Condannato a 35 anni di carcere un diciassettenne: minori palestinesi e giustizia israeliana

Akram Al-Waara

4 gennaio 2019, Middle East Eye

Le famiglie palestinesi accusano i tribunali israeliani di procrastinare deliberatamente le udienze in modo che i loro figli ricevano sentenze più pesanti

Ramallah, Cisgiordania occupata – Sono passati quasi 3 anni da quando Omar Rimawi è stato arrestato per aver colpito e ucciso un colono israeliano in un supermercato della Cisgiordania occupata. Aveva 14 anni.

Da allora l’adolescente è rimasto dietro le sbarre. La sua famiglia attende con ansia la sentenza finale di condanna del figlio, che si prevede verrà emessa da un giudice militare israeliano il 14 gennaio.

Sono stati tre anni di agonia,” dice a Middle East Eye il padre di Omar, il cinquantunenne Sameer Rimawi. “Ogni volta che il tribunale si riunisce pensiamo che sarà il giorno [della sentenza], ma non è ancora arrivato.”

Quando è entrato in prigione era un ragazzino, ora ha 17 anni, quasi 18,” dice suo padre.

Nei tre anni in cui Omar è stato in prigione, i tribunali militari israeliani hanno ignorato le pressioni da parte della famiglia e degli avvocati e rifiutato di emettere la sentenza contro il ragazzo del villaggio di Beituniya, nella parte centrale della Cisgiordania occupata.

La famiglia Rimawi è convinta che il tribunale stia rimandando la sentenza contro Omar per una semplice ragione: dato che è più grande, il tribunale può giustificare il fatto di comminargli una condanna più pesante in carcere, una tattica che i difensori dei diritti umani affermano essere una prassi usuale del sistema giudiziario israeliano.

Ogni anno che passa il rischio di una sentenza più grave aumenta,” dice Sameer Rimawi della vicenda del figlio.

La famiglia aveva sperato che nei confronti di Omar si sarebbe esercitata una certa clemenza per via dell’età, ma queste speranze si sono infrante quando Ayham Sabbah, amico di Omar, è stato condannato a 35 anni di prigione.

Ayham, che ora ha anche lui 17 anni, era con Omar il giorno dell’accoltellamento, ed entrambi sono accusati di aver portato a termine insieme l’aggressione.

Ayham non aveva ancora 18 anni quando lo hanno condannato a 35 anni di carcere,” dice Rimawi, e aggiunge che il pubblico ministero israeliano aveva chiesto per Omar l’ergastolo e il pagamento di una multa di 5 milioni di shekel (circa 1.180.000 €).

Preghiamo dio che Omar non debba subire la stessa sorte, ma sappiamo che Israele non si preoccupa dei diritti dei minori.”

Nel modesto soggiorno del suo appartamento di tre camere da letto a Beituniya, Bassem Sabbah siede calmo con le gambe incrociate e le dita intrecciate.

Quando gli si chiede di suo figlio Ayham, l’insegnante palestinese si irrigidisce e le mani iniziano ad agitarsi.

Il 17 dicembre ha ricevuto la peggiore notizia della sua vita: Ayham, il maggiore dei suoi due figli adolescenti, è stato condannato a 35 anni di carcere e gli è stato imposto di pagare una multa di 1.25 milioni di shekel (quasi 300.000 €).

Siamo rimasti scioccati,” dice Bassem a MEE. “Ayham era solo un bambino quando è stato arrestato – lo è ancora, non è neppure maggiorenne.”

La famiglia della vittima, il soldato israeliano ventunenne Tuvia Yanai Weissman, che all’epoca era in congedo, ha detto di essere rimasta delusa perché l’adolescente palestinese non è stato condannato all’ergastolo. Nell’attacco un altro uomo era rimasto ferito.

Due ragazzi in Israele

Ayham e Omar sono stati arrestati il 18 febbraio 2016 dalle forze israeliane nel supermercato “Rami Levy” nell’area industriale di Shaar Binyamin.

All’epoca del loro arresto i due sono stati colpiti e gravemente feriti da un passante. La famiglia sostiene che dopo l’arresto Ayham non è stato curato e i suoi diritti in quanto minorenne sono stati ripetutamente violati.

É stato interrogato in ospedale mentre era in condizioni critiche, senza la presenza mia, di sua madre e neppure del suo avvocato,” dice Bassem, aggiungendo che Ayham è stato obbligato a firmare documenti in ebraico, una lingua che non capisce.

Da allora l’adolescente è stato tenuto nella prigione israeliana di Ofer per l’uccisione di Weissman. Ayham è comparso più di 30 volte davanti al tribunale militare israeliano.

Il tribunale ha avuto più di 30 possibilità di emettere una sentenza, ma ha solo temporeggiato, affermando di aspettare nuove prove o testimonanze contro Ayham,” dice Bassem.

Ma, afferma Bassem, le nuove prove e le testimonianze oculari non sono mai arrivate.

Di solito la famiglia di un accusato non vorrebbe che le prove a carico vengano ammesse in aula,” dice Bassem. “Ma noi abbiamo pregato il giudice di accettare in tribunale come prova la ripresa delle telecamere di sorveglianza del giorno dell’aggressione.”

In realtà volevamo che il tribunale accettasse la prova in modo da concludere il caso ed emettere la sentenza contro Ayham al più presto,” afferma.

La famiglia credeva che, nonostante i tentativi della procura di ottenere l’ergastolo, il giudice sarebbe stato clemente dato che Ayham era un ragazzino e non aveva ancora raggiunto la pubertà al momento dell’attacco.

In base alle leggi internazionali e dei diritti umani si dovrebbero prendere in considerazione alcuni fattori quando si mette in prigione e si condanna un bambino,” dice suo padre. “Ma il tribunale israeliano non ne ha tenuto conto.”

Trentacinque anni non è solo una condanna pesante, è scandalosa,” continua Bassem. “Ayham era solo un bambino, non capiva quello che stava facendo.”

Quando gli si chiede perché Ayham, descritto dai genitori come un ragazzo studioso e giocoso, abbia commesso una simile azione, Bassem indica la finestra verso l’esterno.

Guarda l’occupazione tutt’intorno,” afferma. “Perché un bambino lascerebbe i suoi libri e il pallone per accoltellare qualcuno? A causa di quello che gli israeliani hanno fatto alla nostra terra, di come ci hanno aggrediti, arrestati e uccisi per anni con l’occupazione, giorno dopo giorno.

È questo che fa pensare ai ragazzini palestinesi: quale futuro avrò sotto questa occupazione? Questo li porta a commettere un’aggressione.”

Agli occhi della corte

Ogni anno circa 700 palestinesi della Cisgiordania al di sotto dei 18 anni sono processati da tribunali militari israeliani, che, secondo i gruppi per i diritti umani “Addameer” [“Coscienza”, ong palestinese che si occupa dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane, ndtr.] e “Defense for Children International – Palestine” [Difesa Internazionale dei Minori – Palestina] (DCIP), vantano una percentuale di condanne del 99,7%.

Le leggi militari israeliane consentono che i bambini della Cisgiordania occupata e di Gaza dai 12 anni in su vengano condannati a pene detentive.

Fino a pochi anni fa la prassi israeliana consentiva che i minori palestinesi di un’età dai 16 anni in su fossero giudicati e condannati dai tribunali militari israeliani come adulti.

Nonostante un ordine militare del 2011 che alzava da 16 a 18 anni l’età della responsabilità giuridica dei palestinesi nel sistema dei tribunali militari, gli analisti sostengono che la prassi di giudicare ragazzini dai 16 anni in su come se fossero adulti è rimasta per lo più invariata.

Ci sono linee guida per le sentenze che limitano la possibilità del tribunale di condannare un minore a una lunga pena detentiva se ha meno di 15 anni,” dice a MEE Dawoud Yousef, analista per i diritti umani che risiede in Cisgiordania.

Per cui quello che tendono a fare i tribunali è di aspettare finché hai 16 anni in modo da poterti condannare come un adulto,” continua. “In teoria, ragazzini con meno di 18 anni non dovrebbero essere condannati a 35 anni, ma non ci sono norme o disposizioni che impediscano ai tribunali di farlo.”

Secondo Yousef, la ragione per cui le corti militari israeliane ritardano le condanne di minori palestinesi è duplice.

Non solo i tribunali militari perseguono indiscriminatamente il massimo della pena per i palestinesi, ma è anche una questione di immagine di fronte alla comunità internazionale,” afferma Yousef.

Alcuni gruppi per i diritti umani da tempo accusano i tribunali militari israeliani di fungere da “corti fantoccio” che, invece di funzionare come sistema di giustizia e per chiedere conto di reati, sono utilizzate come strumento di dominio, come estensione della sovranità israeliana nei territori palestinesi occupati.

Per lo Stato di Israele è estremamente importante che questi tribunali continuino a conservare almeno una parvenza di legittimità internazionale,” continua Yousef.

Così in molti casi questo vuol dire aspettare finché i ragazzini sono più grandi, e che lo sembrino anche fisicamente, il che consente ai tribunali di giustificare condanne a pene più lunghe.”

Oggetti taglienti

Solo due settimane prima che Ayham Sabbah venisse condannato, Israele ha liberato, dopo tre anni di prigione, i detenuti palestinesi Shadi Farrah e Ahmad al-Zaatari, entrambi quindicenni.

I due ragazzi, titolari di carte d’identità di Gerusalemme, sono stati arrestati nel 2015 a 12 anni con l’accusa di tentato omicidio, facendo di loro i prigionieri palestinesi più giovani del momento.

Le forze israeliane sostenevano che al momento del loro arresto i ragazzini fossero in possesso di oggetti affilati e stessero progettando di attuare un’aggressione nella zona.

Nonostante la loro recisa smentita che i ragazzini stessero pianificando una qualunque sorta di aggressione, nel novembre 2016 le famiglie Farrah e Zaatari hanno accettato un patteggiamento che ha visto i ragazzini condannati a tre anni, compreso il periodo già scontato, in un carcere minorile israeliano.

Siamo stati obbligati ad accettare il patteggiamento, benché i ragazzini non avessero fatto niente di male,” dice a MEE la madre di Shadi, Fariha Farrah.

Il pubblico ministero ci ha minacciati, affermando che se non avessimo accettato il patteggiamento, avrebbero iniziato a rimandare la condanna di Shadi fino al compimento dei 14 anni, nel qual caso avrebbe ricevuto una condanna ancora più lunga,” afferma la quarantenne.

A differenza dei minorenni palestinesi della Cisgiordania, quelli palestinesi con residenza a Gerusalemme est o con cittadinanza israeliana sono giudicati dai tribunali penali israeliani, non da corti militari.

In base alle leggi del codice penale israeliano, i minorenni con meno di 14 anni possono essere condannati solo a pene da scontare in strutture per minori. Una volta che abbiano superato i 14 anni, possono scontare la pena in una struttura carceraria insieme a prigionieri palestinesi adulti.

