Acquirente fai attenzione: l’impresa israeliana che aiuta i governi a spiare i loro stessi cittadini

Richard Silverstein ,martedì 22 agosto 2017, Middle East Eye

Consentendo ai governi di violare i telefoni dei loro cittadini, un’azienda israeliana di sicurezza informatica ha presumibilmente reso il mondo più pericoloso per gli attivisti a favore dei diritti umani che lottano contro l’impunità delle imprese e degli Stati.

Dato che negli ultimi anni gli smartphone si sono moltiplicati e sono diventati un mezzo di comunicazione indispensabile per tutti noi, si sono moltiplicate anche le nuove aziende che si dedicano a violare questi telefoni a favore di governi – compresi i servizi militari, dello spionaggio e della polizia.

I clienti di queste imprese innovative utilizzano la nuova tecnologia per sorvegliare criminali e terroristi, per individuare e far fallire i loro piani. Questo è un uso legittimo. Ma ce ne sono altri che sono molto più redditizi per le imprese – e molto meno accettabili per le società democratiche.

Prendiamo per esempio l’attivista per i diritti umani degli Emirati [Arabi Uniti] Ahmed Mansoor. Nell’agosto 2016 ha ricevuto un messaggio ingannevole [ phishing message] che sembrava provenire da una fonte fidata. Ma si è insospettito ed ha immediatamente inviato il suo telefono a “Citizen’s Lab” [Laboratorio del Cittadino, centro studi interdisciplinare che si occupa del controllo sulle informazioni, ndt.] dell’università di Toronto per un’analisi forense.

Da questa verifica è risultato che le autorità degli Emirati si erano procurate “Pegasus”, il più potente programma di malware [sistemi usati per apportare modifiche indesiderate ad un apparecchio informatico, ndt.] mai creato che si possa trovare sul mercato e venduto dall’azienda israeliana “NSO Group”.

Se Mansoor avesse aperto il link, esso avrebbe preso il controllo del suo telefono e consentito alla polizia di accedere non solo a tutto quanto vi si trovava (email, contatti e messaggi di testo, per esempio), ma anche alla macchina fotografica, al video e all’audio. La polizia avrebbe sentito e visto tutto quello che faceva e sarebbe stata in grado di prevenire ogni sua azione.

      1. Attacchi di “Pegasus”

In un caso collegato del 2016, le autorità degli EAU hanno anche utilizzato “Pegasus” in un tentativo di intrusione che ha preso di mira il giornalista di MEE Rory Donaghy, che informava in modo critico sui soprusi del regime autocratico del Paese. Nel pieno di un’inchiesta su questo attacco, il “Citizen’s Lab” ha scoperto che 1.100 attivisti e giornalisti del regno erano stati presi di mira allo stesso modo e che il governo aveva pagato a “NSO Group” 600.000 dollari per questi tentativi [di intercettazione].

Anche se è un prodotto commerciale, “Pegasus” – come molti altri strumenti simili per lo spionaggio ora sul mercato – è chiaramente anche un mezzo politico che consente a regimi autoritari di spiare i propri cittadini.

Infatti potrei andare anche oltre e dire che “Pegasus” è spesso utilizzato come arma informatica offensiva usata dall’élite mondiale per proteggere i propri interessi e contrastare il legittimo controllo da parte delle Ong e di altre associazioni di attivisti.

Il governo compra (la tecnologia) e può usarla come vuole,” ha detto a “HuffPost” Bill Marczak, un ricercatore di “Citizen’s Lab” che ha analizzato molte campagne di controllo che secondo lui sono state condotte con “Pegasus”.

Sono praticamente dei mercanti di armi digitali.”

Nelle ultime settimane il gruppo finanziario privato che possiede “NSO Group”, valutato oggi 1 miliardo di dollari, ha cercato di vendere la compagnia, sollevando grandi questioni tra gli attivisti dei diritti digitali in merito a se un nuovo investitore ridurrà il sospetto uso del sistema di spionaggio dell’azienda contro dissidenti politici ed attivisti da parte di alcuni governi.

      1. Dall’esercito alla tecnologia

Ci sono parecchie imprese che creano questo tipo di software maligni in vari Paesi, ma alcune di quelle di maggior successo sono israeliane.

Ciò è principalmente un risultato della “SIGINT-Unità 8200”, la più numerosa dell’esercito israeliano, che spia i segnali elettromagnetici, monitora, intercetta e sorveglia i nemici di Israele in Medio Oriente e in tutto il mondo.

I suoi ufficiali ricevono l’addestramento più sofisticato nello spionaggio ed uso dei segnali e creano la tecnologia più avanzata per farlo. Quando lasciano il servizio attivo trovano le porte aperte nel mondo tecnologico. Possono avere un lavoro molto ben remunerato nelle grandi imprese o utilizzare le competenze che hanno acquisito nell’esercito per fondare un’azienda innovativa propria.

Alcune delle aziende di maggiore successo includono Waze, Wix, Taboola, NICE Systems, Amdocs, Onavo (acquistata da Facebook per 150 milioni di dollari), Checkpoint, Mirabilis e Verint. 

Molti dei progetti riguardano la sicurezza informatica, che è quello che l’ “Unità 8200” è stata costituita per debellare nei suoi tentativi di intercettare le comunicazioni delle forze nemiche di Israele. Alcune iniziative sono concentrate sulla protezione della sicurezza informatica. Questi sono i bravi, o i “cappelli bianchi” nella terminologia degli hacker.

Ma altri continuano lungo la direzione che gli hacker dell’”Unità 8200” perseguono durante il servizio militare: sono destinati ad aggirare le funzioni di sicurezza di vari sistemi.

Forse quella che ha avuto più successo tra queste imprese è “NSO Group” che si trova a Herziliya [importante università privata israeliana in stretti rapporti con i servizi di sicurezza, ndt.], il cui motto è “rendi il mondo un posto più sicuro.” Ma l’azienda ha reso sicuramente il mondo molto più pericoloso per un gran numero di attivisti politici e per i diritti umani che lottano contro l’impunità di imprese e governi.

      1. Vulnerabilità da miliardi di dollari

NSO” è stata fondata nel 2010 da due veterani dell’esercito israeliano, Shalev Hulio and Omri Lavie, che non erano stati nell’“Unità 8200” (nonostante informazioni in contrario). Secondo la rivista israeliana “Globes” [quotidiano di informazioni finanziarie, ndt], Lavie ha fatto il militare nei corpi di artiglieria e Hulio nel servizio di ricerca e soccorso.

Alle scuole superiori né Hulio né Lavie erano studenti particolarmente brillanti e, secondo le informazioni del “Globes”, hanno passato un sacco di tempo insieme sulla spiaggia. Dopo aver lasciato l’IDF, hanno deciso di diventare imprenditori di servizi in rete.

NSO” è la loro terza e di gran lunga più importante iniziativa imprenditoriale di successo. Secondo i fondatori, la sua nascita è avvenuta per puro caso. Vari clienti avevano chiesto loro se ci fosse un modo per prendere il controllo di un cellulare senza avere accesso fisico all’apparecchio reale.

Benché avessero sentito dire che c’era [questa possibilità], non riuscivano a trovare nessun ingegnere informatico che avesse idea di come farlo, finché un giorno, seduti in un caffè, i due udirono per caso parlarne veterani dell’“Unità 8200”. Così nel 2010, proprio quando gli smartphone stavano per essere trasformati da oggetti per un solo uso in apparecchi quotidiani potenti, multiuso e indispensabili, fondarono “NSO”.

Iniziarono a farsi una clientela tra le forze di polizia di vari Paesi, offrendo la possibilità di spiare criminali sospetti in modi che nessuno aveva mai previsto. Fondarono una succursale per le vendite negli USA, “WestBridge Technologies”, per incentivare la penetrazione commerciale in uno dei loro maggiori mercati potenziali.

Attraverso la “Francisco Partners”, la società di capitale di rischio che nel 2015 ha comprato “NSO”, questa è finita sotto l’egida di un’impresa che possiede una serie di altre compagnie di telecomunicazioni che hanno fornito informazioni sensibili per fare passi avanti nelle possibilità di hackeraggio. Per esempio, “Intelligence Online” [rivista informativa nel campo dell’informatica, ndt.] riporta che Boaz Goldman è presidente del consiglio di amministrazione di “Inno Networks”, che installa reti di comunicazione mobile (3G e 4G). E’ appena entrato nel consiglio di amministrazione di una holding con sede in Lussemburgo che include “NSO Group” in un complicato rapporto finanziario. Questo accordo d’affari fornisce all’azienda di armi informatiche un accesso diretto a grandi reti (SS7 – Signal System 7) utilizzate per trasmettere testi, email, chiamate telefoniche, dati di geo-localizzazione e chiavi di cifratura.

NSO” ha anche iniziato a crearsi fonti che gli forniscono accesso a prototipi di modelli di cellulari prima che vengano immessi sul mercato, il che gli permette di fare analisi scientifiche in modo che gli ingegneri di “NSO” possano cercare falle di vulnerabilità che consentano un accesso totale ai telefoni che i loro clienti desiderano prendere di mira.

      1. Zona grigia

Si potrebbe pensare che i produttori di telefonini intendano proteggere i propri prodotti come Fort Knox [area militare in cui sono conservate le riserve auree e monetarie degli USA, ndt.] e vietarli agli sguardi loschi di hacker come “NSO”. Ma l’impresa opera in una zona grigia e cerca di garantirsi quello di cui ha bisogno da varie fonti sia all’interno che all’esterno delle industrie produttrici.

Prima dei portatili, i criminali comunicavano nel modo in cui lo facevano tutti: con telefoni fissi, mail o di persona. La tecnologia per intercettare o controllare queste comunicazioni era semplice e primitiva: per i telefoni si usava una “cimice” [microspie per l’ascolto di conversazioni private, ndt.] su una linea telefonica.

La cimice avrebbe dovuto presumibilmente essere approvata da un giudice ed essere messa in funzione con l’aiuto di una compagnia telefonica. C’era un processo di controllo e questo veniva in genere rispettato, almeno nelle società democratiche.

La comunicazione elettronica ha cambiato tutte le regole, aprendo nuove modalità per spiare le singole persone. Si possono intercettare dall’esterno i segnali di comunicazione tra chi parla. “NSO” ne ha approfittato, sviluppando un programma che, una volta scaricato, prenderà il controllo del telefonino di chi lo utilizza.

Così non c’è più bisogno di intercettare telefonate, perché il cliente di “NSO” è effettivamente all’interno dello stesso telefono. Le forze di polizia ed i governi possono distruggere i piani per commettere reati o attacchi terroristici prima che avvengano e preservare l’ordine pubblico.

      1. Una breccia delle dimensioni di un camion

Ma c’è un aspetto problematico in questa tecnologia per altri versi benefica: “NSO Group” controlla solo quelli che l’hanno comprata, non l’utilizzatore finale. Il primo cliente può offrirla ad altri individui o enti nel suo governo, o creare un’identità commerciale fittizia per celare l’uso finale che farà di “Pegasus”.

NSO” sostiene di seguire tutte le regole israeliane che governano l’esportazione dei suoi prodotti e vende solo agli alleati di Israele e mai ai suoi nemici. Sostiene anche di vendere solo a governi e mai a singoli individui o ad utilizzatori non autorizzati. Afferma che “Pegasus” è previsto solo per lottare contro criminali e terroristi e mai per essere usato a fini politici.

Tuttavia sottolinea che, una volta che ha venduto il prodotto, non ha il controllo (o per lo meno questo sostiene) su chi usa la tecnologia o sul come. Questa è una breccia abbastanza grande da farci passare un camion Mack [marca che produce negli USA camion enormi, ndt.], e consente ad “NSO” – e a decine di altre imprese di spionaggio informatico che offrono programmi simili – di evitare la responsabilità sui modi ripugnanti in cui la loro tecnologia viene usata.

Nel caso di Mansoor l’hackeraggio è stato diretto contro un cittadino considerato un criminale dallo Stato. Ma egli non lo è da nessun punto di vista riconosciuto da una società democratica. Non è stato imputato di nessun reato, di aver rapinato qualcuno o di aver messo una bomba. Nel 2011 è stato condannato a tre anni con l’accusa di oltraggio allo Stato (in seguito è stato amnistiato e liberato) – e ciò a quanto pare è stato sufficiente in un regime autocratico come quello degli EAU per considerarlo sospetto.

