali, come dimostra un recente articolo del “Washington Post “ intitolato giustamente: «Le leggi contro il BDS sono popolari. Ciò non vuol dire che siano costituzionali».

La più recente causa vinta contro un divieto imposto dallo Stato contro il BDS ha avuto luogo a Pflugerville, in Texas, dove un’insegnante, Bahia Amawi, ha denunciato il distretto scolastico per non aver voluto rinnovare il suo contratto quando lei ha rifiutato di firmare una clausola in cui dichiarava di non si sarebbe impegnata nel movimento BDS.

Nell’aprile 2019 Amawi ha ottenuto un’importante vittoria quando il giudice ha emesso un’ordinanza contro la legge anti-BDS che la priverebbe dei suoi diritti civili e del suo lavoro.

Obiettivi del BDS

Tuttavia, siccome ci si può aspettare che delle leggi contro il BDS vengano discusse e votate in diversi Paesi d’Europa e nord America (anche il governo canadese ha condannato il BDS), certi punti meritano di essere ripetuti e chiariti.

Più precisamente, gli obiettivi del movimento BDS sono i seguenti: mettere fine all’occupazione illegale della terra palestinese e smantellare il muro illegale dell’apartheid, concedere ai cittadini palestinesi di Israele l’uguaglianza dei diritti e riconoscere il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi. Ne consegue che affermare che il movimento BDS sia “antisemita” equivale ad affermare che il “semitismo” (famiglia linguistica condivisa tecnicamente da numerosi gruppi nazionali ed etnici, ma a tutti gli effetti, in questo caso, un’etnia) sia di per sé un sotto-gruppo razziale colonialista suprematista che viola il diritto internazionale.

Chiaramente la logica stessa di una tale rivendicazione è sbagliata a diversi livelli. In secondo luogo, trattandosi dell’affermazione secondo cui il BDS cerca di “delegittimare” Israele, mentre non fa altro che esercitare una pressione su di esso perché rispetti il diritto internazionale, bisogna chiedersi perché un Paese si senta minacciato quando gli si chiede di rispettare i diritti dell’uomo. La giustizia è una minaccia solo nei confronti dell’ingiustizia. Se Israele, in quanto Paese, è minacciato, si sente “delegittimato” dalle richieste che si adegui alle leggi internazionali – quello che il BDS cerca di ottenere –, allora chiaramente questo Paese rappresenta una flagrante violazione del diritto internazionale. In fin dei conti, che il boicottaggio di Israele sia illegale o meno, la “legalità” di un movimento, di un’ideologia, di una politica o di una prassi non è un indicatore della sua integrità morale. Fino alla sua abolizione l’apartheid era legge.

Come la schiavitù. E per tornare al contesto tedesco, è stato lo stesso per l’Olocausto. Anche se il BDS diventasse illegale, un reato, non sarebbe immorale. Quando la legge si schiera dalla parte dell’oppressore, quelli che vi resistono e cercano di cambiarla hanno la morale dalla loro parte.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Nada Elia

Nada Elia è una scrittrice e commentatrice politica della diaspora palestinese che attualmente lavora sul suo secondo libro “Who You Callin’ “Demographic Threat?” [Chi definisci ‘minaccia demografica’? Note dall’intifada globale]. Docente di Studi di Genere e Globali (in pensione), fa parte del gruppo dirigente della campagna USA per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele (USACBI).

(traduzione di Amedeo Rossi)




La pulizia etnica di Israele in Palestina non è storia – continua ad avvenire

Ben White

22 Maggio 2019 – Middle East Eye

Ciò che avviene in Cisgiordania e a Gerusalemme est non è solo un’occupazione militare.

Le congetture riguardo al “piano di pace per il Medio Oriente” della Casa Bianca continuano a dominare le informazioni sui media israeliani e dei palestinesi; l’ultimo esempio è dato dall’annuncio di un “workshop” a giugno ospitato dal Bahrein per incoraggiare gli investimenti nell’economia palestinese.

Tuttavia, con l’eccezione della Striscia di Gaza – e solo parzialmente e in modo selettivo – viene posta una minima attenzione agli sviluppi sul terreno nei territori palestinesi occupati.

In Cisgiordania e Gerusalemme est il paradigma dell’occupazione militare è insufficiente da solo per comprendere che cosa stia accadendo –vale a dire, una pulizia etnica.

Che cos’è una pulizia etnica?

La recente Giornata della Nakba ha portato – almeno in alcuni ambiti – ad una riflessione sulle espulsioni di massa e sulle atrocità che hanno accompagnato la fondazione dello Stato di Israele. Ma la pulizia etnica non è un evento storico in Palestina: sta succedendo adesso.

In un saggio del 1994 sulla definizione di pulizia etnica, il giurista Drazen Petrovic ha evidenziato “l’esistenza di una sofisticata politica che sottende a singoli eventi”, eventi, o prassi, che possono comprendere diverse “misure amministrative”, come anche violenze sul territorio da parte di attori statali e non statali.

