GERUSALEMME. Tensioni ad Al-Aqsa, nuovo punto di rottura

Ben White

Middle East Eye, 21 febbraio 2019

Roma, 25 febbraio 2019, Nena News –  Passate inosservate sui media occidentali, le tensioni nella Gerusalemme occupata si sono intensificate. La scorsa settimana è nato un nuovo scontro sulla questione del complesso della Moschea di Al-Aqsa, nel contesto degli sforzi sempre più intensi che le autorità israeliane e i coloni stanno mettendo in campo per cambiare lo status quo e impossessarsi delle proprietà palestinesi nella Città Vecchia e dintorni.

Il governo giordano ha recentemente deciso di allargare la struttura della Waqf – l’istituzione incaricata di gestire il complesso di Al-Aqsa – per includere un certo numero di “pezzi grossi” palestinesi, oltre ai consolidati membri giordani.

Accessi chiusi 

La mossa è giunta in risposta a quella che Ofer Zalzberg, dell’Unità di Crisi Internazionale, ha descritto ad Haaretz come “l’erosione dello status quo” nella zona, che include anche la tolleranza, da parte delle forze di occupazione israeliane, di un “tranquillo pregare” degli ebrei all’interno del complesso – “uno sviluppo alquanto recente”, nota il giornale.

Giovedì scorso, il comitato appena allargato ha fatto un sopralluogo, e pregato, nell’edificio situato alla Porta della Misericordia (Bab al-Rahma), chiuso dalle autorità israeliane di occupazione dal 2003. Al tempo, la chiusura venne motivata sulla base di ipotetiche attività politiche e legami con Hamas, ma l’edificio da allora è rimasto chiuso.

Domenica notte le forze israeliane hanno messo nuovi lucchetti ai cancelli metallici che portano all’edificio. Quando i fedeli palestinesi hanno cercato di aprire i cancelli, sono scoppiati scontri, e diversi palestinesi sono stati arrestati dalla polizia israeliana.

Martedì sera ci sono stati altri scontri e arresti, mentre un tribunale israeliano, mercoledì, ha vietato a una decina di palestinesi di entrare nel complesso. Sia l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina che Hamas hanno condannato tali sviluppi, e hanno lanciato l’allarme sulla precarietà della situazione.

Una nuova realtà dei fatti

Ciò che è successo al complesso di Al-Aqsa dev’essere considerato all’interno del più ampio scenario di Gerusalemme, e in particolare di ciò che l’ong israeliana Ir Amir ha definito una “rapida e sempre più intensa catena di nuovi avvenimenti”, tra cui “un crescente numero di campagne, sostenute dallo Stato, per gli insediamenti all’interno dei quartieri palestinesi”.

Un’espressione di tali campagne è lo sfratto di famiglie palestinesi dalle proprie case, in modo che i coloni possano prenderne possesso.  Domenica scorsa, la famiglia di Abu Assab è stata espulsa dalla propria casa nel quartiere musulmano della Città Vecchia, un destino che attende altre centinaia di famiglie palestinesi nella Gerusalemme Est occupata.

Ciò che si sta concretizzando a Gerusalemme è una “campagna organizzata e sistematica dei coloni, con il sostegno degli enti governativi, per espellere intere comunità da Gerusalemme Est e per stabilire insediamenti al loro posto”, secondo le parole di un supervisore israeliano degli insediamenti.

“Ciò che vogliono è evidente: una maggioranza ebraica qui e a Gerusalemme Est”, ha dichiarato recentemente all’Independent Jawad Siyam, un attivista di Silwan. La sua comunità è rovinata dalla presenza dell’insediamento coloniale “Città di David”, destinato a ricevere un nuova spinta dalle autorità israeliane di occupazione, sotto forma di un progetto per una stazione di teleferica.

Gerusalemme è stata per un bel po’ assente dai titoli dei giornali, visto che la gran parte dell’attenzione, per motivi più che comprensibili, è stata riservata alle manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno nella Striscia di Gaza e ai tentativi, arenati, di ottenere la liberazione dal blocco. Ci sono all’orizzonte anche le elezioni israeliane, e continuano le congetture su cos’abbia in serbo l’amministrazione Trump con il cosiddetto ‘piano di pace’.

In sottofondo, comunque, l’accelerazione delle politiche coloniali israeliane a Gerusalemme Est potrebbe portare a un nuovo punto di rottura.

Attivismo di base 

La Waqf ha dichiarato di mirare all’apertura del sito di Bab al-Rahma, una richiesta che potrebbe diventare il punto fondamentale di quel genere di proteste di massa che si sono viste nell’estate del 2017. Allora, i metal detector introdotti dalle forze israeliane di occupazione fuori dal complesso della moschea di Al-Aqsa innescarono manifestazioni spontanee, e alla fine vennero rimossi.

Che il Waqf decida o meno di procedere, potrebbe ritrovarsi con le mani legate dalla pressione dell’attivismo di base; c’è parecchia preoccupazione, tra i palestinesi, che il governo israeliano – insieme al cosiddetto “Movimento del Tempio” – si stia adoperando per una divisione dello spazio del complesso di Al-Aqsa, con l’instaurazione al suo interno di preghiere ebraiche formalizzate.

Nel frattempo, gli Stati Uniti stanno procedendo alla chiusura del loro Consolato a Gerusalemme Est e allo spostamento degli “affari” palestinesi in un ufficio all’interno della nuova Ambasciata: un segnale potente, se ce ne fosse bisogno, del fatto che la visione dell’amministrazione Trump traccia una netta separazione anche dalla semplice finzione di una “soluzione dei due Stati”, e del suo timbro di approvazione su Israele come unico Stato di fatto.

Gli eventi di questa settimana, comunque si svilupperanno, costituiscono un monito: mentre Israele e gli Stati Uniti vedono in Gerusalemme una facile preda per un rapido processo di colonizzazione e di maggiore imposizione della sovranità israeliana, i residenti palestinesi della città sono navigati guastafeste dei piani israeliani e potrebbero presto riprendere questo ruolo

Traduzione di Elena Bellini/ Nena News




I minori palestinesi temono per il loro futuro in quanto Israele intende chiudere scuole

Zena Tahhan

29 gennaio 2019, Middle East Eye

Le strutture educative per i palestinesi a Gerusalemme est sono già tutt’altro che adeguate. Ora potrebbero essere molto peggiori

Campo profughi di Shuafat, Gerusalemme est occupata –Nel trascurato campo profughi di Shuafat, nella Gersualemme est occupata, l’atmosfera è sempre tesa.

Qui i bambini giocano nelle strade piene di spazzatura e acque reflue, mentre giovani adolescenti sono obbligati ad abbandonare la scuola per lavorare in autorimesse e ristoranti per aiutare in casa ad arrivare a fine mese.

Almeno 24.000 persone – la maggioranza delle quali profughi le cui famiglie vennero espulse nel 1948 – vivono in questo angolo di illegalità, rinchiuso tra due posti di controllo e un muro di cemento altro 8 metri che circonda il campo.

Notizie riguardo ai progetti di Israele di chiudere qui le due scuole per rifugiati delle Nazioni Unite hanno solo soffiato sul fuoco.

Le scuole, benché carenti come organizzazione e qualità necessarie, sono gratuite e offrono un piccolo ma significativo barlume di speranza in un contesto difficile.

“Tutte le mie amiche sono nella mia scuola. Amo i miei insegnanti. Passiamo più tempo a scuola che a casa,” dice Zuhoor al-Tawil, una studentessa quattordicenne della scuola femminile di Shuafat, gestita dall’Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, UNRWA.

“Perché non aspettano che ci diplomiamo e poi la chiudono?” chiede a Middle East Eye.

Con l’ennesimo colpo ai profughi palestinesi e al sistema educativo nella Gerusalemme est occupata, la scorsa settimana i media israeliani hanno informato che Israele chiuderà le scuole dell’ONU che forniscono servizi ai campi profughi palestinesi in tutta la città.

Secondo i mezzi di informazione israeliani, dall’inizio del prossimo anno scolastico il Consiglio della Sicurezza Nazionale di Israele revocherà i permessi alle scuole gestite dall’UNRWA.

Le scuole dirette dall’agenzia ONU verrebbero sostituite da scuole alle dipendenze del Comune di Gerusalemme, e seguirebbero il curriculum di studi del ministero dell’Educazione di Israele.

In attività dal 1949, l’UNRWA gestisce sei scuole a Gerusalemme, fornendo servizi a circa 3.000 studenti. L’agenzia gestisce anche centri sanitari e associazioni di donne e giovani, e offre anche servizi di assistenza e protezione.

In merito alla questione, l’UNRWA ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma di non essere informata della decisione di chiudere le scuole.

“In nessun momento dal 1967 le autorità israeliane hanno contestato le basi su cui l’agenzia mantiene e gestisce strutture a Gerusalemme est,” afferma la dichiarazione.

Ipotesi B’

Sebbene l’UNRWA sia preoccupata, sta cercando di non parlare di un’“ipotesi B” se Israele decidesse di chiudere le scuole o di limitare l’operatività dell’agenzia, ha detto il portavoce Sami Mshasha a MEE.

“Ci sono 60.000 rifugiati palestinesi a Gerusalemme. Gran parte di loro vive al di sotto del livello di povertà. C’è un altissimo tasso di disoccupazione, la qualità della vita di queste persone si ridurrà drasticamente e ne soffriranno.”

Mohannad Masalameh, direttore esecutivo del Comitato Popolare del campo di Shuafat, afferma che, mentre le scuole dell’ONU stanno affrontando una grave riduzione del personale a causa dei recenti tagli [ai finanziamenti all’UNRWA, ndtr.] da parte del governo USA, le loro strutture rimangono migliori di altre scuole.

L’amministrazione comunale israeliana di Gerusalemme gestisce una serie di scuole nel campo, dove, nonostante ripetuti tentativi da parte del governo israeliano di introdurre il proprio programma, vengono seguiti i programmi dell’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania.

“Tu vai in una scuola municipale e non c’è neppure un’atmosfera da scuola. Le scuole dell’UNRWA sono molto più grandi e migliori. C’è un grande cortile. La maggior parte delle scuole municipali è in edifici affittati,” dice Masalameh a MEE.

“Sebbene non sia stata presa nessuna decisione, se un simile progetto venisse messo in pratica avrà conseguenze molto negative. L’UNRWA ha fornito lavoro a circa 85 dipendenti nelle scuole: perderanno il loro lavoro.” E aggiunge: “Penso che la gente si rifiuterà di mettere i propri figli nelle scuole municipali con un programma di studi israeliano. In quanto palestinesi, alcuni potrebbero rifiutarsi di imparare un programma di un altro Paese che è in conflitto con il proprio patriottismo.”