In quelli che Israele definisce casi “di sicurezza” – in genere riferendosi a casi in cui palestinesi sono accusati di aggredire israeliani – i minori palestinesi di Gerusalemme incarcerati non ricevono pene ridotte. Per ogni condanna o imputazione che prevede una pena massima al di sopra dei sei mesi, i minori dai 14 anni in su vengono condannati a pene uguali a quelle degli adulti.

Il pubblico ministero non ha prodotto alcun testimone che potesse deporre contro Shadi, ma il tribunale ha iniziato a rimandare e rimandare la sentenza senza alcuna ragione, “continua Farrah. “Stavamo facendo una corsa contro il tempo per essere sicuri che Shadi ricevesse una sentenza prima di compiere 14 anni.”

Avevamo visto quello che era successo ad Ahmed Manasra, come hanno iniziato a rinviare la sentenza, e questo ci ha terrorizzati tanto da accettare il patteggiamento,” sostiene.

Pochi mesi prima della condanna di Shadi, nel novembre 2016, un tribunale israeliano aveva condannato il quattordicenne Ahmad Manasra a 12 anni di prigione per tentato omicidio.

Manasra, il cui processo ha fatto notizia, aveva solo 13 anni quando lui e suo cugino hanno colpito e ferito gravemente due israeliani nei pressi di una colonia israeliana nella Gerusalemme est occupata.

Israele è stato universalmente criticato per aver rimandato la condanna di Manasra fin dopo il compimento dei 14 anni, età in cui era abbastanza grande perché in base alle leggi israeliane gli venisse comminata una detenzione più pesante.

Quello stesso anno i tribunali israeliani hanno condannato a lunghe pene detentive per tentato omicidio molti altri minori palestinesi di Gerusalemme che sarebbero stati coinvolti in presunte aggressioni all’arma bianca tra il 2015 e il 2016.

Doppio standard

Ognuna delle famiglie Rimawi, Sabbah e Farrah ha espresso le stesse rimostranze: se i ruoli fossero stati invertiti, questo non sarebbe avvenuto.

Sappiamo che in queste situazioni il razzismo è uno dei fattori decisivi,” dice Bassem a MEE.

Se un colono israeliano minorenne uccidesse un palestinese, pensi che gli toccherebbe la stessa sorte di mio figlio? Assolutamente no,” afferma.

Gli israeliani che attacchino o uccidano dei palestinesi sono giudicati, ammesso che lo siano, nei tribunali civili,” sostiene Rimawi. “Ma se un minore palestinese lancia una pietra, viene giudicato da un tribunale militare. Che razza di sistema giudiziario è questo?”

Sabbah e gli altri genitori segnalano casi di minori, e adulti, israeliani che hanno ucciso o aggredito dei palestinesi e se la sono cavata con condanne molto meno pesanti dei loro figli, e persino senza nessuna condanna.

Guarda il caso dei ragazzi che hanno rapito e bruciato vivo Mohammed Abu Khdeir nel 2014,” dice Sabbah, sottolineando il fatto che uno degli adolescenti condannati sta scontando una condanna a 21 anni, rispetto ai 35 di Ayham Sabbah.

Guarda Elor Azaria,” dice Fariha Farrah, “è stato ripreso in un video mentre giustiziava Abd al-Fattah al-Sharif, e ha passato 8 mesi in prigione.”

Farrah aggiunge che, durante il processo a suo figlio Shadi, l’avvocatessa israeliana della famiglia stava difendendo anche un colono israeliano minorenne che aveva aggredito un soldato israeliano.

Il ragazzo israeliano che stava difendendo è stato rilasciato e gli è stata comminata una lieve ammenda, ed egli aveva aggredito uno dei loro soldati,” afferma. “Mio figlio aveva 12 anni ed è stato in prigione per 3 anni perché avrebbe “pianificato” un attacco, quando non ha neppure alzato le mani su qualcuno.”

All’inizio della scorsa estate l’Alta Corte israeliana ha rilasciato un colono israeliano coinvolto nel 2015 nell’incendio di una casa palestinese che ha ucciso un neonato palestinese e i suoi genitori della famiglia Dawabsheh.

La Corte ha liberato il colono dopo che aveva trascorso due anni in prigione con il pretesto che era minorenne al momento del gravissimo attacco. Gli sono stati comminati gli arresti domiciliari.

Hanno bruciato vivo un neonato, e l’hanno fatta franca,” dice Farrah.

Quello che fanno per i minori israeliani dovrebbero farlo anche per quelli palestinesi,” continua Sabbah.

In tutto il mondo i minorenni non sono giudicati come gli adulti, anche se hanno fatto un errore,” dice.

C’è una cosa chiamata infanzia – che dovrebbe essere rispettata. Ma sotto occupazione, i nostri ragazzini stanno passando la loro infanzia in prigione.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




JNF Canada sottoposto a controllo per aver utilizzato donazioni per finanziare progetti dell’esercito israeliano: un rapporto

Redazione di MEE

4 gennaio 2019, Middle East Eye

CBC News informa che il Jewish National Fund del Canada è stato sottoposto a un’indagine per aver utilizzato donazioni in beneficienza per finanziare progetti dell’esercito israeliano

La Canadian Broadcasting Corporation [l’Ente televisivo canadese] ha riferito che il Jewish National Fund [Fondo Nazionale Ebraico, ente no profit dell’Organizzazione Sionista Mondiale, ndtr.] del Canada è stato sottoposto a un’indagine da parte dell’ufficio federale delle imposte del Paese perché avrebbe destinato donazioni in beneficienza al finanziamento di progetti dell’esercito israeliano.

Venerdì [4 gennaio] CBS News ha detto che JNF Canada, una delle principali associazioni di beneficienza del Canada, ha finanziato progetti infrastrutturali dell’esercito israeliano, basi aeree e navali.

CBC ha informato che lo scorso anno l’organizzazione ha comunicato ai suoi donatori di essere sottoposta a un’inchiesta da parte della Canada Revenue Agency [Agenzia delle entrate canadese, ndtr.].

Mentre nessuna legge impedisce a un cittadino canadese di intestare un assegno direttamente al ministero della Difesa israeliano, le norme vietano a enti di beneficienza esenti da tasse di destinare entrate fiscali per tali donazioni e proibisce anche ai donatori di chiedere riduzioni fiscali per questo,” ha affermato la televisione nazionale.

CBC ha informato che JNF Canada ha aiutato a finanziare, tra i vari progetti, una zona di fitness all’aria aperta nella base militare di Gadna a Sde Boker, nella regione desertica del Negev nel sud di Israele.

Citando documenti prodotti da Keren Kayemeth LeIsrael (KKL), la società madre in Israele dell’organizzazione JNF Canada, CBC News ha detto che la sezione canadese di JNF ha anche contribuito a finanziare “la nuova cittadella di addestramento dell’IDF [esercito israeliano] nel Negev.”

Le donazioni del JNF Canada sono state destinate anche ad appoggiare lo sviluppo di un complesso di addestramento e un auditorium nella base navale di Bat Galim, come anche addestramento e conferenze nella stessa base e una “specie di refettorio” per reparti nelle basi dell’aviazione di Palmachim e di Nevatim.

Nel reportage di CBC News figura anche il coinvolgimento di JNF Canada in progetti nei territori palestinesi occupati

Il mezzo di informazione ha affermato che le missioni dell’organizzazione hanno contribuito direttamente alla costruzione almeno di un avamposto di coloni su una collina, Givat Oz VeGaon, che è illegale in base alle leggi internazionali ed israeliane.

JNF Canada afferma di aver smesso di finanziare progetti dell’esercito nel 2016

In una mail, l’amministratore delegato di JNF Canada Lance Davis ha detto alla CBC che l’organizzazione ha smesso di finanziare progetti legati all’esercito israeliano nel 2016, dopo essere stata informata delle linee guida della CRA.

Per essere chiari, non abbiamo più finanziato progetti su terreni dell’IDF e JNF Canada ha agito in accordo con le norme della CRA che definiscono il suo status di organizzazione caritativa,” ha scritto Davis.

Comunque le sezioni sia israeliana che canadese del JNF sono state accusate per decenni di essere complici dell’espulsione forzata di palestinesi dalle loro case da parte di Israele, così come di politiche discriminatorie nella destinazione delle terre.

JNF Canada finanziò la creazione del Canada Park, un’estesa riserva naturale a circa 25 km da Gerusalemme, costruita sulle rovine di 3 villaggi palestinesi che vennero spopolati con la forza dall’esercito israeliano nella guerra del 1967.

Gli originari abitanti palestinesi di quei villaggi – Yalu, Imwas and Beit Nuba – vennero espulsi con la forza dalla zona e a molti, se non a tutti, venne impedito di tornarvi.

Independent Jewish Voices Canada” [Voci ebraiche indipendenti del Canada], un gruppo che sostiene i diritti dei palestinesi, ha guidato una campagna “Stop al JNF”, con l’intenzione di togliere all’organizzazione lo status di ente benefico in Canada.

Nel 2017 il gruppo ha aiutato quattro canadesi a presentare un ricorso presso la CRA e il ministero delle Finanze canadese in cui si chiedeva che a JNF Canada non venisse più consentito di operare come associazione di beneficienza.

“Solo negli ultimi anni JNF Canada ha finanziato ben più di una decina di progetti di appoggio all’IDF ed è partner ufficiale dell’IDF e del ministero della Difesa israeliano,” afferma il gruppo nel suo sito web.

IJV-Canada ha anche affermato che il JNF ha piantato alberi nei territori palestinesi occupati, contribuendo quindi al fatto che Israele rafforzasse il proprio controllo su quelle aree, in violazione delle leggi internazionali.

Prendendo il controllo di terre nei (territori palestinesi occupati), questi progetti rafforzano la cinquantennale occupazione militare di Israele, rendendo molto più difficile da raggiungere una giusta pace,” sostiene il gruppo.

Nessuna organizzazione canadese, per non parlare di un’associazione con lo status di ente benefico, dovrebbe sponsorizzare progetti che creano fatti sul terreno in favore di una potenza occupante e che – in violazione delle leggi internazionali – modifica le caratteristiche fisiche del territorio occupato.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Amos Oz: il mito tenace del sionismo progressista

Ben White

1 gennaio 2018, Middle East Eye

L’ammirazione dell’Occidente per Amos Oz è collegata al romanticismo che continua ad essere associato al kibbutz, alle illusioni sul processo di pace e, soprattutto, al profondo sostegno offerto al colonialismo di insediamento in Palestina

Da molto tempo emarginata dalla destra nazionalista in forte ascesa in Israele, all’estero la cosiddetta “sinistra sionista” ha conservato un’influenza morale e intellettuale di prima grandezza.

Lo scrittore Amos Oz, deceduto lo scorso 28 dicembre all’età di 79 anni, era forse l’incarnazione più conosciuta di questa corrente politica. Noto come il “padrino dei pacifisti israeliani” –come l’ha presentato il “New Yorker” [settimanale di politica e cultura USA di tendenza progressista, ndtr.] nel 2004 -, era ammirato da molti a livello internazionale.