Lo scopo, ha scritto Petrovic, potrebbe essere definito come “una modificazione irreversibile della struttura demografica” di una particolare area, e “il conseguimento di una posizione più favorevole per uno specifico gruppo etnico risultante da negoziati politici basati sulla logica della divisione lungo linee etniche.”

Questa è una corretta descrizione di ciò che sta avvenendo oggi in tutti i territori palestinesi occupati per mano delle forze dello Stato israeliano e dei coloni israeliani.

In parecchie località lo Stato e i coloni stanno lavorando congiuntamente per modificare forzatamente – attraverso “misure amministrative” e violenze – la composizione demografica locale.

Prendete la Valle del Giordano, lungo il lato orientale della Cisgiordania, dove le famiglie palestinesi sono costantemente e ripetutamente evacuate con la forza dalle loro case, a volte per giorni, dalle forze di occupazione israeliane, per esercitazioni di addestramento militare.

Secondo un reportage di Haaretz, gli abitanti di Humsa – per fare un esempio – sono stati evacuati con la forza dalle loro case decine di volte negli ultimi anni. “Anche se ogni volta ritornano”, sottolinea l’articolo, “alcuni di loro sono esausti ed abbandonano le loro case per sempre.”

Non sono incidenti isolati

Nell’aprile 2014 un colonnello israeliano ha detto in una riunione della commissione parlamentare che nelle zone della Valle del Giordano “dove abbiamo significativamente ridotto la quantità di addestramenti, sono cresciute le erbacce” –intendendo indicare con questo termine le comunità palestinesi. “È qualcosa che dovrebbe essere presa in considerazione”, ha detto.

Recentemente un abitante di Khirbet Humsa al-Fawqa – una piccola comunità nel nord della Valle del Giordano – ha detto a Middle East Eye: “Non so se stanno realmente svolgendo un’esercitazione militare. A volte ci fanno evacuare e non fanno niente. Il loro scopo è costringerci a lasciare la zona definitivamente.”

Intanto l’Ong israeliana per i diritti umani B’Tselem all’inizio del mese ha riferito di un “aumento della frequenza e della gravità degli attacchi da parte dei coloni” contro i palestinesi nella Valle del Giordano.

I coloni “minacciano I pastori, li cacciano, li aggrediscono fisicamente, guidano a tutta velocità in mezzo alle greggi per spaventare le pecore e addirittura le travolgono o le rubano”, ha dichiarato B’Tselem, aggiungendo che “i soldati sono di solito presenti durante questi attacchi e a volte vi prendono anche parte.”

B’Tselem ha detto che questi attacchi “non sono incidenti isolati, ma piuttosto parte della politica che Israele applica nella Valle del Giordano.”

Lo scopo è “impadronirsi di più terra possibile, spingendo i palestinesi ad andarsene, scopo raggiunto con varie misure, incluso rendere la vita in quei luoghi così insostenibile e sconfortante che i palestinesi non abbiano altra scelta che lasciare le proprie case, apparentemente ‘per scelta’”.

Questa situazione, sintetizza la Ong, “è fatta di attacchi coordinati di soldati e coloni”, e anche di “un divieto assoluto di sviluppare le comunità palestinesi con la costruzione e l’edificazione di infrastrutture vitali, incluse acqua, elettricità e strade.”

Le comunità palestinesi nella Valle del Giordano sono solo alcune di quelle minacciate dalla politica israeliana di pulizia etnica. Si possono trovare altri esempi nei quartieri palestinesi di Gerusalemme est occupata, come Sheikh Jarrah e Silwan.

Fatti sul terreno

Il 3 maggio Jamie McGoldrick, coordinatore umanitario dell’ONU in Palestina, ha avvertito che le demolizioni a Gerusalemme est da parte delle autorità israeliane “sono aumentate a una velocità impressionante”, con 111 strutture di proprietà palestinese distrutte a Gerusalemme est nei primi quattro mesi del 2019.

In queste comunità palestinesi lo Stato israeliano, la magistratura e le organizzazioni dei coloni fanno sforzi congiunti per espellere – e rimpiazzare – le famiglie palestinesi.

Lo scorso novembre la Corte Suprema israeliana “ha aperto la strada al gruppo di coloni Ateret Cohanim [che intende creare una maggioranza ebraica nei quartieri arabi di Gerusalemme, ndtr.] per proseguire i procedimenti legali per espellere almeno 700 palestinesi che vivono nella zona di Batn al- Hawa” di Silwan. La Ong Ir Amim [associazione israeliana che difende i diritti di tutti gli abitanti di Gerusalemme, ndtr.] afferma che le espulsioni sono fondamentali per “una rapida diffusione di nuovi fatti sul terreno”.

In base a qualunque ragionevole definizione del termine, qui Israele sta portando avanti la pulizia etnica: l’uso di misure amministrative e della violenza da parte di forze statali e di coloni per cacciare i palestinesi dalle loro terre ed infine produrre una trasformazione demografica irreversibile di diverse località.

Così, il governo israeliano – da tempo abituato all’assenza di una chiamata alla responsabilità a livello internazionale per queste prassi – sarà solo molto felice non solo dei contenuti del “piano di pace” USA, ma anche dall’opportuna distrazione che esso fornisce riguardo alla terribile realtà che sta dietro ad ancor più numerosi “fatti sul terreno.”