Strutture fatiscenti

Il fatto che Israele prenda di mira le scuole dell’UNRWA è solo uno dei modi in cui le sue politiche hanno un impatto negativo sull’educazione dei palestinesi a Gerusalemme.

In base alle leggi israeliane e internazionali, Israele ha l’obbligo di fornire un’educazione adeguata a tutti i bambini palestinesi della città.

Tuttavia” Ir Amim”, una Ong israeliana che monitora la vita dei palestinesi in città, informa che sarebbero necessarie più di 2.500 aule per fornire servizi adeguati ai minori palestinesi.

Oltretutto si stima che circa 70 aule dovrebbero essere costruite ogni anno per rispondere all’aumento della popolazione palestinese, ma in media Israele ne costruisce annualmente 37.

“Fino a poco tempo fa il Comune di Gerusalemme e il ministero dell’Educazione attribuivano la crescente mancanza di aule alla carenza di terreni disponibili su cui costruire strutture scolastiche a Gerusalemme est,” affermava un rapporto dell’associazione pubblicato nel 2017.

“Di fatto, la scarsità in questione non è una reale mancanza di terreni, quanto piuttosto una mancanza di aree edificabili destinate a edifici pubblici – un risultato diretto della pianificazione urbanistica discriminatoria a Gerusalemme est.”

Israele conquistò Gerusalemme est, l’annesse e mise i suoi quartieri sotto la giurisdizione israeliana nel 1967, con un’iniziativa che violava le leggi internazionali e che non è mai stata riconosciuta dalla comunità internazionale.

Da allora ha destinato il 2,6% di tutta la terra a Gerusalemme est per strutture pubbliche. Al contrario, circa l’86% di Gerusalemme est è stato destinato ad uso dello Stato di Israele e dei coloni.

La mancanza di spazi per l’espansione naturale e la ghettizzazione dei quartieri palestinesi a Gerusalemme est hanno gravemente soffocato il settore dell’educazione.

Ziad al-Shamale, presidente dell’Unione dei Comitati dei Genitori a Gerusalemme est, afferma che la mancanza di spazio è il problema maggiore, con il muro israeliano di separazione tra la città e la Cisgiordania occupata che blocca lo sviluppo.

“Gerusalemme è chiusa dal muro, e le scuole sono già sovraffollate. Il governo israeliano non concede nessun permesso o autorizzazione per costruire una scuola – né lo fa l’Autorità Nazionale Palestinese, né il Waqf [ente religioso musulmano che gestisce i luoghi sacri, ndtr.] islamico di Gerusalemme – nessuno,” dice Shamale a MEE.

“Israele non vuole che il nostro settore educativo si sviluppi. Vogliono persone senza educazione, gente che abbandona la scuola,” continua. “Le persone non possono trovare case in cui abitare, per cui come ci si può aspettare che trovino scuole?”

Almeno il 33% degli studenti palestinesi di Gerusalemme abbandona prima di aver completato i 12 anni di scuola. Secondo il rapporto di “Ir Amir”, ogni anno più di 1.000 studenti lasciano le scuole

L’alta percentuale di abbandoni, dice Shamale, è in parte dovuta alla mancanza di strutture adeguate nelle scuole palestinesi di Gerusalemme.

“Ci sono più di 40 o 45 studenti in ogni classe, con un solo insegnante. C’è una grave carenza di campi sportivi, zone per giocare, aule con i computer e persino libri da leggere per i bambini,” dice.

Una guerra contro i programmi palestinesi

Dopo decenni di disinteresse per la scolarità dei palestinesi, nel maggio 2018 il governo israeliano ha deciso di investire 450 milioni di shekel (oltre 100 milioni di €) nell’educazione a Gerusalemme est.

Tuttavia il denaro è prevalentemente destinato a migliorare la tecnologia e le lezioni di ebraico e per convincere le scuole pubbliche municipali a passare ai programmi israeliani.

Zaid al-Qiq è un insegnante in una scuola privata e ricercatore su questioni educative. Dice che il governo israeliano sta già cercando di convincere i genitori palestinesi e i loro figli a studiare nelle scuole municipali con programmi israeliani.

“Il Comune vuole convincerli a prendere il Bagrut (esami di diploma nelle scuole superiori israeliane) o a fare esami psicometrici (esami di ingresso all’educazione superiore) invece degli esami palestinesi,” dice Qiq a MEE.

Per i palestinesi della città fare gli esami di diploma israeliani significa essere in grado di andare alle università israeliane e l’accesso ad un mercato del lavoro più vasto. Fino a poco tempo fa, quelli che volevano studiare all’Università Ebraica di Gerusalemme dovevano sottoporsi a un programma pre-univesritario di due anni con un esame psicometrico.

Nel contempo il principale campus dell’unica università palestinese di Gerusalemme – la “Al Quds” – è tagliato fuori dalla città dal muro di separazione. Chi desidera accedervi deve viaggiare per una distanza doppia e attraversare un checkpoint.

Qiq afferma che sotto l’occupazione israeliana il settore educativo palestinese è tutt’altro che indipendente: “Persino nelle scuole private il Comune interferisce sull’assunzione di alcuni insegnanti e sugli argomenti che insegniamo,” sostiene.

“Oggi stanno facendo una guerra contro i programmi palestinesi e ora vi stiamo assistendo con le scuole dell’UNRWA.”

Shamale, presidente del comitato dei genitori, è d’accordo.

“Temiamo che un domani il settore educativo ricada tutto sotto i programmi israeliani. Impartiranno ai nostri figli la narrazione israeliana. Dopo 10 o 15 anni questa generazione sarà palestinese di nome, ma non per la sua identità,” dice. “Gli studenti palestinesi sono le vittime di questo sistema.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Netanyahu vuole espellere gli osservatori internazionali da Hebron

MEE e agenzie

lunedì 28 gennaio 2019, Middle East Eye

Benjamin Netanyahu afferma che non rinnoverà il mandato degli osservatori TIPH dall’infiammabile città della Cisgiordania.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha deciso di espellere un posto di osservazione internazionale inteso a garantire i palestinesi di Hebron, una città nella Cisgiordania occupata, accusando la missione di attività anti-israeliane.

Non consentiremo la continuità di una forza internazionale che agisce contro di noi,” ha affermato lunedì Netanyahu in una dichiarazione riguardo alla Temporary International Presence in Hebron [Presenza Internazionale Temporanea ad Hebron, ndtr.] (TIPH).

Netanyahu non ha specificato il presunto comportamento scorretto della TIPH, che schiera personale da Norvegia, Italia, Svezia, Svizzera e Turchia, né ha detto quando pensa di espellerla.

L’accordo per il dispiegamento di osservatori della TIPH ad Hebron venne raggiunto tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese nel 1994, dopo che un colono israeliano aveva ucciso 29 fedeli nella moschea di Ibrahim, un luogo santo sia per i musulmani che per gli ebrei, che la definiscono la “Tomba dei Patriarchi”.

Tuttavia il gruppo non iniziò il proprio lavoro in città fino al 1998, dopo che l’esercito israeliano rifiutò di lasciare Hebron in seguito alla fondazione di una colonia israeliana illegale nel cuore della città.

Lunedì il giornale israeliano Haaretz ha informato che l’ultimo mandato della TIPH – schierata per un tempo di sei mesi rinnovabili – dovrebbe terminare il 31 gennaio

Il gruppo non ha ancora commentato la decisione di Netanyahu.

Violazioni dei diritti umani da parte israeliana a Hebron

Associazioni per i diritti umani hanno a lungo criticato le politiche israeliane ad Hebron, una città nel sud della Cisgiordania che ha sia zone sotto il controllo dell’ANP che parti controllate dall’esercito israeliano.

Da quando coloni israeliani hanno fondato un insediamento nel centro della città in seguito al massacro dei fedeli 35 anni fa, Israele ha sottoposto i palestinesi di Hebron a gravi restrizioni negli spostamenti, costruito una serie di posti di controllo militarizzati e ha di fatto paralizzato quello che una volta era un florido centro di attività commerciali.

Il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem afferma che a Hebron Israele “ha imposto una segregazione fisica e giuridica tra le centinaia di coloni e le migliaia di abitanti palestinesi.”

Ciò, insieme alla violenza dei coloni e delle forze di sicurezza, ha reso la vita intollerabile ai palestinesi, portando ad un esodo di massa e al collasso economico della zona centrale.” Da quando è stata attivata, la TIPH ha “osservato e registrato violazioni degli accordi e delle leggi umanitarie internazionali e di quelle per i diritti umani,” sostiene l’associazione nel suo sito in rete.

Lunedì i palestinesi hanno denunciato la decisione di Netanyahu di espellere gli osservatori internazionali.

La decisione del governo israeliano significa che ha abbandonato l’applicazione degli accordi firmati sotto garanzia internazionale ed è venuto meno ai propri impegni in base a questi accordi,” ha detto alla Reuters [agenzia di stampa britannica, ndtr.] Nabil Abu Rudeineh, portavoce del presidente palestinese Mahmoud Abbas.

Lo scorso mese Haaretz ha informato che un’inchiesta della TIPH con “rapporti su 40.000 incidenti” ha mostrato che Israele ha violato le leggi internazionali limitando i movimenti dei palestinesi in città.

Le colonie israeliane in Cisgiordania sono illegali in base alle leggi internazionali.

Tuttavia Netanyahu ha giocato le sue credenziali a favore dei coloni in quanto cerca di essere rieletto nelle votazioni del 9 aprile.

Sempre lunedì il primo ministro israeliano ha visitato Gush Etzion, una striscia di colonie e avamposti nel sud della Cisgiordania e si è impegnato a continuare il sostegno del suo governo ai coloni israeliani che vi vivono.

Ci vogliono sradicare da qui. Non ci riusciranno,” ha detto Netanyahu, come riferito dall’ufficio stampa del governo.

C’è una linea di pensiero che afferma che il modo per raggiungere la pace con gli arabi è essere cacciati dalla nostra terra. Questo è il cammino sicuro per raggiungere il contrario di questo sogno.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Cosa c’è dietro la repressione contro i prigionieri palestinesi?

Yara Hawari

venerdì 25 gennaio 2019, Middle East Eye

L’amara ironia è che i palestinesi della Cisgiordania e di Gaza vivono già in una prigione a cielo aperto

Questa settimana le guardie della prigione militare israeliana di Ofer hanno messo in atto pesanti attacchi contro i prigionieri palestinesi.