La tecnologia dell’”NSO” è caduta in cattive mani anche in Messico. Come ha informato il “New York Times”, i telefoni di attivisti politici, per i diritti umani e contro la corruzione messicani che stavano facendo un’inchiesta su possibili delitti commessi dal governo e dai suoi agenti sono stati infettati da “Pegasus”. Il “Times” afferma che le vittime se ne sono accorte per la prima volta nell’estate 2016.

Una di queste era l’avvocato che rappresenta i genitori di 43 studenti medi uccisi dalla polizia messicana in un caso per cui non è mai stata perseguita. Altri stavano facendo un’inchiesta sulla corruzione di dirigenti d’azienda collusi con rappresentanti eletti.

Secondo mail interne della “NSO” datate a partire dal 2013 e lette dal “New York Times”, il governo messicano ha pagato alla “NSO” più di 15 milioni di dollari per tre progetti. Funzionari messicani hanno negato di essere coinvolti nello spionaggio ed hanno aperto un’inchiesta.

Questi usi violano le disposizioni della licenza di esportazione israeliana in base alla quale “NSO” vende i propri prodotti. Ma ci sono scarse possibilità che i funzionari israeliani intervengano in questo caso. Sono interessati a promuovere le esportazioni israeliane, non a limitarle. Né vedono il proprio ruolo come un servizio di censori nei confronti del comportamento delle imprese israeliane.

Middle East Eye” ha contattato l’agenzia di controllo dell’esportazione per la difesa del Ministero della Difesa israeliano per chiedere di commentare i suoi rapporti con “NSO”. Non ha risposto prima che questo articolo venisse pubblicato. Abbiamo anche posto delle domande all’ufficio stampa del Ministero della Difesa, e neppure questo ha risposto a tempo per la pubblicazione.

Per esempio, molti esportatori di armi israeliani sono sospettati di essere impegnati in truffe e altre pratiche corruttive per ottenere contratti per la vendita di armamenti con eserciti stranieri. Poche tra queste imprese sono state messe sotto inchiesta dalle autorità israeliane, benché a parecchie sia stato vietato di fare affari in vari Paesi.

Citizen Lab” ha detto a “Forbes” che “NSO” ha registrato domini in Israele, Kenya, Mozambico, Yemen, Qatar, Turchia, Arabia Saudita, Uzbekistan, Thailandia, Marocco, Ungheria, Nigeria e Bahrain, suggerendo che “Pegasus” potrebbe essere stato usato in questi Paesi, anche se non ci sono prove evidenti.

Secondo email interne, contratti e proposte di “NSO” visionate dal “New York Times”, “NSO” fa pagare ai clienti 650.000 dollari per spiare i proprietari di 10 iPhone, più 500.000 dollari di commissione per la configurazione.

E’ evidente quanto questo affare possa essere una miniera d’oro – ed anche perché “NSO” potrebbe essere tentata di allentare le considerazioni etiche per massimizzare il suo profitto potenziale. “Middle East Eye” ha cercato un cofondatore di “NSO” e l’addetto stampa dell’impresa per un commento. Nessuno ha risposto.

Da imprenditori astuti quali sono, Lavie e Hulio hanno deciso di poter giocare da entrambi i lati. E’ così che nel 2013 hanno fondato “Kaymera”, un’altra azienda tecnologica con sede nell’università di Herzilya destinata a proteggere i clienti contro intrusioni informatiche indesiderate.

Nella maggior parte delle iniziative imprenditoriali, questo passaggio del confine avrebbe fatto scattare l’allarme. Ci potrebbero essere dei vantaggi nel condividere informazioni: non appena un ingegnere dell’ “NSO” ha individuato il punto debole di un’impresa, potrebbe condividerlo con “Kaymera” per risolverlo.

Ma con la stessa facilità potrebbe succedere il contrario: “Kaymera” potrebbe informare “NSO” dei punti deboli che ha scoperto nei sistemi informatici o di comunicazione di un cliente. Questa informazione potrebbe effettivamente essere monetizzata a favore di entrambe le aziende. Middle East Eye ha contattato “Kaymera” per avere un commento e l’impresa non ha risposto.

Il problema è che, in uno Stato di sicurezza nazionale come Israele, considerazioni etiche come queste passano in secondo piano rispetto ai benefici per la sicurezza e finanziari.

      1. Unicorni e galline dalle uova d’oro

La crescente clientela di “NSO” e i profitti che genera hanno attirato l’attenzione di società di capitale di rischio alla ricerca di opportunità di investimenti lucrosi. Una di queste è stata la società privata di investimenti “Francisco Partners” con sede negli USA.

Nel 2014 la società ha comprato una quota di maggioranza in “NSO” per 120 milioni di dollari. Le migliori società finanziarie investono in un’impresa per un lungo periodo, offrendo non solo un investimento di capitale, ma anche consulenza strategica e gestionale. Ma altre investono a breve termine. “Francisco” è una di queste.

Cosa interessante, “Francisco Partners” e un ramo di “NSO” hanno un passato di rapporti con l’ex consigliere per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Trump Michael Flynn, che ha dato le dimissioni in febbraio dopo indiscrezioni sui suoi rapporti con la Russia.

Secondo moduli informativi finanziari, una controllata di “NSO” con sede in Lussemburgo, “OSY Group”, ha pagato a Flynn 40.280 dollari per il suo ruolo come membro del consiglio di amministrazione dal maggio 2016 al gennaio scorso. Flynn – che avrebbe lavorato per molte imprese di sicurezza informatica – è stato anche consulente del socio proprietario di “NSO”, “Francisco Partners”, ma non ha mai rivelato quanto lo hanno pagato.

Un mese prima che Flynn entrasse nel consiglio di amministrazione di “OSY”, “NSO Group” ha aperto una nuova branca nella zona di Washington chiamata “WestBridge Technologies” che, secondo l’ “Huffington Post”, è “in lizza per contratti con il governo federale per prodotti del gruppo “NSO”. Assumere Flynn avrebbe messo a disposizione di “NSO Group” una figura con ottimi contatti a Washington, per aiutarla a inserirsi nel mondo notoriamente esclusivo della destinazione dei fondi dei servizi segreti.”

Francisco Partners” ha tenuto “NSO” solo per un anno prima di iniziare a venderla con una valutazione di un miliardo di dollari. Nelle scorse settimane “Blackstone Group”, una delle più grandi società finanziarie di Wall Street, avrebbe accettato di acquistare una quota del 40% in “NSO”.

Un investimento di 400 milioni di dollari da parte di “Blackstone” avrebbe fatto diventare “NSO” un “unicorno” (una startup che ha raggiunto il valore di un miliardo di dollari o più) ed offerto ai suoi fondatori – e a “Francisco Partners” – un enorme guadagno.

Data la maggiore penetrazione nel mercato mondiale che l’investitore “Blackstone” avrebbe fornito a “NSO”, le notizie hanno preoccupato gli attivisti per la libertà nella rete.

Access Now”, una Ong statunitense che sostiene un internet libero e democratico, ha dato vita ad una petizione on line ed a una campagna con l’intenzione di informare l’opinione pubblica sul modello di attività di “NSO”. “Citizen Lab” si è unito al progetto scrivendo una lettera aperta al consiglio di amministrazione di “Blackstone”, invitandolo a “considerare con attenzione le implicazioni etiche e per i diritti umani” del loro potenziale investimento.

      1. Blackstone” si ritira

Questa settimana sono comparse notizie secondo cui “Blackstone” è uscita dalle trattative con “NSO” senza arrivare ad un accordo. Rispondendo ad una richiesta di commento da parte di “Middle East Eye” nel giorno in cui è stata annunciata la fine dei colloqui, un rappresentante di “Blackstone” ha rifiutato di commentare l’affare. Un’altra società di investimenti, “ClearSky Technologies”, avrebbe accettato di acquistare una quota del 10% in “NSO”. Ma anch’essa ha confermato a “Middle East Eye” che non investirà nell’azienda.

Un portavoce di “NSO” ha rifiutato di discutere con la Reuters [agenzia di stampa inglese, ndt.] dei colloqui o del perché sono saltati.

Ma pare probabile che la polemica generata da “Access Now” e le questioni sollevate dai giornalisti abbiano reso prudente la società sulla responsabilità che si sarebbe accollata.

Finché ‘Blackstone’ non parla,” ha detto Peter Micek, consulente legale di ‘Access Now’, “non sapremo se hanno ascoltato le voci di difensori dei diritti umani, giornalisti e vittime di reati le cui vite sono state sconvolte dagli strumenti di ‘NSO Group’”.

Ma questo accordo defunto dimostrerà ad altri investitori, compreso l’attuale proprietario di ‘NSO’, ‘Francisco Partners’, che non c’è niente da guadagnare – e tutto da perdere – nell’investire nelle violazioni dei diritti umani.”

Tutto ciò mette in luce nuove domande su come “NSO” fa affari e sull’inconsistenza del suo modello etico. Perché, per esempio, “Pegasus” perde il simbolo e il controllo di “NSO” una volta che viene concessa la licenza ad un cliente? Perché l’azienda non può fissare condizioni esplicite nei suoi contratti stabilendo da chi e come sarà utilizzato?

      1. Condizioni di utilizzo

Sembra ridicolo che un’impresa, la cui tecnologia è destinata a infiltrarsi e controllare le attività di singole persone prese di mira, non sia in grado di monitorare gli usi a cui vengono destinati i suoi prodotti.

Ovviamente, se “NSO” potesse controllare come i clienti utilizzano i suoi prodotti, potrebbe essere ritenuta responsabile se violano le condizioni di utilizzo. Gli attivisti per i diritti umani presi di mira o imprigionati a causa di “Pegasus” potrebbero forse fare causa per le proprie sofferenze a “NSO” in qualche sede giurisdizionale. Questa sarebbe un’ulteriore ragione per cui “NSO” preferisce non sapere quello che succede una volta che il suo malware lascia i suoi server.

E’ indispensabile che il futuro acquirente ne sia consapevole e risponda a queste preoccupazioni in modo costruttivo. Inoltre gli Stati che sono già clienti di “NSO” devono fare un lavoro molto migliore per monitorare come la tecnologia per la sorveglianza viene utilizzata nelle zone di loro competenza.

Gli Stati che stanno pensando di diventare clienti di “NSO” devono anche fornire tutele per garantire che “Pegasus” venga usato unicamente contro i veri cattivi, ma non contro civili, fautori del benessere pubblico, avvocati, giornalisti o attivisti politici.

Richard Silverstein scrive sul blog “Tikun Olam”, dedicato a smascherare gli eccessi dello Stato della sicurezza nazionale israeliano. Il suo lavoro è comparso su “Haaretz”, “Forward”, “Seattle Times” e “Los Angeles Times”. Ha contribuito alla raccolta di saggi dedicata alla guerra in Libano del 2006, “A Time to Speak Out” [Il momento di far sentire la propria voce] (Verso), e a un altro saggio nella raccolta di prossima pubblicazione “Israel and Palestine: Alternative Perspectives on Statehood” [Israele e Palestina: prospettive alternative di sovranità nazionale] (Rowman & Littlefield).

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Senza precedenti e incendiario: perché il boicottaggio di Al-Aqsa è importante

Richard Silverstein – 21 luglio 2017, Middle East Eye

Le nuove misure di sicurezza sull’Haram al-Sharif violano gli accordi tra Giordania ed Israele, non evitano la ripetizione dell’ultimo attacco di venerdì e alimentano ulteriormente l’odio.

Lo scorso venerdì tre palestinesi con cittadinanza israeliana della città settentrionale di Umm al Fahm hanno attaccato poliziotti fuori dall’Haram al-Sharif [la Spianata delle Moschee, ndt.], il terzo luogo più sacro per l’Islam (noto agli ebrei israeliani come il “Monte del Tempio”).

Negli ultimi anni Israele ha imposto una serie di misure che restringono l’accesso dei musulmani al luogo, mentre periodicamente ha anche incrementato aggressioni armate da parte di poliziotti contro la moschea di Al-Aqsa e i fedeli che vi si trovavano.