Tuttavia questa immagine dell’artista o del profeta progressista – alla quale hanno contribuito in buona misura i cambiamenti politici in Israele, che hanno fatto sì che persino i critici più clementi siamo ormai definiti “traditori” – contrasta chiaramente con le opinioni di Amos Oz su eventi passati e presenti, e in particolare su quello che il sionismo ha rappresentato per i palestinesi.

Giustificare la Nakba

La sinistra sionista, a cui Amos Oz apparteneva, ha dedicato un notevole impegno per giustificare la pulizia etnica della Palestina. La seguente metafora è stata alla base del contributo di Amos Oz a questi sforzi: “La giustificazione (del sionismo) per quanto riguarda gli arabi che vivevano su questa terra è il giusto diritto del naufrago che si aggrappa all’unica tavola che trova”, ha scritto nel suo libro “In terra di Israele” [Marietti, Torino, 1992, ndtr.].

E ogni regola di giustizia naturale, obiettiva e universale autorizza l’uomo che annega e che si aggrappa a quell’asse a ritagliarvisi uno spazio, anche se per questo deve spingere un po’ gli altri. Anche se gli altri, seduti su quella stessa tavola, non gli lasciano altra alternativa che la forza.”

Solo che i palestinesi non sono stati invitati a “condividere un asse”: sono stati espulsi in massa, i loro villaggi sono stati rasi al suolo e i loro centri urbani spopolati, e continuano ad essere esclusi dalla loro patria semplicemente perché non sono ebrei.

Inoltre chi, a parte un mostro, rifiuterebbe a un naufrago un posto su una tavola a cui aggrapparsi? La metafora di Amos Oz ha una duplice funzione: fa sparire la Nakba e rimprovera alle sue vittime di essere dei bruti senza pietà che hanno dovuto essere “obbligati” a “condividere una tavola”.

La falsa simmetria dell’occupazione

Amos Oz ha creato numerose metafore per presentare una falsa simmetria tra palestinesi e israeliani e sottrarsi a qualunque responsabilità politica. I palestinesi e gli israeliani sono dei “vicini” che hanno bisogno di “buone recinzioni”, una coppia di sposi che ha bisogno di un “divorzio equo”, un paziente che ha bisogno di una “dolorosa” operazione chirurgica.

Nel 2005 Amos Oz ha dichiarato a Libération [quotidiano francese di sinistra, ndtr.]: “Israele e Palestina (…) somigliano a un carceriere e al suo prigioniero, ammanettati uno all’altro. Dopo tanti anni, non c’è praticamente più nessuna differenza tra di loro: il carceriere non è libero più del suo prigioniero.” Questa cancellazione delle strutture di potere, questa mescolanza tra la realtà dell’occupato e la soggettività dell’occupante erano tipici dell’autore.

Lo scontro tra gli ebrei che ritornano a Sion e gli abitanti arabi del luogo non assomiglia ad un western o a un’epopea, ma piuttosto a una tragedia greca”, ha scritto (corsivo dell’autore [dell’articolo di MEE, ndtr.]). Le variazioni su questo tema sono state numerose: “Il conflitto tra un ebreo israeliano e un arabo palestinese (…) è uno scontro tra una ragione e un’altra ragione (…), un conflitto tra vittime.”

Ora, parlare di “tragedia” equivale a confondere deliberatamente i rapporti di causa e effetto e a sostituire le responsabilità con una spiacevole disgrazia e, verosimilmente, a presentare il movimento sionista (ossia lo stesso Oz) come un eroe tragico che, benché le sue azioni abbiano delle conseguenze deleterie per gli altri, è nobilitato dalla propria auto consapevolezza

In effetti, come ha sottolineato il critico letterario americano di origine palestinese Saree Makdisi, “non è per niente vero che per Oz in questo conflitto esistano due contendenti più o meno ugualmente colpevoli. In fin dei conti, i veri cattivi nella versione della storia secondo Oz sono i palestinesi, che avrebbero dovuto riconoscere il sionismo come un movimento di liberazione nazionale (e) accoglierlo a braccia aperte.”

In un articolo apparso qualche anno fa Amos Oz affermava che “l’esistenza o la distruzione di Israele non sono mai state una questione di vita o di morte,” in particolare per Paesi come la Siria, la Libia, l’Egitto e l’Iran, prima di aggiungere con disinvoltura una frase rivelatrice: “Può darsi che questa sia stata l’ipotesi per i palestinesi – ma, per nostra fortuna, essi sono troppo deboli per sconfiggerci.”

Il colonialismo è sempre una “questione di vita o di morte” per i colonizzati – e Amos Oz lo sapeva.

Proteggere Israele dalle critiche all’estero

Nonostante la sua fama di detrattore delle azioni del governo israeliano, Amos Oz ha giocato un ruolo importante nella giustificazione dei crimini di guerra di Israele sulla scena internazionale.

Come ricorda un necrologio a lui dedicato, durante l’invasione del Libano e l’annientamento delle due Intifada palestinesi da parte di Israele, quest’ultimo “aveva bisogno di voci per parlare al mondo esterno e mostrare un volto più altruistico di quello di Ariel Sharon.” Tre settimane dopo l’inizio della Seconda Intifada, quando erano già stati uccisi circa 90 palestinesi, Amos Oz è servito in questo modo di un articolo sul Guardian [quotidiano inglese di centro sinistra, ndtr.] per attaccare “il popolo palestinese”, definendolo “soffocato e avvelenato da un odio cieco.”

In seguito, durante l’assalto devastante di Israele contro la Striscia di Gaza nel 2014, Amos Oz si è affrettato a condividere le frasi fatte promosse dal suo governo presso i media internazionali: “Cosa fareste voi se il vostro vicino di fronte si sedesse sul balcone, mettesse il suo ragazzino sulle ginocchia e cominciasse a sparare con una mitragliatrice contro la stanza del vostro bambino?”

Amos Oz ha anche respinto i tentativi, anche modesti, intesi a chiedere conto a Israele: nel 2010 ha scritto insieme ad altri una lettera per opporsi alla petizione, formulata da studenti ebrei e palestinesi presso l’università californiana di Berkeley affinché essa cessasse gli investimenti in due imprese di armamenti che avevano come cliente l’esercito israeliano. Amos Oz ha anche accusato di antisemitismo la mozione per il disinvestimento.

Un argomento noto

Di fatto Amos Oz ha creduto e ribadito un buon numero di argomenti anti-palestinesi avanzati dai governi israeliani che si sono succeduti e dalla destra nazionalista del Paese. In una postfazione del 1993 al suo libro “In terra di Israele” Oz ha denunciato “il movimento nazionale palestinese (…) come uno dei movimenti nazionalisti più estremisti e intransigenti della nostra epoca,” che è stato causa della miseria “del suo stesso popolo.”

Nella medesima postfazione Amos Oz ha respinto le affermazioni palestinesi secondo le quali il sionismo sarebbe un “fenomeno colonialista”, scrivendo con involontaria ironia: “I primi sionisti arrivati in terra d’Israele alla fine del secolo non avevano niente da colonizzarvi.” Nel 2013 Oz ha dichiarato: “Gli membri dei kibbutz non volevano impadronirsi della terra di nessuno. Si sono deliberatamente installati negli spazi vuoti del Paese, nelle zone interne e disabitate, dove non viveva nessuno.”

In un editoriale del 2015 lo scrittore israeliano ha espresso il proprio orrore di fronte all’idea di una maggioranza palestinese all’interno di un unico Stato democratico: “Iniziamo con una questione di vita o di morte. Se non ci sono due Stati, ce ne sarà uno. Se ce ne sarà uno, sarà arabo. Se sarà arabo, è impossibile prevedere la sorte dei nostri figli e dei loro.”

Molto è stato detto sul l’“itinerario” politico di Amos Oz, a partire dalla sua infanzia in una famiglia di sionisti revisionisti [nazionalisti di destra, ndtr.]. Tuttavia il suo rifiuto di una soluzione sulla base di uno Stato unico ricorda le parole del dirigente revisionista Vladimir Jabotinsky, che affermava: “Il nome della malattia è minoranza, il nome della cura è maggioranza.”

Colonialismo di insediamento

L’immagine politica di Amos Oz in Occidente non si limita alla vita e al lavoro di un solo uomo. Deriva anche anche dal romanticismo che continua ad essere associato al kibbutz, alle illusioni sulla realtà degli accordi di Oslo e del processo di pace promosso dagli USA. Soprattutto, forse, è collegata al profondo sostegno offerto al colonialismo di insediamento in Palestina e alla tenace forza della mitologia sionista.

Un recente articolo del New York Times [principale quotidiano statunitense, ndtr.] sulla vita di Amos Oz afferma che Israele è “nato da un sogno, da un desiderio” e descrive Oz come “per molti aspetti, il perfetto nuovo ebreo che il sionismo aveva sperato di creare. Adolescente ha lasciato da solo Gerusalemme (…) e si è insediato in un kibbutz, una delle comunità agricole socialiste in cui gli israeliani hanno realizzato i propri sogni più radicati: coltivare se stessi e la terra in modo da diventare robusti e generosi.” (corsivo dell’autore [dell’articolo di MEE, ndtr.]).

Il colonialismo di insediamento è sempre stato sinonimo di incremento della soggettività del colono e di eliminazione brutale del colonizzato. La storia del movimento sionista in Palestina non è diversa.

Così la Palestina non era presentata come un luogo nel tempo, con la propria storia, i propri costumi, i propri popoli e le proprie narrazioni, ma piuttosto come un ambiente favorevole alla realizzazione della visione di “restaurazione” dei coloni. I palestinesi non erano presentati come individui reali, vivi, ma come dei buoni selvaggi, dei barbari e dei fanatici religiosi.

Come ha dichiarato il regista israeliano Udi Aloni, “la sinistra ebraica israeliana (…) non considera i palestinesi come soggetti della lotta, non vede che se stessa.”

Dans une critique cinglante du livre d’Amos Oz, Dear Zealots, publié en 2017, l’ancien président de la Knesset Avraham Burg a décrit Oz comme « un partisan fanatique de la partition, qui piétine tout sur son passage pour parvenir à sa solution surannée [à deux États] ». Pour Amos Oz, « un seul État arabe est inconcevable » ; ses « opinions des Arabes, qui affleurent ici et là, ne sont pas vraiment flatteuses ». Comme l’a résumé Burg : « Il y a beaucoup de questions, et ce petit livre d’Amos Oz n’offre aucune solution. »

In una sferzante critica al libro di Amos Oz Cari fanatici [Feltrinelli, Milano, 2017, ndtr.], pubblicato nel 2017, l’ex presidente della Knesset Avraham Burg ha descritto Oz come “un sostenitore fanatico della spartizione, che lungo il suo passaggio calpesta tutto per raggiungere la propria soluzione ormai superata (a due Stati).” Per Amos Oz “uno Stato unico arabo è inconcepibile”; le sue “opinioni sugli arabi, che affiorano qua e là, non sono davvero lusinghiere.” Come ha riassunto Burg: “Ci sono numerosi problemi, e questo libriccino di Amos Oz non offre alcuna soluzione.”

