Netanyahu mette in relazione l’attacco di Gerusalemme con l’ISIS. I media israeliani lo smascherano

Middle East Eye Redazione di MEE – 10 gennaio 2017

I giornalisti israeliani affermano che è l’occupazione della terra palestinese che sta guidando gli attacchi terroristici e che Israele non è la Francia o la Germania

Alcuni commentatori israeliani hanno condannato duramente Benjamin Netanyahu per aver messo in relazione con lo Stato Islamico un attacco a Gerusalemme, sostenendo che il primo ministro sta diffondendo una narrazione per inserire Israele nell’ondata di attacchi in Occidente e distogliendo l’attenzione dall’occupazione della terra palestinese.

Sabato un palestinese, Fadi al-Qunbar, ha lanciato un camion in mezzo a un gruppo di soldati israeliani nei pressi della Città Vecchia, uccidendone quattro. Subito dopo, Netanyahu ha affermato: “Conosciamo l’identità dell’aggressore, che, in base a tutti gli indizi, era un sostenitore dell’IS.”

Ma, scrivendo sul “Times of Israel” [giornale on line che si definisce “apolitico”. Ndtr.], l’esperto Avi Issacharoff afferma che non è “ancora chiaro cosa o chi lo abbia spinto a mettere in atto l’attacco” e che “non ci sono chiari indizi” che provino l’affermazione di Netanyahu.

“E’ possibile che la dichiarazione di Netanyahu possa spingere l’IS ha dichiarare la propria responsabilità per l’attacco, ma è dubbio se ci sia un qualche rapporto diretto tra il gruppo e Qunbar.”

“L’affermazione, comunque, è utile all’argomentazione di Netanyahu nei confronti dell’Occidente secondo cui “Lo Stato Islamico è qui”, e a quella del gruppo di avere una presenza nella “Palestina occupata”, sostiene.

Issacharoff avanza un’altra teoria: “Per il momento, pare che Qunbar abbia agito in base allo stesso modus operandi che abbiamo visto in precedenza a Gerusalemme: un terrorista senza un’affiliazione organizzativa, ispirato dai media informativi, da una moschea o dalle reti sociali, che ha condotto un attacco senza assistenza esterna.”

“In seguito, le organizzazioni terroristiche lo rivendicano come uno di loro per cavalcare l’onda del suo ‘successo’.”

Afferma che la “chiave della tensione” che guida questi attacchi non è la presunta presenza dell’IS, ma “la mancanza di qualunque prospettiva diplomatica, la costante frustrazione nei confronti dell’Autorità Nazionale Palestinese, l’odio verso Israele e i continui massicci incitamenti sulle reti sociali.”

“Tutto ciò crea un’atmosfera tesa, permeata di odio, che può portare in qualunque momento a ulteriori attacchi ‘spontanei'”, sostiene.

Su Haaretz, sotto il titolo “la teoria di un attacco dell’ISIS sta bene a Netanyahu, ma Gerusalemme non è Berlino”, l’editorialista Nir Hasson scrive: “Per quanto riguarda il primo ministro…la teoria dell’ISIS si addice al messaggio che cerca di diffondere – cioè che Gerusalemme, come Berlino e Nizza, è solo un’altra città occidentale che affronta un terrorismo brutale, irriducibile, messo in atto da membri dell’islamismo internazionale.”

“In base a questo messaggio, questa forza del male assoluto non ha motivazioni né ragioni e non ha niente a che vedere con l’occupazione o con qualunque altra politica israeliana.”

“Gerusalemme non è Nizza, Nizza non ha il 40% dei suoi abitanti che vivono senza diritti civili, sotto occupazione e in condizioni di vita umilianti.”

“A Nizza il primo ministro non annuncia la chiusura di un quartiere che ospita decine di migliaia di persone solo perché uno di loro è un terrorista.”

“Anche se l’attacco di domenica fosse stato ispirato dall’ISIS, ha comunque avuto origine a Gerusalemme ed è parte di un’infinita serie di attacchi di cui la città ha sofferto negli ultimi due anni e mezzo.”

Aggiunge che ogni potenziale spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme potrebbe solo gettare benzina sul fuoco.

“Non lontano dalla scena dell’attacco mortale c’è il luogo candidato ad ospitare la nuova ambasciata USA a Gerusalemme. Mentre il 20 gennaio [data dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca. Ndtr.] si avvicina, lo stesso avviene con la possibilità che l’ambasciata venga spostata lì,” afferma.

“Una simile iniziativa potrebbe benissimo aggiungere benzina sul fuoco che sta bruciando in città da oltre due anni e mezzo.”

Dan Cohen, un altro giornalista ebreo, su Twitter critica i media occidentali che ripetono pappagallescamente la narrazione di Netanyahu e sostiene che il primo ministro sta cercando di utilizzare l’attacco per promuovere politiche repressive contro i palestinesi.

(traduzione di Amedeo Rossi)




2017: un anno in cui rievocare tre tristi anniversari palestinesi

Richard Falk– 27 dicembre 2016, Middle East Eye

Solo una resistenza non violenta dei palestinesi al loro prolungato calvario e l’attivismo della società civile internazionale sembrano avere forse la capacità di adoperarsi per cambiamenti positivi dello status quo.

I palestinesi sembrano sempre più condannati a diventare sudditi, o al massimo cittadini di seconda classe, nella loro terra d’origine. L’espansionismo israeliano, l’incondizionato appoggio degli USA e l’impotenza dell’ONU si combinano per creare fosche prospettive per l’autodeterminazione dei palestinesi e per una pace negoziata che sia sensibile ai diritti e alle rivendicazioni sia dei palestinesi che degli ebrei.

Rievocare tre importanti anniversari da commemorare nel 2017 può aiutarci a comprendere meglio quanto questa dolorosa narrazione palestinese si sia sviluppata nel corso degli ultimi 100 anni.

Forse tali rimembranze possono persino incoraggiare la correzione degli errori passati e i deboli tentativi di trovare una via d’uscita, seppure in ritardo. Le iniziative più promettenti sono ora legate al crescente movimento di solidarietà internazionale impegnato a raggiungere una pace giusta per entrambi i popoli.

Per il momento, né le Nazioni Unite né la diplomazia tradizionale sembrano avere molto potere sul gioco delle forze sociali e politiche che si trovano al centro della lotta dei palestinesi. Solo una resistenza non violenta dei palestinesi al loro prolungato calvario e l’attivismo della società civile internazionale sembrano forse avere la capacità di esercitare cambiamenti positivi dello status quo.

1917

Il 2 novembre 1917 il ministro degli Esteri britannico, Arthur Balfour, venne convinto a mandare una lettera al barone Lionel Rothschild, uno dei principali sostenitori del sionismo in Gran Bretagna, in cui esprimeva il sostegno alle aspirazioni del movimento. Il concetto più importante della lettera era la seguente:

“Il governo di sua Maestà vede con favore la costituzione in Palestina di un focolare per il popolo ebraico, e farà uso del proprio massimo impegno per agevolare la realizzazione di questo obiettivo, essendo chiaro che non deve essere fatto nulla che pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina, né i diritti e lo status politico degli ebrei nelle altre nazioni”.

Una prima e scontata osservazione è per quale motivo la Gran Bretagna si sia attivata per prendere una simile iniziativa nel bel mezzo della Prima Guerra Mondiale. La risposta più immediata è che la guerra non stava andando molto bene, alimentando nei dirigenti inglesi la convinzione e la speranza che, schierandosi con il movimento sionista, avrebbero incoraggiato gli ebrei in tutta Europa a sostenere la causa degli alleati, soprattutto in Russia e in Germania.

Una seconda motivazione era favorire gli interessi britannici in Palestina, a cui l’allora primo ministro Lloyd Geroge guardava come strategicamente vitale per proteggere la via commerciale terrestre verso l’India così come salvaguardare l’accesso al Canale di Suez.

Fin dal giorno della sua emanazione la Dichiarazione Balfour fu controversa, persino tra alcuni ebrei. Innanzitutto un simile impegno da parte dell’ufficio del ministero degli Esteri era prettamente colonialista, senza il benché minimo tentativo di prendere in considerazione i sentimenti della popolazione prevalentemente araba che viveva in Palestina all’epoca (gli ebrei erano meno del 10% della popolazione nel 1917) o di tener conto del crescente appoggio internazionale al diritto di auto-determinazione di cui gode ogni popolo.

Opposizione ebraica a Balfour

Ebrei importanti, guidati da Edward Montagu, all’epoca segretario di Stato per l’India, si opposero alla dichiarazione, temendo che ciò avrebbe fomentato l’antisemitismo, soprattutto nelle città europee e nordamericane.

Oltre a ciò, gli arabi si sentirono traditi in quanto l’iniziativa di Balfour era vista sia come una violazione delle promesse agli arabi durante la guerra di un’indipendenza politica dopo il conflitto in cambio della partecipazione alla lotta contro i turchi. Inoltre ciò faceva presagire futuri problemi che sarebbero scoppiati tra la promozione dell’immigrazione ebraica in Palestina da parte dei sionisti e le proteste della popolazione autoctona araba.

Bisognerebbe anche riconoscere che neppure tutti i dirigenti sionisti erano contenti della dichiarazione Balfour. C’erano deliberate ambiguità nella sua formulazione. Per esempio, i sionisti avrebbero preferito la parola “il” piuttosto che “un” davanti a “focolare nazionale [ebraico]”. Inoltre l’impegno a proteggere lo status quo dei non ebrei era visto come causa di guai futuri, benché, come si è visto in seguito, questo attestato di responsabilità colonialista non sia mai stato messo in pratica.

Infine i sionisti ricevettero un appoggio per un focolare nazionale, non per uno Stato sovrano, benché colloqui riservati con gli inglesi convenissero che uno Stato ebraico potesse nascere in futuro, ma solo dopo che gli ebrei fossero diventati maggioranza in Palestina.

Questo sguardo all’indietro alla Dichiarazione Balfour è utile per comprendere come le ambizioni coloniali si siano trasformate in senso di colpa liberale ed empatia umanitaria per la tragedia degli ebrei europei dopo la Seconda Guerra Mondiale, determinando invece un inferno senza fine di delusione e oppressione per la popolazione palestinese.