Ben White

Ben White è l’autore di “Israeli Apartheid: A Beginner’s Guide” [Apartheid israeliano: una guida per principianti] e di “Palestinians in Israel: Segregation, Discrimination and Democracy” [Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia]. Scrive per Middle East Monitor e i suoi articoli sono stati pubblicati da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, The Electronic Intifada, The Guardian e altri.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Perché i palestinesi devono ripensare alla propria organizzazione di governo

Alaa Tartir

19 maggio 2019 – Middle East Eye

Un modello di leadership collettiva, lontana dalle strutture fallimentari di ANP e OLP, potrebbe portare i palestinesi sul cammino verso l’autodeterminazione.

Mentre imperversano voci sulle condizioni di salute di Mahmoud Abbas, nei circoli politici statunitensi e israeliani infuria il dibattito su chi succederà al presidente palestinese, che ha 83 anni. Vi si sono aggiunti anche mezzi di comunicazione e centri di ricerca, discutendo nomi e presentando candidati, speculando in merito a come sarebbe un possibile processo di transizione, o la sua assenza. Con i mantra riguardo alla priorità da assegnare alla stabilità, i dirigenti della sicurezza palestinese sono i primi della lista.

Ma dal punto di vista palestinese, questa dinamica dovrebbe attivare un serio dibattito a lungo atteso sulla revisione dei sistemi politico e di governo palestinesi, così come su tutta la questione della leadership politica.

Smantellare il comando di un solo uomo

Tre cose potrebbero aiutare a costruire un sistema politico inclusivo e partecipativo, che potrebbe rafforzare i palestinesi nel loro percorso verso l’autodeterminazione, lo Stato e una democrazia efficace.

Primo, il modello del potere di un uomo solo dovrebbe essere sostituito con una forma di leadership collettiva. Il modello del “leader supremo” non solo è obsoleto, disfunzionale e antidemocratico, ma ha anche danneggiato la lotta palestinese e il progetto di liberazione nazionale.

Nel corso degli anni i palestinesi e il loro percorso verso l’autodeterminazione hanno sofferto di gravi conseguenze negative in seguito ai contrastanti stili di governo personalistici (dall’Arafatismo, al Fayyadismo all’Abbasismo) e i paradigmi dell’uomo solo al comando che hanno adottato. È tempo di seppellire quel modo di governare e adottare un modello di leadership collettiva.

Benché in teoria il modello di leadership dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) sia per sua natura collettivo, in pratica non lo è per niente. Per questo l’OLP è stata cooptata dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), e poi l’ANP è stata cooptata da Israele – il potere occupante – spogliando il popolo palestinese della Cisgiordania e di Gaza del proprio potenziale di trasformazione.

È anche la ragione per cui i palestinesi sono stati tenuti lontani dal cuore del sistema politico palestinese e in ultima analisi continuano a rimanere soggetti all’occupazione israeliana e all’autoritarismo palestinese. Il modello del leader unico – che sia il padre della Nazione (Yasser Arafat), il partner per la pace (Abbas) o il tecnocrate appoggiato a livello internazionale (Salam Fayyad) – ha deluso miseramente il popolo palestinese.

Consigli di supervisione

Di conseguenza è tempo di ripensare alle stesse posizioni e titoli del capo dell’OLP e del presidente dell’ANP e ai loro simbolici orpelli di statualità, e di abolirli del tutto.

Al contrario, il popolo palestinese necessita di un comitato elettivo di dirigenti – un piccolo gruppo (l’ideale sarebbe di quattro, con la presenza di entrambi i sessi) che possa formare un ufficio politico, ognuno dei quali assuma responsabilità diverse ma complementari e con lo stesso peso politico. Uno potrebbe occuparsi di questioni interne e sociali, un altro di affari esteri, un terzo di questioni economiche e di sviluppo e un quarto di educazione e giovani.

Questa divisione del lavoro a livello di leadership garantirebbe che il progetto nazionale non possa essere monopolizzato da un leader e dal suo partito politico, dalla sua visione e dal suo programma. Ciò garantirebbe miglior controllo, trasparenza, inclusività e positivi effetti a cascata sulla vita quotidiana dei palestinesi.

L’ufficio politico non funzionerebbe nel vuoto, ma piuttosto sarebbe supportato e controllato da due diversi consigli di supervisione: uno formato da anziani e l’altro da giovani (da 35 anni in giù). I due consigli, con equilibrio di genere e rappresentanti di diversi gruppi di soggetti interessati, classi e provenienza geografica – non più di 15 membri per consiglio, in carica per un massimo di tre anni – giocherebbero un ruolo fondamentale nella formulazione di strategie e nella verifica della loro messa in pratica.

Un governo ombra

Certamente ci si potrebbe giustamente chiedere: che ne sarebbe del Consiglio Legislativo Palestinese (PLC) [il parlamento dell’ANP, ndtr.] e del Consiglio Nazionale Palestinese [organo legislativo dell’OLP, ndtr.] (PNC)? Perché aggiungere ulteriore burocrazia a quella delle strutture e del sistema amministrativo simili già esistenti?