Queste violazioni della sacralità dei luoghi hanno fatto infuriare i musulmani in tutto il mondo, ma soprattutto i palestinesi, sia in Israele che in Cisgiordania. Molte delle continue violenze degli attacchi di ‘lupi solitari’ contro bersagli israeliani, che hanno lasciato circa 50 israeliani e 250 palestinesi uccisi, sono state motivate da sdegno religioso contro la condotta di Israele.

L’attacco di venerdì è stato il più audace in tempi recenti. Tre membri di un clan locale, tutti denominati Muhammad Jabareen, sono riusciti a far passare armi all’interno della città santa di Gerusalemme, poi le hanno recuperate ed hanno sparato contro la polizia. Hanno ucciso due poliziotti drusi israeliani e ne hanno leggermente ferito un altro.

Come è tipico di queste situazioni, lo Shin Bet ha imposto un ordine restrittivo delle informazioni su alcuni aspetti del caso. Ha rifiutato di dire il nome degli aggressori, benché avesse le loro carte d’identità e sapesse chi erano. Ho pubblicato i loro nomi e foto delle carte d’identità con l’aiuto di fonti riservate della sicurezza israeliana. In seguito la misura restrittiva è stata tolta.

Dopo aver attaccato la polizia, gli uomini armati sono fuggiti all’interno dell’Haram al Sharif, dove le forze di sicurezza israeliane li hanno inseguiti ed uccisi. Un video girato da palestinesi mostra uno degli aggressori a terra disarmato. Dopo essersi alzato ed aver tentato di scappare, viene abbattuto da una scarica di proiettili.

E’ normale che in simili circostanze le forze israeliane uccidano gli attaccanti indipendentemente dal fatto che siano armati o che abbiano causato danno ad altri. Il metodo di esecuzione è a volte definito il “colpo di grazia”. Una volta che un palestinese ha ucciso o ferito un israeliano in questi attacchi, la sua vita è considerata nella maggioranza dei casi persa.

Tante accuse, nessuna responsabilità

In altri Paesi, dopo una minaccia grave alla sicurezza, le autorità prenderebbero approfonditamente in esame le circostanze che hanno consentito che avvenisse l’incidente, una assunzione di responsabilità che l’opinione pubblica pretenderebbe a gran voce.

Mentre i responsabili israeliani della sicurezza potrebbero aver condotto questa analisi, pochi hanno messo in discussione come lo Shin Bet [servizio di intelligence interno, ndt.] e la polizia abbiano permesso a tre uomini armati di lanciare un attacco così sanguinoso. Invece questi due organi si sono impegnati in una guerra tra loro, additandosi per incolparsi l’un l’altro. Nel frattempo nessuno si è assunto la responsabilità concreta.

La principale discussione riguarda se i metal detector, che sono stati installati immediatamente dopo l’attacco, avrebbero dovuto essere stati usati prima, e se avrebbero evitato l’aggressione.

Tuttavia non c’è una tale sicurezza, salvo che la polizia israeliana voglia obbligare ogni palestinese che entra da ogni porta della Città Vecchia a sottomettersi a simili controlli. Ciò richiederebbe la militarizzazione totale di una delle più sacre città al mondo e il posizionamento di decine, se non centinaia, di metal detector. Ciò significherebbe lunghe file per chi desidera entrarvi, anche per i turisti che alimentano una parte importante dell’economia locale.

I poliziotti e gli aggressori

L’identità etnica sia dei poliziotti morti che dei loro assassini è di particolare importanza. I poliziotti erano drusi israeliani. La loro religione è una derivazione dell’islam, ma sono sempre stati considerati una minoranza e a volte perseguitati.

Dalla fondazione di Israele nel 1948, lo Stato ha coltivato relazioni di amicizia con i drusi ed essi in cambio hanno servito nell’esercito israeliano, a differenza del resto dei musulmani palestinesi, che rifiutano il servizio militare.

Anche se ciò sta cambiando negli ultimi anni, i drusi sono visti come ancora più aggressivi del soldato ebreo israeliano medio. I soldati drusi sono stati coinvolti in molte uccisioni controverse di civili disarmati a Gaza ed altrove.

I rapporti tra i drusi e gli ebrei israeliani sembrano seguire un tipico modello coloniale, in cui il potere dominante cerca di dividere la popolazione nativa maggioritaria favorendo una singola tribù minoritaria a danno del resto. In altre parole, divide et impera.

Gli sparatori erano, come ho detto, di una città del nord di Israele. Umm al Fahm è un focolaio a sostegno della sezione settentrionale del Movimento Islamico, guidato dal leader musulmano, l’ imam Raed Salah. E’ anche la sua città natale. E’ stato più volte arrestato per aver incitato alla resistenza contro la gestione israeliana dei luoghi santi musulmani di Gerusalemme.

Negli ultimi anni la maggior parte degli attacchi palestinesi contro israeliani sono stati perpetrati da persone che vivevano a Gerusalemme, nei dintorni o in Cisgiordania. Relativamente pochi di questi attacchi hanno coinvolto palestinesi con cittadinanza israeliana, che sono in genere considerati una popolazione più leale e “affidabile” di quella fuori da Israele (in Cisgiordania e a Gaza).

Con questa rivolta, che ora coinvolge la minoranza palestinese israeliana, Israele entra in un periodo ancora più teso ed instabile di quello che ha affrontato in passato.

Resistenza alla repressione

La risposta ufficiale israeliana all’attacco è stata pronta e pesante. Tutta la Haram al-Sharif è stata chiusa per la prima volta da quando un cristiano evangelico australiano con problemi mentali tentò di iniziare una guerra santa facendo saltare in aria la moschea di Al-Aqsa nel 1969.

Andando persino oltre, le forze di sicurezza hanno chiuso tutta la Città Santa con molteplici posti di controllo destinati ad evitare che chiunque entrasse nella parte palestinese della all’interno delle mura. Mercanti con i negozi nel suk sono stati minacciati con pesanti sanzioni se li avessero tenuti aperti. Anche questa è stata un’iniziativa senza precedenti.

Mentre Israele l’ha presentato come un tentativo di impedire ai palestinesi di mettere in atto proteste di massa che avrebbero potuto portare a una nuova “Intifada”, ciò ha colpito i palestinesi come una forma di punizione collettiva per l’attacco contro la polizia israeliana. Simili azioni sono una violazione delle Convenzioni di Ginevra, a cui in simili circostanze Israele spesso attribuisce scarso valore.

Lunedì Israele ha riaperto l’Haram al-Sharif e in parte la Città Vecchia, benché la maggior parte delle porte nella zona siano rimaste chiuse. Ma ci sono stati cambiamenti radicali nelle procedure della sicurezza. Personale della sicurezza ha installato metal detector e videosorveglianza in modo unilaterale. Questa è stata una violazione del cosiddetto status quo, a cui il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha falsamente detto che Israele si stava attenendo.

In base a queste regole, qualunque cambiamento dei luoghi sacri deve essere accettato sia dalle autorità giordane (che sono i custodi dei luoghi musulmani) che israeliane. Ma Israele ha messo in pratica questi cambiamenti senza alcuna consultazione.

Se i britannici reprimessero i cattolici

Il risultato è stato un prolungato boicottaggio musulmano al luogo sacro. Nei tre giorni successivi i fedeli hanno pregato appena fuori dai nuovi metal detector installati, rifiutando di sottoporsi a questo atto avvilente. I musulmani vedono questo come una dissacrazione dello status sacro del luogo e un insulto alla loro fede.

Immaginate se i britannici, che hanno quella anglicana come religione di Stato, decidessero che i fedeli cattolici rappresentano una minaccia alla sicurezza nazionale e imponessero metal detector, videocamere e una massiccia presenza della polizia fuori dalla principale cattedrale cattolica. Ci sarebbe sicuramente una rivolta di massa, non solo tra i cattolici ma probabilmente anche tra gli anglicani.

La classe politica israeliana tratta il problema palestinese in modo schizofrenico. Rifiutano di vedere gli interessi dei palestinesi come parte dei più complessivi interessi israeliani. Essi si dividono in due classi diverse: gli interessi degli ebrei israeliani che sono di primaria importanza e tutto il resto che è isolato e secondario.

E’ così che Netanyahu, di fronte a una gravissima crisi di fiducia tra la minoranza palestinese-israeliana, può ignorare la questione e iniziare un viaggio di cinque giorni nelle capitali centro-europee (tra cui Budapest e Varsavia), i cui governi appoggiano massicciamente il suo programma islamofobo e contro i rifugiati.

I media israeliani vedono il viaggio come un disperato tentativo di uscire dal peso di un crescente scandalo che coinvolge la corruzione legata all’acquisto di sottomarini nucleari tedeschi per 10 miliardi di dollari.

Nessuno suggerisce che Netanyahu dovrebbe posticipare il suo viaggio per affrontare la crisi di Gerusalemme. Non c’è neppure un ripensamento nelle sue valutazioni politiche, nonostante il primo ministro in difficoltà abbia appena annunciato che avrebbe ridotto di un giorno la sua visita.

– Richard Silverstein scrive sul blog Tikun Olam, dedicato a denunciare gli eccessi dello Stato della sicurezza nazionale israeliano. Il suo lavoro appare su “Haaretz”, su “Forward”,” sul “Seattle Times” e sul “Los Angeles Times”. Ha contribuito alla raccolta di saggi dedicata alla guerra del Libano del 2006 “Tempo di denunciare apertamente” (Verso) e ha un altro saggio nella raccolta che sta per uscire: “Israele e Palestina: prospettive di statualità alternative” (Rowman & Littlefield).

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Quello che Israele teme di Hamas e della crisi con il Qatar

Yuval Abraham

Middle East Eye – giovedì 15 giugno 2017

Israele non ha mai approvato l’appoggio del Qatar ad Hamas.

Ma ora le Nazioni del Golfo stanno chiedendo che Doha smetta di appoggiare il gruppo palestinese – e Israele teme quello che potrebbe succedere.

Hamas, che controlla Gaza dal 2007, è visto come una filiazione della Fratellanza Musulmana, da molto tempo un alleato del Qatar.

L’emirato ha trasferito centinaia di milioni di dollari a Gaza, assistendo al contempo Hamas dal punto di vista diplomatico e offrendo ospitalità ai suoi dirigenti e militanti in esilio. In maggio il gruppo ha presentato la revisione della sua carta fondamentale a Doha.

Dopo l’ultima guerra a Gaza, nel 2014, il Qatar ha destinato un miliardo di dollari a favore della ricostruzione, di progetti umanitari, per i costi dell’elettricità e per i salari dei dipendenti pubblici.

Alcuni analisti politici affermano che Israele ha consentito il trasferimento di fondi a Gaza – sotto assedio israeliano dal 2007 – per i suoi effetti stabilizzanti, che impediscono o forse rimandano un collasso totale nella Striscia devastata dalla guerra.

Una risposta israeliana contrastante

Le sanzioni contro il Qatar del 4 giugno sono state salutate come una vittoria da gran parte dell’opinione pubblica e dai media israeliani. Ma la risposta del governo è stata stranamente in sordina.

Eli Avidar, ex-capo della delegazione israeliana in Qatar, ha detto a MEE che Israele dovrebbe sostenere decisamente l’Arabia Saudita ed altri contro il Qatar: “E’ un’opportunità per farla finita con questa storia. Israele dovrebbe esercitare pressioni su Washington, spingere il Qatar a smettere di finanziare il terrorismo, ma non lo sta facendo.”

Continuo a chiedermi: ‘Perché Israele non è più attivo ed esplicito nell’attivarsi contro il Qatar?’”

Il ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, è stato l’unico uomo di governo ad aver commentato la crisi. Il 5 giugno, un giorno dopo che il Qatar è stato isolato, ha affermato che l’iniziativa “apre molte possibilità di collaborazione nella lotta contro il terrorismo.”

Un portavoce del ministero degli Esteri ha detto a MEE che ha avuto indicazioni ufficiali di non commentare la situazione e le sue ripercussioni per Israele e la Palestina.

Cosa c’è dietro questa risposta passiva? Molti studiosi, analisti e fonti dell’intelligence indicano che Israele potrebbe avere più da perdere che da guadagnare dalla crisi.