1947

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, con scontri in Palestina che raggiunsero livelli molto intensi, e con l’impero britannico in caduta libera, la Gran Bretagna abbandonò il proprio potere mandatario e lasciò alla nascente ONU il compito di decidere cosa fare.

L’ONU creò un gruppo di alto profilo per abbozzare una proposta, che risultò essere una serie di raccomandazioni che contenevano la partizione della Palestina in due comunità, una per gli ebrei, un’altra per gli arabi. Gerusalemme fu internazionalizzata senza che nessuna comunità esercitasse l’autorità di governo né avesse il diritto di reclamare la città come parte della propria identità nazionale. Il rapporto dell’ONU venne adottato come proposta ufficiale nella forma della Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale.

Il movimento sionista accettò la 181, mentre i governi arabi e i rappresentanti del popolo palestinese la rigettarono, sostenendo che questa violava i diritti di autodeterminazione ed era palesemente ingiusta. All’epoca gli ebrei rappresentavano meno del 35% della popolazione ma gli venne assegnato più del 55% della terra.

Com’é noto, ne derivò una guerra, con eserciti dei Paesi arabi vicini che entrarono in Palestina sconfitti da milizie sioniste ben addestrate ed armate. Israele vinse la guerra, ottenendo alla fine il controllo sul 78% della Palestina nel momento in cui fu raggiunto un armistizio, espropriando oltre 700.000 palestinesi e distruggendo molte centinaia di villaggi palestinesi. Questa vicenda è stata il momento più cupo vissuto dai palestinesi, noto tra loro come la nakba, o catastrofe.

1967

Il terzo anniversario del 2017 è relativo alla guerra del 1967, che portò a un’altra disfatta militare dei vicini arabi e all’occupazione israeliana di tutta la Palestina, comprese tutta la città di Gerusalemme e la Striscia di Gaza.

Gli Usa, alleati strategici

La vittoria israeliana ha cambiato in modo drastico la dimensione strategica. Israele, che in precedenza era stato visto come un peso strategico per gli USA, improvvisamente fu considerato un partner strategico degno di un appoggio geopolitico incondizionato.

Nella famosa risoluzione 242, il 22 novembre 1967 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU decise all’unanimità che dovesse essere negoziato il ritiro delle forze israeliane, con qualche accordo di modifica dei confini, nel contesto della ricerca di un accordo di pace che includesse una soluzione amichevole della disputa relativa ai rifugiati palestinesi che vivevano in tutta la regione.

Durante i successivi 50 anni siamo arrivati alla conclusione che la 242 non è stata messa in atto. Al contrario, Israele ha ulteriormente invaso la Palestina occupata attraverso un’estesa colonizzazione e con le relative infrastrutture, e si è arrivati al punto che pochi credono che uno Stato palestinese indipendente che coesista con Israele sia ancora realizzabile o persino auspicabile.

Questi anniversari rivelano tre fasi della situazione dei palestinesi in continuo peggioramento. Rivelano anche l’incapacità dell’ONU o della diplomazia internazionale a risolvere il problema di come palestinesi ed ebrei dovrebbero condividere la terra.

E’ troppo tardi per invertire tutte queste solide tendenze storiche, ma la sfida per raggiungere una soluzione umana che consenta in qualche modo a questi due popoli di vivere insieme o in comunità politiche separate rimane acuta.

Speriamo ardentemente che una soluzione soddisfacente sia trovata prima che un altro anniversario si imponga alla nostra attenzione.

– Richard Falk è un docente di diritto e relazioni internazionali che ha insegnato per 40 anni all’università di Princeton. Nel 2008 è stato anche nominato dall’ONU per sei anni come Rapporteur speciale sui diritti umani dei palestinesi.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non rispecchiano necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




La risoluzione ONU: una vendetta personale di Obama

La risoluzione ONU: una vendetta personale di Obama contro Netanyahu

Middel East Eye

Yossi Melman – Sabato 24 dicembre 2016

Il primo ministro israeliano, abituato all’appoggio incondizionato degli USA, è rimasto colpito dall’iniziativa di Obama. Se ne farà una ragione.

La risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di venerdì, che denuncia le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata (che sono illegali in base alle leggi internazionali e un ostacolo alla creazione di uno Stato palestinese) è stata uno shock per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e per il suo governo di destra.

Fino all’ultimo minuto hanno sperato che in qualche modo, deus ex machina, Washington avrebbe posto il veto sulla proposta. Ma gli Usa si sono astenuti, consentendo l’adozione della risoluzione da parte degli altri 14 membri del consiglio.

Non è la prima volta che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU approva una risoluzione contro l’occupazione israeliana e la sua politica illegale di costruzione ed espansione delle colonie ebraiche. Ma in questa occasione la risoluzione è molto più mirata. Sottolinea il ruolo distruttivo giocato dalle colonie nel dividere e controllare la Cisgiordania per impedire la nascita di uno Stato palestinese con continuità territoriale.

E’ stata anche la prima risoluzione dal 1980 su cui gli USA non hanno posto il veto o impedito che venisse proposta.

La decisione degli USA di astenersi riflette una politica di lunga durata contraria alle colonie. Ma si è trattato anche un atto di vendetta e di ritorsione personale del presidente Obama contro Netanyahu. La Casa Bianca usa un eufemismo quando sostiene che la politica delle colonie da parte di Netanyahu è stata responsabile della risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Fin dal primo momento di Obama alla Casa Bianca, Netanyahu ha cospirato contro di lui con la maggioranza repubblicana del Congresso USA. Nonostante sia stato uno dei presidenti che più ha sostenuto e generosamente finanziato Israele, Obama è stato detestato da un ingrato Netanyahu. Il primo ministro israeliano ha ripetuto continuamente il suo sostegno alla soluzione dei due Stati, ma ha fatto tutto quanto gli era possibile per sabotarla. Ha anche cospirato con il partito Repubblicano per far fallire l’accordo sul nucleare tra l’Iran e i “P5 più uno” – cioè, i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU più la Germania.

Netanyahu e il suo governo, preso in ostaggio anni fa dai coloni, che rappresentato appena il 10% della popolazione ebraica di Israele, ha ignorato il fatto che la risoluzione è equilibrata. Chiede ai palestinesi di bloccare gli incitamenti alla violenza e il terrorismo.

Eppure Netanyahu ha espresso tutta la sua rabbia e frustrazione verso Obama stravolgendo la verità e accusandolo di aver deviato dalla “tradizione” politica USA di appoggiare sempre Israele. Il borioso Netanyahu si è autoconvinto che l’appoggio incondizionato degli USA è uno dei Dieci Comandamenti.

Paralizzato dal suo timore verso Vladimir Putin, che egli ha ripetutamente elogiato e descritto come un amico, Netanyahu ha totalmente ignorato il fatto che anche la Russia ha appoggiato la risoluzione.

In un messaggio personale, Netanyahu ha promesso di ignorare la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e per ritorsione ha richiamato l’ambasciatore israeliano in Nuova Zelanda e quello in Senegal, due Nazioni che hanno proposto la mozione.

Riguardo alle implicazioni della risoluzione su Israele e la Palestina, si tratta di un’arma a doppio taglio. Innanzitutto, la risoluzione non fa riferimento al capitolo sette della Carta dell’ONU, che parla di “minacce per la pace” e quindi è ben lungi dall’imporre sanzioni internazionali su Israele o sulle sue colonie.

Singole Nazioni possono utilizzare la risoluzione come una base legale per giustificare la propria decisione di boicottare le colonie e persino Israele. Ma lo faranno, e in che misura? La risoluzione funge anche da impulso per il movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), che prende di mira le colonie e Israele.

La risoluzione è anche una vittoria per l’anziano presidente palestinese Mahmoud Abbas e per la sua strategia di utilizzare l’arena diplomatica per combattere l’occupazione. Abbas è stato recentemente sottoposto a terribili pressioni all’interno del suo stesso movimento, Fatah, e della più ampia Organizzazione per la Liberazione della Palestina perché desse le dimissioni a causa del fallimento delle sue politiche e per non essere riuscito ad avvicinare i palestinesi alla creazione di uno Stato.

Ma è prematuro che i palestinesi si rallegrino. Una volta superato lo shock, Netanyahu si sposterà probabilmente ancora più a destra e costruirà ancora più colonie. Crede che il prossimo mese, quando Donald Trump entrerà nello Studio Ovale [l’ufficio del presidente alla Casa Bianca. Ndtr.], Israele avrà mano libera per fare tutto quello che vuole.

– Yossi Melman  è un commentatore in materia di sicurezza e di intelligence e co-auotore di “Spie contro l’Armageddon”.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’ “israelizzazione” di Gerusalemme non ha funzionato

L’ “israelizzazione” di Gerusalemme è un progetto che non ha funzionato. L’ultimo attacco lo testimonia.

Meron Rapoport

Middle East Eye – martedì 11 ottobre.

 

Israele sostiene di aver convinto i palestinesi di Gerusalemme a preferire il suo dominio. L’attacco di domenica, ampiamente appoggiato dalla maggior parte dei palestinesi, dimostra il contrario.

Via Haim Bar Lev, la strada a più corsie meglio nota come “Strada n. 1”, collega la città vecchia di Gerusalemme ai suoi quartieri settentrionali. Corre per lo più parallela al confine precedente al 1967, prima che Israele occupasse ed annettesse le zone palestinesi della città, allora sotto controllo giordano.

Costruita 20 anni fa, è stata parte dei tentativi di integrare il centro di Gerusalemme con i nuovi quartieri ebraici costruiti sulla “Linea Verde” [il confine tra Israele e Giordania precedente al 1967. Ndtr.], con lo scopo di circondare i quartieri palestinesi di Gerusalemme nord e consolidare l’idea di una Grande Gerusalemme sotto il perenne dominio ebraico-israeliano.

La metropolitana leggera, costruita un decennio fa, era stata pensata come un altro tentativo di “unificare” Gerusalemme, mettendo in collegamento gli estesi quartieri annessi, in cui vivono circa 100.000 israeliani, al cuore della città, passando attraverso i quartieri densamente abitati dai palestinesi. Il percorso della metropolitana leggera corre lungo la “Strada n.1”, associando i vecchi tentativi di “unificazione” con quelli nuovi.