Sono domande legittime, ma ritengo che, proprio a causa dell’assenza di tali consigli, né il PLC né il PNC siano efficienti, efficaci, rappresentativi o persino legittimi. Il PLC e il PNC sono anche stati facilmente divorati da politiche di fazione e da stili di governo personalistici.

I due consigli di anziani e giovani contribuirebbero a consolidare i pilastri del controllo all’interno del sistema politico palestinese, aggiungendo un sistema di pesi e contrappesi estremamente necessario. Il loro ruolo sarebbe per sua natura di supervisione e consulenza; non sarebbero organi legislativi, esecutivi o giudiziari. Ma il loro potere deriverebbe dalla loro capacità di indicare i leader, sostenere una visione su scala nazionale e rendere chiunque responsabile.

Terzo, i vari organi succitati nominerebbero un primo ministro che formi un governo e un vice primo ministro, con una di queste cariche affidata a una donna. Poiché il primo ministro nomina membri del parlamento e altri dirigenti, l’opposizione dovrebbe organizzarsi in un governo parallelo con ministri ombra, come nel modello inglese.

Questo governo ombra non sarebbe un vero e proprio governo, come nelle democrazie consolidate, ma sarebbe costituito in base alle condizioni reali palestinesi. L’idea sarebbe quella di garantire un miglior controllo e ulteriore inclusività nelle strutture politiche palestinesi.

Il cammino futuro

Questo triangolo di dirigenza collettiva, consiglio di anziani e consiglio di giovani, e un governo ombra possono sembrare irrealizzabili data l’attuale situazione di occupazione israeliana, divisioni tra i palestinesi, frammentazione verticale e orizzontale, il quadro degli accordi di Oslo e la prospettata soluzione dei due Stati. Un simile progetto sembrerebbe irrealistico, estraneo alla situazione di oggi e persino in gran parte da sinistra moderata e ingenua.

Eppure è altrettanto ovvio che né i modelli di governo dell’OLP/ANP né la cornice degli accordi di Oslo hanno funzionato a favore del popolo palestinese – perciò, perché continuare a muoversi all’interno di questo quadro tentando di salvare ciò che non può essere salvato?

È tempo di un nuovo e innovativo modello di leadership palestinese – una visione futura per la quale i palestinesi dovrebbero lavorare, invece di rimanere intrappolati all’interno di un contesto politico corrotto che non riesce a fornire soluzioni sensate o durature.

Le tre idee summenzionate sollevano una serie di domande, tra cui quali prerequisiti sarebbero necessari per garantire la loro concretizzazione, come potrebbe essere chiaramente stabilito un piano d’azione, quali attori guiderebbero il processo di cambiamento, se funzionerebbe nonostante l’occupazione israeliana e come si applicherebbe a partire da Gaza e la Cisgiordania fino ai palestinesi in Israele e nella diaspora, tra gli altri problemi.

È per questo che abbiamo bisogno di un serio dibattito sul sistema politico e di governo palestinese. Questo processo è intrinsecamente legato a quello per realizzare la libertà e l’autodeterminazione: solo quando immaginiamo modelli e strutture politiche differenti possiamo sperare di trasformare questa visione in realtà.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Alaa Tartir

Alaa Tartir è consulente di programma per Al-Shabaka, la Rete di Politica Palestinese, ricercatore associato presso il Centre on Conflict, Development and Peace-building [Centro su Conflitto, Sviluppo e Costruzione della Pace] (CCDP) al Graduate Institute of International and Development Studies [Istituto Universitario di Studi Internazionali e dello Sviluppo] (IHEID) di Ginevra, Svizzera, e professore ospite alla Paris School of International Affairs [Scuola di Parigi di Affari Internazionali] (PSIA) alla facoltà di scienze politiche. Tartir è co-autore di Palestine and Rule of Power: Local Dissent vs. International Governance [Palestina e Gestione del Potere: dissenso locale e governance internazionale] (Palgrave Macmillan, 2019).

(traduzione di Amedeo Rossi)




“Questo è ‘art-washing’”: attivisti israeliani protestano contro l’Eurovision

Megan Giovannetti da Tel Aviv, Israele

17 maggio 2019 – Middle East Eye

Decisi a denunciare la situazione dell’occupazione e dell’assedio di Gaza da parte di Israele, un gruppo di israeliani ha organizzato manifestazioni quotidiane

Questa settimana centinaia di persone hanno affollato ogni giorno il villaggio Eurovision sulla spiaggia di Tel Aviv, godendosi i festeggiamenti che hanno circondato la competizione musicale che quest’anno è arrivata in Israele.

Ma, mentre l’ambiente potrebbe sembrare benevolo e accogliente, un gruppo di attivisti israeliani ha preso l’impegno di svelare un lato molto diverso della competizione canora Eurovision 2019.

Shahaf Weinstein, 26 anni, ha detto a Middle East Eye: “Siamo qui perché Eurovision, e naturalmente Eurovillage, sono una grande e lucrativa attività che aiuta Israele a promuovere i suoi cosiddetti valori di luogo giovane, alla moda, multiculturale, ospitale con gli LGBTQ, quando di fatto è uno Stato dell’apartheid.”