Yoel Guzansky e Kobi Michael, dell’Istituto Israeliano per le Ricerche sulla Sicurezza all’università di Tel Aviv, hanno affermato che la crisi è “la più grave dalla fondazione, nel 1981, del Consiglio per la Cooperazione nel Golfo.”

Sostengono che Israele ha un duplice approccio nei confronti del Qatar: “Da una parte, c’è ostilità per il suo appoggio ad Hamas e per l’ospitalità che offre ai suoi dirigenti…Dall’altra, Israele attribuisce grande importanza al sostegno qatariota alla ricostruzione della Striscia e al denaro che fornisce per gli stipendi ed i servizi pubblici al suo interno.

L’interesse israeliano è di appoggiare una mediazione americana che ponga fine alla questione indebolendo il ruolo dell’Iran e di Hamas, ma senza danneggiarne seriamente le azioni positive verso la Striscia di Gaza e di mediazione con Hamas.”

Il loro documento identifica tre possibili esiti che Israele vuole evitare: un rapporto più forte tra l’Iran e Hamas, una crisi umanitaria a Gaza e la presa del potere dell’Autorità Nazionale Palestinese a Gaza.

  1. Timore dell’Iran

Molti osservatori temono che il vuoto creato dall’assenza del Qatar possa obbligare Hamas a cercare un fonte alternativa di sostegno finanziario e si rivolga all’Iran.

Il rapporto di Yoel Guzansky e Kobi Michael sostiene che “Israele comprende che ci sono più vantaggi che svantaggi nella cooperazione con il Qatar, in quanto il Qatar indebolisce l’influenza dell’Iran su Hamas e sulla Striscia di Gaza.”

Shaul Yanai, un ricercatore israeliano sulle questioni mediorientali all’università di Haifa, ha detto a MEE: “Non c’è un segnale di pericolo più grave per l’Egitto, i sauditi, il Kuwait, l’America di Trump e Israele che un’organizzazione palestinese alleata dell’Iran.”

All’inizio di quest’anno Khaled al-Qaddumi, rappresentante di Hamas in Iran, ha detto ad Al-Monitor che l’Iran sta fornendo un continuo aiuto finanziario al movimento, nonostante la polarizzazione su scala regionale tra sciiti e sunniti, e che ci sono incontri regolari.

L’inizio del 2017 ha inaugurato una nuova era nelle relazioni tra Hamas e l’Iran, che può essere descritta come positiva e rivolta al futuro,” ha affermato.

Nel contempo Ahmed Yousef, ex importante consigliere del leader di Hamas Ismail Haniyah, ha detto a Ma’an che la crisi qatariota – così come l’alleanza tra Israele, l’America e gli Stati sunniti – “incoraggerà i movimenti islamici, come la Fratellanza Musulmana, a fare nuove alleanze con Paesi potenti della regione, come l’Iran, per proteggersi.”

Oltre a ciò, Guzansky e Michael affermano che il desiderio del campo sunnita di vedere l’Autorità Nazionale Palestinese sostituire Hamas nella Striscia non è condiviso da Israele, che, secondo chi lo critica, ha lavorato per mantenere la separazione tra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza.

  1. Timori di un’altra Guerra

Nel 2014 Israele ha scatenato l’operazione “Margine protettivo” contro Gaza, un attacco di 50 giorni che intendeva indebolire Hamas. Ha causato la morte di più di 2.139 palestinesi, circa un quarto dei quali bambini, di 64 soldati e di 6 civili israeliani.

Un ufficiale israeliano di alto grado, che ha lavorato con il Mossad [il servizio segreto israeliano che opera all’estero, ndtr.] per molti anni e che ha chiesto di rimanere anonimo, ha detto a MEE che, mentre il governo israeliano vuole che il Qatar smetta di finanziare Hamas, “non vuole una crisi umanitaria a Gaza, anche se vi ci stiamo avvicinando.”

Questa situazione potrebbe portarci allo stesso punto del 2014, quando Hamas è stato spinto in un angolo e l’unico posto a cui potessero sparare era Israele. Suppongo che Israele tema questo scenario, non vuole la destabilizzazione a Gaza.”

Yanai avverte anche che un Hamas disperato che perde il sostegno finanziario, insieme a discorsi su elezioni all’interno della tesa coalizione di governo israeliano, provocherebbe una miscela esplosiva. “Potrebbe rappresentare il terreno fertile per una guerra. Politici disperati tendono a fare la guerra.”

Una seconda fonte dell’intelligence israeliana – la cui ruolo è riservato – ha detto a MEE che Israele, come fa ogni estate, si sta preparando per una guerra a Gaza– ma che non si aspetta che ci sia quest’anno.

Da parte sua Hamas è ancora indebolito dall’ultimo scontro nel 2014. E Israele?

E’ contro i nostri interessi,” afferma la fonte dell’intelligence. “Israele desidera mantenere lo status quo nella Striscia:”

Dal 2004 Israele ha condotto sette offensive contro Gaza in risposta a razzi lanciati dalla Striscia. I critici affermano che questo status quo di guerra è alimentato da una mancanza di soluzioni diplomatiche del problema dei rifugiati palestinesi e dall’occupazione militare israeliana.

  1. Timore dell’Autorità Nazionale Palestinese

Domenica il governo israeliano ha accettato di ridurre la fornitura di elettricità a Gaza su richiesta del presidente dell’ANP Abbas.

L’iniziativa è vista come un tentativo da parte dell’ANP, che controlla la più vasta Cisgiordania, di indebolire il suo rivale politico. Secondo la Reuters, Tareq Rashmawi, il portavoce dell’ANP, ha chiesto che Hamas trasferisca all’ANP ogni responsabilità delle istituzioni di governo a Gaza.”

Ma lunedì Israel Katz, ministro israeliano e membro del governo per il Likud, all’annuale Convenzione Israeliana per la Pace ha criticato questa riduzione [di energia elettrica, ndt.], affermando che “Israele non ha una politica nei confronti di Gaza.”

E il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto che Israele “non vuole assistere a un’escalation” a Gaza, descrivendola come “una disputa interna palestinese.”

L’ufficiale che ha lavorato con il Mossad ha ribadito questa opinione: “Mi risulta difficile spiegare la politica israeliana verso Gaza,“ ha detto, “non ha una logica.”

La riduzione della fornitura di elettricità potrebbe essere una sorta di pressione tattica su Hamas, in modo che accetti di restituire i corpi dei soldati israeliani e i tre israeliani che tengono prigionieri.”

Ma Hamas ha raggiunto il punto critico.

Lunedì ha detto su Twitter che la decisione “accelererebbe l’aggravamento e l’esplosione della situazione nella Striscia.”

Una fonte dell’intelligence israeliana ha detto a MEE che un altro scontro a Gaza è solo questione di tempo. “Se non quest’anno, sarà il prossimo, e sennò, quello dopo ancora di sicuro.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




I media USA su Israele: la libertà di stampa che non c’è mai stata

Belen Fernandez

Martedì 2 maggio 2017 Middle East Eye

L’America è il bastione della libertà di stampa? Nel Giorno della Libertà di Stampa nel Mondo, questo concetto crolla quando si tratta di Israele.

Mercoledì 3 maggio segna il “Giorno della Libertà di Stampa nel Mondo”.

Qualcuno vedrà sicuramente la ricorrenza come uno scherzo, dato che l’attuale capo del cosiddetto “mondo libero” è un presidente degli USA impegnato a fare la guerra ai media.

Ma, benché possa sembrare che Donald Trump costituisca un allontanamento dalla normalità in una Nazione che si è così accuratamente presentata come un bastione della libertà di stampa, di pensiero, di espressione e di tutte quelle belle cose, i media USA non sono mai stati propriamente liberi.

In fondo, oltre a svolgere regolarmente un ruolo da ragazze pon pon a favore delle conquiste militari e imprenditoriali, i mezzi di informazione americani hanno anche rispettato una persistente linea rossa: criticare Israele, l’adorabile democrazia-che-non-lo-è del Medio Oriente.

Prendiamo in considerazione un aneddoto raccontato da Thomas Friedman, del “New York Times”, egli stesso un convinto sionista, a cui tuttavia è capitato di parlare di bombardamenti israeliani “indiscriminati” su Beirut ovest in un articolo del 1982 – quando l’invasione israeliana del Libano uccise circa 20.000 libanesi e palestinesi, la stragrande maggioranza dei quali civili.

Come racconta lo stesso Friedman, la sua redazione eliminò il termine “indiscriminati”, dopodiché egli scrisse una nota accusandola di vigliaccheria. A.M. Rosenthal, ex-direttore esecutivo del “Times”, allora “esplose contro l’insubordinazione (di Friedman)” e lo convocò in termini minacciosi ad un incontro, che finì per essere un “pranzo lungo ed emotivo, con lacrime da entrambe le parti” e un aumento di stipendio di 5.000 dollari per Friedman.

Il pranzo culminò con un “caldo abbraccio” di Rosenthal e l’avvertenza: “Ora ascoltami, tu, piccolo astuto: non rifarlo mai più.”

Lezione imparata. Alla faccia dei 20.000 morti.

Non è mai stato pubblicato”

Per inciso, il 1982 ha rappresentato un raro picco nella libertà di stampa riguardo ad Israele – si potrebbe dire una momentanea mini-glasnost.

In un recente messaggio mail, l’ex capo corrispondente per il Medio oriente di “ABC News” [rete televisiva statunitense, ndtr.] Charles Glass mi ha spiegato che “non ci fu nessun inviato americano che sia stato in Libano negli anni ’70 e ’80 che non abbia dovuto lottare con i suoi editori e direttori negli USA ”sui reportage a proposito del comportamento di Israele nella regione.

Una finestra (di informazione critica) fu aperta subito dopo Sabra e Shatila nel settembre 1982 – i tre giorni di massacri appoggiati da Israele di alcune migliaia di rifugiati palestinesi a Beirut – ma si richiuse subito dopo.”

Un esempio emblematico: nel 1984, Glass inviò un reportage per “ABC News” sugli squadroni della morte israeliani nel sud del Libano – un argomento senza dubbio degno di nota, in particolare alla luce dei considerevoli flussi finanziari USA verso Israele.

Quell’articolo non è mai stato pubblicato, anche se nessuno mi ha detto perché,” ricorda Glass. “L’articolo era attendibile, (con) molti testimoni oculari, anche dell’ONU, e con prove scientifiche.”

Dopo essere stato continuamente rimandato da un editore a New York con la scusa di notizie più urgenti, il reportage venne alla fine scartato del tutto perché “non più attuale”.

Nel frattempo, l’effimera mini-glasnost del 1982 aveva prodotto negli USA una massa di censure ancora più aggressive. Il sito web del “Committee for Accuracy in Middle East Reporting in America” [Comitato per l’Accuratezza nell’informazione sul Medio Oriente in America] (CAMERA), un gruppo islamofobo fondato quell’anno a Washington, sottolineò di essere nato in risposta “a come il “Washington Post” aveva informato dell’incursione israeliana in Libano e alla complessiva parzialità anti israeliana del giornale.”

Naturalmente, questa è gente che – se ci si impegnasse — riuscirebbe a trovare “pregiudizi contro Israele” persino in Benjamin Netanyahu.

Asserviti alla propaganda

Attualmente un esame accurato del sito web “CAMERA” fornisce una valanga di prevedibili titoli come “CAMERA induce la redazione del ‘New York Times’ a una correzione”, “CAMERA suggerisce alla NPR [radio pubblica nazionale USA, ndtr.] una rettifica sulla richiesta di annessione”, “La versione di Vogue per giovani promuove la narrazione palestinese per i lettori adolescenti”, “CAMERA suggerisce al ‘Washington Post’ una correzione su ‘Gaza occupata’”, “ Il “Christian Science Monitor [quotidiano statunitense con una rubrica religiosa quotidiana, ndtr.] mente in merito ad Israele”, e così di seguito.

E CAMERA, vale la pena ripeterlo, è solo uno del miscuglio di organizzazioni ed individui che spendono denaro ed influenza in giro per associare la minima critica delle atrocità israeliane con l’antisemitismo e per impedire comunque una discussione ragionata.