Progetto fallito

Cosa abbastanza interessante, Misbah Abu Sbeih, un attivista islamista del quartiere di Silwan, a Gerusalemme est, ha iniziato il suo attacco a mano armata di domenica in una stazione della metropolitana leggera situato sulla “Strada n.1”, uccidendo un’ebrea sessantenne e, in seguito, un ufficiale di polizia israeliano.

Non era la prima volta che sia la metropolitana leggera che la “Strada n.1” sono state il bersaglio di attacchi palestinesi. Dopo il brutale assassinio del giovane Muhammed Abu Khdeir [bruciato vivo dai suoi rapitori. Ndtr.] da parte di estremisti ebrei due anni fa, i quartieri palestinesi di Gerusalemme nord sono esplosi con rabbia.

Molte delle azioni violente dell’attuale haba (“sfogo” in arabo) o “Intifada dei coltelli” palestinese, iniziata esattamente un anno fa a Gerusalemme, hanno avuto luogo in vari punti lungo la “Strada n.1”. I veri e propri simboli dei tentativi di unificare e “israelizzare” Gerusalemme sono diventati i luoghi caldi della violenza e della morte.

Nonostante la sua pretesa di rappresentare Gerusalemme, con le zone annesse, come una città unificata, per molti anni Israele ha ignorato Gerusalemme est, forse nella speranza che i suoi abitanti avrebbero preferito emigrare, rafforzando così il controllo di Israele su quelle aree. Ciò è stato molto evidente nelle restrizioni sulle costruzioni palestinesi in città. Almeno un terzo delle unità immobiliari di Gerusalemme est sono state costruite senza permessi.

Pur rappresentando circa il 40% degli 830.000 abitanti della città, i quartieri palestinesi ricevono solo il 10% del bilancio municipale, a volte anche meno, determinando il più alto livello di povertà in Israele, un impressionante 75.3% di popolazione sotto il livello di povertà a Gerusalemme est.

L’attuale sindaco, Nir Barkat, eletto otto anni fa, ha apparentemente tentato di cambiare questa situazione. Barkat, strenuo oppositore di ogni concessione politica ai palestinesi di Gerusalemme, ha sostenuto che solo migliorando le condizioni di vita nei quartieri palestinesi Israele avrebbe potuto affermare la propria sovranità indiscutibile sulla città.

Durante il mandato di Barkat gli investimenti a Gerusalemme est sono aumentati e la stampa israeliana si è riempita di articoli sul processo di “israelizzazione” attraverso il quale molti palestinesi gerosolimitani sono stati formati e poi assunti.

Una ricerca condotta dal “Washington Institute” [centro studi statunitense sulla politica in Medio Oriente. Ndtr.] nel 2011 – che ha rilevato che il 40% dei palestinesi di Gerusalemme avrebbe preferito la cittadinanza israeliana piuttosto che quella palestinese – è stata vista come una prova che questo processo di “israelizzazione” era in corso. Un recente sondaggio ha dato persino un dato più alto, il 52%, che sceglierebbe di essere israeliano se Gerusalemme fosse divisa tra Israele e un futuro Stato palestinese.

Gerusalemme instabile

Che i sondaggi siano giusti o sbagliati, è assolutamente evidente che questo presunto processo di “israelizzazione” è stato molto limitato. Come ha dimostrato Aviv Tartasky, un ricercatore dell’organizzazione per i diritti umani “Ir Amim” a Gerusalemme, le autorità israeliane non sono realmente pronte a “pagare il prezzo” di un vero e significativo coinvolgimento dei palestinesi nella vita cittadina di Gerusalemme.

Ogni tentativo dei palestinesi di chiedere pari diritti, persino legittimando implicitamente la sovranità israeliana in questa città contesa, è stato liquidato o persino umiliato.

Nonostante questo presunto processo di “israelizzazione”, o forse a causa di ciò, Gerusalemme è il luogo più instabile di tutte le zone palestinesi. Nel luglio 2014 Shu’afat e altri quartieri di Gerusalemme nord hanno iniziato la loro mini-intifada dopo l’uccisione del giovane Abu Khdeir.

Nell’ottobre 2015 un accoltellamento nella Città Vecchia è stato il segnale d’inizio dell'”Intifada dei coltelli”, che continua tuttora a fasi alterne. Proprio il luogo che Israele voleva “israelizzare” è diventato la culla dell’attuale ondata di violenza.

Questa è stata di nuovo una sorpresa per le autorità israeliane. Solo un mese fa, Barkat si è vantato con attivisti del Likud [il suo partito, di destra e al governo nazionale. Ndtr.] che Israele era riuscito a ripristinare la tranquillità a Gerusalemme est grazie alla sua politica ” del bastone e della carota”, riferendosi alla chiusura e ad altre punizioni collettive inflitte ai quartieri palestinesi dopo la prima ondata di accoltellamenti.

“Gli abitanti cattivi ora capiscono..che non conviene stare dalla parte del male,” ha detto, secondo quanto citato da Haaretz.

Il suo vice, Meir Turgeman, che è anche a capo della commissione edilizia locale, è stato ancora più esplicito: “Abbiamo sempre vissuto con la falsa speranza che se avessimo aiutato questo popolo (i palestinesi), esso avrebbe cambiato il suo comportamento animalesco,” ha detto Turgeman dopo gli omicidi di domenica, “ora risulta che non è servito.”

Come risposta all’aggressione, Turgeman ha anche annunciato che bloccherà ogni permesso di costruzione per i palestinesi.

Sogni rinviati

Ohad Hemo, corrispondente di “Canale 2″ [televisione privata. Ndtr.] israeliano, ha sostenuto che l’ascesa di Hamas e di altri gruppi islamisti a Gerusalemme è, in buona misura, prodotta da Israele. Secondo Hemo, il fatto che Israele abbia espulso l’Autorità Nazionale Palestinese da Gerusalemme est, un processo che è iniziato con la chiusura dell'”Orient House” [sede dell’OLP a Gerusalemme. Ndtr.] nel 2001, ha determinato un vuoto in cui Hamas si è infiltrato.

Abu Sbieh, l’aggressore di domenica, era attivo in varie organizzazioni islamiste. Era noto in tutta Gerusalemme est come il “leone di Al-Aqsa”, per la sua partecipazione in vari incidenti con poliziotti israeliani e attivisti di destra ebrei all’interno ed attorno a quello che i musulmani chiamano ” Haram a-Sharif” [la Spianata delle Moschee. Ndtr.] e che gli ebrei chiamano “Il Monte del Tempio”.

L’identificazione come difensore di Al-Aqsa contro i tentativi israeliani di modificare lo status del luogo sacro ad entrambi – sicuramente la questione più delicata per i palestinesi a Gerusalemme ed altrove – spiega l’ampio appoggio che l’azione di Abu Sbieh ha ricevuto a Gerusalemme est. Se c’è stato sconcerto tra l’opinione pubblica palestinese riguardo al coinvolgimento di palestinesi molto giovani, a volte persino bambini di 12 anni, in episodi di accoltellamento, questo non è il caso di Abu Sbieh.

Abu Sbieh. 39 anni, è lontano dal profilo medio dei palestinesi che hanno partecipato agli attacchi, reali o presunti, contro forze di sicurezza o civili israeliani. Il fatto che abbia usato un fucile automatico F16 può indicare che non si sia trattato solo di un altro attacco improvvisato e spontaneo. E’ più simile a quelli della Seconda Intifada che a quello cui abbiamo assistito lo scorso anno.

E’ troppo presto per dire se l’incidente di domenica segnerà davvero un punto di svolta verso uno scontro più violento tra israeliani e palestinesi. Persistono illazioni sui suoi reali motivi.

Ma ancora una volta Gerusalemme ha dimostrato che, soggetta all’attuale politica israeliana, ci sono molte più probabilità che possa diventare teatro di violenze, minacciando si espandersi in altri territori palestinesi, piuttosto che un laboratorio di “israelizzazione” forzata.

Meron Rapoport  è un giornalista e scrittore israeliano, vincitore del “Premio internazionale Napoli per il Giornalismo” per un’inchiesta sul furto di ulivi a danno di proprietari palestinesi. E’ stato capo della redazione notizie di Haaretz ed ora è un giornalista indipendente.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Shimon Peres: fondatore di Israele, architetto dell’occupazione

Rori Donaghy

Middle East Eye– mercoledì 28 settembre 2016

Per i suoi sostenitori Peres era una colomba della pace, ma per i suoi critici ha giocato un ruolo chiave nella costruzione di uno Stato israeliano che opprime i palestinesi

Shimon Peres, l’ultimo padre fondatore di Israele, è morto mercoledì all’età di 93 anni dopo che le sue condizioni sono rapidamente peggiorate in seguito a un grave ictus due settimane fa.

I leader mondiali hanno riservato elogi a Peres, compreso l’ex presidente americano Bill Clinton, che lo ha descritto come una “colomba della pace” per il suo ruolo negli accordi di Oslo del 1993 – le prime intese tra leader israeliani e palestinesi, che lo hanno portato a vincere il Nobel per la pace collettivo un anno dopo.

Tuttavia gli elogi non sono stati universali, con critiche che hanno sottolineato il suo ruolo nello sviluppo delle prime colonie israeliane e come primo ministro nel 1996, quando le truppe israeliane massacrarono 154 civili libanesi nella cosiddetta “Operazione Grappoli d’ira”.

Il primo ministro palestinese Mahmoud Abbas, del partito Fatah della Cisgiordania, ha osannato Peres come un “coraggioso”, mentre i suoi rivali di Hamas a Gaza lo hanno definito un “criminale”.

Nato Szymon Perski nel 1923, Peres nel 1934, all’età di 11 anni, si spostò con la sua famiglia dalla terra natale in Polonia verso quello che era allora il Mandato Britannico della Palestina. Dopo essere cresciuto in un kibbutz, Peres si unì al connazionale polacco e in seguito sodale politico David Ben-Gurion, che sarebbe poi diventato il primo premier di Israele.