Questo è pink-washing, art-washing [utilizzo di tematiche omosessuali o artistiche per trasmettere un’immagine positiva, ndtr.], e noi siamo contrari.”

Eurovision 2019: perché Israele ospita la competizione musicale?

Il nome della competizione canora suggerisce che si tratti di una questione europea, quindi perché Israele, un Paese mediorientale, può parteciparvi e perché ospita la gara di quest’anno?

L’ammissione all’Eurovision non è basata sulla geografia ma sul fatto di essere membro della “European Broadcasting Union [Unione Europea di Radiodiffusione] (EBU), che organizza l’evento, e l’“Israeli Public Broadcasting Corporation” [Compagnia Pubblica Israeliana di Radiodiffusione] ne fa parte.

Tecnicamente ciò significa che anche Paesi arabi come Egitto, Giordania, Libano, Siria, Marocco e Tunisia hanno i titoli per parteciparvi.

In effetti il Marocco vi partecipò nel 1980, dopo che Israele si era ritirato perché la data della competizione si sovrapponeva alla festa della Pasqua ebraica.

Israele è entrato per la prima volta nell’Eurovision nel 1973 ed ha vinto la competizione quattro volte, compreso lo scorso anno, quando Netta Barzilai ha vinto in Portogallo. In precedenza ha ospitato l’evento nel 1979 e nel 1999, tutte e due le volte a Gerusalemme.

Weinstein, ebrea israeliana, fa parte di un collettivo di attivisti di vari gruppi che ha organizzato proteste quotidiane contro il fatto che Israele ospiti l’Eurovision e la positiva ribalta internazionale che ne deriva.

Mercoledì, mentre israeliani e turisti stavano festeggiando su una spiaggia del villaggio del festival Eurovision, i palestinesi stavano commemorando il 71° anniversario della Nakba – la “catastrofe” in arabo – quando centinaia di migliaia [di palestinesi] vennero cacciati dalle proprie case nel conflitto che ha accompagnato la creazione di Israele.

Lo stesso giorno Weinstein e altri 12 attivisti hanno messo in scena presso la sede [dell’Eurovision] “die-in” [una protesta in cui i partecipanti simulano la propria morte, ndtr.], manifestando contro la Nakba e la continua uccisione di manifestanti palestinesi nella Striscia di Gaza assediata.

Indossando magliette con la scritta sulla schiena “Gaza libera”, gli attivisti hanno recitato le morti stendendosi per terra. Avevano appeso al collo foto di palestinesi uccisi durante la violenta repressione da parte di Israele contro il movimento di protesta della Grande Marcia del Ritorno di Gaza durata un anno.

Essendo stata rafforzata la sicurezza in previsione di queste proteste, a cinque attivisti è stato negato l’ingresso nel villaggio Eurovision e sono stati tolti i documenti di identità. Altri otto sono riusciti a superare i controlli di sicurezza e a mettere in pratica il piano.

Sono ebreo. Ho il privilegio di essere qui e protestare mentre ai palestinesi di Gaza che protestano viene sparato,” ha detto Omer Shamir, un ventiseienne di Tel Aviv.

Io rischio molto poco, ho la ‘democrazia’ – quella democrazia che stanno cercando di mostrare al mondo,” ha detto Shamir. “Ce l’ho in quanto ebreo, ma i palestinesi non ce l’hanno.”

In quanto israeliani siamo responsabili”

La sera prima, durante un corteo a Tel Aviv, Nimrod Flashenberg ha esposto le proprie ragioni per scendere in piazza.

Penso che noi, in quanto israeliani, lo Stato di Israele, siamo responsabili delle sofferenze (dei palestinesi),” ha detto Flachenberg, 28 anni, a MEE. “Quindi dobbiamo dire ‘basta con l’occupazione e con l’assedio.’”

La manifestazione di martedì notte ha coinciso di proposito con il giorno in cui la cantante israeliana Netta Barzilai ha vinto l’Eurovision 2018, consentendo che Israele ospitasse la gara canora di quest’anno.

È stato anche il primo anniversario dello spostamento ufficiale dell’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme, mentre in contemporanea 68 palestinesi venivano colpiti a morte durante le proteste.

Il corteo ha coinvolto 300 sostenitori, e Flashenberg ha denunciato una mancanza di sentimenti contrari all’occupazione tra gli ebrei israeliani come una ragione della scarsa partecipazione.

In Israele la popolazione ebraica sta andando verso destra,” ha detto. “Si sta chiudendo. Sta chiudendo gli occhi alle sofferenze dei palestinesi attorno a noi.”

Weinstein crede che la conquista della politica israeliana da parte della destra sia “parte del processo internazionale di neo-fascistizzazione che stiamo vedendo avvenire in molti Paesi, compresi gli USA (e) l’Europa.

In molti posti la popolazione sta diventando più rancorosa, più islamofoba e più razzista. La gente sta ascoltando sempre meno.”

Secondo Weinstein “l’occupazione continua a causa della complicità della comunità internazionale,” che secondo lei è la ragione per cui la protesta e le azioni di boicottaggio dell’Eurovision in Israele sono importanti nella lotta per i diritti dei palestinesi.