Le celle sono state messe a soqquadro, effetti personali sono stati distrutti e sono state effettuate perquisizioni corporali invasive. Per molti prigionieri l’aspetto peggiore è stato la confisca di foto, lettere e semplici doni dei membri della famiglia raccolti nel corso degli anni – un’ancora di salvezza per quanti devono scontare decenni di carcere.

I prigionieri sono stati anche obbligati a togliersi i vestiti e ad attendere l’ispezione all’aperto con un freddo intenso.

Non si tratta di nuove tecniche o tattiche, ma piuttosto di quelle che vengono utilizzate periodicamente come forma di punizione collettiva contro i prigionieri palestinesi.

Punizione collettiva.

L’ultima repressione nel carcere di Ofer si è scontrata con la resistenza collettiva dei prigionieri, che si sono rifiutati di collaborare con le forze israeliane. In seguito a ciò, sono stati attaccati con lacrimogeni, taser, pestaggi, cani poliziotto e persino proiettili di acciaio ricoperti di gomma sparati da breve distanza.

Più di 150 hanno dovuto ricevere cure mediche, sei prigionieri hanno subito fratture e più di 40 sono stati feriti alla testa. Molti hanno patito per le gravi conseguenze dell’inalazione di gas lacrimogeni in seguito al fatto che sono stati lanciati candelotti lacrimogeni nelle celle chiuse.

Di conseguenza “Addameer”, l’associazione per il sostegno e i diritti umani dei prigionieri, ha emesso un comunicato in cui chiede al Comitato Internazionale della Croce Rossa di avviare un’inchiesta su queste “gravissime violazioni” delle leggi internazionali e di fornire protezione ai prigionieri palestinesi.

In risposta a queste azioni e in solidarietà con i prigionieri sono state organizzate manifestazioni sia a Ramallah [in Cisgiordania, ndtr.] che ad Haifa [in Israele, ndtr.]. Durante quest’ultima dimostrazione due attivisti palestinesi sono stati arrestati dalla polizia israeliana.

Torture e maltrattamenti

In effetti nella società palestinese il problema dei prigionieri è importante, e colpisce molte persone. Dal 1967 il 40% della popolazione maschile adulta in Cisgiordania e a Gaza – ossia circa 800.000 persone – è stato sottoposto a una qualche forma di detenzione da parte di Israele. 

La maggior parte delle comunità e delle famiglie è intimamente consapevole di cosa significhi avere un proprio caro in prigione. Attualmente, secondo i dati di “Addameer”, ci sono 5.500 prigionieri politici palestinesi.

Il sistema carcerario dell’esercito israeliano destinato specificamente ai palestinesi dei territori occupati nel 1967 è ingiusto e viola le leggi internazionali. I prigionieri sono sottoposti a torture, molestie sessuali, prolungati periodi in isolamento – a volte per un tempo fino a 10 anni – cure mediche inadeguate e condizioni di vita inumane, in violazione della Quarta Convenzione di Ginevra, con la negazione dei diritti fondamentali dei detenuti.

Un altro meccanismo utilizzato dal regime israeliano è la detenzione amministrativa, che consente di trattenere i detenuti a tempo indeterminato senza un’imputazione o un processo. La detenzione più lunga di questo tipo è durata otto anni.

Tutto il sistema è essenzialmente destinato a sconvolgere e punire la società palestinese, con una percentuale del 99% di sentenze a lunghe pene detentive.

Violenza di genere

Anche nella prigione di Damon le prigioniere hanno dovuto affrontare la repressione. All’insaputa dei più fuori e dentro la Palestina, lo scorso mese il gruppo di detenute palestinesi (54 persone) è stato spostato dal carcere di Hasharon a quello di Damon, una struttura nei pressi di Haifa. Le condizioni sono significativamente peggiorate, con celle sovraffollate e docce all’esterno e al freddo, e a molte sono stati negati gli effetti personali che avevano nella prigione precedente.

La violenza di genere di Israele contro le detenute è ben documentata da ong e gruppi per i diritti umani palestinesi. Le strategie utilizzate contro di loro includono minacce, molestie sessuali, negazione di assorbenti igienici e umiliazioni generalizzate.

Israele è probabilmente l’unico Paese al mondo che processa metodicamente minorenni nel sistema dei tribunali militari. Migliaia di minori palestinesi sono stati arrestati e giudicati dai tribunali militari durante gli ultimi due decenni.

L’amara ironia è che i palestinesi della Cisgiordania e di Gaza vivono già in una prigione a cielo aperto. Il loro movimento è limitato a determinate aree e sono costantemente sotto sorveglianza. Praticamente ogni aspetto della loro vita è controllato da Israele, mentre il sistema di incarcerazione continua a violare impunemente le leggi internazionali.

Yara Hawari è esperta di politica palestinese per “Al-Shabaka, The Palestinian Policy Network.” In possesso di un dottorato in politica del Medio Oriente all’università di Exeter, scrive spesso per diversi organi di informazione.

Le opinioni espresse in questo articolo impegnano solamente l’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




In migliaia scioperano in Cisgiordania per protestare contro la legge dell’ANP sulla sicurezza sociale

Akram Al-Waara

martedì 15 gennaio 2019, Middle East Eye

Negozi e attività commerciali nelle principali città della Cisgiordania hanno chiuso le porte contro la legge che molti temono vedrà i fondi utilizzati male

Betlemme, Cisgiordania occupata – Migliaia di palestinesi nella Cisgiordania occupata hanno manifestato contro la discussa legge sulla sicurezza sociale dell’Autorità Nazionale Palestinese, per timore che i fondi vengano gestiti male.

Martedì a Betlemme, Ramallah, Nablus e nelle altre principali città della Cisgiordania negozi e attività commerciali hanno chiuso le porte mentre centinaia di palestinesi protestavano a Ramallah, il centro amministrativo dell’ANP.

Questo sciopero è un modo per dire all’ANP che la maggioranza del popolo palestinese è contro questa legge e rifiuta di rispettarla,” ha detto Muhammad Zghayyer, un portavoce del comitato di attivisti che ha organizzato le proteste.

Nonostante il 90% degli esercizi commerciali, di organizzazioni e università in tutta la Palestina abbia fatto una serrata di protesta e le continue manifestazioni negli ultimi mesi, il governo si rifiuta di ascoltare il popolo,” ha detto Zghayyer a Middle East Eye.

Il fondo viene pagato dai contributi dei lavoratori, con gli impiegati pubblici che pagano il 10% di un salario con cui secondo molti stanno già faticando a sopravvivere.

Molti temono anche che il fondo venga utilizzato in modo improprio, o possa persino essere confiscato da Israele.

Proteste sporadiche sono scoppiate contro la legge negli ultimi mesi, con molte dimostrazioni che nel novembre 2018 hanno avuto luogo a Ramallah.

Benché la legge debba ancora essere messa in pratica a causa delle proteste e del generale malcontento, martedì ha segnato il primo giorno in cui le imprese palestinesi con più di 200 dipendenti avrebbero dovuto registrarsi per aderire alla Palestinian Social Security Corporation [Compagnia Palestinese della Sicurezza Sociale] (PSSC), come previsto dalla normativa.

La legge, che Mahmoud Abbas ha emanato nel 2016 con decreto presidenziale, fissa l’età per il pensionamento a 60 anni sia per gli uomini che per le donne.

In modo problematico, richiede che i dipendenti del settore privato contribuiscano poco al di sopra del 7% dei loro salari mensili e che le imprese del settore privato apportino il loro contributo per oltre il 10%.

Questi soldi andrebbero poi ad un fondo per la sicurezza sociale creato dal PSSC e sarebbero restituiti ai dipendenti in forma di pensioni di anzianità. Tuttavia alcuni aspetti della legge, come la richiesta che anche i lavoratori che guadagnano lo stipendio minimo contribuiscano al fondo della sicurezza sociale, si sono dimostrati controversi.

Lo stipendio minimo in Palestina è di 1.450 shekel, solo circa 345 €, al mese,” dice Zghayyer a MEE. “Le persone che lavorano per questo salario possono a malapena permettersi di pagare le spese essenziali, per non parlare della sicurezza sociale.”

Se il governo vuole applicare questa legge sulla sicurezza sociale, dovrebbe aumentare lo stipendio minimo,” dice.

Altri hanno anche sollevato preoccupazioni riguardo al dubbio se le famiglie di palestinesi uccisi da Israele avrebbero accesso alle pensioni di anzianità dei loro parenti deceduti.

Il funzionario palestinese Majed el-Helo, che controlla il programma di sicurezza sociale, dice che “importanti modifiche” sono state introdotte nella legge per affrontare le preoccupazioni di chi la critica.

Ha detto all’agenzia di notizie palestinese “Wafa” che le prestazioni della sicurezza sociale si estenderanno alle vedove dei pensionati dopo la loro morte – indipendentemente a come è morta la persona. Ha anche detto che l’ANP sta lavorando per offrire prestiti a tasso agevolato per il programma di sicurezza sociale di imprese che rispondano a certi criteri.

Timori che il fondo venga utilizzato male

Tuttavia, dice Zghayyer, molti palestinesi temono che l’ANP non voglia rispettare l’ultima modifica dell’accordo e che distribuisca effettivamente le pensioni come promesso.

In tutto il mondo la sicurezza sociale è una cosa importante (per) i cittadini per proteggere il loro futuro,” dice Zghayyer a MEE, “ma quando non c’è fiducia tra un cittadino e il suo governo, come in Palestina, queste leggi non possono funzionare.”

Citando la corruzione rampante all’interno dell’ANP e la politica israeliana di trattenere i fondi fiscali dell’ANP, Zghayyer afferma di non fidarsi che il governo difenda i fondi.

Cosa succederebbe se l’occupante israeliano decidesse che i soldi del PSCC sostengono i ‘terroristi’ e di impossessarsi in qualche modo del controllo dei fondi?” chiede.

Chi può garantire di proteggere il mio denaro? Sicuramente non l’ANP.” Zghayyer dice a MEE che, da quando hanno iniziato a protestare contro la legge, lui e altri attivisti hanno ricevuto minacce di morte da gente che chiama da numeri telefonici anonimi.

Molti dei miei compagni di lotta, compreso me, sono stati personalmente destinatari di messaggi minatori ai nostri telefoni,” dice.

Persino mio padre è stato minacciato, dicendo che avrebbero ucciso suo figlio se avesse continuato a lavorare contro la legge.”