Peres è stato spesso lodato come uomo che ha dedicato la sua vita a cercare la pace tra israeliani e palestinesi, rifiutando di rinunciare a concludere un accordo fin quando ha iniziato il suoi ultimi dieci anni di vita.

Durante un discorso nel 2014 al memoriale di Yitzhak Rabin – l’ex-primo ministro israeliano che fu assassinato nel 1995 per aver firmato gli accordi di Oslo – Peres incitò il popolo a non rinunciare alla pace.

“La pace è diventata una parola offensiva,” ha detto a migliaia di persone che si erano riunite a Tel Aviv. “Ci sono quelli che dicono che chi crede nella pace è un ingenuo, non è un patriota, un illuso. Ma io dico a voce alta che gli illusi sono quelli che rinunciano alla pace.”

Il tono poetico delle parole di Peres ha spesso guadagnato le prime pagine, valendogli un’immagine di voce della ragione in un conflitto apparentemente irrisolvibile. Tuttavia durante la sua lunga vita di dirigente politico l’eredità di Peres si è costruita attraverso il suo coinvolgimento in decisioni e progetti lontano dai riflettori delle riprese televisive.

Prima della fondazione di Israele a danno della Palestina nel 1948, Peres era un membro dell’Haganah – una milizia ebraica clandestina – e nonostante avesse solo 20 anni venne assegnato al ruolo fondamentale di comprare armamenti e munizioni per la guerra che alla fine portò alle uccisioni in massa e all’espulsione di più di 700.000 palestinesi.

La bomba di Israele

Dopo aver svolto egregiamente il suo ruolo nell’Haganah, nel 1953 fu nominato direttore generale del ministero della Difesa di Israele, dove avrebbe continuato a giocare un ruolo cruciale nello sviluppo di un reattore nucleare segreto nella città di Dimona, nel deserto meridionale del Negev.

Anche se un giorno sarebbe diventato il nono presidente di Israele, così come sarebbe stato per due volte primo ministro, il suo ruolo nello sviluppo delle armi nucleari di Israele, che furono testate per la prima volta negli anni ’60, ha consacrato Israele come una importante potenza militare al di fuori di ogni controllo internazionale.

Più tardi, come ministro della Difesa nel 1975, Peres si incontrò con il governo sudafricano dell’apartheid e offrì di vendergli testate nucleari. Desideroso di mantenere nascoste le proprie attività nucleari, nel 1986 Peres autorizzò la caccia ed il rapimento da parte dei servizi segreti israeliani della “gola profonda” Mordechai Vanunu [che rivelò al Sunday Times che Israele aveva la bomba atomica e per questo venne rapito a Roma, portato in Israele e condannato per tradimento e spionaggio . Ndtr.], che avrebbe passato 18 anni di prigione.

L’artefice della colonizzazione

Peres potrebbe un giorno essere visto come un patrimonio nazionale non solo in Israele, bensì anche a livello internazionale, ma ha giocato un ruolo cruciale nello sviluppo delle colonie illegali ebraiche israeliane sulla terra della Cisgiordania palestinese, avendo notoriamente adottato lo slogan “Colonie ovunque” quando era ministro della Difesa negli anni ’70.

Il suo ruolo nell’estensione del controllo israeliano sulla terra palestinese sarebbe continuato con gli accordi di Oslo, perché, benché fossero lodati come un passo verso la pace, la divisione della Cisgiordania in tre zone alla fine ha fornito la base per il controllo israeliano sulla maggior parte di quello che avrebbe dovuto essere lo Stato palestinese.

Gli accordi hanno portato alla divisione della Cisgiordania in tre zone -A, B e C – e si riteneva che sarebbero durati cinque anni. Ma queste zone continuano ad essere la base su cui la Cisgiordania è governata, con l’area C – sotto totale controllo israeliano – che costituisce poco più del 60% del totale della Cisgiordania.

Massacro di Qana

Da molti critici Peres sarà anche ricordato per il suo ruolo nel massacro di 154 civili libanesi in un attacco ad un villaggio durante l’operazione militare di Israele del 1996 contro Hezbollah [milizia sciita libanese. Ndtr.] nota come “Operazione Grappoli d’ira”.

Peres era il primo ministro di Israele quando il suo esercito attaccò il villaggio di Qana il 18 aprile 1996, bombardando un edificio delle Nazioni Unite in cui circa 800 civili si erano rifugiati per sfuggire ai bombardamenti israeliani

Quando gli fu chiesto dell’attacco contro Qana – che egli difese come un errore – Peres più tardi disse: “Tutto è stato fatto in base ad una chiara logica e in modo responsabile. Ho la coscienza a posto.”

E’ questa narrazione alternativa della vita e dell’eredità di Peres che comporta il fatto che egli non sarà elogiato dai palestinesi a da molti altri.

Reazioni arabe

Mentre i media in lingua inglese insistono con l’immagine di Peres come una colomba della pace, mercoledì i mezzi di informazione arabi hanno presentato un’altra immagine quando hanno informato della sua morte.

Sky News in arabo ha descritto Peres come un “padrino” del programma per la produzione delle armi nucleari di Israele e come il “fondatore delle colonie”. Al Jazeera in arabo lo ha etichettato come un “assassino di massa” che è stato “incoronato con il Premio Nobel”.

La dirigenza dell’Autorità Nazionale Palestinese – che Peres ha contribuito a creare – è stata più elogiativa a proposito del defunto leader israeliano: un importante consigliere del presidente Mahmoud Abbas lo ha descritto come un “uomo di pace”.

“Il suo decesso è sicuramente una grande perdita per l’umanità e per la regione,” ha detto al Jerusalem Post [giornale israeliano in lingua inglese. Ndtr.] Majdi al-Kahlidi, consigliere diplomatico di Abbas.

Tuttavia Awni Almashni, membro di Fatah, il partito di Abbas, ha detto a MEE che Peres era “un nemico del popolo palestinese.”

“Peres credeva nella pace, ma nel senso israeliano, che concede a Israele il potere e il controllo sulla terra,” ha affermato. “Non lo vediamo come un pacificatore.”

Il movimento Hamas di Gaza, fiero rivale di Abbas, ha descritto Peres come un “criminale” della cui morte è “molto contento”.

Il portavoce di Hamas Sami Abu Zuhri ha detto all’Associated Press [agenzia di stampa statunitense. Ndtr]: “Shimon Peres è stato l’ultima personalità importante israeliana rimasta ad aver dato vita all’occupazione, e la sua morte rappresenta la fine di un periodo nella storia di questa occupazione e l’inizio di una nuova fase di indebolimento.”

Il funerale di Peres avrà luogo venerdì nel cimitero nazionale israeliano sul monte Herzl a Gerusalemme, a cui si pensa parteciperanno dirigenti politici da tutto il mondo.

Ma uno che non ci sarà è il politico israeliano-palestinese Basil Ghattas, che ha provocato scandalo in Israele quando ha reagito all’ictus di Peres del 14 settembre scrivendo su Facebook che non sarebbe “corso a partecipare” a un ” festival di dolore e di lutto”.

“Peres era uno dei più poderosi pilastri dell’impresa del colonialismo d’insediamento sionista,” ha scritto il deputato della Knesset [il parlamento israeliano. Ndtr.]. “Uno dei più spietati, estremisti e dannosi per la nazione palestinese.”

“Peres è coperto dalla testa ai piedi del nostro sangue.”

Contattato mercoledì da MEE, Ghattas ha detto che non avrebbe potuto aggiungere niente a quello che aveva già detto su Facebook.

Diana Buttu, una ex-negoziatrice palestinese, ha detto a MEE che il torrente di elogi per Peres ignora la sua reale vita – e che le sue azioni rappresentano crimini di guerra.

“Non è abbastanza chiamare Peres un criminale di guerra perché gliela farebbe passare liscia – egli va oltre,” ha affermato. “Peres ha messo in atto tutta una serie di crimini di guerra da parte di Israele avvenuti senza che ne dovesse rispondere.”

“Quello per cui Peres dovrebbe essere ricordato non è solo il fatto di essere un criminale di guerra ma di aver svuotato di ogni significato la parola ‘pace’. Pace ora può significare pulizia etnica, appoggio all’espansione delle colonie, il bombardamento di un edificio dell’ONU e il possesso di un arsenale nucleare senza essere oggetto di alcuna ispezione internazionale.”

“Pace può significare contravvenire alle leggi internazionali – è per questo che Peres dovrebbe essere ricordato.”

La palestinese Nabila Espanioly, un’attivista femminista del partito Hadash, ha detto a MEE che Peres era “innanzitutto un leader sionista.”

“La sua eredità è rappresentata da massacri e discriminazione,” ha affermato. “Ha fatto un passo verso la pace ma non ha cambiato niente in concreto, tranne la confisca di sempre più terra palestinese.”

“Fino ai suoi ultimi giorni Peres ha affermato il suo impegno per la pace, ma ha sempre avuto chiaro in mente che il popolo ebraico era la sua priorità in ogni possibile accordo.”

Nel 2014 ha detto: “La principale priorità è preservare Israele come Stato ebraico. Questo è il nostro principale obiettivo, per il quale stiamo lottando.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Sette messaggi che l’accordo di aiuti USA-Israele manda al resto del mondo

di Zeina Azzam

Middle East Eye – 19 settembre 2016

Dietro alle dimensioni del pacchetto di aiuti di 38 miliardi di dollari ci sono decisioni politiche nascoste che il resto del mondo, e soprattutto i palestinesi, dovrebbero sentire forti e chiare.

Il sito web della Casa Bianca descrive il “Memorandum d’Intesa” (MOU) tra gli Stati Uniti ed Israele, firmato la scorsa settimana, come “il più grande impegno singolo di assistenza militare nella storia degli USA.”

L’impegno di fornire 38 miliardi di dollari in 10 anni (2019-2028) include 33 miliardi in finanziamento militare estero e 5 miliardi in assistenza nella difesa missilistica. Questa dotazione militare senza precedenti e straordinaria, concessa pochi mesi prima che il presidente lasci il suo mandato, sarà una parte significativa dell’eredità di Obama.