Ricordiamo una delle principali atrocità attuali: l’assassinio nel 2014 da parte di un raid aereo israeliano di quattro giovani palestinesi che giocavano a pallone sulla spiaggia di Gaza – una controprova dell’attacco di 50 giorni da parte di Israele che alla fine ha eliminato 2.251 vite palestinesi, 551 delle quali di bambini.

Il relativo titolo del “New York Times” ha affermato: “Ragazzi ritratti sulla spiaggia a Gaza e nel centro del conflitto mediorientale”. E’ più o meno l’equivalente di “Uomo va a sbattere contro una pallottola, e con le sue domande esistenziali,” oppure “Maiale si materializza sotto il coltello del macellaio, sollevando problemi epocali sulla gerarchia nella catena alimentare.”

Lo concediamo, il titolo del “Times” avrebbe potuto essere anche peggiore se il giornale avesse ripreso più letteralmente le tradizioni del portavoce israeliano – ad esempio: “Maiale lancia efferato attacco contro coltello da macellaio e viene ucciso per auto-difesa.”

Durante una comparsa su “Democracy Now!” [programma statunitense di notizie in tv, radio e internet di un’ora e di orientamento progressista, ndtr.] nel bel mezzo della guerra del 2014, Noam Chomsky ha criticato duramente i media americani per la loro diligente riproduzione della linea israeliana: “Non abbiamo bisogno di ascoltare la CBS, perché possiamo ascoltare direttamente le agenzie di propaganda israeliane…è un momento vergognoso per i media USA, dato che continuano ad essere asserviti ai grotteschi servizi della propaganda di uno Stato violento e aggressivo.”

Questa vergogna naturalmente riguarda anche l’establishment governativo degli USA , che ha accuratamente coltivato la propria predilezione per la grottesca violenza e che trova una notevole quantità di vantaggi politici ed economici nelle politiche israeliane di saccheggio omicida.

E il “Giorno della Libertà di Stampa nel Mondo” è il momento più adeguato per riflettere su ciò.

  • Belen Fernandez è l’autrice de “Il messaggero imperiale: Thomas Friedman al lavoro”, edito da Verso. E’ autrice e scrittrice della rivista “Jacobin” [quadrimestrale statunitense di sinistra, ndtr.]

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi]




Dietro allo sciopero della fame dei palestinesi ci sono inenarrabili vicende di sofferenza

Drssa Inas Abbad

Giovedì 27 aprile 2017 Middle East Eye

L’ inedita iniziativa non è solo un tentativo di migliorare le condizioni di detenzione, ma anche un appello a favore dei più elementari diritti umani e delle condizioni di detenzione nelle prigioni israeliane.

La reazione israeliana allo sciopero della fame dei prigionieri palestinesi iniziato il 17 aprile è stata senza precedenti.

Lo sciopero della fame, che coinvolge più di 1.500 prigionieri palestinesi, intende evidenziare l’iniquità delle pratiche penitenziarie di Israele e chiedere un miglior trattamento dei detenuti, ma è stato accolto con richieste di condanne a morte dei prigionieri che vi partecipano.

Le reazioni hanno oltrepassato la pericolosità e il razzismo, compresi i commenti fatti dal membro della Knesset [il parlamento israeliano, net.] Oren Hazan, che ha affermato: “Non c’è nessuno problema, neppure se tutti i prigionieri dovessero morire in seguito allo sciopero. Dopotutto le prigioni sono sovrappopolate mentre sulla terra c’è posto per tutti i loro cadaveri.”

Ci sono anche state le dichiarazioni fatte dal ministro della Difesa Avigdor Lieberman che, oltre a chiedere la loro condanna a morte, ha detto che i prigionieri che vi partecipano dovrebbero essere lasciati morire di fame.

In altri commenti i detenuti sono stati descritti come insetti velenosi che dovrebbero essere sterminati con il gas e per i quali dovrebbero essere istituiti campi di sterminio.

Quattro giorni dopo l’inizio dello sciopero, coloni israeliani hanno organizzato grigliate nei pressi della prigione di Ofer per provocare i detenuti, che a quel punto erano arrivati senza cibo o bevande per il tempo corrispondente a 12 pasti.

Solidarietà araba

Lo sciopero della fame è iniziato con la speranza di conquistare col tempo la solidarietà di tutte le fazioni palestinesi e delle forze nazionali e popolari.

Speravamo anche che, poco dopo, si sarebbe trasformato in un movimento di solidarietà araba, forse anche internazionale, con la causa dei prigionieri e con le loro richieste, esercitando pressione su Israele e obbligandolo ad accogliere le richieste legittime e relative ai diritti umani dei detenuti.

Scioperi della fame di massa possono avere un impatto molto maggiore di quelli di singoli individui. Inoltre non sono meno pericolosi e difficili se proseguono per troppo tempo, proprio come gli scioperi individuali.

Dopo circa una settimana di sciopero della fame, il corpo di un detenuto inizia a debilitarsi dopo che il suo peso si è ridotto di almeno cinque chili. Non bisogna dimenticarlo: nell’attuale sciopero tra i partecipanti vi sono minorenni, donne, anziani e malati.

I prigionieri in sciopero della fame soffrono più per i dolori che per la fame: mal di testa, dolori alle articolazioni, tremito e immobilità sono solo alcuni dei sintomi. La maggior parte degli scioperanti soffre di molti altri disturbi, come osteomalacia [fragilità ossea che provoca dolori muscolari, ndt.], cancro, reumatismi, difficoltà respiratorie, asma e altri disturbi che sono la conseguenza delle dure condizioni detentive, comprese torture e malnutrizione. In questi casi questi prigionieri necessitano di speciali trattamenti medici che vengono loro regolarmente negati.

In base ai rapporti pubblicati dal “Club dei Prigionieri Politici”, dal Dipartimento per gli Affari e la Libertà dei Prigionieri Politici e dall’Ufficio Statistico Centrale palestinese, ci sono 5.600 prigionieri politici nelle carceri israeliane, comprese 57 donne di cui 13 minorenni. Dopo 15 anni di prigione, il 16 aprile 2017 la detenuta con la più lunga carcerazione, Lina al-Jarbouni, è stata rilasciata dalle autorità israeliane.

E’ importante sapere che ci sono ancora 200 palestinesi che sono in prigione da prima della firma dell’accordo di pace israelo-palestinese (gli accordi di Oslo) nel 1993.

Alcuni dei detenuti sono stati in carcere più a lungo di qualunque altro prigioniero al mondo. Sono: Karim Younis e Maher Younis, detenuti dal gennaio 1984, così come Nael al-Barghouthi, che ha scontato 36 anni di carcere, 34 dei quali ininterrotti. E’ stato riarrestato nel 2014 poco dopo il suo rilascio. E’ stato uno dei prigionieri liberati come parte dell’accordo di scambio di prigionieri per il soldato israeliano GIlad Shalit.

Trattamento inumano

Lo sciopero della fame dei prigionieri politici non dovrebbe essere visto come un tentativo di migliorare le condizioni carcerarie. Non è affatto vero che i prigionieri vogliono solo avere migliori condizioni, come se accettassero di rimanere incarcerati così a lungo se queste condizioni rispettassero gli standard del XXI° secolo.

Di fatto, i prigionieri politici ricevono i trattamenti più inumani. Nelle prigioni delloccupazione sono ora presenti circa 500 detenuti politici che non sono mai stati imputati di niente. Sono attualmente trattenuti per un tempo che va dai tre ai sei mesi che sono sempre rinnovabili, ma alcuni sono detenuti da anni senza nessuna imputazione.

Ai prigionieri politici vengono in genere negate cure e regolari esami medici. In conseguenza di una tale negligenza, 13 persone – che sono considerate “martiri”- sono state vinte dalla malattia e sono morte in carcere. Ce ne sono altre oggi con urgente necessità di cure che sono state loro negate per anni.

Ai parenti sono state negate anche seconde visite della Croce Rossa. Le visite dei familiari attraverso la Croce Rossa sono state ridotte a una ogni quattro settimane. Tuttavia da quando è iniziato lo sciopero della fame, persino agli avvocati è stato vietato visitare i detenuti politici, a cui erano già state negate tutte le visite dei familiari come misura arbitraria presa contro di loro per lo sciopero della fame.

Molti detenuti politici sono stati posti in isolamento nelle prigioni di Al-Jalamah e Ilan nella regione di Beer Sheba e in altri luoghi. I loro beni personali sono stati requisiti, sono stati privati dei loro vestiti e hanno subito continui maltrattamenti nella forma di trasferimenti arbitrari tra una prigione e l’altra e di costanti perquisizioni nelle loro celle durante le quali sono stati percossi.

Alcuni di loro hanno perso uno o entrambi i genitori senza avere la possibilità di dare loro l’estremo saluto, come Mahmoud Abu Surur. Altri sono diventati padri mentre erano in carcere e non hanno potuto godere delle gioie della paternità, che è un diritto umano fondamentale, come Andan Muraghah e molti altri. Altri ancora non conoscono i loro nipoti, se non attraverso qualche fotografia che è consentito introdurre in prigione circa ogni mese.

Alcuni prigionieri sono confinati nelle celle del carcere e gli sono negate visite per molte settimane, forse anche mesi, come nel caso di Walid Maragah. Alcuni di quelli che provengono dalla Cisgiordania, come Nasir Abu Surur e Hasam Shahin e decine di altri, non possono ricevere visite perché alle famiglie viene negato il permesso di entrare in Israele, e quindi non possono andare a trovarli.

E a molti parenti le visite sono vietate perché si da il caso che essi stessi siano ex-detenuti politici. Agli ex-prigionieri politici spesso viene vietato visitare i loro figli o fratelli che sono incarcerati come detenuti politici.

Diritti umani fondamentali

I detenuti possono essere puniti negando loro l’accesso all’educazione e alla lettura. Solo di rado ad alcuni prigionieri è consentito continuare il loro percorso formativo durante la detenzione. Molti continuano queste attività di nascosto, il che implica molto tempo e molte sofferenze. Fanno uso di qualunque aiuto siano in grado di offrire le loro famiglie ed i loro compagni di detenzione, come nel caso di Marwan Barghouthi, Karm Younis, Walid Maraqah e Muhammad Abbad, che hanno titoli accademici che consentono loro di rendere questo servizio agli altri prigionieri.

E’ molto difficile far entrare libri, che i funzionari del carcere controllano attentamente e ne vietano molti. L’educazione dovrebbe essere un diritto umano garantito da ogni convenzione internazionale e dai diritti umani, ma non nelle prigioni di Israele.

I telefoni sono proibiti. Anche i messaggi scritti sono limitati e attentamente controllati. A volte prima di essere consegnati i messaggi tardano molte settimane, anche mesi. Alcuni non raggiungono mai i loro destinatari.

E alcuni dei detenuti politici in carcere da più tempo non sanno niente delle reti sociali, di internet e dei computer. Non hanno mai sentito parlare degli smartphone. Ad altri è stato rifiutato di telefonare ai propri genitori in punto di morte.

Questo è stato il caso di Muhammad, che ha perso suo padre, il professor Abd Al-Rahman Abbad. Il 25 maggio 2015 sua madre, al ritorno dalla visita in carcere, ha scoperto che il marito, da anni malato di cancro, era deceduto. La sua malattia gli ha impedito di fare visita a suo figlio per molti mesi prima della morte.

Richieste legittime

Di conseguenza, possiamo notare che le richieste dei prigionieri politici in sciopero della fame sono legittime e rispondenti ai diritti umani. Non sosterremo mai che le loro richieste legittimino la loro detenzione o che implichino che accettano la loro pluriennale incarcerazione.

Alcuni di loro sono già stati in carcere per più di metà della loro vita, come nel caso di Muhammad Abbad, Karim Younis, Maher Younis, Nael Barghouthi, Nasir Abu Surur e Muhammad Abu Surur, e la lista potrebbe continuare.

La domanda è: lo sciopero continuerà finché sarà ripristinata la dignità? O Israele farà ricorso all’alimentazione forzata come fece nel 1980 con i detenuti in sciopero della fame nel campo di detenzione di Nafha, nel deserto?