Ben White è autore di “Israeli Apartheid: A Beginner’s Guide [Apartheid israeliano: una guida per principianti] e di Palestinians in Israel: Segregation, Discrimination and Democracy” [Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia]. Scrive per Middle East Eye e i suoi articoli sono stati pubblicati anche da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, the Electronic Intifada, e nella rubrica del “The Guardian” “Comment for Free” [Commento gratis] ed altri.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Nel 2018 finalmente è caduta la maschera di Israele

Gideon Levy

1 gennaio 2018, Middle East Eye

Avendo consolidato dal punto di vista legislativo la sua natura di apartheid, Israele ha creato la copertura giuridica per l’annessione formale dei territori occupati al di là delle frontiere riconosciute dello Stato

Il 2018 non è stato un buon anno per Israele. Ovviamente per i palestinesi è stato persino peggiore.

In apparenza non è stato un anno particolarmente drammatico – solo un po’ più del solito, senza nuove guerre significative e senza molto spargimento di sangue, se confrontato con gli anni precedenti. Le cose sembrano bloccate. L’occupazione è continuata senza ostacoli, come l’impresa di colonizzazione. Gaza ha cercato di resistere energicamente da dentro la sua miserabile gabbia, facendo uso delle sue misere e limitate forze.

Il mondo ha distolto gli occhi dall’occupazione, come ha fatto solitamente negli ultimi anni, e si è concentrato totalmente su altre cose.

Gli israeliani, come il resto del mondo, non si sono interessati dell’occupazione, come ormai hanno fatto da decenni. Hanno silenziosamente continuato con la loro vita quotidiana ed è buona, prospera. L’obiettivo dell’attuale governo – il più di destra, religioso e nazionalista nella storia di Israele – di conservare lo status quo in ogni modo è stato totalmente raggiunto. Non è successo niente che interferisse con la cinquantennale dura occupazione.

Verso un’annessione formale

Tuttavia sarebbe un grave errore pensare che ogni cosa sia rimasta uguale. Non c’è nessuno status quo riguardo all’occupazione o all’apartheid, anche se a volte così sembra.

Il 2018 è stato l’anno in cui è stata predisposta l’infrastruttura giuridica per quello che sta per avvenire. Un passo alla volta, con una legge dopo l’altra, sono state poste le fondamenta della legislazione per una situazione che esiste già in pratica da molto tempo. Poche proposte di legge hanno provocato una discussione, a volte persino con un dissenso chiassoso – ma anche questo non ha lasciato traccia.

Sarebbe un errore occuparsi separatamente di ogni iniziativa legislativa, per quanto drastica e antidemocratica. Ognuna è parte di una sequenza calcolata, funesta e pericolosa. Il suo obiettivo: l’annessione formale dei territori, iniziando dall’Area C [più del 60% della Cisgiordania, in base agli accordi di Oslo sotto totale ma temporaneo controllo di Israele, ndtr.]

Finora le fondamenta pratiche sono state poste sul terreno. La Linea Verde è stata cancellata molto tempo fa, i territori sono stati annessi di fatto. Ma ciò non è sufficiente per la Destra, che ha deciso che dovessero essere prese iniziative giuridiche e legislative per rendere permanente l’occupazione.

Prima hanno costruito colonie, in cui ora risiedono più di 700.000 ebrei, compresa Gerusalemme est, per creare una situazione irreversibile nei territori. Questa impresa è stata completata, e la vittoria dei coloni e dei loro sostenitori è chiara ed inequivocabile. Lo scopo delle colonie – sventare ogni prospettiva di fondazione di uno Stato palestinese nei territori occupati nel 1967 ed eliminare dalle trattative una soluzione dei due Stati – è stato pienamente raggiunto: hanno vinto. Ora, vogliono che questa situazione irrevocabile debba essere anche inserita nella legge, per neutralizzare l’opposizione all’annessione.

Contrastare l’opposizione

Questo è il principale obiettivo di ogni legge discriminatoria e nazionalista approvata nel 2018 dalla ventesima Knesset [parlamento, ndtr.] israeliana. Ognuna di esse intende contrastare ciò che resta dell’opposizione all’annessione dei territori.

Ci si aspettava una resistenza da parte del sistema giuridico israeliano e anche dai piccoli e rinsecchiti resti della sinistra nella società civile. Contro entrambi è stata dichiarata una guerra per indebolirli e sconfiggerli una volta per tutte, mentre ci avviciniamo all’annessione. Fino a quel momento, e se questa tendenza continuerà nel prossimo governo, non ci sarà nessuna ulteriore resistenza significativa nella società civile, e Israele potrà continuare a mettere a punto il suo nuovo regime.

L’apartheid è stata istituita nei territori da molto tempo e ora sarà anche nelle leggi. Quelli che negano che ci sia un’apartheid israeliana – i propagandisti pro-sionisti che affermano che, a differenza del Sud Africa, in Israele non ci sono leggi razziste o una discriminazione istituzionalizzata dal punto di vista legislativo – non saranno più in grado di diffondere i loro argomenti privi di fondamento.

Alcune delle leggi approvate quest’anno e quelle in via di approvazione, minano l’affermazione che Israele sia una democrazia egualitaria. Eppure tali norme hanno anche un aspetto positivo: queste leggi e quelle che arriveranno strapperanno la maschera e una delle più lunghe finzioni nella storia finalmente avrà termine. Israele non sarà più in grado di continuare a definirsi una democrazia – “l’unica del Medio Oriente”.

Con leggi come queste non sarà in grado di smentire l’etichetta di apartheid. Il prediletto dell’Occidente svelerà il suo vero volto: non democratico, non egualitario, non l’unico in Medio Oriente. Non è più possibile fingere.

L’apparenza dell’uguaglianza

È vero che una delle prime leggi mai adottate in Israele – e forse la più importante e funesta di tutte, la Legge del Ritorno, approvata nel 1950 –ha segnato molto tempo fa la direzione nella maniera più chiara possibile: Israele sarebbe stato uno Stato che privilegia un gruppo etnico sugli altri. La Legge del Ritorno era rivolta solo agli ebrei.

Ma la parvenza di uguaglianza in qualche modo ha resistito. Neppure i lunghi anni di occupazione l’hanno alterata: Israele ha sostenuto che l’occupazione era temporanea, che la sua fine era imminente e non faceva quindi parte dello Stato egualitario e democratico che era stato così orgogliosamente fondato. Ma dopo i primi 50 anni di occupazione, e con la massa critica di cittadini ebrei che sono andati a vivere nei territori occupati su terre rubate ai palestinesi, l’affermazione riguardo alla sua provvisorietà non avrebbe più potuto essere presa sul serio.

Fino a poco tempo fa i tentativi di Israele erano soprattutto diretti a fondare ed allargare le colonie, reprimendo al contempo la resistenza dei palestinesi all’occupazione e rendendo il più possibile penose le loro vite, nella speranza che ne traessero le necessarie conclusioni: alzarsi e andarsene dal Paese che era stato il loro. Nel 2018 fulcro di questi sforzi è passato al contesto giuridico.

La più importante è la legge dello Stato-Nazione, approvata in luglio. Dopo la Legge del Ritorno, che automaticamente consente a qualunque ebreo di immigrare in Israele e una legislazione che consente al Fondo Nazionale Ebraico di vendere terra solo agli ebrei, la legge dello Stato-Nazione è diventata la prima della lista per lo Stato di apartheid che sta arrivando. Essa conferisce formalmente uno status privilegiato agli ebrei, anche alla loro lingua e ai loro insediamenti, rispetto ai diritti dei nativi arabi. Non contiene nessun riferimento all’uguaglianza, in uno Stato in cui in ogni caso non ce n’è affatto.

Contemporaneamente la Knesset ha approvato qualche altra legge ed ha iniziato alcune ulteriori misure nella stessa ottica.

Prendere di mira i sostenitori del BDS

In luglio è stato approvato un emendamento alla legge sull’educazione pubblica. In Israele è chiamata la legge di “Breaking the Silence” [“Rompere il silenzio”, associazione di militari ed ex militari che denuncia quanto avviene nei territori occupati, ndtr.], perché il suo vero proposito è impedire alle organizzazioni di sinistra di entrare nelle scuole israeliane per parlare agli studenti. Ha come scopo spezzare la resistenza all’annessione.

Allo stesso modo un emendamento alla legge sul boicottaggio, che consente di intraprendere un’azione legale contro israeliani che abbiano appoggiato pubblicamente il movimento Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), renderà possibile intentare una causa per danni contro sostenitori del boicottaggio, anche senza dover dimostrare un danno economico.

Un altro governo di destra come questo e sarà vietato appoggiare il boicottaggio in Israele, punto. Quindi verrà vietato anche criticare i soldati israeliani o il loro ingiusto comportamento nei territori. Proposte di legge come queste stanno già circolando e il loro giorno arriverà piuttosto rapidamente.

Un’altra legge approvata quest’anno trasferisce i ricorsi da parte di palestinesi contro gli abusi dell’occupazione dalla Corte Suprema Israeliana, che comunque non gli è poi stata così d’aiuto, al tribunale distrettuale di Gerusalemme, dove ci si aspetta che riceveranno un sostegno legale ancora minore.

Una legge per espellere le famiglie di terroristi ha superato la prima lettura alla Kensset, contro il parere della procura generale; consentirà punizioni collettive nei territori, solo per gli arabi. Stanno anche discutendo della pena di morte per i terroristi.

Ed è stata approvata anche la legge sugli accordi, che legalizza decine di avamposti delle colonie che sono illegali persino secondo il governo israeliano. Solo la legge sulla lealtà culturale, il livello legislativo più basso, che intende imporre la fedeltà verso lo Stato come precondizione per ottenere finanziamenti governativi a istituzioni culturali e artistiche, per il momento è stata congelata – ma non per sempre.

Copertura legale

Le leggi approvate quest’anno non devono essere viste solo come norme antidemocratiche che compromettono la democrazia in Israele, come la situazione viene di solito descritta dai circoli progressisti in Israele. Sono pensate per fare qualcosa di molto più pericoloso. Non intendono solo minare la fittizia democrazia, per imporre ulteriori discriminazioni contro i cittadini palestinesi di Israele e trasformarli per legge in cittadini di seconda classe. Il loro vero scopo è fornire una copertura legale per l’atto di annessione formale dei territori oltre i confini riconosciuti dello Stato di Israele.

Nel 2018 Israele si è avvicinato alla realizzazione di questi obiettivi. La calma relativa che è prevalsa nel Paese è ingannevole. Sta iniziando lo Stato di apartheid di diritto, non solo di fatto.