Gli obiettivi dichiarati sono il potenziamento della sicurezza di Israele aggiornando la sua flotta aerea, rafforzando la sua difesa missilistica e favorendo l’acquisizione di ulteriori capacità difensive.

Alcuni analisti hanno sottolineato che questo accordo rappresenta un cambiamento nelle relazioni tra Washington e Tel Aviv, o hanno sostenuto che ciò rafforza la sicurezza di Israele mentre contrasta le sue politiche.

Ciononostante l’ampiezza dell’accordo implica certe decisioni politiche ed ipotesi. Quali sono questi messaggi più nascosti – benché globali – per il resto del mondo, e soprattutto per i palestinesi, della generosità senza precedenti di Obama?

1. Forza uguale giustizia. Questa nozione sbagliata informa il pacchetto di aiuti militari che rafforza ulteriormente l’egemonia militare di Israele nella regione, e per molto tempo. Israele è già considerato la potenza militare più forte in Medio Oriente – concedendogli più potere si privilegia il punto di vista di Israele e, in certa misura, si rafforza l’idea fuorviante secondo cui maggiore forza significa maggiore moralità. Ciò rende ogni apertura per la pace, l’imparzialità, o la reale giustizia priva di valore.

2. Un incentivo per la corsa al riarmo del Medio Oriente. Con l’obiettivo dichiarato di garantire la sicurezza di Israele, Washington sta invece garantendo la prosecuzione della guerra nella regione, e soprattutto nei territori palestinesi, dove Israele utilizza armi e una potenza aerea sempre più sofisticate. E’ grottesco il fatto che, mentre l’accordo sul nucleare con l’Iran nel 2015 intendeva ridurre la potenza nucleare del Paese e verificare che il suo uso fosse esclusivamente pacifico, l’accordo con Israele rafforza la conflittualità e spinge tutti i vicini di Israele a spendere di più in armamenti.

3. Israele=Impunità. L’inosservanza da parte di Israele delle politiche sostenute dagli USA, soprattutto riguardo alla costruzione di colonie ed alla creazione dello Stato palestinese, non ha portato nessuna conseguenza concreta nelle relazioni tra Washington e Tel Aviv. Il trattamento sprezzante e disdegnoso del primo ministro Benjamin Netanyahu verso Obama è ora sorprendentemente concretizzato in questo massiccio pacchetto di aiuti militari. Oltretutto il brutale trattamento dei palestinesi in Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza è stato quasi sempre ignorato o giustificato nel consesso internazionale, in quanto gli USA hanno regolarmente posto il veto contro le risoluzioni delle Nazioni Unite che condannavano le azioni di Tel Aviv contro i palestinesi. Il nuovo pacchetto di aiuti è fondamentalmente un premio per Israele, senza che siano state prese in considerazione le sue abituali e massicce violazioni delle leggi internazionali.

4. Le vite dei palestinesi non valgono niente. All’indomani di questo accordo, come è possibile per un palestinese che vive a Hebron o a Gerusalemme est o a Gaza sentire che la propria vita vale qualcosa per il governo americano? L’estensione dell’aiuto militare degli Stati Uniti ad Israele, che continuerà per almeno altri dieci anni a questo livello elevato, non dà nessuna ragione ai palestinesi di pensare che le loro vite contino qualcosa o che i loro diritti nazionali, civili e umani siano importanti.

Oltretutto la militarizzazione di Israele in continuo aumento nega ai palestinesi ogni speranza di un cambiamento, alimentando ulteriore disperazione e marginalizzazione. Infatti un giornalista israeliano [Gideon Levy. Ndtr.] sostiene che questo accordo cementa il ruolo di Obama come “patrono dell’occupazione”. I palestinesi e la comunità internazionale sanno che gli USA sono l’unico attore che può esercitare una reale influenza su Israele; questo accordo, tuttavia, mostra chiaramente che Washington non è amico dei palestinesi e di fatto li vede come gli aggressori impotenti e Israele come vittima potentissima – un punto di vista a parti totalmente invertite.

5. Finanziare l’esercito di Israele è più importante che finanziare i programmi sociali americani. Gli USA hanno parecchie sfide interne urgenti da affrontare, come la fame e la mancanza di case e problemi nell’educazione e nel sistema sanitario. L’ hashtag emerso su Twitter dopo l’accordo, #38billiontoIsrael, elenca parecchie questioni importanti da finanziare al posto dell’aiuto militare a Israele, come ricerche e strategie contro il virus “zika”, l’acqua potabile e la risistemazione di ponti in tutto il Paese. Destinare miliardi di dollari all’aiuto militare a Israele dimostra un palese disinteresse nei confronti di urgenti necessità interne. Si potrebbe anche sostenere che pure l’aiuto ai rifugiati sia una priorità – nazionale e internazionale – che richiederebbe un urgente sostegno finanziario.

6. La distruzione prevale sulla costruzione. Chiunque conosca il conflitto israelo-palestinese si deve chiedere: perché gli USA stanno potenziando un esercito già poderoso invece di destinare più fondi per aiutare Gaza a ricostruire le sue case, scuole, ospedali, fabbriche e sistemi idrici ed igienici che sono stati distrutti dall’attacco israeliano del 2014? Washington ha chiaramente scelto di investire in armi di distruzione invece che in materiale da costruzione e in forze aeree letali piuttosto che nell’attenuazione delle sofferenze umane.

7. L’opinione pubblica degli USA non conta. Un recente sondaggio del 2015 ha rilevato che una sostanziale maggioranza di americani – il 66% – pensa che gli USA non dovrebbero ” propendere per nessuna delle due parti” nel conflitto israelo-palestinese. Questo numero totale comprende democratici, repubblicani e indipendenti. Quando i dati vengono disaggregati, è interessante notare che il 75% dei democratici e l’80% degli indipendenti appoggiano l’imparzialità degli USA, mentre è d’accordo il 45% dei repubblicani. Queste cifre indicano che la politica di Washington verso Israele, che ne fa il Paese più armato e potente in Medio Oriente, non riflette le opinioni e i desideri del popolo americano.

Quanto a un così grande ammontare di aiuti militari per Israele, una ricerca del maggio 2016 ha rilevato che il 40% dei repubblicani, il 57% dei democratici e il 59% degli indipendenti pensava che l’offerta iniziale di aiuti fatta da Obama (40 miliardi di dollari – 2 miliardi in più della cifra finale) fosse “troppo, o decisamente troppo.”

Quest’accordo “favorisce Israele e i venditori di armamenti ma non il contribuente USA e non i palestinesi. Sono loro che ci rimettono,” ha scritto l’analista politico Vijay Prashad [intellettuale marxista di origini indiane che insegna negli USA. Ndtr.]

In effetti bisognerebbe scavare più in profondità nel discorso sulla sicurezza di Israele e nell’ vantaggio qualitativo militare per capire veramente gli sconfortanti messaggi che il pacchetto di aiuti militari USA ad Israele comporta per i palestinesi, per i cittadini americani e per la comunità internazionale.

– Zeina Azzam è direttore esecutivo della “Fondazione Gerusalemme” [associazione non profit statunitense che si occupa di programmi di solidarietà con il popolo palestinese. Ndtr.] e del suo programma educativo, il “Centro Palestina”, che si trova a Washington. Le opinioni espresse sono esclusivamente sue.

Le opinioni espresse in quest’articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Non è tutto tranquillo sul fronte del Golan: l’equazione israelo-siriana cambia

Middle East Eye Yossi Melman

20 settembre 2016

La Siria ha dato l’annuncio di un cambio di politica quando ha lanciato delle rappresaglie contro l’esercito israeliano nel Golan la settimana scorsa ?

Gli avvenimenti dell’ultima settimana sembrano indicare che l’equazione israeliano-siriana sta per cambiare per la prima volta dopo lo scoppio della sanguinosa guerra civile in Siria cinque anni e mezzo fa.

Così almeno sembrava nelle ore precedenti l’alba di martedì scorso.

Con un’azione inusuale, una batteria antiaerea siriana ha lanciato due missili S-200 terra-aria contro dei combattenti e dei droni israeliani. Li hanno mancati. Il servizio stampa dell’esercito israeliano ha smentito l’affermazione del portavoce dell’esercito siriano secondo cui i missili avevano abbattuto un aereo ed un drone israeliani ed ha dichiarato che i missili non avevano neanche sfiorato gli aerei dell’ aviazione israeliana.

I responsabili del governo israeliano e gli ufficiali dell’esercito cercano di stabilire se il lancio di missili stia a significare un cambio di politica da parte di Assad, o se si tratti di una dimostrazione di forza simbolica.

Gli aerei israeliani hanno bombardato delle postazioni di artiglieria dell’esercito siriano. Dal punto di vista israeliano, si trattava di una missione di routine e dal 2012 circa un centinaio di missioni di questo genere sono state effettuate. Questi bombardamenti fanno parte della politica israeliana di rappresaglia per le granate e i razzi che cadono sul suo lato delle alture del Golan.

Questa prassi non fa differenza tra i proiettili dovuti a tiri accidentali o intenzionali, benché si tratti soprattutto di “sforamenti” accidentali della guerra tra l’esercito ed i gruppi ribelli siriani concentrati lungo il confine israeliano.

Ogni volta che le granate cadono in Israele, fatto accaduto più volte dall’inizio della guerra, sia che provengano da armi dell’esercito o dei ribelli siriani, Israele considera il governo di Assad responsabile in quanto regime sovrano sul proprio territorio.

Non è un caso

Tutti questi incidenti, fino a domenica 11 settembre, sono rimasti senza reazione da parte del regime siriano – almeno per quanto ne sa l’opinione pubblica. Oggi i responsabili del governo israeliano e gli ufficiali dell’esercito cercano di stabilire se il lancio di missili S-200 significhi un cambio di politica da parte di Assad o sia solo una dimostrazione di forza simbolica.

Tuttavia una cosa è chiara fin d’ora: il lancio di missili nella regione di Quneitra non era un caso. L’esercito siriano ha diffuso un comunicato ufficiale riguardo all’incidente.

Si tratta del secondo caso conosciuto di rappresaglia dell’esercito di Assad contro l’attività militare israeliana in territorio siriano, ma è il primo incidente di questo genere ad essere reso pubblico. Il primo caso, sette mesi fa, non era stato segnalato da Israele o dal governo siriano.