Ciononostante, dice Zghayyer, le persone continueranno a protestare finché le loro richieste verranno accolte.

Sono i lavoratori che costruiscono un Paese e aiutano un governo a sopravvivere,” afferma. “Senza l’appoggio dei lavoratori, un governo non è niente.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Legge contro il BDS: il terreno sta diventando scivoloso per Israele

Ben White

15 gennaio 2018, Middle East Eye

Disumanizzare i palestinesi è stato finora più facile, ma decenni di attivismo ben radicato della società civile da parte di palestinesi con cittadinanza americana e dei loro alleati stanno dando frutti

Negli Stati Uniti, nel contesto del blocco del governo federale che prosegue, una battaglia per tentare di eliminare la campagna per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni [contro Israele] (BDS) sta diventando una notizia in primo piano.

Lo scorso giovedì per la seconda volta il Senato ha bloccato l’iter di una legge che include la norma “per combattere il BDS” che fornisce una copertura agli Stati che penalizzano attività economiche e individui che partecipano al boicottaggio contro Israele e contro le colonie israeliane nei territori palestinesi occupati.

I principali ostacoli

Mentre i democratici si sono rifiutati di appoggiare qualunque legge prima che si sia risolto il blocco delle attività federali, si attende un terzo tentativo di far progredire la norma contro il BDS. Il senatore democratico Bob Menendez ha affermato che la legge “tornerà ed avrà un massiccio appoggio bipartisan.”

Nonostante l’opposizione, la norma contro il BDS potrebbe alla fine diventare legge. Ma i gruppi che sostengono Israele, come l’AIPAC, che spingono per queste iniziative hanno affrontato – e continueranno ad affrontare – tre importanti ostacoli nei loro sforzi di fare della Palestina e dei diritti umani dei palestinesi un’eccezione.

Il primo è l’impegno culturale e costituzionale a favore della libertà di parola negli Stati Uniti. La forza di questo impegno è tale che persino alcuni convinti avversari del BDS si sono opposti a voce alta alla criminalizzazione della campagna di boicottaggio.

Un significativo elemento dell’opposizione alla legge è venuto dall’ American Civil Liberties Union [Unione per le Libertà Civili Americane, associazione USA che si occupa di difendere i diritti civili e politici nel Paese, ndtr.] (ACLU), e questa storica organizzazione ha denunciato quello che ha definito “una misura che intende sopprimere un’espressione politica legittima.”

Mentre l’ACLU ha ripetutamente affermato di non “prendere posizione sul boicottaggio di Israele, sul movimento BDS o sul conflitto israelo-palestinese”, l’organizzazione ha sostenuto che “gli Stati non dovrebbero sanzionare attività economiche sulla base delle forme d’espressione e associazione protette dal Primo Emendamento [della Costituzione USA, ndtr.].”

Attivismo palestinese

Quando il firmatario della proposta di legge, il senatore [repubblicano, ndtr.] Marco Rubio, ha difeso l’iniziativa negando le affermazioni secondo cui essa riguardava la libertà di parola, ciò ha semplicemente causato una pubblica figuraccia riguardo alla sua conoscenza della Costituzione. Un secondo ostacolo per quelli che intendono criminalizzare il BDS è il fatto che il boicottaggio ha una lunga tradizione e una lunga storia negli USA come forma di protesta popolare e di mobilitazione della società civile.

Come ha scritto l’ACLU: “I boicottaggi politici, compresi quelli di Paesi stranieri, hanno giocato un ruolo centrale nella storia di questa Nazione – dai boicottaggi di prodotti britannici durante la rivoluzione americana al boicottaggio degli autobus di Montgomery fino al disinvestimento nel Sud Africa dell’apartheid.”

Lo scorso luglio Amjad Iraqi, sulla “London Review of Books” [prestigiosa rivista britannica, ndtr.], ha citato una tradizione persino più estesa, che include il “boicottaggio da parte del movimento Swadeshi [movimento indiano per l’indipendenza dalla Gran Bretagna nato a metà ‘800, ndtr.] dei prodotti britannici in India”, “il boicottaggio economico della Germania nazista” da parte di organizzazioni ebraiche europee e americane negli anni ’30, e lo sciopero dell’uva di Delano [sciopero dei lavoratori agricoli, sostenuto da un boicottaggio da parte dei consumatori a danno dei produttori, ndtr.] nella California degli anni ’60.

Iraqi correttamente nota come “Israele insista che la causa palestinese non può essere inclusa nella gloriosa storia dei boicottaggi.” Ciò significa che Israele e i gruppi che lo sostengono devono affermare che il BDS è “diverso” – un compito reso più difficile da un terzo ostacolo per la repressione del BDS: l’attivismo palestinese.

Prendendo di mira il BDS, i gruppi filo-israeliani devono dimostrare che i palestinesi non meritano gli stessi diritti umani degli altri popoli, e in parallelo che Israele non dovrebbe essere considerato con gli stessi standard con cui sono giudicati altri Paesi, compresi quelli sottoposti a sanzioni da parte del Congresso.

Disumanizzare i palestinesi risultava di solito più facile – e lo è ancora troppo spesso –, ma decenni di attivismo ben radicato della società civile da parte di palestinesi con cittadinanza americana e dei loro alleati stanno dando frutti, e l’appoggio ai palestinesi viene sempre più espresso nei principali spazi dei media, della cultura e della politica.

Terreno scivoloso

Come ho descritto nel mio libro “Cracks in the Wall: Beyond Apartheid in Palestine/Israel” [Crepe nel muro: oltre l’apartheid in Palestina/Israele], la polarizzazione tra elettori repubblicani e democratici riguardo a Israele e ai palestinesi, con liberal e progressisti che sono sempre più lontani da Israele, è una manifestazione concreta di questi cambiamenti.

Questi cambiamenti non si limitano più alla base. Come ha informato il “New York Times” prima delle elezioni di medio termine per il Congresso, le nuove rappresentanti elette, Alexandria Ocasio-Cortez, Ilhan Omar e Rashida Tlaib, hanno tutte “osato interrompere quella che è stata l’ortodossia praticamente inviolabile di entrambi i partiti politici,” cioè “il forte appoggio ad Israele”. “Proponendo piattaforme elettorali che sottolineavano l’opposizione contro la discriminazione a danno di gruppi emarginati,” aggiunge il giornale, “le candidate hanno inserito la questione palestinese come ciò che definiscono un maggiore impegno per la giustizia sociale.”

Scrivendo la scorsa settimana sul quotidiano israeliano “Haaretz” [giornale israeliano di centro sinistra, ndtr.] il corrispondente [dagli USA] Amir Tibon ha messo in luce una “sfida” che devono affrontare “i diplomatici israeliani e gruppi come l’‘AIPAC’” nell’“attuale contesto politico” – “la crescente ‘ondata progressista’ all’interno del partito Democratico, molto critica verso Israele e che ora include due membri della Camera dei Rappresentanti che appoggiano apertamente il BDS.”

Non bisogna negare le energie molto significative che sono utilizzate per combattere contro il movimento BDS sia a livello dei singoli Stati che a livello federale – per non parlare della repressione e della censura sperimentate da studenti e facoltà nelle università. E, ribadisco, alla fine quest’ultimo progetto di legge potrebbe persino essere approvato.

Ma gli ostacoli che si trovano di fronte quelli che guidano la battaglia legislativa contro il BDS negli USA sono la prova che per Israele, a lungo abituato ad essere servito e riverito, il terreno sta diventando scivoloso.

Ben White è autore di “Israeli Apartheid: A Beginner’s Guide” [Apartheid israeliano: una guida per principianti] e di “Palestinians in Israel: Segregation, Discrimination and Democracy” [Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia]. Scrive per Middle East Monitor e i suoi articoli sono stati pubblicati anche da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, the Electronic Intifada, e nella rubrica del “The Guardian” “Comment is Free” [Il commento è libero] ed altri.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Condannato a 35 anni di carcere un diciassettenne: minori palestinesi e giustizia israeliana

Akram Al-Waara

4 gennaio 2019, Middle East Eye

Le famiglie palestinesi accusano i tribunali israeliani di procrastinare deliberatamente le udienze in modo che i loro figli ricevano sentenze più pesanti

Ramallah, Cisgiordania occupata – Sono passati quasi 3 anni da quando Omar Rimawi è stato arrestato per aver colpito e ucciso un colono israeliano in un supermercato della Cisgiordania occupata. Aveva 14 anni.

Da allora l’adolescente è rimasto dietro le sbarre. La sua famiglia attende con ansia la sentenza finale di condanna del figlio, che si prevede verrà emessa da un giudice militare israeliano il 14 gennaio.

Sono stati tre anni di agonia,” dice a Middle East Eye il padre di Omar, il cinquantunenne Sameer Rimawi. “Ogni volta che il tribunale si riunisce pensiamo che sarà il giorno [della sentenza], ma non è ancora arrivato.”

Quando è entrato in prigione era un ragazzino, ora ha 17 anni, quasi 18,” dice suo padre.

Nei tre anni in cui Omar è stato in prigione, i tribunali militari israeliani hanno ignorato le pressioni da parte della famiglia e degli avvocati e rifiutato di emettere la sentenza contro il ragazzo del villaggio di Beituniya, nella parte centrale della Cisgiordania occupata.

La famiglia Rimawi è convinta che il tribunale stia rimandando la sentenza contro Omar per una semplice ragione: dato che è più grande, il tribunale può giustificare il fatto di comminargli una condanna più pesante in carcere, una tattica che i difensori dei diritti umani affermano essere una prassi usuale del sistema giudiziario israeliano.

Ogni anno che passa il rischio di una sentenza più grave aumenta,” dice Sameer Rimawi della vicenda del figlio.

La famiglia aveva sperato che nei confronti di Omar si sarebbe esercitata una certa clemenza per via dell’età, ma queste speranze si sono infrante quando Ayham Sabbah, amico di Omar, è stato condannato a 35 anni di prigione.

Ayham, che ora ha anche lui 17 anni, era con Omar il giorno dell’accoltellamento, ed entrambi sono accusati di aver portato a termine insieme l’aggressione.

Ayham non aveva ancora 18 anni quando lo hanno condannato a 35 anni di carcere,” dice Rimawi, e aggiunge che il pubblico ministero israeliano aveva chiesto per Omar l’ergastolo e il pagamento di una multa di 5 milioni di shekel (circa 1.180.000 €).

Preghiamo dio che Omar non debba subire la stessa sorte, ma sappiamo che Israele non si preoccupa dei diritti dei minori.”