In effetti Israele sta lavorante senza sosta con la sua hasbara,” ha detto Flashenberg, utilizzando il termine ebraico per intendere la diffusione di informazioni positive [riguardo a Israele], “ed ha avuto molto successo nel suo tentativo di mettere da parte la questione palestinese nell’agenda internazionale.”

Secondo Flashenberg ospitare l’Eurovisione è solo un esempio del tentativo di Israele di normalizzare la sua occupazione delle terre palestinesi.

Shamir, che ha manifestato martedì notte, è d’accordo.

Ospitare la competizione dell’Eurovision vuol dire pretendere che (Israele) sia un normale Paese europeo, progressista e ospitale per i gay,” ha detto.

Per cui l’unico modo per svegliarsi da questo inganno è la pressione internazionale, che avviene nella forma delle sanzioni e del boicottaggio.”

Ma Shamir non pensa che le persone attorno a lui siano sufficientemente “scosse” da far scoppiare la bolla del comfort.

In genere direi che Tel Aviv è considerata piuttosto di sinistra, ma molti dei miei amici, i miei coetanei, non vengonoa protestare,” ha detto.

Il fatto che siano occupanti è ancora molto comodo (per loro), il che penso ci riporti al punto del perché sia importante ora sottolineare che (Israele) non è un posto normale.”

Dovrebbero divertirsi”

Le proteste giornaliere nel periodo che ha preceduto la finale dell’Eurovisione di sabato sono un modo per cercare di ricordare alla gente la realtà della vita dei palestinesi sotto occupazione israeliana, ha affermato Shamir. Anche se si tratta solo di “un pizzicotto”.

Lunedì Shamir e altri attivisti hanno proiettato inquietanti immagini da Gaza su un grande schermo davanti al principale palco del villaggio dell’Eurovision. Lentamente una folla danzante sotto di esso ha iniziato a capire quello che stavano vedendo, e le cose hanno preso una piega violenta.

È stato tutto un po’ ironico per Shamir, che ha detto che l’Eurovision doveva mostrare quanto pacifico e “normale” sia Israele. Invece “alcune persone ci hanno picchiati, hanno rubato il nostro proiettore e sono scappati,” ha detto.

Weinstein ha sperimentato una reazione simile mercoledì.

Subito dopo il “die-in”, circa una decina di israeliani l’ha circondata, gridando insulti volgari e facendo rumore per impedirle di essere intervistata dalla stampa.

Dicevano che i miei genitori dovevano vergognarsi di me – cosa che non fanno,” dice Weinstein. “Dicevano che dovrei vivere ad Ashkelon (una città del sud vicino a Gaza), e che dovrei andare a Gaza. Mi hanno detto un sacco di orribili insulti.”

Nani, una donna di Ashkelon, ha detto a MEE di essersi unita alla folla che gridava contro Weinstein perché la giovane attivista è israeliana e considera questo comportamento come un tradimento.

Sta contro e non con Israele perché vuole liberare la Palestina,” ha detto Nani.

Ruthie, 42 anni, pensa che sia una vergogna che attivisti siano andati al villaggio dell’Eurovision per protestare.

Sono venuti qui, quindi dovrebbero divertirsi,” ha affermato.

Ruthie è arrivata dal lontano confine del deserto meridionale per godersi dei festeggiamenti e crede che ospitare la competizione musicale sia una buona cosa per l’immagine di Israele.

Penso che stiano protestando perché non conoscono davvero la situazione e quello che succede realmente,” ha detto Ruthie a MEE. “Come puoi vedere qui va tutto bene, questa è la situazione qui. Impariamo a conviverci.

Siamo venuti per divertirci e accogliamo chiunque perché venga in Israele e si diverta. È un posto veramente sicuro.”

Flashenberg vive vicino al villaggio Eurovision e sente ogni notte i gioiosi festeggiamenti, che trova fastidiosi.

C’è qualcosa in questa accettazione ed esaltazione internazionale riguardo a Israele che ovviamente è, agli occhi dei palestinesi e di chi vuole la pace, sconvolgente,” ha detto.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Nakba nella Valle del Giordano: le esercitazioni dell’esercito israeliano gettano il caos tra i palestinesi

Shatha Hammad da Khirbet Humsa al-Fawqa, Cisgiordania occupata

15 maggio 2019 – Middle East Eye

Cacciati dalle loro case perché Israele testa le proprie armi, la commemorazione di quest’anno degli avvenimenti del 1948 vede nuove espulsioni.

A Khirbet Humsa al-Fawqa, sul pavimento di una tenda abitata giacciono giocattoli sparpagliati. Per i bambini del villaggio i giochi sono finiti quando l’esercito israeliano ha dichiarato l’area zona militare proibita e nelle prime ore di domenica ha obbligato la comunità palestinese ad andarsene dalle proprie abitazioni.

In seguito a un ordine di espulsione di quattro giorni prima, ai 98 abitanti è stato vietato l’accesso alle loro abitazioni per tre giorni. L’esercito li ha informati che tra maggio e giugno verranno cacciati 12 volte per tre giorni ciascuna.