Sabato scorso due altri missili hanno oltrepassato i confini della guerra in Siria, ma questa volta sono stati intercettati dal sistema di difesa anti-missile israeliano, la cosiddetta “Cupola di ferro” [Iron Dome, ndt].

Da parecchi anni, come ha ammesso il primo ministro Benjamin Netanyahu alcune settimane fa, l’esercito israeliano agisce a suo piacimento nello spazio aereo siriano in violazione della sovranità della Siria e dell’accordo di disimpegno del marzo 1974, firmato dai due paesi dopo la guerra del Kippur (guerra d’ottobre) del 1973.

Voi siete sovrani”

Anche se Israele non ha mai reso pubbliche le sue incursioni, i media esteri hanno più volte segnalato che l’esercito israeliano ha utilizzato aerei da caccia e droni per missioni di ricognizione. Per oltre dieci volte ha attaccato obbiettivi dell’esercito siriano, alcuni dei quali alla periferia di Damasco: depositi, fabbriche e convogli per il trasferimento di armi sofisticate (missili terra-terra di precisione, missili antiaerei, radar e missili antinave) a Hezbollah in Libano.

Di fronte a tutti questi attacchi l’esercito di Assad ha messo da parte la propria dignità e non ha reagito. Non ha reagito nemmeno quando Israele ha abbattuto un aereo da combattimento Sukhoi siriano vicino al suo confine qualche anno fa.

Secondo dei rapporti esteri, Israele ha anche portato a termine, in diverse altre occasioni, degli omicidi di ufficiali superiori di Hezbollah con attacchi aerei. Tra questi obbiettivi vi erano Jihad Moughniyeh, figlio di Imad Moughniyeh, un alto responsabile di Hezbollah ucciso in un attentato con un’autobomba nel 2008; un generale dei Guardiani della rivoluzione islamica iraniana; nel dicembre 2015, nel suo covo di Damasco, il terrorista druso libanese Samir Kuntar, che aveva trascorso 26 anni in una prigione israeliana per l’uccisione di una famiglia israeliana.

Lebanese Hezbollah supporters carry the coffin of militant Jihad Mughniyeh during his funeral in a southern Beirut suburb on January 19, 2015. Iran confirmed today that a general of its elite Revolutionary Guards died in an Israeli strike on Syria that also killed six members of Lebanese militant group Hezbollah. AFP PHOTO /JOSEPH EID / AFP PHOTO / JOSEPH EID

Questi incidenti sono avvenuti in un contesto di tentativi da parte di Hezbollah e del comandante della Forza al-Qods dei Guardiani della rivoluzione, il generale iraniano Qassem Suleimani, di installare delle infrastrutture militari sulle alture del Golan e, con l’avallo di Assad, di sferrare attacchi contro Israele. Gli attacchi israeliani hanno sventato questo piano dell’asse Hezbollah-Iran-Siria.

Inoltre l’esercito israeliano ha risposto con tiri di artiglieria, missili e attacchi aerei simbolici contro gli avamposti dell’esercito siriano quasi ogni volta che dei proiettili provenienti da combattimenti tra l’esercito siriano ed i gruppi ribelli vicino al confine hanno “sforato” e sono caduti in territorio israeliano.

Le reazioni dell’esercito israeliano sono state misurate e principalmente mirate ad inviare un messaggio al regime: per noi, siete sovrani.

Crescente fiducia

L’ultimo incidente testimonia la crescente fiducia dell’esercito di Assad, che è riuscito, soprattutto grazie all’aiuto dei russi, ad estendere il proprio controllo in Siria (che copre ancora solo il 30% del territorio) ed a consolidare il regime mentre l’opposizione si indebolisce e lo Stato Islamico sta arrivando all’inizio della sua fine.

La maggioranza delle parti in gioco – Israele, il regime di Assad, la Russia ed alcuni dei gruppi ribelli – non ha alcun interesse a peggiorare la situazione al confine ed a provocare uno scontro militare.

Man mano che l’esercito del regime siriano intensifica i suoi attacchi contro i ribelli, soprattutto quelli non lontani dal confine con Israele, le possibilità che colpi accidentali cadano in territorio israeliano aumentano.

Così, anche la probabilità di un’escalation delle tensioni e di un avanzare delle violenze fino al livello di quello che finora era il confine relativamente tranquillo delle alture del Golan aumenta, nonostante il fatto che la maggioranza delle parti in gioco non abbia alcun interesse a peggiorare la situazione al confine ed a provocare uno scontro militare.

Di fatto, l’ipotesi che emerge dalle fonti militari israeliane, dopo uno scambio di messaggi con la Russia, è che una guerra tra Israele e la Siria non sia all’orizzonte, malgrado le recenti tensioni.

Non è certamente interesse di Assad trascinare nel conflitto le potenti forze israeliane.

Yossi Melman è un opinionista specializzato nella sicurezza e nell’informazione israeliana. E’ co-autore di ‘Spies against Armageddon’.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono solo all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Traduzione di Cristiana Cavagna




Il Brasile rifiuta il colono della Cisgiordania come ambasciatore israeliano

Fonti ufficiali israeliane sostengono che le relazioni diplomatiche saranno compromesse se il Brasile non riconosce Dani Dayan come prossimo ambasciatore a Brasilia

Redazione di MEE

 

Il Brasile avrebbe respinto la nomina da parte di Israele di un colono come suo prossimo ambasciatore, con un’iniziativa che secondo Israele danneggerà le relazioni diplomatiche tra i due Paesi.

Dani Dayan, un 60enne che vive nella colonia di Ma’ale Shomron in Cisgiordania, è stato nominato in agosto come nuovo ambasciatore israeliano a Brasilia.

Tuttavia il Brasile deve ancora approvare la nomina del diplomatico, nato in Argentina, in seguito a pressioni in Brasile contro la sua nomina e proteste rivolte alla presidentessa Dilma Rousseff a proposito di Dayan.

La nomina ad ambasciatore deve essere approvata dalla nazione ospite – un procedimento noto come “gradimento”. Però, se nessuna approvazione viene espressa entro due mesi, si intende che la scelta non è stata accettata. .

Dayan è stato un membro autorevole del Yesha Council, un insieme di organizzazioni di coloni ebrei in Cisgiordania, e gli attivisti brasiliani temono che l’approvazione della sua scelta potrebbe essere vista come un appoggio alle colonie israeliane, che in base alle leggi internazionali sono illegali.

La scorsa settimana, quando il precedente ambasciatore israeliano Reda Mansour ha lasciato Brasilia, una fonte ufficiale brasiliana ha detto a “The Times of Israel” [giornale on line israeliano indipendente. Ndtr.] che il governo non avrebbe risposto alla nomina di Dayan e invece avrebbe aspettato che il governo israeliano capisse l’antifona.

Tuttavia la viceministro degli esteri Tzipi Hotovely ha detto ai media israeliani che i rapporti si sarebbero inaspriti se Dayan non fosse stato accettato da Brasilia.

“Lo Stato di Israele declasserà i rapporti diplomatici con il Brasile a un livello secondario se la nomina di Dani Dayan non sarà confermata,” ha detto Hotovely alla rete televisiva israeliana Channel 10.

In una recente intervista con Haaretz, Dayan ha accusato il governo israeliano di starsene con le mani in mano invece di fare pressione sul governo brasiliano perché accetti la sua nomina.

“Io non so se sarò ambasciatore in Brasile e personalmente non mi importa molto,” ha affermato Dayan. “Mi renderebbe le cose ancora più semplici, ma sto lottando per il prossimo ambasciatore che è un colono.”

“La risposta israeliana all’attuale situazione determinerà come verrà designato il Paese ospite del prossimo ambasciatore proveniente da Giudea e Samaria (la Cisgiordania) o, non sia mai, creerà una situazione per cui centinaia di migliaia di israeliani saranno esclusi dallo svolgere il ruolo di ambasciatori a causa del loro luogo di residenza e che Israele vi si adegui.”

I rapporti tra il Brasile ed Israele hanno conosciuto un costante declino negli ultimi anni. Nel 2010 il Brasile ha riconosciuto la Palestina come Stato sovrano entro i confini del 1967, facendo infuriare Israele.

Nello stesso anno l’ex-presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva ha stretto rapporti con l’Iran, nemico di Israele, andando in visita a Teheran nel maggio di quell’anno.

Durante l’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza della scorsa estate [operazione “Margine Protettivo”. Ndtr.], durante la quale più di duemila palestinesi sono stati uccisi, il Brasile ha richiamato il proprio ambasciatore da Israele e ha condannato “l’uso sproporzionato della forza da parte di Israele che ha provocato un grande numero di vittime civili, compresi donne e bambini.”

Il governo israeliano ha contrattaccato definendo il Brasile un “nano diplomatico” che crea “problemi” piuttosto che “contribuire alle soluzioni”.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Guerre per l’energia in Medio Oriente

Michael SchwartzMEE

Giovedì 26 febbraio 2015

In termini energetici, Israele è sempre più disperato. Abbiamo di fronte la possibilità di guerre più vaste per il gas, con le distruzioni che probabilmente comporteranno.

 

Come il gas naturale di Gaza è diventato l’epicentro di una lotta internazionale per le risorse energetiche

Indovinate un po’? Praticamente tutte le guerre, insurrezioni e altri conflitti in Medio Oriente sono legati da un unico filo, che è anche una minaccia: questi conflitti sono parte di una sempre più frenetica competizione per trovare, estrarre e commercializzare combustibili fossili il cui successivo consumo sicuramente porterà ad una serie di catastrofiche crisi ambientali.

Tra i vari conflitti legati alle fonti energetiche fossili nella regione uno di questi, pieno di minacce, piccole o grandi, è stato largamente trascurato, e Israele ne è l’epicentro. Le sue origini si possono far risalire ai primi anni ’90, quando i leader israeliani e palestinesi hanno iniziato ad confrontarsi su supposti depositi di gas naturale nel Mediterraneo lungo le coste di Gaza. Nei decenni successivi questo è diventato un conflitto su più fronti che ha coinvolto vari eserciti e tre flotte. Nel frattempo ha già inflitto incredibili sofferenze a decine di migliaia di palestinesi e minaccia di aggiungere nuovi livelli di miseria alle vite di persone in Siria, Libano e Cipro. Forse potrebbe impoverire persino gli israeliani.