La dottoressa Inas Abad è una ricercatrice in scienze politiche, docente ed attivista politica di Gerusalemme est. Suo fratello, negli ultimi 16 anni detenuto in una prigione israeliana, è uno dei dirigenti dello sciopero della fame.

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




‘Un assassinio’: i palestinesi chiedono di agire contro la legge israeliana del furto di terre

di Sheren Khalel, 7 febbraio 2017,Middle East Eye

Le autorità affermano che lo scopo della legge che consente ad Israele di espropriare le proprietà palestinesi è l’annessione della maggior parte della Cisgiordania, e chiedono sanzioni internazionali.

BETLEMME, Cisgiordania occupata – Martedì la Knesset (parlamento) israeliana è stata accusata di “assassinare” le prospettive di un accordo di pace per due Stati, dal momento che i palestinesi, la comunità internazionale e le associazioni israeliane per i diritti umani hanno condannato l’approvazione del disegno di legge volto a legalizzare l’esproprio di terre di proprietà privata palestinese nella Cisgiordania e a Gerusalemme est, illegalmente occupate.

Il voto, che è passato con 60 a favore contro 52, è stato portato in aula pochi giorni dopo che le forze israeliane avevano evacuato l’avamposto israeliano di Amona, in seguito a una sentenza della Corte Suprema israeliana.

La decisione è stata applaudita da membri della destra israeliana, come Shuli Moalem-Refaeli – capo del partito Casa Ebraica (di estrema destra, ndtr.) ed uno dei co-promotori del disegno di legge – che, come riportato dal quotidiano israeliano Haaretz, ha detto che la legge significa che gli israeliani residenti nelle colonie ‘non saranno più un obbiettivo delle organizzazioni estremiste di sinistra che intendono distruggere e danneggiare le colonie’.

Ma Mustafa Barghouti, leader del movimento ” Iniziativa Nazionale Palestinese”, ha detto a Middle East Eye che la legge ha rappresentato un punto di svolta nei rapporti tra palestinesi e israeliani.

Questa legge è un assassinio della soluzione dei due Stati”, ha detto Barghouti. “E’ un atto che mira all’annessione della maggior parte della terra in Cisgiordania.”

Mentre le autorità israeliane avevano già la possibilità di confiscare terre palestinesi sotto il pretesto della sicurezza, come anche della dichiarazione di utilizzo come terra dello Stato, adesso la nuova legge significa che la terra di proprietà privata palestinese può essere confiscata esclusivamente per la costruzione di colonie, il che è giudicato illegale dal diritto internazionale.

Sono certo che il prossimo passo di Israele sarà l’annessione della colonia di Maale Adumim”, ha detto Barghouti, riferendosi ad una colonia israeliana illegale situata nella zona E1 (a nord est di Gerusalemme, ndtr.) della Cisgiordania occupata.

In altri termini, Israele sta legalizzando le colonie con l’intenzione di annetterle a Israele, che è ciò che avverrà adesso.”

Le previsioni di Barghouti sono in linea con (quanto affermato dal) deputato israeliano Bezalel Smotrich, un altro co-promotore della legge, che l’ha definita “un passo storico verso il completamento di un processo che intendiamo avviare; l’applicazione della piena sovranità israeliana su tutte le città e le comunità in Giudea e Samaria [il termine usato dal governo di Israele per indicare la Cisgiordania].”

L’approvazione della legge segna la prima volta che la Knesset approva una legge che esercita giurisdizione sulla Cisgiordania.

Motivo di sanzioni’

Questa legge è senza dubbio motivo di sanzioni da parte della comunità internazionale”, ha detto Barghouti.

E adesso non vi sono giustificazioni per l’Autorità Nazionale Palestinese per rimandare un deferimento alla Corte Penale Internazionale – davanti a cui Israele dovrebbe comparire –; ogni mancanza di azioni punitive contro Israele dovrebbe ora essere ritenuta un’accettazione delle sue azioni.”

Husam Zumlot, il consigliere per le questioni strategiche del Presidente palestinese Mahmoud Abbas, ha affermato che la prossima mossa a livello politico deve provenire dalla comunità internazionale.

La soluzione dei due Stati è stata sempre un progetto della comunità internazionale che noi abbiamo seguito, ma adesso è necessario che queste questioni, relative a ciò che dovrebbe accadere ora, vengano demandate alla comunità internazionale”, ha detto Zumlot.

La comunità internazionale deve decidere che cosa fare rispetto a questo progetto, perché questa legge è una risposta di Netanyahu alla recente risoluzione delle Nazioni Unite contro le colonie, all’iniziativa della Francia e alla comunità internazionale in generale.”

Zumlot ha aggiunto che l’ Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) ha in programma di “riunirsi immediatamente” per discutere il da farsi.

Quando si riuniranno prenderanno le iniziative necessarie a salvaguardare gli interessi nazionali del popolo”, ha detto.

Abbas, che era a Parigi per colloqui col presidente francese Francois Hollande, ha definito la legge “un attacco contro il nostro popolo”, che va contro gli auspici della comunità internazionale.

Martedì Hanan Ashrawi, membro del comitato esecutivo dell’OLP, ha espresso opinioni analoghe, chiedendo sanzioni ed azioni punitive.

Pulizia etnica’

E’ indispensabile che la comunità internazionale, compresi gli Stati Uniti e l’Unione Europea, assuma le proprie responsabilità morali, umane e giuridiche e metta fine all’illegalità di Israele ed al suo sistema di apartheid e di pulizia etnica”, ha detto.

L’assunzione di responsabilità dovrebbe includere misure punitive e sanzioni, prima che sia troppo tardi.”

Issa Amro, attivista palestinese e fondatore di “Giovani Contro gli Insediamenti”, ha detto a MEE che l’Autorità Nazionale Palestinese dovrebbe intraprendere ogni strada possibile per ottenere appoggio per azioni punitive contro Israele da parte della comunità internazionale, dalla Corte Penale Internazionale alle Nazioni Unite, ed azioni bilaterali degli Stati.

Ha aggiunto che l’ANP dovrebbe anche incoraggiare i palestinesi a manifestare contro la legge nelle strade.

Abbiamo bisogno di praticare la disubbidienza civile”, ha detto Amro. “L’ANP dovrebbe incoraggiare la disubbidienza civile per dimostrare la nostra opposizione alle azioni di Israele.”

L’associazione israeliana per i diritti “B’Tselem” ha definito la legge una “disgrazia per lo Stato e la sua autorità legislativa.”

L’associazione ha dichiarato: “La legge approvata oggi dalla Knesset prova una volta di più che Israele non intende porre fine al suo controllo sui palestinesi o al furto della loro terra”

Approvare la legge poche settimane dopo la risoluzione 2334del Consiglio di Sicurezza [in cui il Consiglio ha condannato l’attività di colonizzazione israeliana come ‘flagrante violazione’ del diritto internazionale] è uno schiaffo in faccia alla comunità internazionale. Se inserire l’esproprio in una legge costituisce uno sviluppo nuovo, in pratica è un altro aspetto del massiccio furto di terra portato avanti sfacciatamente per decenni dichiarandola ‘terra dello Stato’ ”.

Intanto Omar Shakir, direttore per Israele e Palestina di Human Rights Watch, ha affermato che la legge “annulla anni di consolidata legislazione israeliana.”

Intervenendo solo alcune settimane dopo l’unanime approvazione della risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza sull’illegalità delle colonie, la legge rispecchia il palese disconoscimento del diritto internazionale”, ha detto Shakir.

La legge consolida ulteriormente l’attuale realtà di permanente occupazione de facto in Cisgiordania, in cui i coloni israeliani ed i palestinesi che vivono sulla stessa terra sono soggetti a sistemi giuridici, norme e servizi ‘separati ed ineguali.’ ”

Shakir ha concluso la sua dichiarazione con una frecciata alla nascente relazione del presidente USA Donald Trump con Israele, affermando che “i dirigenti israeliani che guidano la politica di colonizzazione dovrebbero sapere che l’amministrazione Trump non può proteggerli dal controllo della Corte Penale Internazionale, dove il procuratore continua ad esaminare l’illegale attività di colonizzazione di Israele.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Netanyahu mette in relazione l’attacco di Gerusalemme con l’ISIS. I media israeliani lo smascherano

Middle East Eye Redazione di MEE – 10 gennaio 2017

I giornalisti israeliani affermano che è l’occupazione della terra palestinese che sta guidando gli attacchi terroristici e che Israele non è la Francia o la Germania

Alcuni commentatori israeliani hanno condannato duramente Benjamin Netanyahu per aver messo in relazione con lo Stato Islamico un attacco a Gerusalemme, sostenendo che il primo ministro sta diffondendo una narrazione per inserire Israele nell’ondata di attacchi in Occidente e distogliendo l’attenzione dall’occupazione della terra palestinese.

Sabato un palestinese, Fadi al-Qunbar, ha lanciato un camion in mezzo a un gruppo di soldati israeliani nei pressi della Città Vecchia, uccidendone quattro. Subito dopo, Netanyahu ha affermato: “Conosciamo l’identità dell’aggressore, che, in base a tutti gli indizi, era un sostenitore dell’IS.”

Ma, scrivendo sul “Times of Israel” [giornale on line che si definisce “apolitico”. Ndtr.], l’esperto Avi Issacharoff afferma che non è “ancora chiaro cosa o chi lo abbia spinto a mettere in atto l’attacco” e che “non ci sono chiari indizi” che provino l’affermazione di Netanyahu.

“E’ possibile che la dichiarazione di Netanyahu possa spingere l’IS ha dichiarare la propria responsabilità per l’attacco, ma è dubbio se ci sia un qualche rapporto diretto tra il gruppo e Qunbar.”

“L’affermazione, comunque, è utile all’argomentazione di Netanyahu nei confronti dell’Occidente secondo cui “Lo Stato Islamico è qui”, e a quella del gruppo di avere una presenza nella “Palestina occupata”, sostiene.

Issacharoff avanza un’altra teoria: “Per il momento, pare che Qunbar abbia agito in base allo stesso modus operandi che abbiamo visto in precedenza a Gerusalemme: un terrorista senza un’affiliazione organizzativa, ispirato dai media informativi, da una moschea o dalle reti sociali, che ha condotto un attacco senza assistenza esterna.”

“In seguito, le organizzazioni terroristiche lo rivendicano come uno di loro per cavalcare l’onda del suo ‘successo’.”

Afferma che la “chiave della tensione” che guida questi attacchi non è la presunta presenza dell’IS, ma “la mancanza di qualunque prospettiva diplomatica, la costante frustrazione nei confronti dell’Autorità Nazionale Palestinese, l’odio verso Israele e i continui massicci incitamenti sulle reti sociali.”

“Tutto ciò crea un’atmosfera tesa, permeata di odio, che può portare in qualunque momento a ulteriori attacchi ‘spontanei'”, sostiene.

Su Haaretz, sotto il titolo “la teoria di un attacco dell’ISIS sta bene a Netanyahu, ma Gerusalemme non è Berlino”, l’editorialista Nir Hasson scrive: “Per quanto riguarda il primo ministro…la teoria dell’ISIS si addice al messaggio che cerca di diffondere – cioè che Gerusalemme, come Berlino e Nizza, è solo un’altra città occidentale che affronta un terrorismo brutale, irriducibile, messo in atto da membri dell’islamismo internazionale.”

“In base a questo messaggio, questa forza del male assoluto non ha motivazioni né ragioni e non ha niente a che vedere con l’occupazione o con qualunque altra politica israeliana.”

“Gerusalemme non è Nizza, Nizza non ha il 40% dei suoi abitanti che vivono senza diritti civili, sotto occupazione e in condizioni di vita umilianti.”

“A Nizza il primo ministro non annuncia la chiusura di un quartiere che ospita decine di migliaia di persone solo perché uno di loro è un terrorista.”

“Anche se l’attacco di domenica fosse stato ispirato dall’ISIS, ha comunque avuto origine a Gerusalemme ed è parte di un’infinita serie di attacchi di cui la città ha sofferto negli ultimi due anni e mezzo.”

Aggiunge che ogni potenziale spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme potrebbe solo gettare benzina sul fuoco.