Ai palestinesi è stato detto che le abitazioni sarebbero state nel raggio di gittata dei proiettili dei carri armati poiché l’esercito israeliano utilizza l’area per effettuare esercitazioni militari.

La mattina dell’espulsione Mohammed Sulaiman Abu Qabbash, padre di cinque figli, li ha accompagnati in una vicina comunità ed è corso indietro nel tentativo di proteggere le tende e le pecore. Il trentacinquenne è andato avanti e indietro controllando ansiosamente la zona. Ha aspettato che i soldati israeliani arrivassero e lo buttassero fuori.

Nei prossimi tre giorni dormiremo all’aperto. Non abbiamo alternative, non possiamo opporci a una potenza simile,” ha detto Mohammed a Middle East Eye.

Se la comunità rifiuta di andarsene quando gli viene ordinato rischia l’espulsione con la forza, l’esproprio delle greggi e una multa retroattiva.

In base alle leggi internazionali cacciare dalle proprie case gli abitanti di un territorio occupato è considerato trasferimento forzato di persone protette, il che costituisce un crimine di guerra. Ma gli abitanti delle comunità palestinesi nella Valle del Giordano conoscono bene tali devastanti politiche israeliane.

La valle, una striscia di terra fertile che corre a ovest lungo il fiume Giordano, è abitata da circa 65.000 palestinesi.

Dal 1967, quando l’esercito israeliano ha occupato la Cisgiordania, Israele ha trasferito almeno 11.000 suoi cittadini ebrei nella Valle del Giordano. Alcune delle colonie in cui vivono sono state interamente costruite su terre palestinesi di proprietà privata.

Da quando è iniziata l’occupazione, circa il 46% della Valle del Giordano è stata dichiarata dall’esercito israeliano zona militare proibita.

Circa 6.200 palestinesi risiedono in 38 comunità in luoghi destinati a usi militari e devono ottenere un permesso delle autorità israeliane per entrare e vivere nelle loro comunità.

In violazione del diritto internazionale l’esercito israeliano non solo scaccia regolarmente in modo temporaneo le comunità, ma a volte demolisce anche case e infrastrutture.

Oltre a subire espulsioni temporanee, le famiglie palestinesi che vi vivono devono affrontare una miriade di limitazioni nell’accesso a risorse e servizi. Nel contempo la confisca di terre da parte di Israele ha espropriato risorse naturali a favore dei coloni.

Vivere la Nakba

Il digiuno durante l’espulsione e le temperature che hanno raggiunto i 40° hanno raddoppiato le difficoltà di questo Ramadan, dice Khadija Abu Qabbash mentre si prepara ad andarsene. La donna incinta, madre di cinque figli, la mattina ha lavato a mano una pila di vestiti. La sua figlia di 15 anni, Deema, l’ha aiutata a stendere in gran fretta i panni ad asciugare prima che arrivassero i soldati israeliani.

Questa mattina abbiamo accompagnato fuori i bambini ed ora la macchina è tornata a prenderci,” dice a MEE mentre piange. “Non potrò cucinare niente per iftar [pasto serale che interrompe il digiuno del Ramadan, ndtr.]. Ci dovremo accontentare di cibo in scatola.”

Le forze israeliane espellono regolarmente le famiglie di Khirbet Humsa al-Fawqa. Tuttavia in genere le espulsioni avvengono durante il giorno, mentre agli abitanti è consentito tornare alla sera.

Non so se stanno effettivamente facendo esercitazioni militari. A volte ci cacciano e non fanno niente. Intendono obbligarci ad andarcene per sempre,” dice Khadija.

Le attività di Israele nella Valle del Giordano sono state ben documentate da gruppi per i diritti umani e da Ong locali, che affermano che l’obiettivo di queste misure è cacciare i palestinesi e soffocare il loro sviluppo nella zona.

Essendo assolutamente strategica, i politici israeliani, anche prima delle recenti affermazioni del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu riguardo ai suoi progetti di annettere zone della Cisgiordania occupata, hanno chiarito in varie occasioni che la Valle del Giordano rimarrà in ogni caso sotto il loro controllo.

Nel 2013 negoziati di pace sono stati rifiutati da Israele quando è stata ipotizzaa la cessione di parte del controllo sulla valle.

Commentando l’evacuazione di Khirbet Humsa al-Fawqa di domenica, Walid Assaf, capo della Commissione Nazionale per la Resistenza al Muro e alle Colonie dell’Autorità Nazionale Palestinese, ha detto in un comunicato che ci sono stati tentativi con l’intervento di legali per bloccare l’espulsione temporanea, ma non si è potuto mettere in discussione l’ordine militare israeliano.

Proprio come hanno cacciato i palestinesi dale loro case nel 1948, oggi stanno facendo lo stesso. Non cederemo,” ha aggiunto Khadija, riferendosi alla Nakba, la pulizia etnica della Palestina storica da parte delle milizie sioniste 71 anni fa, che si commemora ogni anno il 15 maggio.