Le guerre per le risorse, ovviamente, non sono niente di nuovo. Di fatto tutta la storia del colonialismo occidentale e della globalizzazione successiva alla Seconda guerra mondiale è stata animata dallo sforzo di trovare e commercializzare le materie prime necessarie a costruire o conservare il capitalismo industriale. Ciò comprende anche l’espansione di Israele nei territori palestinesi, e la loro appropriazione. Ma le risorse energetiche sono diventate centrali nelle relazioni israelo-palestinesi solo negli anni ’90, e questo conflitto, inizialmente circoscritto, solo dopo il 2010 si è esteso, includendo la Siria, il Libano, Cipro, la Turchia e la Russia.

 

La storia avvelenata del gas naturale di Gaza

Nel lontano1993, quando Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) firmarono gli accordi di Oslo che si pensava avrebbero posto fine all’occupazione israeliana di Gaza e della Cisgiordania e creato uno Stato sovrano, nessuno aveva prestato molta attenzione alla linea costiera di Gaza. Di conseguenza Israele accettò che la neonata ANP controllasse totalmente le sue acque territoriali, anche se la flotta israeliana stava ancora pattugliando la zona. Le voci di depositi di gas naturale su quella costa non interessavano molto a nessuno, perché allora i prezzi erano molto bassi e le riserve molto abbondanti. Non c’è dunque da stupirsi che i palestinesi se la siano presa comoda per reclutare la società British Gas (BG) – una delle principali attori globali nella ricerca di gas naturale – perché scoprisse cosa ci fosse davvero lì. Solo nel 2000 le due parti siglarono un modesto contratto per sfruttare quei giacimenti, che a quel punto erano stati effettivamente trovati.

BG promise di finanziare e gestire il loro sfruttamento, sostenere tutti i costi e di far funzionare i relativi impianti in cambio del 90% dei profitti, un accordo “di condivisione dei proventi”, esoso ma usuale. Avendo un’industria del gas naturale già in funzione, l’Egitto accettò di diventare il punto di smistamento e di transito del gas sulla terraferma. I palestinesi avrebbero ricevuto il 10% dei profitti (stimati in circa un miliardo di dollari in totale) e avrebbero avuto l’accesso garantito al gas sufficiente a coprire le loro necessità.

Se questo processo fosse stato un poco più rapido, il contratto sarebbe stato messo in pratica come descritto. Tuttavia nel 2000, con un’economia in rapida espansione, con carenza di combustibili fossili e in pessime relazioni con i suoi vicini ricchi di petrolio, Israele si trovò a dover affrontare la mancanza cronica di energia. Invece di cercare di rispondere a questo problema con un aggressivo ma fattibile sforzo di sviluppare fonti di energie rinnovabili, il primo ministro Ehud Barak diede inizio all’era dei conflitti per i combustibili fossili del Mediterraneo orientale. Egli portò al controllo navale di Israele sulle acque territoriali di Gaza per opporsi e bloccare l’accordo con BG. Chiese invece che Israele, e non l’Egitto, ricevesse il gas di Gaza e che controllasse tutti i proventi destinati ai palestinesi – per evitare che i soldi fossero usati per “finanziare il terrorismo.”

Con questo, gli accordi di Oslo erano ufficialmente destinati al fallimento. Dichiarando inaccettabile il controllo sui profitti del gas da parte di palestinesi, il governo israeliano si impegnò a non consentire la benché minima forma di autonomia finanziaria dei palestinesi, per non parlare della piena sovranità. Poiché nessun governo o organizzazione palestinese lo avrebbe potuto accettare, un futuro pieno di conflitti armati era assicurato.

Il veto israeliano portò all’intervento del primo ministro inglese Tony Blair, che cercò di fare da mediatore per un accordo che soddisfacesse sia il governo israeliano che l’Autorità Nazionale Palestinese. Risultato: una proposta del 2007 che avrebbe portato il gas in Israele, e non in Egitto, a prezzi inferiori a quelli di mercato, con un taglio dello stesso 10% dei proventi eventualmente destinato all’ANP. Comunque questi fondi sarebbero stati prima versati alla banca della Federal Reserve a New York per una futura devoluzione, garantendo che non sarebbero stati utilizzati per attacchi contro Israele.

Questo accordo non aveva ancora soddisfatto gli israeliani, che denunciarono la recente vittoria di Hamas, un partito di miliziani, nelle elezioni a Gaza come una rottura dei patti. Benché Hamas avesse accettato la supervisione della Federal reserve sull’uso di quei soldi, il governo israeliano, ora guidato da Ehud Olmert, insistette affinché “nessun diritto di estrazione venisse pagato ai palestinesi.” Invece gli israeliani avrebbero fornito l’equivalente di quei proventi “in beni e servizi.”

Ciò venne rifiutato dal governo palestinese. Poco dopo Olmert impose un blocco totale a Gaza, che il ministro della Difesa israeliano definì una forma di “guerra economica che potrebbe determinare una crisi politica, portando a un’insurrezione popolare contro Hamas.” Con la collaborazione dell’Egitto, a quel punto Israele prese il controllo di tutti i traffici commerciali dentro e fuori Gaza, limitando gravemente persino l’importazione di alimenti e distruggendo la sua industria della pesca. Come ha sintetizzato il consigliere di Olmert Dov Weisglass, il governo israeliano stava “mettendo a dieta” i palestinesi (cosa che, secondo la Croce Rossa, provocò rapidamente “malnutrizione cronica”, soprattutto tra i bambini di Gaza).

Quando i palestinesi rifiutarono di nuovo le condizioni di Israele, il governo Olmert decise di estrarre il gas in modo unilaterale, una cosa che, credevano, sarebbe stata possibile solo una volta che Hamas fosse stato rimosso dal potere o disarmato. Come ha spiegato l’ex comandante in capo dell’esercito israeliano e attuale ministro degli Esteri Moshe Ya’alon, “Hamas… ha dimostrato la sua capacità di bombardare le installazioni strategiche di gas ed elettricità di Israele…E’ chiaro che, senza un’operazione militare complessiva per estirpare il controllo di Hamas su Gaza, nessuna attività di perforazione può essere effettuata senza il consenso del partito radicale islamista.”

In base a questa logica, nell’inverno del 2008 venne lanciata l’operazione “Piombo fuso”. Secondo il deputato del ministero della Difesa Matan Vilnai, si intendeva sottoporre Gaza a una “shoah” (la parola ebraica per olocausto o disastro). Yoav Galant, il comandante in capo dell’operazione, affermò che era destinata a “far tornare indietro Gaza di decenni.” Come ha spiegato il parlamentare israeliano Tzachi Hanegbi, lo specifico obiettivo militare era “rovesciare il regime terroristico di Hamas e occupare tutte le zone da cui vengono sparati razzi contro Israele.”

L’operazione “Piombo fuso” ha effettivamente “fatto tornare indietro Gaza di decenni.” Amnesty International ha riferito che durante i 22 giorni dell’offensiva 1.400 palestinesi sono stati uccisi “compresi circa 300 bambini e centinaia di altri civili disarmati, e vaste aree di Gaza sono state rase al suolo, lasciando molte migliaia di senzatetto e la già disastrosa economia [di Gaza] in rovina.” L’unico problema è stato che l’operazione “Piombo fuso” non ha raggiunto il suo obiettivo di “trasferire la sovranità sui giacimenti di gas a Israele.”

 

Più fonti di gas uguale più fonti di guerra

Nel 2009 il neoeletto governo del primo ministro Benjamin Netanyahu ha ereditato la situazione di stallo riguardo ai depositi di gas di Gaza e una crisi energetica israeliana che è diventata ancora più seria quando la Primavera Araba in Egitto ha interrotto e poi cancellato del tutto il 40% delle forniture di gas al Paese. L’aumento del prezzo dell’energia ha presto contribuito a determinare le più vaste proteste da parte di ebrei israeliani da decenni.

Quando ciò è accaduto, tuttavia, il regime di Netanyahu aveva ereditato anche una soluzione potenzialmente permanente del problema. Un immenso campo di gas naturale estraibile è stato scoperto nel Bacino Levantino, una grande formazione sottomarina nella parte orientale del Mediterraneo. Fonti ufficiali israeliane hanno immediatamente affermato che la “maggior parte” delle nuove riserve di gas scoperte si trovano “all’interno del territorio israeliano”. Così facendo hanno ignorato le asserzioni contrarie da parte di Libano, Siria, Cipro e dei palestinesi.

In altre parole, questo immenso giacimento di gas avrebbe potuto essere effettivamente sfruttato insieme dai cinque contendenti e un piano di produzione avrebbe potuto essere messo in atto per migliorare l’impatto ambientale del rilascio nel futuro di oltre 3 miliardi di metri cubi di gas nell’atmosfera del pianeta. Tuttavia, come ha osservato Pierre Terzian, direttore del giornale industriale Petrostrategie, “tutti i fattori di rischio sono presenti…Questa è una regione in cui è frequente fare ricorso ad azioni violente.”

Nei tre anni che hanno fatto seguito alla scoperta, l’avvertimento di Terzian è sembrato ancora più preveggente. Il Libano è diventato il primo punto caldo. All’inizio del 2011 il governo israeliano ha annunciato lo sfruttamento unilaterale di due campi, circa il 10% del Bacino Levantino di gas, che si trova nelle acque territoriali contese vicino al confine tra Israele e Libano. Il ministro dell’Energia libanese Gebran Bassil ha immediatamente minacciato uno scontro militare, affermando che il suo Paese non avrebbe “permesso a Israele o a qualunque compagnia che lavori per gli interessi israeliani di prendere una qualunque quantità del nostro gas che si trova nella nostra zona.” Hezbollah, la più agguerrita fazione politica in Libano, ha promesso attacchi con i razzi se “un solo metro” di gas naturale fosse stato estratto dai campi contesi.