– Gideon Levy è un editorialista di Haaretz e membro del comitato di redazione del giornale. Levy ha iniziato a collaborare con Haaretz nel 1982, ed è stato per quattro anni vice-direttore del giornale. Nel 2015 è stato insignito dell’Olof Palme human rights [premio Olof Palme per i diritti umani] e destinatario dell’Euro-Med Journalist Prize [Premio per il Giornalista Euro-mediterraneo] del 2008; del Leipzig Freedom Prize [Premio Leipzig per la Libertà] nel 2001; dell’ Israeli Journalists’ Union Prize [Premio dell’Unione dei Giornalisti Israeliani] nel 1997; dell’ Association of Human Rights in Israel Award [Premio dell’Associazione per i Diritti Umani in Israele] nel 1996. Il suo libro The Punishment of Gaza [La punizione di Gaza] è stato pubblicato da Verso nel 2010.

Le opinioni espresso in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La Betlemme dell’immaginario cristiano occidentale contrasta fortemente con la realtà dell’occupazione

Ghada Karmi

26 dicembre 2018, Middle East Eye

Presunto luogo di nascita di Gesù Cristo, Betlemme occupa un posto centrale nella fede cristiana. Eppure sono molti i fedeli che ignorano che questa città si trova in Palestina e che è soggetta alla spietata occupazione di Israele

O little town of Bethlehem/How still we see thee lie/Above thy deep and dreamless sleep/The silent stars go by” (“Oh, piccola città di Betlemme/Dormi tranquillamente/Al di sopra del tuo sonno profondo e senza sogni/ passano le stelle silenziose”), intona il celebre canto natalizio anglosassone. La vigilia di Natale, la messa di mezzanotte ha risuonato nella chiesa della Natività a Betlemme, secondo la leggenda luogo di nascita di Gesù Cristo, che proclamò che avrebbe portato “la pace agli uomini sulla Terra”.

La vera Betlemme

Niente è più lontano dalla verità dell’immagine di una Betlemme calma e tranquilla trasmessa da questo canto di Natale scaturito dalla pia immaginazione di un cristiano occidentale dell’epoca vittoriana. Generazioni di bambini cristiani l’hanno imparata e il suo potere mitico è tale per cui pochi tra loro sanno dove si trovi Betlemme e quale sia la vera situazione.

Recentemente un’amica inglese molto colta che conosco da anni è rimasta sorpresa di sapere che Betlemme si trova in Palestina. Nella sua mente la città era più una leggenda che un luogo reale e, se avesse dovuto associarla a una comunità, sarebbe stato a quella ebraica.

Ora, la città che ho visto durante una visita in Palestina all’inizio dell’anno era un simulacro del luogo evocato da questo canto di Natale e una messa in discussione senza appello del cristianesimo occidentale per avere vilmente fallito nel sostenere uno dei suoi santuari più sacri. Nella Betlemme di oggi, il sonno “senza sogni” sembra piuttosto un incubo, e la città non potrà essere “calma” che quando finirà l’occupazione israeliana.

Il vandalismo brutale di Israele

Betlemme ed i villaggi che la circondano, Beit Jala e Beit Sahour, figurano tradizionalmente tra i luoghi più cristiani della Palestina, anche se oggi Betlemme è abitata da una maggioranza di musulmani.

Prima dell’occupazione israeliana del 1967 la città era un importante centro sociale, culturale ed economico, così come uno dei luoghi più antichi della Palestina. Il suo nome, Beit Lahem (Casa di Lahem) risale all’epoca cananea [dalla popolazione che visse in Palestina prima degli ebrei, ndtr.], quando ospitava il santuario del dio cananeo Lahem.

L’architettura di Betlemme testimonia della sua ricca storia. Al periodo romano e poi bizantino, al quale risale la costruzione nel 327 della chiesa della Natività da parte dell’imperatrice Elena sopra la grotta dove sarebbe nato Gesù, fecero seguito le conquiste musulmane nel 637, l’occupazione dei crociati nel 1099 fino alla riconquista della Palestina da parte del Saladino nel 1187, poi all’inizio del XVI secolo la dominazione degli ottomani, che costruirono i bastioni della città, fino al Mandato britannico dal 1922 al 1948.

Nel 1967 Israele occupò Betlemme e il resto della Cisgiordania durante la guerra dei Sei Giorni e nel 1995, in seguito agli accordi di Oslo, la città venne trasferita all’Autorità Nazionale Palestinese, anche se rimase sotto il complessivo controllo di Israele. Nessuno dei periodi storici che hanno preceduto l’occupazione israeliana ha avuto un livello di vandalismo e di distruzioni simile a quello che avviene attualmente.

Mentre percorrevo in auto i 9 km che separano Gerusalemme da Betlemme ho sbagliato strada e mi sono ritrovata su un’autostrada moderna dove non si vedeva nessun automobilista palestinese. Ero finita per caso su una circonvallazione riservata agli ebrei, una delle due che circondano Betlemme per servire le colonie dei dintorni.

Ho subito capito lo scopo dell’operazione: affermare che nella regione vivono solo gli ebrei.

Un luogo triste

Ventidue colonie israeliane circondano Betlemme, tagliando le sue uscite e confiscando le sue terre agricole. Dominando le colline attorno, queste colonie ospitano più abitanti di tutta Betlemme e dei suoi dintorni. A nord si trova Har Homa, una colonia costruita nel 2000 su una collina una volta densamente ricoperta di boschi, Jabal Abu Ghneim.

Israele ha sradicato gli alberi di Jabal Abu Ghneim e li ha sostituiti con delle case monotone, tutte identiche, minacciando inoltre di trasformare il luogo in una copia di Betlemme per turisti. Nokidim, a est, è l’attuale luogo di residenza dell’ex-ministro della Difesa israeliano, l’ultranazionalista Avigdor Lieberman.

Dal 2015 Israele ha chiuso l’accesso alla fertile valle di Betlemme, Cremisan, ai suoi proprietari palestinesi, e lo scorso giugno ha annunciato uno sviluppo massiccio delle colonie situate lungo la strada che unisce Gerusalemme a Betlemme.

La tomba di Rachele, monumento storico di Betlemme sulla strada principale che porta a Gerusalemme e zona tradizionalmente animata da negozi e ristoranti, ora è riservata esclusivamente agli ebrei e il suo acceso è impedito ai palestinesi dal muro di separazione.

I fedeli musulmani che venerano la tomba (e che l’hanno costruita) non possono più andarci. È un luogo triste, deserto, senza vita. All’ombra del muro la maggior parte dei negozi ha chiuso le porte e, man mano che il cerchio di stringe attorno a Betlemme, presto non ne resterà più nessuno.

L’implacabile penetrazione di Israele nel cuore di Betlemme è senza appello. La città è deliberatamente isolata dietro l’impressionante barriera di separazione, circondata da posti di controllo, e la sua economia è strangolata. Una volta la sua principale risorsa era il turismo, che richiamava due milioni di visitatori all’anno e vantava un prospero mercato di souvenir, soprattutto di sculture di legno d’ulivo e di madreperla fatte a mano.

Era anche una ricca regione agricola, dotata di una prospera industria vinicola. Oggi la maggior parte delle sue terre è stata confiscata da Israele e le restrizioni draconiane imposte dalle autorità israeliane agli spostamenti verso e da Betlemme hanno notevolmente ridotto il numero di turisti e di pellegrini.

Attualmente, con una popolazione di 220.000 abitanti, di cui 20.000 rifugiati, Betlemme ha il tasso di disoccupazione più alto dei territori palestinesi occupati, subito dopo Gaza.

Salvare Betlemme

Durante il mio ultimo soggiorno a Betlemme sono andata all’hotel Walled Off, all’entrata di Betlemme. Lì ho vissuto un’esperienza impressionante dell’occupazione israeliana. L’hotel in effetti è un’installazione creata dall’artista britannico Banksy per mettere in luce la tragica sorte di Betlemme.

L’unica vista che si possa contemplare dalle finestre dell’hotel è quella dell’orrendo muro costruito da Israele, le cui immense lastre grigie non sono che a qualche metro. Sporgendosi in avanti si possono quasi toccare. Mi ricordo di come le sue sinistre torri di guardia e le sue telecamere di sorveglianza mi abbiano oppressa. Era una scena uscita direttamente da un film dell’orrore.

Per ora, e nonostante le delegazioni della Chiesa, le visite papali e le pubbliche espressioni di preoccupazione, niente di quanto hanno fatto i cristiani ha frenato o arrestato la distruzione da parte di Israele di una città particolarmente sacra per la cristianità. E allora, se non possono fare niente per salvare Betlemme, smettano almeno di intonare un canto che si prende gioco della triste realtà della città.

– Ghada Karmi è medico, docente universitaria e scrittrice palestinese.

Le opinioni espresse in questo articolo impegnano solo l’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Airbnb e Israele: il voltafaccia sulla presenza nelle colonie sarebbe peggio che stare zitti

Kieron Monks

Domenica 23 dicembre 2018, Middle East Eye

Il caso di Airbnb potrebbe rivelarsi uno spartiacque che potrebbe consolidare e far progredire il movimento BDS oppure renderlo di nuovo marginale

In base a standard particolarmente bassi, l’iniziale decisione di Airbnb di interrompere le attività nelle colonie illegali della Cisgiordania è sembrata lodevole. La non complicità in crimini di guerra non dovrebbe costituire un livello molto alto in termini di responsabilità sociale d’impresa, ma decine di imprese internazionali che tranquillamente fanno profitti nelle colonie non lo soddisfano.

Perciò va riconosciuto qualche merito a Airbnb per aver almeno ammesso la realtà.

Una pratica dannosa

Molta più fiducia, ovviamente, è dovuta agli attivisti e ai gruppi per i diritti umani che hanno passato anni a spiegare al colosso globale degli annunci quanto sbagliate e dannose fossero le sue attività nei territori occupati e quanto gravemente contraddicessero i valori progressisti professati dall’azienda.

Organizzazioni come Human Rights Watch (HRW) e la US Campaign for Palestinian Rights [Campagna USA per i Diritti dei Palestinesi] (USCPR) sono state capaci di rompere la cortina fumogena di espressioni come “territorio conteso” e “status controverso”, per mostrare che le colonie sulla terra palestinese occupata non sono nient’altro che un’impresa criminale in base all’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra.

Nessuna seria autorità, dalla Corte Internazionale di Giustizia al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, lo mette in discussione.

La decisione di Airbnb ha coinciso con lo storico rapporto di HRW ‘Bed and Breakfast su terra rubata’, che dettagliava la provenienza oscura degli annunci messi a disposizione dei turisti, che offrono viste favolose e servizi moderni. Molti si trovano in colonie su terreni di proprietà privata palestinese che sono stati rubati da banditi armati, sia coloni che soldati.

I veri proprietari, esclusi da quelli che ora sono diventati terreni vietati, devono vedere la loro proprietà data in affitto a stranieri.  Il rapporto di HRW segnala che i profitti derivanti dagli annunci di Airbnb producono un notevole flusso di introiti che aiuta a sostenere l’impresa criminale.  