Nel modesto soggiorno del suo appartamento di tre camere da letto a Beituniya, Bassem Sabbah siede calmo con le gambe incrociate e le dita intrecciate.

Quando gli si chiede di suo figlio Ayham, l’insegnante palestinese si irrigidisce e le mani iniziano ad agitarsi.

Il 17 dicembre ha ricevuto la peggiore notizia della sua vita: Ayham, il maggiore dei suoi due figli adolescenti, è stato condannato a 35 anni di carcere e gli è stato imposto di pagare una multa di 1.25 milioni di shekel (quasi 300.000 €).

Siamo rimasti scioccati,” dice Bassem a MEE. “Ayham era solo un bambino quando è stato arrestato – lo è ancora, non è neppure maggiorenne.”

La famiglia della vittima, il soldato israeliano ventunenne Tuvia Yanai Weissman, che all’epoca era in congedo, ha detto di essere rimasta delusa perché l’adolescente palestinese non è stato condannato all’ergastolo. Nell’attacco un altro uomo era rimasto ferito.

Due ragazzi in Israele

Ayham e Omar sono stati arrestati il 18 febbraio 2016 dalle forze israeliane nel supermercato “Rami Levy” nell’area industriale di Shaar Binyamin.

All’epoca del loro arresto i due sono stati colpiti e gravemente feriti da un passante. La famiglia sostiene che dopo l’arresto Ayham non è stato curato e i suoi diritti in quanto minorenne sono stati ripetutamente violati.

É stato interrogato in ospedale mentre era in condizioni critiche, senza la presenza mia, di sua madre e neppure del suo avvocato,” dice Bassem, aggiungendo che Ayham è stato obbligato a firmare documenti in ebraico, una lingua che non capisce.

Da allora l’adolescente è stato tenuto nella prigione israeliana di Ofer per l’uccisione di Weissman. Ayham è comparso più di 30 volte davanti al tribunale militare israeliano.

Il tribunale ha avuto più di 30 possibilità di emettere una sentenza, ma ha solo temporeggiato, affermando di aspettare nuove prove o testimonanze contro Ayham,” dice Bassem.

Ma, afferma Bassem, le nuove prove e le testimonianze oculari non sono mai arrivate.

Di solito la famiglia di un accusato non vorrebbe che le prove a carico vengano ammesse in aula,” dice Bassem. “Ma noi abbiamo pregato il giudice di accettare in tribunale come prova la ripresa delle telecamere di sorveglianza del giorno dell’aggressione.”

In realtà volevamo che il tribunale accettasse la prova in modo da concludere il caso ed emettere la sentenza contro Ayham al più presto,” afferma.

La famiglia credeva che, nonostante i tentativi della procura di ottenere l’ergastolo, il giudice sarebbe stato clemente dato che Ayham era un ragazzino e non aveva ancora raggiunto la pubertà al momento dell’attacco.

In base alle leggi internazionali e dei diritti umani si dovrebbero prendere in considerazione alcuni fattori quando si mette in prigione e si condanna un bambino,” dice suo padre. “Ma il tribunale israeliano non ne ha tenuto conto.”

Trentacinque anni non è solo una condanna pesante, è scandalosa,” continua Bassem. “Ayham era solo un bambino, non capiva quello che stava facendo.”

Quando gli si chiede perché Ayham, descritto dai genitori come un ragazzo studioso e giocoso, abbia commesso una simile azione, Bassem indica la finestra verso l’esterno.

Guarda l’occupazione tutt’intorno,” afferma. “Perché un bambino lascerebbe i suoi libri e il pallone per accoltellare qualcuno? A causa di quello che gli israeliani hanno fatto alla nostra terra, di come ci hanno aggrediti, arrestati e uccisi per anni con l’occupazione, giorno dopo giorno.

È questo che fa pensare ai ragazzini palestinesi: quale futuro avrò sotto questa occupazione? Questo li porta a commettere un’aggressione.”

Agli occhi della corte

Ogni anno circa 700 palestinesi della Cisgiordania al di sotto dei 18 anni sono processati da tribunali militari israeliani, che, secondo i gruppi per i diritti umani “Addameer” [“Coscienza”, ong palestinese che si occupa dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane, ndtr.] e “Defense for Children International – Palestine” [Difesa Internazionale dei Minori – Palestina] (DCIP), vantano una percentuale di condanne del 99,7%.

Le leggi militari israeliane consentono che i bambini della Cisgiordania occupata e di Gaza dai 12 anni in su vengano condannati a pene detentive.

Fino a pochi anni fa la prassi israeliana consentiva che i minori palestinesi di un’età dai 16 anni in su fossero giudicati e condannati dai tribunali militari israeliani come adulti.

Nonostante un ordine militare del 2011 che alzava da 16 a 18 anni l’età della responsabilità giuridica dei palestinesi nel sistema dei tribunali militari, gli analisti sostengono che la prassi di giudicare ragazzini dai 16 anni in su come se fossero adulti è rimasta per lo più invariata.

Ci sono linee guida per le sentenze che limitano la possibilità del tribunale di condannare un minore a una lunga pena detentiva se ha meno di 15 anni,” dice a MEE Dawoud Yousef, analista per i diritti umani che risiede in Cisgiordania.

Per cui quello che tendono a fare i tribunali è di aspettare finché hai 16 anni in modo da poterti condannare come un adulto,” continua. “In teoria, ragazzini con meno di 18 anni non dovrebbero essere condannati a 35 anni, ma non ci sono norme o disposizioni che impediscano ai tribunali di farlo.”

Secondo Yousef, la ragione per cui le corti militari israeliane ritardano le condanne di minori palestinesi è duplice.

Non solo i tribunali militari perseguono indiscriminatamente il massimo della pena per i palestinesi, ma è anche una questione di immagine di fronte alla comunità internazionale,” afferma Yousef.

Alcuni gruppi per i diritti umani da tempo accusano i tribunali militari israeliani di fungere da “corti fantoccio” che, invece di funzionare come sistema di giustizia e per chiedere conto di reati, sono utilizzate come strumento di dominio, come estensione della sovranità israeliana nei territori palestinesi occupati.

Per lo Stato di Israele è estremamente importante che questi tribunali continuino a conservare almeno una parvenza di legittimità internazionale,” continua Yousef.

Così in molti casi questo vuol dire aspettare finché i ragazzini sono più grandi, e che lo sembrino anche fisicamente, il che consente ai tribunali di giustificare condanne a pene più lunghe.”

Oggetti taglienti

Solo due settimane prima che Ayham Sabbah venisse condannato, Israele ha liberato, dopo tre anni di prigione, i detenuti palestinesi Shadi Farrah e Ahmad al-Zaatari, entrambi quindicenni.

I due ragazzi, titolari di carte d’identità di Gerusalemme, sono stati arrestati nel 2015 a 12 anni con l’accusa di tentato omicidio, facendo di loro i prigionieri palestinesi più giovani del momento.

Le forze israeliane sostenevano che al momento del loro arresto i ragazzini fossero in possesso di oggetti affilati e stessero progettando di attuare un’aggressione nella zona.

Nonostante la loro recisa smentita che i ragazzini stessero pianificando una qualunque sorta di aggressione, nel novembre 2016 le famiglie Farrah e Zaatari hanno accettato un patteggiamento che ha visto i ragazzini condannati a tre anni, compreso il periodo già scontato, in un carcere minorile israeliano.

Siamo stati obbligati ad accettare il patteggiamento, benché i ragazzini non avessero fatto niente di male,” dice a MEE la madre di Shadi, Fariha Farrah.

Il pubblico ministero ci ha minacciati, affermando che se non avessimo accettato il patteggiamento, avrebbero iniziato a rimandare la condanna di Shadi fino al compimento dei 14 anni, nel qual caso avrebbe ricevuto una condanna ancora più lunga,” afferma la quarantenne.

A differenza dei minorenni palestinesi della Cisgiordania, quelli palestinesi con residenza a Gerusalemme est o con cittadinanza israeliana sono giudicati dai tribunali penali israeliani, non da corti militari.

In base alle leggi del codice penale israeliano, i minorenni con meno di 14 anni possono essere condannati solo a pene da scontare in strutture per minori. Una volta che abbiano superato i 14 anni, possono scontare la pena in una struttura carceraria insieme a prigionieri palestinesi adulti.

In quelli che Israele definisce casi “di sicurezza” – in genere riferendosi a casi in cui palestinesi sono accusati di aggredire israeliani – i minori palestinesi di Gerusalemme incarcerati non ricevono pene ridotte. Per ogni condanna o imputazione che prevede una pena massima al di sopra dei sei mesi, i minori dai 14 anni in su vengono condannati a pene uguali a quelle degli adulti.

Il pubblico ministero non ha prodotto alcun testimone che potesse deporre contro Shadi, ma il tribunale ha iniziato a rimandare e rimandare la sentenza senza alcuna ragione, “continua Farrah. “Stavamo facendo una corsa contro il tempo per essere sicuri che Shadi ricevesse una sentenza prima di compiere 14 anni.”

Avevamo visto quello che era successo ad Ahmed Manasra, come hanno iniziato a rinviare la sentenza, e questo ci ha terrorizzati tanto da accettare il patteggiamento,” sostiene.

Pochi mesi prima della condanna di Shadi, nel novembre 2016, un tribunale israeliano aveva condannato il quattordicenne Ahmad Manasra a 12 anni di prigione per tentato omicidio.

Manasra, il cui processo ha fatto notizia, aveva solo 13 anni quando lui e suo cugino hanno colpito e ferito gravemente due israeliani nei pressi di una colonia israeliana nella Gerusalemme est occupata.

Israele è stato universalmente criticato per aver rimandato la condanna di Manasra fin dopo il compimento dei 14 anni, età in cui era abbastanza grande perché in base alle leggi israeliane gli venisse comminata una detenzione più pesante.

Quello stesso anno i tribunali israeliani hanno condannato a lunghe pene detentive per tentato omicidio molti altri minori palestinesi di Gerusalemme che sarebbero stati coinvolti in presunte aggressioni all’arma bianca tra il 2015 e il 2016.

Doppio standard

Ognuna delle famiglie Rimawi, Sabbah e Farrah ha espresso le stesse rimostranze: se i ruoli fossero stati invertiti, questo non sarebbe avvenuto.

Sappiamo che in queste situazioni il razzismo è uno dei fattori decisivi,” dice Bassem a MEE.