Il ministro israeliano delle Risorse ha accettato la sfida, sostenendo che “queste aree sono all’interno delle acque commerciali di Israele…Non esiteremo ad usare la nostra forza e la nostra potenza per proteggere non solo il principio di legalità, ma anche il diritto marittimo internazionale.”

Terzian, giornalista esperto nel settore petrolifero, ha proposto questa analisi della realtà dello scontro:

In concreto….nessuno è disposto ad investire con il Libano in acque contese. Non ci sono compagnie petrolifere libanesi in grado di fare le trivellazioni e non c’è una forza militare in grado di proteggerle. Ma dall’altra parte le cose sono diverse. Ci sono compagnie israeliane in grado di operare in mare, e potrebbero assumersi il rischio sotto la protezione dell’esercito israeliano.”

Sufficientemente sicuro, Israele ha continuato ad esplorare i fondali e a trivellare nei due campi contesi, schierando droni per controllare gli impianti. Nel frattempo il governo Netanyahu ha investito ingenti risorse per prepararsi ad un possibile conflitto futuro nella zona. Ad esempio, con un generoso finanziamento americano, ha sviluppato il sistema di difesa antimissilistico “Iron Dome”, destinato anche ad intercettare i razzi di Hezbollah ed Hamas diretti contro gli impianti energetici israeliani. Infine, a partire dal 2011 ha lanciato attacchi aerei in Siria con lo scopo, secondo fonti ufficiali USA, “di prevenire ogni spostamento di sistemi antiaerei avanzati, missili terra-terra e terra-mare “ ad Hezbollah.

Tuttavia Hezbollah ha continuato ad accumulare razzi in grado di demolire gli impianti israeliani, e nel 2013 il Libano ha fatto un passo autonomo. Ha iniziato a negoziare con la Russia. L’obiettivo era di avere a disposizione le compagnie del gas di quel Paese per sostenere le rivendicazioni libanesi sulle acque territoriali, mentre la potente marina militare russa avrebbe potuto dare una mano nella “disputa territoriale di lunga durata con Israele.”

Dall’inizio del 2015 è sembrato che si sia stabilita una situazione di deterrenza mutua. Benché Israele sia riuscito a far funzionare il più piccolo dei due campi che ha iniziato a sfruttare, la perforazione nel più grande è bloccata a tempo indefinito “alla luce della situazione della sicurezza”. I contrattisti americani di Noble Energy, incaricati da Israele, non hanno intenzione di investire i 6 miliardi di dollari necessari in infrastrutture che potrebbero essere sottoposte ad attacchi da parte di Hezbollah e potenzialmente nel mirino della flotta russa. Da parte libanese, nonostante la crescente presenza navale russa nella regione, nessuna attività è iniziata.

Nel frattempo in Siria, dove la violenza si è estesa ed il Paese si trova uno stato di collasso armato, si è concretizzata un’altra situazione di stallo. Il regime di Bashar al Assad, di fronte alla feroce minaccia da parte di vari gruppi jihadisti, è sopravvissuto in parte grazie al massiccio aiuto militare della Russia, concordato in cambio di un contratto di 25 anni per lo sfruttamento del giacimento di gas Levantino rivendicato dalla Siria. Nell’accordo è compresa una notevole espansione della base militare russa nella città portuale di Tartus, che garantirebbe una presenza navale russa molto maggiore nel Bacino Levantino.

Mentre la presenza russa ha apparentemente dissuaso gli israeliani dal tentativo di sfruttare qualunque giacimento di gas reclamato dalla Siria, non c’è una presenza russa nella Siria vera e propria. Così Israele ha contrattato la Genie Energy Corporation statunitense perché individuasse e sfruttasse giacimenti di petrolio nelle Alture del Golan, territorio siriano occupato dagli israeliani dal 1967. Per far fronte alla possibile violazione delle leggi internazionali, il governo Netanyahu ha invocato, come giustificazione dei suoi atti, una sentenza della corte israeliana in base alla quale lo sfruttamento di risorse naturali nei territori occupati è legale. Allo stesso tempo, per prepararsi all’inevitabile conflitto con qualunque fazione o insieme di fazioni esca vittoriosa dalla guerra civile siriana, ha iniziato a incrementare la presenza militare israeliana sulle Alture del Golan.

E poi c’è Cipro, l’unico Paese che rivendica diritti sul Levantino che non sia in guerra con Israele. I greco-ciprioti sono stati per molto tempo in conflitto permanente con i turco-ciprioti, per cui non è sorprendente che la scoperta del gas naturale Levantino abbia scatenato sull’isola tre anni di negoziati su cosa fare, arrivati ad un punto morto. Nel 2014 i greco-ciprioti hanno firmato un contratto di sfruttamento con Noble Energy, il principale contrattista di Israele. I turco-ciprioti hanno fatto un’altra mossa, firmando un contratto con la Turchia per lo sfruttamento di tutti i campi reclamati dai ciprioti “fino alle acque territoriali egiziane.” Imitando Israele e la Russia, il governo turco ha subito spostato tre navi da guerra nella zona per bloccare fisicamente qualunque intervento da parte di altri pretendenti.

Di conseguenza, quattro anni di manovre riguardo ai nuovi giacimenti scoperti nel Bacino Levantino hanno prodotto poca energia, ma hanno coinvolto nuovi e potenti pretendenti nella mischia, lanciando una significativa escalation militare nella regione e hanno incrementato in modo incommensurabile le tensioni.

 

Gaza, ancora e ancora

Ricordate il sistema “Iron Dome”, sviluppato anche per bloccare i razzi di Hezbollah diretti contro i campi di gas di Israele al nord? Nel corso del tempo è stato installato sul confine con Gaza per bloccare i razzi di Hamas ed è stato testato durante l’operazione “Eco di ritorno”, il quarto tentativo militare israeliano di riportare all’ordine Hamas ed eliminare qualunque “capacità palestinese di bombardare le installazioni strategiche di gas ed elettricità di Israele.”

L’operazione, lanciata nel marzo 2012, ha replicato su scala ridotta le devastazioni dell’operazione “Piombo fuso”, mentre “Iron Dome” ha raggiunto la percentuale del 90% di razzi di Hamas eliminati. Neppure questo, tuttavia, pur essendosi dimostrato un’utile appendice all’esteso sistema di sicurezza per i civili israeliani, è stato sufficiente a garantire la protezione degli impianti estrattivi del Paese esposti agli attacchi. Anche un solo colpo diretto lì potrebbe danneggiare o demolire strutture così fragili e infiammabili.

Il fallimento dell’operazione “Eco di ritorno” per mettere tutto posto ha dato il via a un’altra serie di negoziati, che ancora una volta si sono arenati sul rifiuto palestinese della richiesta israeliana di controllare tutto il combustibile e gli introiti destinati a Gaza e alla Cisgiordania. Allora il nuovo governo di unità palestinese ha seguito l’esempio di libanesi, siriani e turco-ciprioti e alla fine del 2013 ha firmato una “concessione di sfruttamento” con Gazprom, l’enorme compagnia russa di gas naturale. Come con il Libano e la Siria, la flotta russa si è profilata sull’orizzonte come un potenziale deterrente contro l’intromissione di Israele.

Nel frattempo, nel 2013, una nuova serie di blackout energetici ha provocato “caos” in Israele, scatenando un drastico aumento del 47% nel prezzo dell’elettricità. In risposta il governo di Netanyahu ha preso in considerazione la proposta di iniziare l’estrazione sul proprio territorio di petrolio dallo scisto argilloso [shale oil], ma il rischio di inquinamento delle falde acquifere ha provocato un movimento di rifiuto violento che ha frustrato questo tentativo. In un Paese pieno di nuove imprese nel campo delle tecnologie avanzate lo sfruttamento di fonti di energia rinnovabile non ha ancora avuto una seria attenzione. Al contrario, ancora una volta il governo si è rivolto contro Gaza.

Avendo sullo sfondo la mossa di Gazprom di sfruttare i depositi di gas rivendicati dai palestinesi, gli israeliani hanno lanciato il loro quinto tentativo militare per obbligare i palestinesi a cedere, l’operazione “Margine protettivo”, con due obiettivi principali legati agli idrocarburi: scoraggiare i piani russo-palestinesi ed eliminare il sistema missilistico di Gaza. Il primo obiettivo è stato apparentemente raggiunto quando Gazprom ha rinviato (forse per sempre) il suo accordo di sfruttamento. Il secondo, tuttavia, è fallito quando i due attacchi sia da terra che dal cielo – nonostante le devastazioni senza precedenti a Gaza – non sono riusciti a distruggere le riserve di razzi di Hamas o il suo sistema sotterraneo di assemblaggio; né ”Iron Dome” è riuscito a raggiungere la percentuale di intercettazioni quasi totale necessaria a proteggere le strutture energetiche previste.

 

Senza fine

Dopo 25 anni e cinque tentativi militari israeliani falliti, il gas naturale di Gaza è ancora sotto la superficie del mare e, dopo quattro anni, lo stesso si può dire di quasi tutto il gas del Levantino. Ma le cose non sono rimaste le stesse. In termini energetici, Israele è sempre più disperato, proprio mentre ha ingrandito il proprio esercito, compresa la Marina, in modo significativo. Gli altri pretendenti hanno, a turno, trovato partner più grandi e potenti che li possono aiutare a rafforzare le proprie richieste economiche e militari. Indubbiamente tutto ciò significa che il primo quarto di secolo di crisi del gas naturale nel Mediterraneo orientale non è stato altro che un preludio. Ci troviamo davanti alla possibilità di più estese guerre per il gas, con tutte le devastazioni che probabilmente porteranno.

-Michael Schwartz, un eminente docente emerito di sociologia alla Stony Brook University, è l’autore di libri pluripremiati come “Protesta radicale e struttura sociale” e “ La struttura del potere nel mondo degli affari americano” (con Beth Mintz). Il suo libro sul sito TomDispatch [sito alternativo nordamericano], “Guerra senza fine”, è centrato su come la geopolitica militarizzata del petrolio ha portato gli USA a invadere e occupare l’Iraq.

Il suo indirizzo mail è Michael.Schwartz@stonybrook.edu.

(traduzione di Amedeo Rossi)