Feroce reazione violenta

Sembra ragionevole ipotizzare, come fa Michael Koplow del Forum sulla Politica di Israele, che Airbnb non sapesse veramente in che cosa si stesse cacciando con la sua avventura in una delle dispute più aspre e accese del mondo.

La successiva, feroce reazione da parte di dirigenti del governo e di gruppi di pressione statunitensi ed israeliani, comprese minacce di querela e aperte accuse di antisemitismo, era ovviamente difficile da ignorare. La notizia che i dirigenti di Airbnb avevano iniziato colloqui di controllo dei danni con il ministero israeliano del Turismo, che aveva fatto della questione un’assoluta priorità, non ha destato sorpresa.

Ma adesso l’azienda si trova messa all’angolo, e rilascia dichiarazioni contraddittorie con due discorsi diversi, il che le procura solo disprezzo da entrambe le parti. Ogni ambiguo tentativo di placare la situazione non fa che aumentare la pressione e la visibilità del caso. Al momento, gli annunci per le colonie si trovano ancora sul sito di Airbnb.

È diventato un problema gigantesco. Questo episodio, inizialmente una storica vittoria per il BDS, potrebbe però trasformarsi in una sconfitta che accelera un più ampio ridimensionamento del movimento che ha fucili puntati su di esso in termini legali negli Stati Uniti e in Europa. L’appoggio al boicottaggio di Israele viene rapidamente criminalizzato, dal ‘Decreto contro il boicottaggio di Israele’ del senatore Ben Cardin fino a leggi dei singoli Stati che obbligano i logopedisti a firmare giuramenti di fedeltà.

Mentre il movimento BDS ha conseguito straordinari risultati, quali l’entrata nel Congresso di sostenitori del BDS come Ilhan Omar e Rashida Tlaib [due parlamentari elette nelle ultime elezioni di medio termine, ndtr.], non ha mai affrontato grandi minacce.

Il caso di Airbnb potrebbe essere uno spartiacque che consolida e promuove il movimento di boicottaggio, oppure renderlo di nuovo marginale, ponendo anche un’interessante domanda strategica agli attivisti BDS, se possa valere la pena focalizzare la loro campagna sulle colonie, se è quello che può far guadagnare terreno.  

Pesante responsabilità

Ora che Airbnb è finita, forse inconsapevolmente, in mezzo a un plotone di esecuzione che la circonda, l’ impresa si è trovata con una responsabilità poco invidiabile.

Qualunque altra cinica impresa che opera in Cisgiordania può borbottare delle scuse per “non venire coinvolta in questioni politiche”, abbassare la testa e continuare a fare soldi. Ma Airbnb ha alzato la testa, ha riconosciuto i fatti e l’ingiustizia messa in luce dai promotori della campagna, ed ha affermato – anche se non esattamente con queste parole – di non voler far parte di un’impresa criminale. 

Fare marcia indietro adesso, con la completa consapevolezza della realtà dei fatti, dopo una serie di incontri segreti con dirigenti del governo israeliano, impegnati a fondo a vendere all’ingrosso crimini di guerra, e con leader della stessa criminale impresa coloniale, sarebbe molto più vergognoso delle azioni di altre aziende che operano in Cisgiordania, che non hanno mai preteso di rispondere alla propria coscienza. 

Non esiste una via d’uscita facile. Se Airbnb “sospendesse l’attuazione” della politica di disdetta, si potrebbe comunque aspettare un’altra violenta reazione da parte di gruppi per i diritti umani e di attivisti della solidarietà con la Palestina, che potrebbe mettere in luce la bancarotta morale dell’azienda ed essere in sintonia con i giovani cittadini progressisti delle aree metropolitane che costituiscono buona parte del mercato principale dell’azienda.

Airbnb deve soppesare questo rispetto alla furia e ai colpi degli apologeti delle colonie, che faranno del loro meglio per dare una punizione esemplare. Con la prospettiva di una IPO (Offerta Pubblica Iniziale, per quotarsi in borsa) attesa per l’anno prossimo, gli imperativi commerciali peseranno fortemente sul giudizio.

Quando Airbnb è stata contattata da MEE per un commento, ha rilasciato la stessa dichiarazione del 17 dicembre, che dice: “Airbnb ha espresso il suo inequivocabile rifiuto del movimento BDS ed ha comunicato il proprio impegno a sviluppare i propri affari in Israele, permettendo a più turisti da tutto il mondo di godere delle meraviglie del Paese e del suo popolo.”

Un grave biasimo

Possiamo solo sperare che vengano fatte anche altre considerazioni. Per un colosso internazionale da molti miliardi di dollari come Airbnb, dichiarare aperto sostegno a flagranti crimini di guerra e violazioni di diritti umani sarebbe un grave insulto al concetto stesso di leggi internazionali e diritti umani.

Una simile decisione darebbe legittimità all’impresa coloniale israeliana e delegittimerebbe i suoi oppositori. Comunicherebbe ai governi e agli uomini d’affari in tutto il mondo che le leggi sono un optional e le violazioni possono essere convenienti.

Spereremmo probabilmente troppo se ci aspettassimo un comportamento etico da parte di un’azienda senza priorità che vadano oltre il suo bilancio. La direzione deve provenire dal basso, così come gli attivisti e i gruppi per i diritti umani che sono stati una spina nel fianco dell’impresa coloniale, con alleanze solo transitorie e di convenienza con le potenze commerciali.

Ma se Airbnb decidesse di dare la sua approvazione ai crimini di guerra apponendo il proprio logo su proprietà rubate mentre i proprietari non hanno prospettive di giustizia, l’ impresa potrebbe almeno smettere di pretendere di avere valori degni di questo nome e tenere la bocca chiusa la prossima volta che si pone la questione.

Kieron Monks vive a Londra e scrive per testate tra cui CNN, The Guardian e Prospect Magazine, occupandosi di movimenti sociali, sport e i rapporti reciproci tra questi due ambiti.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Quattro palestinesi sono stati uccisi da fuoco israeliano in Cisgiordania e a Gaza

MEE e agenzie

sabato 22 dicembre 2018 Middle East Eye

Nelle ultime 24 ore quattro palestinesi, compresi due adolescenti, sono stati uccisi dal truppe israeliane in Cisgiordania

Fonti del ministero della Salute palestinese hanno affermato che le forze israeliane hanno sparato e ucciso tre palestinesi, tra cui un adolescente, nella Striscia di Gaza durante l’ultima delle proteste settimanali del venerdì. Giovedì notte le truppe israeliane hanno ucciso un altro adolescente nella Cisgiordania occupata.

Mohammed al-Jahjuh, 16 anni, stava partecipando alla Grande Marcia del Ritorno, una protesta di massa palestinese iniziata il 30 marzo per chiedere la fine dell’assedio israeliano contro Gaza e il diritto al ritorno dei rifugiati.

“E’ stato colpito al collo da un proiettile sparato dai soldati israeliani,” ha detto all’AFP [agenzia di stampa francese, ndtr.] il portavoce del ministero, Ashraf al-Qodra.

In seguito il ministero della Salute ha detto che all’inizio della giornata due uomini, di 28 e 40 anni, sono morti per le ferite riportate durante le proteste in due luoghi diversi lungo la barriera con Israele.

Il ministero della Sanità ha detto che sono stati feriti quattro paramedici. L’esercito israeliano ha affermato di aver aperto il fuoco “in base alle regole d’ingaggio” in vigore dal momento in cui i palestinesi hanno iniziato le proteste.

Meno di 24 ore prima in Cisgiordania truppe israeliane hanno sequestrato il corpo del diciassettenne Qassem al-Abasi.

Il portavoce dell’esercito israeliano ha detto all’AFP che “i soldati hanno aperto il fuoco in direzione di un veicolo che stava cercando di oltrepassare una barriera militare nella regione di Ramallah, uccidendo uno degli occupanti.”

Abasi era di Gerusalemme est. L’esercito israeliano ha aperto un’inchiesta sull’incidente.

In base alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU la Cisgiordania è occupata illegalmente da Israele. Ma dal 1967 Israele ha costruito insediamenti e sequestrato terra palestinese, ha edificato un muro di separazione ed autostrade che collegano le colonie senza attraversare i villaggi palestinesi.

Nelle ultime due settimane vicino a Ramallah palestinesi armati hanno sparato a morte a tre israeliani, due dei quali soldati dell’esercito. Israele ha ucciso cinque palestinesi, l’ultimo il 14 dicembre nel campo profughi di al-Jalazone.

Il 9 dicembre un bimbo è nato prematuro ed è morto dopo che la madre, una colona israeliana, mentre era in viaggio è rimasta ferita in una sparatoria nella colonia illegale di Ofra.

Venerdì scorso in Cisgiordania e a Gaza i palestinesi hanno protestato contro le operazioni militari israeliane in città della Cisgiordania.

Truppe israeliane e veicoli militari sono entrati nel centro di Ramallah, sede del governo dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Anche se gli arresti di palestinesi in incursioni notturne da parte dell’esercito israeliano avvengono quasi quotidianamente, Israele ha intensificato le sue operazioni alla ricerca degli uomini armati palestinesi presumibilmente responsabili dell’uccisione dei soldati israeliani.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Secondo il ministero 18 palestinesi sono stati feriti in quanto l’esercito israeliano ha sparato contro i manifestanti di Gaza

MEE e agenzie

venerdì 30 novembre 2018, Middle East Eye

Da marzo circa 6.000 palestinesi sono rimasti feriti a causa dell’uso di proiettili veri da parte dell’esercito israeliano durante le proteste nella Striscia di Gaza

Il ministero della Sanità dell’enclave assediata ha affermato che venerdì almeno 18 palestinesi sono rimasti feriti dopo che l’esercito israeliano ha aperto il fuoco contro le proteste settimanali nella Striscia di Gaza.

Il ministero ha detto che sono stati colpiti da proiettili veri quando qualche migliaio di palestinesi si è radunato in diversi punti lungo la barriera che divide Israele da Gaza, e che nessuno risulterebbe in pericolo di vita.

Ogni settimana dalla fine di marzo i palestinesi di Gaza hanno manifestato come parte della “Grande Marcia del Ritorno”.

I manifestanti chiedono la fine dell’opprimente blocco contro il territorio costiero palestinese e rivendicano il diritto al ritorno ai loro luoghi d’origine in quello che ora è Israele.

Il numero di partecipanti alle proteste è diminuito da quando all’inizio di questo mese è stato raggiunto un accordo di cessate il fuoco tra Israele ed Hamas, che governa Gaza.

Inoltre da marzo almeno 235 palestinesi di Gaza sono stati uccisi, per lo più dal fuoco israeliano, ma anche da attacchi aerei e con i carri armati. Nello stesso periodo sono stati uccisi due soldati israeliani.