“Non lontano dalla scena dell’attacco mortale c’è il luogo candidato ad ospitare la nuova ambasciata USA a Gerusalemme. Mentre il 20 gennaio [data dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca. Ndtr.] si avvicina, lo stesso avviene con la possibilità che l’ambasciata venga spostata lì,” afferma.

“Una simile iniziativa potrebbe benissimo aggiungere benzina sul fuoco che sta bruciando in città da oltre due anni e mezzo.”

Dan Cohen, un altro giornalista ebreo, su Twitter critica i media occidentali che ripetono pappagallescamente la narrazione di Netanyahu e sostiene che il primo ministro sta cercando di utilizzare l’attacco per promuovere politiche repressive contro i palestinesi.

(traduzione di Amedeo Rossi)




2017: un anno in cui rievocare tre tristi anniversari palestinesi

Richard Falk– 27 dicembre 2016, Middle East Eye

Solo una resistenza non violenta dei palestinesi al loro prolungato calvario e l’attivismo della società civile internazionale sembrano avere forse la capacità di adoperarsi per cambiamenti positivi dello status quo.

I palestinesi sembrano sempre più condannati a diventare sudditi, o al massimo cittadini di seconda classe, nella loro terra d’origine. L’espansionismo israeliano, l’incondizionato appoggio degli USA e l’impotenza dell’ONU si combinano per creare fosche prospettive per l’autodeterminazione dei palestinesi e per una pace negoziata che sia sensibile ai diritti e alle rivendicazioni sia dei palestinesi che degli ebrei.

Rievocare tre importanti anniversari da commemorare nel 2017 può aiutarci a comprendere meglio quanto questa dolorosa narrazione palestinese si sia sviluppata nel corso degli ultimi 100 anni.

Forse tali rimembranze possono persino incoraggiare la correzione degli errori passati e i deboli tentativi di trovare una via d’uscita, seppure in ritardo. Le iniziative più promettenti sono ora legate al crescente movimento di solidarietà internazionale impegnato a raggiungere una pace giusta per entrambi i popoli.

Per il momento, né le Nazioni Unite né la diplomazia tradizionale sembrano avere molto potere sul gioco delle forze sociali e politiche che si trovano al centro della lotta dei palestinesi. Solo una resistenza non violenta dei palestinesi al loro prolungato calvario e l’attivismo della società civile internazionale sembrano forse avere la capacità di esercitare cambiamenti positivi dello status quo.

1917

Il 2 novembre 1917 il ministro degli Esteri britannico, Arthur Balfour, venne convinto a mandare una lettera al barone Lionel Rothschild, uno dei principali sostenitori del sionismo in Gran Bretagna, in cui esprimeva il sostegno alle aspirazioni del movimento. Il concetto più importante della lettera era la seguente:

“Il governo di sua Maestà vede con favore la costituzione in Palestina di un focolare per il popolo ebraico, e farà uso del proprio massimo impegno per agevolare la realizzazione di questo obiettivo, essendo chiaro che non deve essere fatto nulla che pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina, né i diritti e lo status politico degli ebrei nelle altre nazioni”.

Una prima e scontata osservazione è per quale motivo la Gran Bretagna si sia attivata per prendere una simile iniziativa nel bel mezzo della Prima Guerra Mondiale. La risposta più immediata è che la guerra non stava andando molto bene, alimentando nei dirigenti inglesi la convinzione e la speranza che, schierandosi con il movimento sionista, avrebbero incoraggiato gli ebrei in tutta Europa a sostenere la causa degli alleati, soprattutto in Russia e in Germania.

Una seconda motivazione era favorire gli interessi britannici in Palestina, a cui l’allora primo ministro Lloyd Geroge guardava come strategicamente vitale per proteggere la via commerciale terrestre verso l’India così come salvaguardare l’accesso al Canale di Suez.

Fin dal giorno della sua emanazione la Dichiarazione Balfour fu controversa, persino tra alcuni ebrei. Innanzitutto un simile impegno da parte dell’ufficio del ministero degli Esteri era prettamente colonialista, senza il benché minimo tentativo di prendere in considerazione i sentimenti della popolazione prevalentemente araba che viveva in Palestina all’epoca (gli ebrei erano meno del 10% della popolazione nel 1917) o di tener conto del crescente appoggio internazionale al diritto di auto-determinazione di cui gode ogni popolo.

Opposizione ebraica a Balfour

Ebrei importanti, guidati da Edward Montagu, all’epoca segretario di Stato per l’India, si opposero alla dichiarazione, temendo che ciò avrebbe fomentato l’antisemitismo, soprattutto nelle città europee e nordamericane.

Oltre a ciò, gli arabi si sentirono traditi in quanto l’iniziativa di Balfour era vista sia come una violazione delle promesse agli arabi durante la guerra di un’indipendenza politica dopo il conflitto in cambio della partecipazione alla lotta contro i turchi. Inoltre ciò faceva presagire futuri problemi che sarebbero scoppiati tra la promozione dell’immigrazione ebraica in Palestina da parte dei sionisti e le proteste della popolazione autoctona araba.

Bisognerebbe anche riconoscere che neppure tutti i dirigenti sionisti erano contenti della dichiarazione Balfour. C’erano deliberate ambiguità nella sua formulazione. Per esempio, i sionisti avrebbero preferito la parola “il” piuttosto che “un” davanti a “focolare nazionale [ebraico]”. Inoltre l’impegno a proteggere lo status quo dei non ebrei era visto come causa di guai futuri, benché, come si è visto in seguito, questo attestato di responsabilità colonialista non sia mai stato messo in pratica.

Infine i sionisti ricevettero un appoggio per un focolare nazionale, non per uno Stato sovrano, benché colloqui riservati con gli inglesi convenissero che uno Stato ebraico potesse nascere in futuro, ma solo dopo che gli ebrei fossero diventati maggioranza in Palestina.

Questo sguardo all’indietro alla Dichiarazione Balfour è utile per comprendere come le ambizioni coloniali si siano trasformate in senso di colpa liberale ed empatia umanitaria per la tragedia degli ebrei europei dopo la Seconda Guerra Mondiale, determinando invece un inferno senza fine di delusione e oppressione per la popolazione palestinese.

1947

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, con scontri in Palestina che raggiunsero livelli molto intensi, e con l’impero britannico in caduta libera, la Gran Bretagna abbandonò il proprio potere mandatario e lasciò alla nascente ONU il compito di decidere cosa fare.

L’ONU creò un gruppo di alto profilo per abbozzare una proposta, che risultò essere una serie di raccomandazioni che contenevano la partizione della Palestina in due comunità, una per gli ebrei, un’altra per gli arabi. Gerusalemme fu internazionalizzata senza che nessuna comunità esercitasse l’autorità di governo né avesse il diritto di reclamare la città come parte della propria identità nazionale. Il rapporto dell’ONU venne adottato come proposta ufficiale nella forma della Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale.

Il movimento sionista accettò la 181, mentre i governi arabi e i rappresentanti del popolo palestinese la rigettarono, sostenendo che questa violava i diritti di autodeterminazione ed era palesemente ingiusta. All’epoca gli ebrei rappresentavano meno del 35% della popolazione ma gli venne assegnato più del 55% della terra.

Com’é noto, ne derivò una guerra, con eserciti dei Paesi arabi vicini che entrarono in Palestina sconfitti da milizie sioniste ben addestrate ed armate. Israele vinse la guerra, ottenendo alla fine il controllo sul 78% della Palestina nel momento in cui fu raggiunto un armistizio, espropriando oltre 700.000 palestinesi e distruggendo molte centinaia di villaggi palestinesi. Questa vicenda è stata il momento più cupo vissuto dai palestinesi, noto tra loro come la nakba, o catastrofe.

1967

Il terzo anniversario del 2017 è relativo alla guerra del 1967, che portò a un’altra disfatta militare dei vicini arabi e all’occupazione israeliana di tutta la Palestina, comprese tutta la città di Gerusalemme e la Striscia di Gaza.

Gli Usa, alleati strategici

La vittoria israeliana ha cambiato in modo drastico la dimensione strategica. Israele, che in precedenza era stato visto come un peso strategico per gli USA, improvvisamente fu considerato un partner strategico degno di un appoggio geopolitico incondizionato.

Nella famosa risoluzione 242, il 22 novembre 1967 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU decise all’unanimità che dovesse essere negoziato il ritiro delle forze israeliane, con qualche accordo di modifica dei confini, nel contesto della ricerca di un accordo di pace che includesse una soluzione amichevole della disputa relativa ai rifugiati palestinesi che vivevano in tutta la regione.

Durante i successivi 50 anni siamo arrivati alla conclusione che la 242 non è stata messa in atto. Al contrario, Israele ha ulteriormente invaso la Palestina occupata attraverso un’estesa colonizzazione e con le relative infrastrutture, e si è arrivati al punto che pochi credono che uno Stato palestinese indipendente che coesista con Israele sia ancora realizzabile o persino auspicabile.

Questi anniversari rivelano tre fasi della situazione dei palestinesi in continuo peggioramento. Rivelano anche l’incapacità dell’ONU o della diplomazia internazionale a risolvere il problema di come palestinesi ed ebrei dovrebbero condividere la terra.

E’ troppo tardi per invertire tutte queste solide tendenze storiche, ma la sfida per raggiungere una soluzione umana che consenta in qualche modo a questi due popoli di vivere insieme o in comunità politiche separate rimane acuta.

Speriamo ardentemente che una soluzione soddisfacente sia trovata prima che un altro anniversario si imponga alla nostra attenzione.

– Richard Falk è un docente di diritto e relazioni internazionali che ha insegnato per 40 anni all’università di Princeton. Nel 2008 è stato anche nominato dall’ONU per sei anni come Rapporteur speciale sui diritti umani dei palestinesi.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non rispecchiano necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




La risoluzione ONU: una vendetta personale di Obama

La risoluzione ONU: una vendetta personale di Obama contro Netanyahu

Middel East Eye

Yossi Melman – Sabato 24 dicembre 2016

Il primo ministro israeliano, abituato all’appoggio incondizionato degli USA, è rimasto colpito dall’iniziativa di Obama. Se ne farà una ragione.

La risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di venerdì, che denuncia le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata (che sono illegali in base alle leggi internazionali e un ostacolo alla creazione di uno Stato palestinese) è stata uno shock per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e per il suo governo di destra.

Fino all’ultimo minuto hanno sperato che in qualche modo, deus ex machina, Washington avrebbe posto il veto sulla proposta. Ma gli Usa si sono astenuti, consentendo l’adozione della risoluzione da parte degli altri 14 membri del consiglio.

Non è la prima volta che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU approva una risoluzione contro l’occupazione israeliana e la sua politica illegale di costruzione ed espansione delle colonie ebraiche. Ma in questa occasione la risoluzione è molto più mirata. Sottolinea il ruolo distruttivo giocato dalle colonie nel dividere e controllare la Cisgiordania per impedire la nascita di uno Stato palestinese con continuità territoriale.

E’ stata anche la prima risoluzione dal 1980 su cui gli USA non hanno posto il veto o impedito che venisse proposta.

La decisione degli USA di astenersi riflette una politica di lunga durata contraria alle colonie. Ma si è trattato anche un atto di vendetta e di ritorsione personale del presidente Obama contro Netanyahu. La Casa Bianca usa un eufemismo quando sostiene che la politica delle colonie da parte di Netanyahu è stata responsabile della risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Fin dal primo momento di Obama alla Casa Bianca, Netanyahu ha cospirato contro di lui con la maggioranza repubblicana del Congresso USA. Nonostante sia stato uno dei presidenti che più ha sostenuto e generosamente finanziato Israele, Obama è stato detestato da un ingrato Netanyahu. Il primo ministro israeliano ha ripetuto continuamente il suo sostegno alla soluzione dei due Stati, ma ha fatto tutto quanto gli era possibile per sabotarla. Ha anche cospirato con il partito Repubblicano per far fallire l’accordo sul nucleare tra l’Iran e i “P5 più uno” – cioè, i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU più la Germania.

Netanyahu e il suo governo, preso in ostaggio anni fa dai coloni, che rappresentato appena il 10% della popolazione ebraica di Israele, ha ignorato il fatto che la risoluzione è equilibrata. Chiede ai palestinesi di bloccare gli incitamenti alla violenza e il terrorismo.