Se un colono israeliano minorenne uccidesse un palestinese, pensi che gli toccherebbe la stessa sorte di mio figlio? Assolutamente no,” afferma.

Gli israeliani che attacchino o uccidano dei palestinesi sono giudicati, ammesso che lo siano, nei tribunali civili,” sostiene Rimawi. “Ma se un minore palestinese lancia una pietra, viene giudicato da un tribunale militare. Che razza di sistema giudiziario è questo?”

Sabbah e gli altri genitori segnalano casi di minori, e adulti, israeliani che hanno ucciso o aggredito dei palestinesi e se la sono cavata con condanne molto meno pesanti dei loro figli, e persino senza nessuna condanna.

Guarda il caso dei ragazzi che hanno rapito e bruciato vivo Mohammed Abu Khdeir nel 2014,” dice Sabbah, sottolineando il fatto che uno degli adolescenti condannati sta scontando una condanna a 21 anni, rispetto ai 35 di Ayham Sabbah.

Guarda Elor Azaria,” dice Fariha Farrah, “è stato ripreso in un video mentre giustiziava Abd al-Fattah al-Sharif, e ha passato 8 mesi in prigione.”

Farrah aggiunge che, durante il processo a suo figlio Shadi, l’avvocatessa israeliana della famiglia stava difendendo anche un colono israeliano minorenne che aveva aggredito un soldato israeliano.

Il ragazzo israeliano che stava difendendo è stato rilasciato e gli è stata comminata una lieve ammenda, ed egli aveva aggredito uno dei loro soldati,” afferma. “Mio figlio aveva 12 anni ed è stato in prigione per 3 anni perché avrebbe “pianificato” un attacco, quando non ha neppure alzato le mani su qualcuno.”

All’inizio della scorsa estate l’Alta Corte israeliana ha rilasciato un colono israeliano coinvolto nel 2015 nell’incendio di una casa palestinese che ha ucciso un neonato palestinese e i suoi genitori della famiglia Dawabsheh.

La Corte ha liberato il colono dopo che aveva trascorso due anni in prigione con il pretesto che era minorenne al momento del gravissimo attacco. Gli sono stati comminati gli arresti domiciliari.

Hanno bruciato vivo un neonato, e l’hanno fatta franca,” dice Farrah.

Quello che fanno per i minori israeliani dovrebbero farlo anche per quelli palestinesi,” continua Sabbah.

In tutto il mondo i minorenni non sono giudicati come gli adulti, anche se hanno fatto un errore,” dice.

C’è una cosa chiamata infanzia – che dovrebbe essere rispettata. Ma sotto occupazione, i nostri ragazzini stanno passando la loro infanzia in prigione.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




JNF Canada sottoposto a controllo per aver utilizzato donazioni per finanziare progetti dell’esercito israeliano: un rapporto

Redazione di MEE

4 gennaio 2019, Middle East Eye

CBC News informa che il Jewish National Fund del Canada è stato sottoposto a un’indagine per aver utilizzato donazioni in beneficienza per finanziare progetti dell’esercito israeliano

La Canadian Broadcasting Corporation [l’Ente televisivo canadese] ha riferito che il Jewish National Fund [Fondo Nazionale Ebraico, ente no profit dell’Organizzazione Sionista Mondiale, ndtr.] del Canada è stato sottoposto a un’indagine da parte dell’ufficio federale delle imposte del Paese perché avrebbe destinato donazioni in beneficienza al finanziamento di progetti dell’esercito israeliano.

Venerdì [4 gennaio] CBS News ha detto che JNF Canada, una delle principali associazioni di beneficienza del Canada, ha finanziato progetti infrastrutturali dell’esercito israeliano, basi aeree e navali.

CBC ha informato che lo scorso anno l’organizzazione ha comunicato ai suoi donatori di essere sottoposta a un’inchiesta da parte della Canada Revenue Agency [Agenzia delle entrate canadese, ndtr.].

Mentre nessuna legge impedisce a un cittadino canadese di intestare un assegno direttamente al ministero della Difesa israeliano, le norme vietano a enti di beneficienza esenti da tasse di destinare entrate fiscali per tali donazioni e proibisce anche ai donatori di chiedere riduzioni fiscali per questo,” ha affermato la televisione nazionale.

CBC ha informato che JNF Canada ha aiutato a finanziare, tra i vari progetti, una zona di fitness all’aria aperta nella base militare di Gadna a Sde Boker, nella regione desertica del Negev nel sud di Israele.

Citando documenti prodotti da Keren Kayemeth LeIsrael (KKL), la società madre in Israele dell’organizzazione JNF Canada, CBC News ha detto che la sezione canadese di JNF ha anche contribuito a finanziare “la nuova cittadella di addestramento dell’IDF [esercito israeliano] nel Negev.”

Le donazioni del JNF Canada sono state destinate anche ad appoggiare lo sviluppo di un complesso di addestramento e un auditorium nella base navale di Bat Galim, come anche addestramento e conferenze nella stessa base e una “specie di refettorio” per reparti nelle basi dell’aviazione di Palmachim e di Nevatim.

Nel reportage di CBC News figura anche il coinvolgimento di JNF Canada in progetti nei territori palestinesi occupati

Il mezzo di informazione ha affermato che le missioni dell’organizzazione hanno contribuito direttamente alla costruzione almeno di un avamposto di coloni su una collina, Givat Oz VeGaon, che è illegale in base alle leggi internazionali ed israeliane.

JNF Canada afferma di aver smesso di finanziare progetti dell’esercito nel 2016

In una mail, l’amministratore delegato di JNF Canada Lance Davis ha detto alla CBC che l’organizzazione ha smesso di finanziare progetti legati all’esercito israeliano nel 2016, dopo essere stata informata delle linee guida della CRA.

Per essere chiari, non abbiamo più finanziato progetti su terreni dell’IDF e JNF Canada ha agito in accordo con le norme della CRA che definiscono il suo status di organizzazione caritativa,” ha scritto Davis.

Comunque le sezioni sia israeliana che canadese del JNF sono state accusate per decenni di essere complici dell’espulsione forzata di palestinesi dalle loro case da parte di Israele, così come di politiche discriminatorie nella destinazione delle terre.

JNF Canada finanziò la creazione del Canada Park, un’estesa riserva naturale a circa 25 km da Gerusalemme, costruita sulle rovine di 3 villaggi palestinesi che vennero spopolati con la forza dall’esercito israeliano nella guerra del 1967.

Gli originari abitanti palestinesi di quei villaggi – Yalu, Imwas and Beit Nuba – vennero espulsi con la forza dalla zona e a molti, se non a tutti, venne impedito di tornarvi.

Independent Jewish Voices Canada” [Voci ebraiche indipendenti del Canada], un gruppo che sostiene i diritti dei palestinesi, ha guidato una campagna “Stop al JNF”, con l’intenzione di togliere all’organizzazione lo status di ente benefico in Canada.

Nel 2017 il gruppo ha aiutato quattro canadesi a presentare un ricorso presso la CRA e il ministero delle Finanze canadese in cui si chiedeva che a JNF Canada non venisse più consentito di operare come associazione di beneficienza.

“Solo negli ultimi anni JNF Canada ha finanziato ben più di una decina di progetti di appoggio all’IDF ed è partner ufficiale dell’IDF e del ministero della Difesa israeliano,” afferma il gruppo nel suo sito web.

IJV-Canada ha anche affermato che il JNF ha piantato alberi nei territori palestinesi occupati, contribuendo quindi al fatto che Israele rafforzasse il proprio controllo su quelle aree, in violazione delle leggi internazionali.

Prendendo il controllo di terre nei (territori palestinesi occupati), questi progetti rafforzano la cinquantennale occupazione militare di Israele, rendendo molto più difficile da raggiungere una giusta pace,” sostiene il gruppo.

Nessuna organizzazione canadese, per non parlare di un’associazione con lo status di ente benefico, dovrebbe sponsorizzare progetti che creano fatti sul terreno in favore di una potenza occupante e che – in violazione delle leggi internazionali – modifica le caratteristiche fisiche del territorio occupato.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Amos Oz: il mito tenace del sionismo progressista

Ben White

1 gennaio 2018, Middle East Eye

L’ammirazione dell’Occidente per Amos Oz è collegata al romanticismo che continua ad essere associato al kibbutz, alle illusioni sul processo di pace e, soprattutto, al profondo sostegno offerto al colonialismo di insediamento in Palestina

Da molto tempo emarginata dalla destra nazionalista in forte ascesa in Israele, all’estero la cosiddetta “sinistra sionista” ha conservato un’influenza morale e intellettuale di prima grandezza.

Lo scrittore Amos Oz, deceduto lo scorso 28 dicembre all’età di 79 anni, era forse l’incarnazione più conosciuta di questa corrente politica. Noto come il “padrino dei pacifisti israeliani” –come l’ha presentato il “New Yorker” [settimanale di politica e cultura USA di tendenza progressista, ndtr.] nel 2004 -, era ammirato da molti a livello internazionale.

Tuttavia questa immagine dell’artista o del profeta progressista – alla quale hanno contribuito in buona misura i cambiamenti politici in Israele, che hanno fatto sì che persino i critici più clementi siamo ormai definiti “traditori” – contrasta chiaramente con le opinioni di Amos Oz su eventi passati e presenti, e in particolare su quello che il sionismo ha rappresentato per i palestinesi.

Giustificare la Nakba

La sinistra sionista, a cui Amos Oz apparteneva, ha dedicato un notevole impegno per giustificare la pulizia etnica della Palestina. La seguente metafora è stata alla base del contributo di Amos Oz a questi sforzi: “La giustificazione (del sionismo) per quanto riguarda gli arabi che vivevano su questa terra è il giusto diritto del naufrago che si aggrappa all’unica tavola che trova”, ha scritto nel suo libro “In terra di Israele” [Marietti, Torino, 1992, ndtr.].

E ogni regola di giustizia naturale, obiettiva e universale autorizza l’uomo che annega e che si aggrappa a quell’asse a ritagliarvisi uno spazio, anche se per questo deve spingere un po’ gli altri. Anche se gli altri, seduti su quella stessa tavola, non gli lasciano altra alternativa che la forza.”

Solo che i palestinesi non sono stati invitati a “condividere un asse”: sono stati espulsi in massa, i loro villaggi sono stati rasi al suolo e i loro centri urbani spopolati, e continuano ad essere esclusi dalla loro patria semplicemente perché non sono ebrei.