Secondo il ministero della Sanità palestinese almeno altri 6.000 palestinesi sono stati feriti dall’uso da parte dell’esercito israeliano di proiettili veri contro le proteste. All’inizio di questa settimana Medici senza Frontiere (MSF) ha affermato che il sistema sanitario di Gaza sta lottando per far fronte alle necessità dei palestinesi che sono stati feriti da proiettili veri durante le manifestazioni.

In seguito a ciò, secondo l’ente di assistenza sanitaria migliaia di abitanti di Gaza stanno soffrendo di ferite che richiedono molto tempo per essere curate e la maggioranza dei pazienti di MSF necessita di ulteriore trattamento medico per guarire adeguatamente dalle ferite o ricevere le cure necessarie per la riabilitazione.

L’assistenza del pronto soccorso si sta svolgendo in modo rallentato a Gaza a causa delle accresciute necessità dei pazienti colpiti dall’esercito israeliano e gravemente feriti durante le proteste,” afferma l’organizzazione.

Questo onere è troppo pesante da sopportare per il sistema sanitario di Gaza nella sua attuale forma, in quanto è indebolito da più di un decennio di blocco.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Perché Netanyahu ha insistito davvero per un cessate il fuoco a Gaza

Meron Rapoport

Mercoledì 14 novembre 2018,Middle East Eye

Per la prosecuzione della sua strisciante ma sicura politica di annessione, il primo ministro israeliano ha bisogno di tranquillità, non di guerra.

Arrendevole di fronte al terrorismo” e “vigliacco” – questi sono stati i termini usati da Avigdor Lieberman per descrivere il comportamento del governo israeliano e del primo ministro Benjamin Netanyahu e per giustificare le sue dimissioni da ministro della Difesa.

Si potrebbe ragionevolmente supporre che le dimissioni di Lieberman riguardino principalmente considerazioni politiche. Con le elezioni che si avvicinano vuole essere visto come uno che non si arrende ad Hamas. Lieberman, uno sperimentato animale politico, capisce che identificare Netanyahu come un codardo può essere sfruttato per i propri fini.

Non è l’unico. Martedì a Sderot [città del sul di Israele colpita dal lancio di razzi da Gaza, ndtr.] centinaia di manifestanti si sono riuniti all’entrata in città, bruciando pneumatici e gridando: “Bibi vattene.” Sembrava che avessero preso per buono il ritratto di Netanyahu come un leader vigliacco. Al contempo, il ministro dell’Educazione Naftali Bennett ha sottolineato che la decisione del governo di accettare il cessate il fuoco a Gaza non è stata di suo gradimento.

Non è una novità. Fin dall’attacco del 2014 contro Gaza [l’operazione “Margine Protettivo”, ndtr.] Bennett ha cercato di presentare Netanyahu come un primo ministro indeciso che non ha il coraggio di “fare la cosa giusta”, cioé distruggere Hamas.

Un “uomo di pace”?

Ma non è stato solo a destra che Netanyahu è stato dipinto come un leader debole. Yair Lapid di Yesh Atid [partito di centro, ndtr.], Avi Gabbay del partito Laburista e altri hanno fatto a gara per criticare la “mancanza di coraggio” di Netanyahu di fronte ad Hamas. “Netanyahu è fallimentare e ha ceduto ad Hamas sotto attacco,” ha detto l’ex primo inistro Ehud Barak [del partito Laburista, ndtr.] in risposta alla decisione del cessate il fuoco.

Più o meno ogni 5 minuti qualcuno ha postato su Facebook il video in cui Netanyahu, come capo dell’opposizione nel 2009, prometteva di “distruggere il regime di Hamas”, presentando questa clip come ulteriore prova della distanza tra le sue dichiarazioni bellicose e il suo carattere indeciso e vigliacco.

In un recente articolo su “Haaretz” [giornale israeliano di centro-sinistra, ndtr.] l’editorialista Gideon Levy ha messo in evidenza il lato positivo di Netanyahu, descrivendolo come un “uomo di pace”. E’ stato scritto pochi giorni prima dell’inizio dell’attuale serie di violenze, ma immagino che la rapida approvazione del cessate il fuoco con Hamas non faccia che rafforzare i suoi argomenti principali.

Levy ci ricorda, e a ragione, che durante i suoi 12 anni in carica – compreso il suo primo periodo come primo ministro dal 1996 al 1999 – Netanyahu ha iniziato solo una guerra, rispetto alle due che Olmert fece in modo di scatenare in tre anni come primo ministro. Netanyahu, nota Levy, è stato “uno dei primi ministri più pacifisti che abbiamo mai avuto.”

Tuttavia sia alla critica riguardo alla vigliaccheria di Netanyahu che agli elogi per la sua moderazione sfugge il punto principale del suo comportamento. Netanyahu è un ideologo – un ideologo della “Terra di Israele”. Dal momento in cui per la prima volta assunse l’incarico di primo ministro nel 1996, e sicuramente dal suo ritorno al potere nel 2009, è stato molto deciso nell’evitare la formazione di uno Stato palestinese indipendente tra il fiume Giordano e il Mediterraneo.

Politica di annessione

Netanyahu la vede come una missione storica, tramandatagli da suo padre, che a sua volta l’ha ricevuta dal defunto leader sionista Zeev Jabotinsky. Nella Terra di Israele la sovranità ebraica è l’unica possibile, con l’esclusione di qualunque altra. Evitare una sovranità straniera nella Terra di Israele è fondamentale per l’esistenza del popolo ebraico e, indirettamente, della civiltà occidentale. La legge dello “Stato-Nazione” è una manifestazione di questo processo ideologico.

Ma Netanyahu non è un fanatico. Capisce la realtà. Comprende che la comunità internazionale non accetterebbe l’annullamento degli accordi di Oslo insieme allo smantellamento dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e all’annessione della Cisgiordania da parte di Israele. Persino sotto Donald Trump, che ha fatto più di qualunque altro precedente presidente USA per incoraggiare questo progetto, il riconoscimento internazionale di un processo che porti alla distruzione della sovranità palestinese è praticamente impossibile.

Quindi quello che Netanyahu deve fare è guadagnare tempo – da una parte, per iniziare un processo politico che crei un congelamento, e dall’altra per continuare l’impresa di colonizzazione e la creazione di fatti sul terreno in Cisgiordania e a Gerusalemme est, sperando che nei prossimi 10, 20 o 30 anni non ci saranno altre opzioni che uno Stato di Israele con il potere esclusivo sulla storica Terra di Israele.

Per continuare questa strisciante ma certa annessione, Netanyahu ha bisogno di tranquillità. L’annessione totale fa rumore, per cui vi si oppone, anche al costo di attacchi velenosi da parte di Bennett e di dirigenti all’interno dello stesso Likud. Una guerra fa rumore, per cui lavora per ridurre il conflitto, anche se ciò significa che un sergente della riserva come Lieberman lo dipinga come un vigliacco.

La divisione tra Hamas e Fatah

L’atteggiamento di Netanyahu verso Hamas dev’essere visto in questo contesto. Netanyahu si è quasi sempre tenuto lontano da una guerra totale di annichilimento contro il potere di Hamas a Gaza – ma non perchè sia timoroso della prospettiva della violenza o di una esibizione di potenza. Al contrario – dal suo punto di vista, una esibizione di potenza è più importante dei principi.

Le altre Nazioni rispettano fino ad un certo punto i principi, ma rispettano molto di più la potenza,” ha detto solo pochi giorni fa durante un incontro della sua fazione nel Likud. Ma Netanyahu non vuole rumore. Soldati che muoiono a Gaza fanno rumore; migliaia di civili palestinesi morti fanno rumore; l’occupazione della Striscia di Gaza è un terremoto che porterebbe l’attenzione di tutto il mondo sulla situazione dei palestinesi, sull’occupazione, sul fatto che i negoziati sono congelati. Questa è l’ultima cosa che Netanyahu vuole.

Ma c’e un’altra questione in ballo, qualcosa di più profondo. Netanyahu ha “ereditato” la divisione tra Hamas e Fatah, tra la Cisgiordania e Gaza, quando ha ripreso il lavoro di primo ministro nel 2009. Dal suo punto di vista, questa divisione è una fondamentale risorsa politica.

Dall’inizio degli anni ’90 Israele ha aspirato a tagliare fuori Gaza dalla Cisgiordania rifiutando permessi di uscita e imponendo il blocco, e poi con il suo assedio alla Striscia di Gaza. L’idea era che finchè le due parti del corpo politico palestinese sono separate tra loro, le possibilità dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e dei palestinesi in generale di chiedere uno Stato si riducono.

Il fatto che oggi ci siano due governi separati che operano a Gaza e in Cisgiordania è una miniera d’oro politica per chiunque desideri far fallire un qualunque processo che possa portare ad uno Stato palestinese indipendente. E Netanyahu, come abbiamo visto, è esattamente quell’uomo.

La “ricostruzione” di Gaza

Quindi dal punto di vista di Netanyahu conservare il potere di Hamas a Gaza è un vantaggio strategico di prim’ordine. Secondo lui qualunque processo che possa probabilmente portare alla fondazione di uno Stato palestinese indipendente a Gaza, separato dalla Cisgiordnaia, è una benedizione. Se Gaza diventa il suo “emirato”, come piace chiamarlo alla gente di destra, questo sarebbe un colpo mortale alle pretese di Mahmoud Abbas, o di qualunque suo potenziale successore, di rappresentare il popolo palestinese nei negoziati per porre fine all’occupazione e fondare uno Stato indipendente.

Questo concetto spiega l’improvvisa preoccupazione di Netanyahu per la “ricostruzione” di Gaza – e sottolinea anche la ragione per cui ha accettato l’ingresso, davanti alle telecamere, di valigie piene di 15 milioni di dollari dal Qatar, destinati unicamente a pagare i dipendenti di Hamas a Gaza.

Spiega anche perché Netanyahu ha evitato un’occupazione di Gaza. Se un simile passo militare dovesse in qualche modo accadere senza costare le vite di centinaia di israeliani e di migliaia o forse decine di migliaia di palestinesi – e senza diventare una catastrofe mediatica a livello internazionale – Israele alla fine si troverebbe a dover consegnare Gaza ad Abbas e all’ANP, rafforzando così la loro presenza nel mondo. E’ esattamente quello che Netanyahu sta cercando di evitare.

Ciò non significa che Hamas sia una creazione di Netanyahu o di Israele, come gente di Fatah afferma in ogni conversazione privata, e ogni tanto anche in pubblico. Hamas è una spina nel fianco di Israele. Nell’ultimo periodo di violenze Hamas ha di nuovo dimostrato di poter tranquillamente paralizzare la vita quotidiana in vaste aeree di Israele. L’impressione che ha dato è che le sue capacità militari siano solo migliorate e che in futuro sarà ancora più pericolosa – forse non come Hezbollah, ma non lontana dal suo livello.