Qui non vogliono palestinesi”

Principalmente composte di pastori, le famiglie di Khirbet Humsa al-Fawqa si alzano alle 3 del mattino per mungere le proprie pecore e preparare il formaggio prima di andare ai mercati della vicina cittadina di Tubas.

Harb Abu Qabbash, 40 anni, dice a MEE che ogni famiglia possiede circa 300 pecore. Dato che è difficile spostarle fuori dalla zona, quando i palestinesi vengono evacuati molti degli agnelli rimangono indietro e spesso muoiono di fame senza nessuno che si occupi di loro.

Aggiunge che durante le esercitazioni militari migliaia di ettari di orzo e grano rischiano di essere bruciati. Secondo Harb ciò avviene regolarmente. “Il nostro maggior timore è che una bomba cada su una delle nostre tende. Se ciò accadesse sarebbe una catastrofe e perderemmo tutto,” dice Harb.

Gli israeliani vogliono impossessarsi della zona e svuotarla dei suoi abitanti. Non vogliono palestinesi qui,” aggiunge.

Nel 2005 hanno demolito le nostre tende e infrastrutture con il pretesto che erano state costruite senza permesso. Quando facciamo richiesta di un permesso loro non lo concedono.”

Quando non devono affrontare un’evacuazione, le esercitazioni militari e le demolizioni, i palestinesi della comunità lottano per approvvigionarsi dell’acqua sufficiente per le loro necessità sotto l’occupazione israeliana.

Ogni famiglia con le sue pecore utilizza un totale di due o tre serbatoi d’acqua al giorno,” dice Harb.

Per trasportare il camion cisterna alla comunità ci vogliono due ore. C’è un pozzo d’acqua a cinque minuti da qui, ma l’esercito israeliano ci ha vietato di utilizzarlo e lo ha destinato all’uso esclusivo dei coloni israeliani.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Decine di feriti nella marcia dei palestinesi alla barriera di Gaza nel Giorno della Nakba.

MEE and agencies

15 maggio 2019 – Middle East Eye

Le forze israeliane hanno ferito decine di palestinesi a Gaza, quando migliaia di manifestanti si sono radunati vicino alla barriera di confine tra Gaza e Israele per commemorare il giorno della Nakba.

Il Ministero della Salute di Gaza ha comunicato che mercoledì sono stati feriti almeno 65 manifestanti, compresi 15 che hanno presentato ferite da armi da fuoco.

La protesta è stata organizzata per commemorare il Giorno della Nakba (catastrofe), l’anniversario dell’espulsione forzata di circa 750.000 palestinesi nel 1947-48, prima e durante la fondazione dello Stato di Israele.

Mercoledì un portavoce dell’esercito israeliano ha detto a Middle East Eye che almeno 10.000 palestinesi hanno preso parte ai “disordini” nei dintorni della barriera.

Il portavoce ha detto che vi sono stati “molti tentativi” di infrangere la barriera e che le forze israeliane hanno reagito con “mezzi antisommossa”.

Quest’anno le manifestazioni per il Giorno della Nakba si svolgono due settimane dopo che un’offensiva aerea israeliana ha ucciso oltre 20 palestinesi a Gaza e ne ha feriti molti di più.

Il 6 maggio Israele e le fazioni palestinesi hanno raggiunto un cessate il fuoco.

Ogni anno, il 15 maggio, i palestinesi di tutto il mondo commemorano la Nakba, organizzando manifestazioni e chiedendo una soluzione alla loro grave situazione in modo che possano tornare alle case da cui sono stati espulsi.

Si stima che 15.000 palestinesi siano stati uccisi durante la fondazione dello Stato di Israele 71 anni fa. Vennero anche distrutti quasi 500 villaggi palestinesi.

L’agenzia di informazioni Reuters ha riferito che Khader Habib, un membro della fazione palestinese Jihad Islamica, parlando in uno dei siti della protesta a Gaza, ha chiamato i palestinesi a “sollevarsi” e “affermare i propri diritti in Palestina.”

“La Palestina è nostra. Il mare è nostro, la terra è nostra e gli stranieri devono essere cacciati”, ha detto.

Lo scorso anno la Nakba ha coinciso con il trasferimento dell’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme, una contestata decisione dell’amministrazione Trump che è stata accolta con generale rabbia e frustrazione.

In seguito al trasferimento dell’ambasciata, circa 40.000 palestinesi hanno manifestato l’anno scorso a Gaza e le forze israeliane hanno ucciso almeno 60 persone e ne hanno ferite più di 1.000.

Associazioni per i diritti umani e ricercatori delle Nazioni Unite hanno criticato l’esercito israeliano per uso eccessivo della forza nel reagire alle manifestazioni prevalentemente non violente a Gaza.

Nelle frequenti proteste presso la barriera di confine sono stati uccisi quasi 300 palestinesi e alcune migliaia sono rimasti feriti.

Tali proteste, note come la “Marcia del Ritorno”, sono iniziate nel marzo 2018. Chiedono che i palestinesi possano tornare alle loro case in quello che oggi è Israele.

Per decenni Israele ha respinto quella richiesta, nonostante la Risoluzione 194 dell’ONU [del 1948, ndtr.] sancisca il diritto al ritorno dei palestinesi.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)