Inoltre chi, a parte un mostro, rifiuterebbe a un naufrago un posto su una tavola a cui aggrapparsi? La metafora di Amos Oz ha una duplice funzione: fa sparire la Nakba e rimprovera alle sue vittime di essere dei bruti senza pietà che hanno dovuto essere “obbligati” a “condividere una tavola”.

La falsa simmetria dell’occupazione

Amos Oz ha creato numerose metafore per presentare una falsa simmetria tra palestinesi e israeliani e sottrarsi a qualunque responsabilità politica. I palestinesi e gli israeliani sono dei “vicini” che hanno bisogno di “buone recinzioni”, una coppia di sposi che ha bisogno di un “divorzio equo”, un paziente che ha bisogno di una “dolorosa” operazione chirurgica.

Nel 2005 Amos Oz ha dichiarato a Libération [quotidiano francese di sinistra, ndtr.]: “Israele e Palestina (…) somigliano a un carceriere e al suo prigioniero, ammanettati uno all’altro. Dopo tanti anni, non c’è praticamente più nessuna differenza tra di loro: il carceriere non è libero più del suo prigioniero.” Questa cancellazione delle strutture di potere, questa mescolanza tra la realtà dell’occupato e la soggettività dell’occupante erano tipici dell’autore.

Lo scontro tra gli ebrei che ritornano a Sion e gli abitanti arabi del luogo non assomiglia ad un western o a un’epopea, ma piuttosto a una tragedia greca”, ha scritto (corsivo dell’autore [dell’articolo di MEE, ndtr.]). Le variazioni su questo tema sono state numerose: “Il conflitto tra un ebreo israeliano e un arabo palestinese (…) è uno scontro tra una ragione e un’altra ragione (…), un conflitto tra vittime.”

Ora, parlare di “tragedia” equivale a confondere deliberatamente i rapporti di causa e effetto e a sostituire le responsabilità con una spiacevole disgrazia e, verosimilmente, a presentare il movimento sionista (ossia lo stesso Oz) come un eroe tragico che, benché le sue azioni abbiano delle conseguenze deleterie per gli altri, è nobilitato dalla propria auto consapevolezza

In effetti, come ha sottolineato il critico letterario americano di origine palestinese Saree Makdisi, “non è per niente vero che per Oz in questo conflitto esistano due contendenti più o meno ugualmente colpevoli. In fin dei conti, i veri cattivi nella versione della storia secondo Oz sono i palestinesi, che avrebbero dovuto riconoscere il sionismo come un movimento di liberazione nazionale (e) accoglierlo a braccia aperte.”

In un articolo apparso qualche anno fa Amos Oz affermava che “l’esistenza o la distruzione di Israele non sono mai state una questione di vita o di morte,” in particolare per Paesi come la Siria, la Libia, l’Egitto e l’Iran, prima di aggiungere con disinvoltura una frase rivelatrice: “Può darsi che questa sia stata l’ipotesi per i palestinesi – ma, per nostra fortuna, essi sono troppo deboli per sconfiggerci.”

Il colonialismo è sempre una “questione di vita o di morte” per i colonizzati – e Amos Oz lo sapeva.

Proteggere Israele dalle critiche all’estero

Nonostante la sua fama di detrattore delle azioni del governo israeliano, Amos Oz ha giocato un ruolo importante nella giustificazione dei crimini di guerra di Israele sulla scena internazionale.

Come ricorda un necrologio a lui dedicato, durante l’invasione del Libano e l’annientamento delle due Intifada palestinesi da parte di Israele, quest’ultimo “aveva bisogno di voci per parlare al mondo esterno e mostrare un volto più altruistico di quello di Ariel Sharon.” Tre settimane dopo l’inizio della Seconda Intifada, quando erano già stati uccisi circa 90 palestinesi, Amos Oz è servito in questo modo di un articolo sul Guardian [quotidiano inglese di centro sinistra, ndtr.] per attaccare “il popolo palestinese”, definendolo “soffocato e avvelenato da un odio cieco.”

In seguito, durante l’assalto devastante di Israele contro la Striscia di Gaza nel 2014, Amos Oz si è affrettato a condividere le frasi fatte promosse dal suo governo presso i media internazionali: “Cosa fareste voi se il vostro vicino di fronte si sedesse sul balcone, mettesse il suo ragazzino sulle ginocchia e cominciasse a sparare con una mitragliatrice contro la stanza del vostro bambino?”

Amos Oz ha anche respinto i tentativi, anche modesti, intesi a chiedere conto a Israele: nel 2010 ha scritto insieme ad altri una lettera per opporsi alla petizione, formulata da studenti ebrei e palestinesi presso l’università californiana di Berkeley affinché essa cessasse gli investimenti in due imprese di armamenti che avevano come cliente l’esercito israeliano. Amos Oz ha anche accusato di antisemitismo la mozione per il disinvestimento.

Un argomento noto

Di fatto Amos Oz ha creduto e ribadito un buon numero di argomenti anti-palestinesi avanzati dai governi israeliani che si sono succeduti e dalla destra nazionalista del Paese. In una postfazione del 1993 al suo libro “In terra di Israele” Oz ha denunciato “il movimento nazionale palestinese (…) come uno dei movimenti nazionalisti più estremisti e intransigenti della nostra epoca,” che è stato causa della miseria “del suo stesso popolo.”

Nella medesima postfazione Amos Oz ha respinto le affermazioni palestinesi secondo le quali il sionismo sarebbe un “fenomeno colonialista”, scrivendo con involontaria ironia: “I primi sionisti arrivati in terra d’Israele alla fine del secolo non avevano niente da colonizzarvi.” Nel 2013 Oz ha dichiarato: “Gli membri dei kibbutz non volevano impadronirsi della terra di nessuno. Si sono deliberatamente installati negli spazi vuoti del Paese, nelle zone interne e disabitate, dove non viveva nessuno.”

In un editoriale del 2015 lo scrittore israeliano ha espresso il proprio orrore di fronte all’idea di una maggioranza palestinese all’interno di un unico Stato democratico: “Iniziamo con una questione di vita o di morte. Se non ci sono due Stati, ce ne sarà uno. Se ce ne sarà uno, sarà arabo. Se sarà arabo, è impossibile prevedere la sorte dei nostri figli e dei loro.”

Molto è stato detto sul l’“itinerario” politico di Amos Oz, a partire dalla sua infanzia in una famiglia di sionisti revisionisti [nazionalisti di destra, ndtr.]. Tuttavia il suo rifiuto di una soluzione sulla base di uno Stato unico ricorda le parole del dirigente revisionista Vladimir Jabotinsky, che affermava: “Il nome della malattia è minoranza, il nome della cura è maggioranza.”

Colonialismo di insediamento

L’immagine politica di Amos Oz in Occidente non si limita alla vita e al lavoro di un solo uomo. Deriva anche anche dal romanticismo che continua ad essere associato al kibbutz, alle illusioni sulla realtà degli accordi di Oslo e del processo di pace promosso dagli USA. Soprattutto, forse, è collegata al profondo sostegno offerto al colonialismo di insediamento in Palestina e alla tenace forza della mitologia sionista.

Un recente articolo del New York Times [principale quotidiano statunitense, ndtr.] sulla vita di Amos Oz afferma che Israele è “nato da un sogno, da un desiderio” e descrive Oz come “per molti aspetti, il perfetto nuovo ebreo che il sionismo aveva sperato di creare. Adolescente ha lasciato da solo Gerusalemme (…) e si è insediato in un kibbutz, una delle comunità agricole socialiste in cui gli israeliani hanno realizzato i propri sogni più radicati: coltivare se stessi e la terra in modo da diventare robusti e generosi.” (corsivo dell’autore [dell’articolo di MEE, ndtr.]).

Il colonialismo di insediamento è sempre stato sinonimo di incremento della soggettività del colono e di eliminazione brutale del colonizzato. La storia del movimento sionista in Palestina non è diversa.

Così la Palestina non era presentata come un luogo nel tempo, con la propria storia, i propri costumi, i propri popoli e le proprie narrazioni, ma piuttosto come un ambiente favorevole alla realizzazione della visione di “restaurazione” dei coloni. I palestinesi non erano presentati come individui reali, vivi, ma come dei buoni selvaggi, dei barbari e dei fanatici religiosi.

Come ha dichiarato il regista israeliano Udi Aloni, “la sinistra ebraica israeliana (…) non considera i palestinesi come soggetti della lotta, non vede che se stessa.”

Dans une critique cinglante du livre d’Amos Oz, Dear Zealots, publié en 2017, l’ancien président de la Knesset Avraham Burg a décrit Oz comme « un partisan fanatique de la partition, qui piétine tout sur son passage pour parvenir à sa solution surannée [à deux États] ». Pour Amos Oz, « un seul État arabe est inconcevable » ; ses « opinions des Arabes, qui affleurent ici et là, ne sont pas vraiment flatteuses ». Comme l’a résumé Burg : « Il y a beaucoup de questions, et ce petit livre d’Amos Oz n’offre aucune solution. »

In una sferzante critica al libro di Amos Oz Cari fanatici [Feltrinelli, Milano, 2017, ndtr.], pubblicato nel 2017, l’ex presidente della Knesset Avraham Burg ha descritto Oz come “un sostenitore fanatico della spartizione, che lungo il suo passaggio calpesta tutto per raggiungere la propria soluzione ormai superata (a due Stati).” Per Amos Oz “uno Stato unico arabo è inconcepibile”; le sue “opinioni sugli arabi, che affiorano qua e là, non sono davvero lusinghiere.” Come ha riassunto Burg: “Ci sono numerosi problemi, e questo libriccino di Amos Oz non offre alcuna soluzione.”

Ben White è autore di “Israeli Apartheid: A Beginner’s Guide [Apartheid israeliano: una guida per principianti] e di Palestinians in Israel: Segregation, Discrimination and Democracy” [Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia]. Scrive per Middle East Eye e i suoi articoli sono stati pubblicati anche da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, the Electronic Intifada, e nella rubrica del “The Guardian” “Comment for Free” [Commento gratis] ed altri.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Nel 2018 finalmente è caduta la maschera di Israele

Gideon Levy

1 gennaio 2018, Middle East Eye

Avendo consolidato dal punto di vista legislativo la sua natura di apartheid, Israele ha creato la copertura giuridica per l’annessione formale dei territori occupati al di là delle frontiere riconosciute dello Stato

Il 2018 non è stato un buon anno per Israele. Ovviamente per i palestinesi è stato persino peggiore.