Il dilemma di Netanyahu

Tuttavia Netanyahu si trova in una posizione difficile. Da una parte, per tutte le ragioni succitate, è molto importante per lui mantenere Hamas al potere a Gaza. Dall’altra, finchè Hamas governa a Gaza, Netanyahu non è in grado di trasmettere una sensazione di sicurezza a centinaia di migliaia di israeliani nel sud del Paese. E inoltre, poichè si oppone per principio a qualunque negoziato con i palestinesi, Netanyahu non ha un percorso verso un accordo a lungo termine che tranquillizzi la situazione. Non ha altra possibilità che essere d’accordo a farla finita con Hamas.

Hamas capisce bene il dilemma di Netanyahu. La fazione palestinese sa che Netanyahu sa che non cercherà di eliminarla. Quindi nelle attuali circostanze Hamas può lanciare centinaia di razzi contro Israele, sapendo che alla fine Netanyahu accetterà un cessate il fuoco appena Hamas, attraverso la mediazione egiziana, glielo offre. Nell’ultima fase di violenze Hamas ha sfruttato questo circolo vizioso per raggiungere una chiara vittoria politica, e così facendo ha messo in luce la debolezza di Netanyahu.

Netanyahu deve essere cosciente di questo circolo vizioso, ma, data quella che egli vede come la sua missione storica di evitare la formazione di uno Stato palestinese indipendente, è pronto a pagare il prezzo politico per quello che l’opinione pubblica potrebbe vedere come mancanza di coraggio e codardia. Il prezzo politico questa volta è stato particolarmente alto.

E’ ragionevole supporre che le dimissioni di Lieberman spingeranno a nuove elezioni e alla fine del quarto governo Netanyahu, che, fino a non molto tempo fa, sembrava così stabile. Sarebbe sicuramente ironico se fosse Hamas, che Netanyahu ha lavorato così duramente per tenere in vita e per difendere dalle minacce di Abbas, che in conclusione porterà alla fine del regno di Netanyahu.

  • Meron Rapoport  è un giornalista e scrittore israeliano, vincitore del “Premio internazionale Napoli per il Giornalismo” per un’inchiesta sul furto di ulivi a danno di proprietari palestinesi. E’ stato capo della redazione notizie di Haaretz ed ora è un giornalista indipendente.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Gaza: sei morti nelle sparatorie fra Israele e Hamas

MEE staff,

12 novembre 2018 (aggiornato 13 novembre), Middle East Eye

Decine di attacchi aerei israeliani sulla Striscia di Gaza uccidono sei palestinesi, i missili di Hamas fanno morire un palestinese in Israele

Quattro palestinesi sono stati uccisi lunedì e altri due martedì, quando l’esercito israeliano ha sferrato decine di attacchi aerei sulla Striscia di Gaza, mentre centinaia di missili venivano lanciati dall’enclave assediata.

Il ministero della Sanità di Gaza ha identificato i sei palestinesi uccisi come Mohammed Zakariya al-Tatari, 27 anni, Mohammed Zuhdi Odeh, 22 anni, Hamad Mohammed al-Nahal, 23 anni, Moussa Iyad Abd al-Aal, 22 anni, Khaled Riyadh al-Sultan, 26 anni e Musaab Hoss, 20. Da lunedì pomeriggio sono stati feriti altri 25 palestinesi.

Secondo quanto riferito da Haaretz, un palestinese è stato ucciso da un missile partito da Gaza che ha colpito la sua casa nella città israeliana di Ashkelon. Il razzo avrebbe ferito gravemente anche due donne che si trovavano nella casa.

La morte del quarantenne, un palestinese originario della città di Hebron in Cisgiordania, è la prima morte confermata dovuta alla raffica di razzi lanciati da Gaza iniziata lunedì pomeriggio, a seguito di una micidiale operazione delle forze speciali israeliane nell’enclave.

Secondo quanto riportato dai media israeliani, l’esercito israeliano ha colpito almeno 70 bersagli a Gaza, mentre 300 missili sono stati lanciati dal territorio palestinese verso Israele per tutto il lunedì.

Un attacco israeliano ha ucciso un altro palestinese martedì, ha detto il Ministro della Salute di Gaza, portando così a cinque il bilancio delle vittime nell’enclave in meno di 24 ore.

Un testimone oculare a Gaza ha detto a Middle East Eye che l’esercito israeliano lunedì ha bombardato l’edificio che a Gaza City ospita la stazione televisiva Al-Aqsa, legata a Hamas.

I media locali e internazionali hanno riferito che l’edificio è stato completamente distrutto durante l’attacco, e le strutture vicine danneggiate.

Non ci sono state notizie di vittime, secondo quanto riferito da Reuters.

L’attacco aereo è arrivato dopo che i militari israeliani hanno sparato cinque missili antideflagranti vicino all’edificio, hanno riferito a Reuters funzionari e testimoni palestinesi.

“Proprio come abbiamo affrontato gli attacchi precedenti, stiamo gestendo anche questo”, ha detto Rami Abu Dayya, un cameraman che ha lavorato per Al-Aqsa TV negli ultimi 14 anni durante i quali ha assistito a quattro diversi attacchi israeliani contro l’edificio.

Abu Dayya, 33 anni, ha detto anche di aver personalmente subìto tre diverse ferite durante gli attacchi israeliani sulla Striscia di Gaza negli ultimi anni.

“Israele sta cercando di mettere a tacere i media palestinesi. Tuttavia, pochi minuti dopo che l’edificio di Al-Aqsa è stato preso di mira, siamo stati in grado di riprendere le trasmissioni [da un altro luogo] “, ha detto lunedì a MEE.

Dawoud Shihab, capo dell’ufficio stampa della fazione palestinese Islamic Jihad, ha affermato che la distruzione dell’edificio del canale televisivo Al-Aqsa e di molte altre case è stata “un attacco grave e aggressivo”.

“Ciò provocherà un’escalation nella rappresaglia della resistenza (palestinese)”, ha detto Shihab in una dichiarazione.

Nel contempo, il quotidiano israeliano Haaretz ha riferito che l’esercito israeliano avrebbe colpito 70 bersagli nell’enclave palestinese assediata intorno alle 16 di lunedì.

Il sistema israeliano di difesa missilistica Iron Dome ha intercettato circa 60 dei 300 razzi lanciati da Gaza verso Israele, ha riferito il giornale. La maggior parte dei razzi sono atterrati in zone disabitate, ha detto l’esercito israeliano, ha riferito Haaretz.

Gli attacchi aerei israeliani hanno colpito anche case appartenenti agli attivisti di Hamas a Rafah e Khan Younis, nel sud di Gaza, e un hotel a Gaza utilizzato dal governo di Hamas per gestire la sua agenzia di sicurezza interna.

Saeb Erekat, segretario generale del comitato esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ha detto che Israele è responsabile degli attacchi a Gaza e del deterioramento della situazione nel territorio.

“Ribadiamo la nostra richiesta di protezione internazionale. Chiediamo alla comunità internazionale di fare tutto il necessario per prevenire un nuovo massacro a Gaza “, ha detto Erekat.

Anche l’Egitto ha invitato Israele a fermare le violenze a Gaza, secondo quanto riferito dalla televisione pubblica/ egiziana, e come riportato da Reuters.

Le fonti dicono che l’Egitto avrebbe comunicato a Israele la necessità di impegnarsi in un processo di allentamento della tensione e ha anche intensificato l’impegno con i palestinesi a tale riguardo.

Abu Obeida, portavoce dell’ala armata di Hamas Brigate al-Qassam, ha twittato “quello che è successo ad Ashkelon è responsabilità del comando nemico”.

A seguito delle violenze, il gabinetto di sicurezza israeliano è stato convocato per martedì mattina.

 

Violenze dopo un fallito raid israeliano

Haaretz ha riferito di un soldato israeliano di 19 anni rimasto gravemente ferito da “un missile anti-carro ” che ha colpito un autobus nel sud del territorio israeliano nel distretto regionale di Shaar HaNegev.

Il servizio sanitario di emergenza israeliano Magen David Adom (MDA), che ha portato l’adolescente al Soroka Medical Center di Beersheba, ha descritto l’incidente come un’esplosione. Altri sei israeliani sono stati leggermente feriti nella città meridionale di Sderot, secondo MDA.

Le sirene hanno suonato nel sud di Israele per tutto il pomeriggio e la sera, e una è risuonata anche vicino al Mar Morto.

Mda ha detto che 50 israeliani sono stati ricoverati all’ospedale Barzilai di Ashkelon, per tutta la giornata di lunedì. Fra di essi, 19 persone sono state ferite da razzi, mentre altre 31 sono state curate per lo shock, secondo quanto riportato dal quotidiano israeliano Ynet.

Il quotidiano ha riferito che il personale del Soroka Medical Center di Beersheba ha curato lunedì altri tre israeliani feriti dal lancio di razzi, e altri 44 sotto shock.

La violenza di lunedì fa seguito al micidiale raid dell’esercito israeliano via terra e via aria su Gaza domenica sera, durante il quale sette palestinesi – tra cui un comandante dell’ala militare di Hamas, le brigate al-Qassam – e un ufficiale israeliano sono stati uccisi.

L’incidente, che costituisce un raro esempio di truppe di terra israeliane penetrate così addentro nella Striscia di Gaza, ha scatenato la paura di un’escalation di violenza nel territorio costiero palestinese.

Lunedì l’inviato del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump per il Medio Oriente, Jason Greenblatt, ha manifestato il suo totale sostegno a Israele, fedele alleato degli Stati Uniti, e ha twittato che “gli attacchi con i razzi e i colpi di mortaio contro le città israeliane devono essere condannati da tutti”.

“Israele è ancora una volta costretto a ricorrere all’azione militare per difendere i suoi cittadini e noi stiamo con Israele che si difende dagli attacchi”, ha detto Greenblatt.

L’incursione israeliana e il successivo scambio di fuoco hanno avuto luogo nonostante gli sforzi egiziani di negoziare un accordo tra Hamas e Israele, in mezzo alle continue proteste di massa a Gaza che mettono sotto pressione Israele affinché ponga fine al blocco della Striscia.

Di recente, Israele ha accettato di consentire al Qatar di donare milioni di dollari in aiuti per contribuire a pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici di Gaza e per coprire i costi del carburante necessario ad alleviare una crisi nell’elettricità.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu aveva in precedenza difeso la sua decisione di permettere al Qatar di trasferire denaro a Gaza nonostante le critiche del suo governo, dicendo di voler evitare la guerra, se non fosse stata necessaria.

Israele ha ucciso più di 200 palestinesi e ne ha feriti circa 20.000 dall’inizio più di sette mesi fa delle proteste della Grande Marcia del Ritorno.

I partecipanti alle marce settimanali hanno chiesto la fine del paralizzante assedio di Gaza, in essere da 11 anni, e il permesso per i profughi palestinesi di tornare alle case dei loro antenati.

Aggiornamenti di Mohammed Asad e Maha Hussaini a Gaza

Questo articolo è disponibile in francese sull’edizione francese di Middle East Eye.

(traduzione di Luciana Galliano)