Eppure Netanyahu ha espresso tutta la sua rabbia e frustrazione verso Obama stravolgendo la verità e accusandolo di aver deviato dalla “tradizione” politica USA di appoggiare sempre Israele. Il borioso Netanyahu si è autoconvinto che l’appoggio incondizionato degli USA è uno dei Dieci Comandamenti.

Paralizzato dal suo timore verso Vladimir Putin, che egli ha ripetutamente elogiato e descritto come un amico, Netanyahu ha totalmente ignorato il fatto che anche la Russia ha appoggiato la risoluzione.

In un messaggio personale, Netanyahu ha promesso di ignorare la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e per ritorsione ha richiamato l’ambasciatore israeliano in Nuova Zelanda e quello in Senegal, due Nazioni che hanno proposto la mozione.

Riguardo alle implicazioni della risoluzione su Israele e la Palestina, si tratta di un’arma a doppio taglio. Innanzitutto, la risoluzione non fa riferimento al capitolo sette della Carta dell’ONU, che parla di “minacce per la pace” e quindi è ben lungi dall’imporre sanzioni internazionali su Israele o sulle sue colonie.

Singole Nazioni possono utilizzare la risoluzione come una base legale per giustificare la propria decisione di boicottare le colonie e persino Israele. Ma lo faranno, e in che misura? La risoluzione funge anche da impulso per il movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), che prende di mira le colonie e Israele.

La risoluzione è anche una vittoria per l’anziano presidente palestinese Mahmoud Abbas e per la sua strategia di utilizzare l’arena diplomatica per combattere l’occupazione. Abbas è stato recentemente sottoposto a terribili pressioni all’interno del suo stesso movimento, Fatah, e della più ampia Organizzazione per la Liberazione della Palestina perché desse le dimissioni a causa del fallimento delle sue politiche e per non essere riuscito ad avvicinare i palestinesi alla creazione di uno Stato.

Ma è prematuro che i palestinesi si rallegrino. Una volta superato lo shock, Netanyahu si sposterà probabilmente ancora più a destra e costruirà ancora più colonie. Crede che il prossimo mese, quando Donald Trump entrerà nello Studio Ovale [l’ufficio del presidente alla Casa Bianca. Ndtr.], Israele avrà mano libera per fare tutto quello che vuole.

– Yossi Melman  è un commentatore in materia di sicurezza e di intelligence e co-auotore di “Spie contro l’Armageddon”.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’ “israelizzazione” di Gerusalemme non ha funzionato

L’ “israelizzazione” di Gerusalemme è un progetto che non ha funzionato. L’ultimo attacco lo testimonia.

Meron Rapoport

Middle East Eye – martedì 11 ottobre.

 

Israele sostiene di aver convinto i palestinesi di Gerusalemme a preferire il suo dominio. L’attacco di domenica, ampiamente appoggiato dalla maggior parte dei palestinesi, dimostra il contrario.

Via Haim Bar Lev, la strada a più corsie meglio nota come “Strada n. 1”, collega la città vecchia di Gerusalemme ai suoi quartieri settentrionali. Corre per lo più parallela al confine precedente al 1967, prima che Israele occupasse ed annettesse le zone palestinesi della città, allora sotto controllo giordano.

Costruita 20 anni fa, è stata parte dei tentativi di integrare il centro di Gerusalemme con i nuovi quartieri ebraici costruiti sulla “Linea Verde” [il confine tra Israele e Giordania precedente al 1967. Ndtr.], con lo scopo di circondare i quartieri palestinesi di Gerusalemme nord e consolidare l’idea di una Grande Gerusalemme sotto il perenne dominio ebraico-israeliano.

La metropolitana leggera, costruita un decennio fa, era stata pensata come un altro tentativo di “unificare” Gerusalemme, mettendo in collegamento gli estesi quartieri annessi, in cui vivono circa 100.000 israeliani, al cuore della città, passando attraverso i quartieri densamente abitati dai palestinesi. Il percorso della metropolitana leggera corre lungo la “Strada n.1”, associando i vecchi tentativi di “unificazione” con quelli nuovi.

Progetto fallito

Cosa abbastanza interessante, Misbah Abu Sbeih, un attivista islamista del quartiere di Silwan, a Gerusalemme est, ha iniziato il suo attacco a mano armata di domenica in una stazione della metropolitana leggera situato sulla “Strada n.1”, uccidendo un’ebrea sessantenne e, in seguito, un ufficiale di polizia israeliano.

Non era la prima volta che sia la metropolitana leggera che la “Strada n.1” sono state il bersaglio di attacchi palestinesi. Dopo il brutale assassinio del giovane Muhammed Abu Khdeir [bruciato vivo dai suoi rapitori. Ndtr.] da parte di estremisti ebrei due anni fa, i quartieri palestinesi di Gerusalemme nord sono esplosi con rabbia.

Molte delle azioni violente dell’attuale haba (“sfogo” in arabo) o “Intifada dei coltelli” palestinese, iniziata esattamente un anno fa a Gerusalemme, hanno avuto luogo in vari punti lungo la “Strada n.1”. I veri e propri simboli dei tentativi di unificare e “israelizzare” Gerusalemme sono diventati i luoghi caldi della violenza e della morte.

Nonostante la sua pretesa di rappresentare Gerusalemme, con le zone annesse, come una città unificata, per molti anni Israele ha ignorato Gerusalemme est, forse nella speranza che i suoi abitanti avrebbero preferito emigrare, rafforzando così il controllo di Israele su quelle aree. Ciò è stato molto evidente nelle restrizioni sulle costruzioni palestinesi in città. Almeno un terzo delle unità immobiliari di Gerusalemme est sono state costruite senza permessi.

Pur rappresentando circa il 40% degli 830.000 abitanti della città, i quartieri palestinesi ricevono solo il 10% del bilancio municipale, a volte anche meno, determinando il più alto livello di povertà in Israele, un impressionante 75.3% di popolazione sotto il livello di povertà a Gerusalemme est.

L’attuale sindaco, Nir Barkat, eletto otto anni fa, ha apparentemente tentato di cambiare questa situazione. Barkat, strenuo oppositore di ogni concessione politica ai palestinesi di Gerusalemme, ha sostenuto che solo migliorando le condizioni di vita nei quartieri palestinesi Israele avrebbe potuto affermare la propria sovranità indiscutibile sulla città.

Durante il mandato di Barkat gli investimenti a Gerusalemme est sono aumentati e la stampa israeliana si è riempita di articoli sul processo di “israelizzazione” attraverso il quale molti palestinesi gerosolimitani sono stati formati e poi assunti.

Una ricerca condotta dal “Washington Institute” [centro studi statunitense sulla politica in Medio Oriente. Ndtr.] nel 2011 – che ha rilevato che il 40% dei palestinesi di Gerusalemme avrebbe preferito la cittadinanza israeliana piuttosto che quella palestinese – è stata vista come una prova che questo processo di “israelizzazione” era in corso. Un recente sondaggio ha dato persino un dato più alto, il 52%, che sceglierebbe di essere israeliano se Gerusalemme fosse divisa tra Israele e un futuro Stato palestinese.

Gerusalemme instabile

Che i sondaggi siano giusti o sbagliati, è assolutamente evidente che questo presunto processo di “israelizzazione” è stato molto limitato. Come ha dimostrato Aviv Tartasky, un ricercatore dell’organizzazione per i diritti umani “Ir Amim” a Gerusalemme, le autorità israeliane non sono realmente pronte a “pagare il prezzo” di un vero e significativo coinvolgimento dei palestinesi nella vita cittadina di Gerusalemme.

Ogni tentativo dei palestinesi di chiedere pari diritti, persino legittimando implicitamente la sovranità israeliana in questa città contesa, è stato liquidato o persino umiliato.

Nonostante questo presunto processo di “israelizzazione”, o forse a causa di ciò, Gerusalemme è il luogo più instabile di tutte le zone palestinesi. Nel luglio 2014 Shu’afat e altri quartieri di Gerusalemme nord hanno iniziato la loro mini-intifada dopo l’uccisione del giovane Abu Khdeir.

Nell’ottobre 2015 un accoltellamento nella Città Vecchia è stato il segnale d’inizio dell'”Intifada dei coltelli”, che continua tuttora a fasi alterne. Proprio il luogo che Israele voleva “israelizzare” è diventato la culla dell’attuale ondata di violenza.

Questa è stata di nuovo una sorpresa per le autorità israeliane. Solo un mese fa, Barkat si è vantato con attivisti del Likud [il suo partito, di destra e al governo nazionale. Ndtr.] che Israele era riuscito a ripristinare la tranquillità a Gerusalemme est grazie alla sua politica ” del bastone e della carota”, riferendosi alla chiusura e ad altre punizioni collettive inflitte ai quartieri palestinesi dopo la prima ondata di accoltellamenti.

“Gli abitanti cattivi ora capiscono..che non conviene stare dalla parte del male,” ha detto, secondo quanto citato da Haaretz.

Il suo vice, Meir Turgeman, che è anche a capo della commissione edilizia locale, è stato ancora più esplicito: “Abbiamo sempre vissuto con la falsa speranza che se avessimo aiutato questo popolo (i palestinesi), esso avrebbe cambiato il suo comportamento animalesco,” ha detto Turgeman dopo gli omicidi di domenica, “ora risulta che non è servito.”

Come risposta all’aggressione, Turgeman ha anche annunciato che bloccherà ogni permesso di costruzione per i palestinesi.

Sogni rinviati

Ohad Hemo, corrispondente di “Canale 2″ [televisione privata. Ndtr.] israeliano, ha sostenuto che l’ascesa di Hamas e di altri gruppi islamisti a Gerusalemme è, in buona misura, prodotta da Israele. Secondo Hemo, il fatto che Israele abbia espulso l’Autorità Nazionale Palestinese da Gerusalemme est, un processo che è iniziato con la chiusura dell'”Orient House” [sede dell’OLP a Gerusalemme. Ndtr.] nel 2001, ha determinato un vuoto in cui Hamas si è infiltrato.

Abu Sbieh, l’aggressore di domenica, era attivo in varie organizzazioni islamiste. Era noto in tutta Gerusalemme est come il “leone di Al-Aqsa”, per la sua partecipazione in vari incidenti con poliziotti israeliani e attivisti di destra ebrei all’interno ed attorno a quello che i musulmani chiamano ” Haram a-Sharif” [la Spianata delle Moschee. Ndtr.] e che gli ebrei chiamano “Il Monte del Tempio”.

L’identificazione come difensore di Al-Aqsa contro i tentativi israeliani di modificare lo status del luogo sacro ad entrambi – sicuramente la questione più delicata per i palestinesi a Gerusalemme ed altrove – spiega l’ampio appoggio che l’azione di Abu Sbieh ha ricevuto a Gerusalemme est. Se c’è stato sconcerto tra l’opinione pubblica palestinese riguardo al coinvolgimento di palestinesi molto giovani, a volte persino bambini di 12 anni, in episodi di accoltellamento, questo non è il caso di Abu Sbieh.

Abu Sbieh. 39 anni, è lontano dal profilo medio dei palestinesi che hanno partecipato agli attacchi, reali o presunti, contro forze di sicurezza o civili israeliani. Il fatto che abbia usato un fucile automatico F16 può indicare che non si sia trattato solo di un altro attacco improvvisato e spontaneo. E’ più simile a quelli della Seconda Intifada che a quello cui abbiamo assistito lo scorso anno.

E’ troppo presto per dire se l’incidente di domenica segnerà davvero un punto di svolta verso uno scontro più violento tra israeliani e palestinesi. Persistono illazioni sui suoi reali motivi.

Ma ancora una volta Gerusalemme ha dimostrato che, soggetta all’attuale politica israeliana, ci sono molte più probabilità che possa diventare teatro di violenze, minacciando si espandersi in altri territori palestinesi, piuttosto che un laboratorio di “israelizzazione” forzata.

Meron Rapoport  è un giornalista e scrittore israeliano, vincitore del “Premio internazionale Napoli per il Giornalismo” per un’inchiesta sul furto di ulivi a danno di proprietari palestinesi. E’ stato capo della redazione notizie di Haaretz ed ora è un giornalista indipendente.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)