In apparenza non è stato un anno particolarmente drammatico – solo un po’ più del solito, senza nuove guerre significative e senza molto spargimento di sangue, se confrontato con gli anni precedenti. Le cose sembrano bloccate. L’occupazione è continuata senza ostacoli, come l’impresa di colonizzazione. Gaza ha cercato di resistere energicamente da dentro la sua miserabile gabbia, facendo uso delle sue misere e limitate forze.

Il mondo ha distolto gli occhi dall’occupazione, come ha fatto solitamente negli ultimi anni, e si è concentrato totalmente su altre cose.

Gli israeliani, come il resto del mondo, non si sono interessati dell’occupazione, come ormai hanno fatto da decenni. Hanno silenziosamente continuato con la loro vita quotidiana ed è buona, prospera. L’obiettivo dell’attuale governo – il più di destra, religioso e nazionalista nella storia di Israele – di conservare lo status quo in ogni modo è stato totalmente raggiunto. Non è successo niente che interferisse con la cinquantennale dura occupazione.

Verso un’annessione formale

Tuttavia sarebbe un grave errore pensare che ogni cosa sia rimasta uguale. Non c’è nessuno status quo riguardo all’occupazione o all’apartheid, anche se a volte così sembra.

Il 2018 è stato l’anno in cui è stata predisposta l’infrastruttura giuridica per quello che sta per avvenire. Un passo alla volta, con una legge dopo l’altra, sono state poste le fondamenta della legislazione per una situazione che esiste già in pratica da molto tempo. Poche proposte di legge hanno provocato una discussione, a volte persino con un dissenso chiassoso – ma anche questo non ha lasciato traccia.

Sarebbe un errore occuparsi separatamente di ogni iniziativa legislativa, per quanto drastica e antidemocratica. Ognuna è parte di una sequenza calcolata, funesta e pericolosa. Il suo obiettivo: l’annessione formale dei territori, iniziando dall’Area C [più del 60% della Cisgiordania, in base agli accordi di Oslo sotto totale ma temporaneo controllo di Israele, ndtr.]

Finora le fondamenta pratiche sono state poste sul terreno. La Linea Verde è stata cancellata molto tempo fa, i territori sono stati annessi di fatto. Ma ciò non è sufficiente per la Destra, che ha deciso che dovessero essere prese iniziative giuridiche e legislative per rendere permanente l’occupazione.

Prima hanno costruito colonie, in cui ora risiedono più di 700.000 ebrei, compresa Gerusalemme est, per creare una situazione irreversibile nei territori. Questa impresa è stata completata, e la vittoria dei coloni e dei loro sostenitori è chiara ed inequivocabile. Lo scopo delle colonie – sventare ogni prospettiva di fondazione di uno Stato palestinese nei territori occupati nel 1967 ed eliminare dalle trattative una soluzione dei due Stati – è stato pienamente raggiunto: hanno vinto. Ora, vogliono che questa situazione irrevocabile debba essere anche inserita nella legge, per neutralizzare l’opposizione all’annessione.

Contrastare l’opposizione

Questo è il principale obiettivo di ogni legge discriminatoria e nazionalista approvata nel 2018 dalla ventesima Knesset [parlamento, ndtr.] israeliana. Ognuna di esse intende contrastare ciò che resta dell’opposizione all’annessione dei territori.

Ci si aspettava una resistenza da parte del sistema giuridico israeliano e anche dai piccoli e rinsecchiti resti della sinistra nella società civile. Contro entrambi è stata dichiarata una guerra per indebolirli e sconfiggerli una volta per tutte, mentre ci avviciniamo all’annessione. Fino a quel momento, e se questa tendenza continuerà nel prossimo governo, non ci sarà nessuna ulteriore resistenza significativa nella società civile, e Israele potrà continuare a mettere a punto il suo nuovo regime.

L’apartheid è stata istituita nei territori da molto tempo e ora sarà anche nelle leggi. Quelli che negano che ci sia un’apartheid israeliana – i propagandisti pro-sionisti che affermano che, a differenza del Sud Africa, in Israele non ci sono leggi razziste o una discriminazione istituzionalizzata dal punto di vista legislativo – non saranno più in grado di diffondere i loro argomenti privi di fondamento.

Alcune delle leggi approvate quest’anno e quelle in via di approvazione, minano l’affermazione che Israele sia una democrazia egualitaria. Eppure tali norme hanno anche un aspetto positivo: queste leggi e quelle che arriveranno strapperanno la maschera e una delle più lunghe finzioni nella storia finalmente avrà termine. Israele non sarà più in grado di continuare a definirsi una democrazia – “l’unica del Medio Oriente”.

Con leggi come queste non sarà in grado di smentire l’etichetta di apartheid. Il prediletto dell’Occidente svelerà il suo vero volto: non democratico, non egualitario, non l’unico in Medio Oriente. Non è più possibile fingere.

L’apparenza dell’uguaglianza

È vero che una delle prime leggi mai adottate in Israele – e forse la più importante e funesta di tutte, la Legge del Ritorno, approvata nel 1950 –ha segnato molto tempo fa la direzione nella maniera più chiara possibile: Israele sarebbe stato uno Stato che privilegia un gruppo etnico sugli altri. La Legge del Ritorno era rivolta solo agli ebrei.

Ma la parvenza di uguaglianza in qualche modo ha resistito. Neppure i lunghi anni di occupazione l’hanno alterata: Israele ha sostenuto che l’occupazione era temporanea, che la sua fine era imminente e non faceva quindi parte dello Stato egualitario e democratico che era stato così orgogliosamente fondato. Ma dopo i primi 50 anni di occupazione, e con la massa critica di cittadini ebrei che sono andati a vivere nei territori occupati su terre rubate ai palestinesi, l’affermazione riguardo alla sua provvisorietà non avrebbe più potuto essere presa sul serio.

Fino a poco tempo fa i tentativi di Israele erano soprattutto diretti a fondare ed allargare le colonie, reprimendo al contempo la resistenza dei palestinesi all’occupazione e rendendo il più possibile penose le loro vite, nella speranza che ne traessero le necessarie conclusioni: alzarsi e andarsene dal Paese che era stato il loro. Nel 2018 fulcro di questi sforzi è passato al contesto giuridico.

La più importante è la legge dello Stato-Nazione, approvata in luglio. Dopo la Legge del Ritorno, che automaticamente consente a qualunque ebreo di immigrare in Israele e una legislazione che consente al Fondo Nazionale Ebraico di vendere terra solo agli ebrei, la legge dello Stato-Nazione è diventata la prima della lista per lo Stato di apartheid che sta arrivando. Essa conferisce formalmente uno status privilegiato agli ebrei, anche alla loro lingua e ai loro insediamenti, rispetto ai diritti dei nativi arabi. Non contiene nessun riferimento all’uguaglianza, in uno Stato in cui in ogni caso non ce n’è affatto.

Contemporaneamente la Knesset ha approvato qualche altra legge ed ha iniziato alcune ulteriori misure nella stessa ottica.

Prendere di mira i sostenitori del BDS

In luglio è stato approvato un emendamento alla legge sull’educazione pubblica. In Israele è chiamata la legge di “Breaking the Silence” [“Rompere il silenzio”, associazione di militari ed ex militari che denuncia quanto avviene nei territori occupati, ndtr.], perché il suo vero proposito è impedire alle organizzazioni di sinistra di entrare nelle scuole israeliane per parlare agli studenti. Ha come scopo spezzare la resistenza all’annessione.

Allo stesso modo un emendamento alla legge sul boicottaggio, che consente di intraprendere un’azione legale contro israeliani che abbiano appoggiato pubblicamente il movimento Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), renderà possibile intentare una causa per danni contro sostenitori del boicottaggio, anche senza dover dimostrare un danno economico.

Un altro governo di destra come questo e sarà vietato appoggiare il boicottaggio in Israele, punto. Quindi verrà vietato anche criticare i soldati israeliani o il loro ingiusto comportamento nei territori. Proposte di legge come queste stanno già circolando e il loro giorno arriverà piuttosto rapidamente.

Un’altra legge approvata quest’anno trasferisce i ricorsi da parte di palestinesi contro gli abusi dell’occupazione dalla Corte Suprema Israeliana, che comunque non gli è poi stata così d’aiuto, al tribunale distrettuale di Gerusalemme, dove ci si aspetta che riceveranno un sostegno legale ancora minore.

Una legge per espellere le famiglie di terroristi ha superato la prima lettura alla Kensset, contro il parere della procura generale; consentirà punizioni collettive nei territori, solo per gli arabi. Stanno anche discutendo della pena di morte per i terroristi.

Ed è stata approvata anche la legge sugli accordi, che legalizza decine di avamposti delle colonie che sono illegali persino secondo il governo israeliano. Solo la legge sulla lealtà culturale, il livello legislativo più basso, che intende imporre la fedeltà verso lo Stato come precondizione per ottenere finanziamenti governativi a istituzioni culturali e artistiche, per il momento è stata congelata – ma non per sempre.

Copertura legale

Le leggi approvate quest’anno non devono essere viste solo come norme antidemocratiche che compromettono la democrazia in Israele, come la situazione viene di solito descritta dai circoli progressisti in Israele. Sono pensate per fare qualcosa di molto più pericoloso. Non intendono solo minare la fittizia democrazia, per imporre ulteriori discriminazioni contro i cittadini palestinesi di Israele e trasformarli per legge in cittadini di seconda classe. Il loro vero scopo è fornire una copertura legale per l’atto di annessione formale dei territori oltre i confini riconosciuti dello Stato di Israele.

Nel 2018 Israele si è avvicinato alla realizzazione di questi obiettivi. La calma relativa che è prevalsa nel Paese è ingannevole. Sta iniziando lo Stato di apartheid di diritto, non solo di fatto.

– Gideon Levy è un editorialista di Haaretz e membro del comitato di redazione del giornale. Levy ha iniziato a collaborare con Haaretz nel 1982, ed è stato per quattro anni vice-direttore del giornale. Nel 2015 è stato insignito dell’Olof Palme human rights [premio Olof Palme per i diritti umani] e destinatario dell’Euro-Med Journalist Prize [Premio per il Giornalista Euro-mediterraneo] del 2008; del Leipzig Freedom Prize [Premio Leipzig per la Libertà] nel 2001; dell’ Israeli Journalists’ Union Prize [Premio dell’Unione dei Giornalisti Israeliani] nel 1997; dell’ Association of Human Rights in Israel Award [Premio dell’Associazione per i Diritti Umani in Israele] nel 1996. Il suo libro The Punishment of Gaza [La punizione di Gaza] è stato pubblicato da Verso nel 2010.

Le opinioni espresso in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)