La salute mentale dei bambini di Gaza va di male in peggio

Maha Hussaini, Gaza

13 giugno 2023, MiddleEastEye 

Mentre gli attacchi israeliani aumentano di frequenza e intensità, un numero crescente di bambini palestinesi soffre di un “trauma continuo” non risolvibile a breve

Nel quarto giorno dell’aggressione israeliana del 2021 contro i palestinesi di Gaza il bombardamento è stato intenso.

Sperando di distrarre i suoi figli dal rumore costante dei bombardamenti, Sarah Ali* li ha messi a letto presto. Ma per Samer*, sette anni, il danno era già fatto.

“Due ore dopo si è svegliato ed è venuto da me piangendo”, ha detto Sarah a Middle East Eye. “Aveva bagnato il letto.”

Nato nel 2016, la breve vita di Samer è stata segnata dal blocco israeliano e dai ripetuti bombardamenti.

Ma l’assalto di 11 giorni nel maggio 2021 ha avuto l’effetto di gran lunga più drammatico sul suo benessere psicologico.

Da due anni bagna regolarmente il letto a causa dell’ansia e della paura di morire.

E proprio mentre sua madre pensava di fare progressi aiutandolo a superare l’ansia, il mese scorso Israele ha lanciato un’altra campagna di bombardamenti.

Eravamo riusciti ad affrontare l’argomento appena prima dell’ultima offensiva, ma durante questo attacco il problema si è ripresentato”, ha detto Sarah, aggiungendo che le condizioni si sono aggravate dopo i sei giorni dell’attacco.

Samer è uno delle centinaia di migliaia di minori palestinesi di Gaza che, secondo gli addetti sanitari, soffrono di “trauma continuo”.

La Striscia, sotto un blocco imposto da Israele dal 2006, ospita oltre due milioni di persone la metà delle quali sono minori.

In meno di 18 anni Israele ha lanciato nell’enclave circa 15 operazioni militari, uccidendo migliaia di persone.

Il blocco e gli attacchi hanno devastato le infrastrutture e l’economia e portato a una “crisi acuta della salute mentale” che sta colpendo la stragrande maggioranza dei bambini.

Traumi ricorrenti

Sarah dice che suo figlio ha perso fiducia in sé stesso dopo aver iniziato nel 2021 a bagnare il letto, cosa che gli causa vergogna e senso di colpa ogni volta che il problema si ripresenta.

“Cerco sempre di rassicurarlo e confortarlo dicendo che è del tutto normale e che non sono arrabbiata con lui, [eppure] si sente comunque triste e si scusa di continuo come se fosse colpa sua”, ha detto a MEE.

“So che non è colpa sua e sono consapevole che questo è il risultato del trauma che sta vivendo”.

I genitori di Samer lo hanno portato da uno psicologo pochi mesi dopo l’attacco del 2021 e stanno valutando la possibilità di tornarci presto.

Secondo una ricerca di Save the Children pubblicata nel 2022, quasi l’80% dei genitori e degli operatori sanitari a Gaza ha riscontrato un aumento dell’enuresi notturna tra i propri figli.

Un ulteriore 78% ha riferito che i propri figli raramente concludono i compiti e il 59% ha affermato che i propri figli hanno difficoltà nel parlare, nel linguaggio e nella comunicazione.

Per la ricerca la ONG ha intervistato 488 bambini e 168 genitori e operatori scolastici, per aggiornare una ricerca simile del 2018.

È emerso che la salute mentale di bambini, giovani e tutori si è deteriorata drasticamente, con un aumento dal 55% all’80% del numero di minori che riferiscono un disagio emotivo.

“Ciò di cui soffrono i bambini di Gaza supera il disturbo da stress post-traumatico”, ha detto a MEE Ayed Abu Eqtaish, direttore del programma di responsabilizzazione presso Defence for Children International.

Ha aggiunto che la capacità dei bambini di vivere serenamente è stata minata dai ripetuti attacchi israeliani, dal blocco e dalla violenta repressione delle proteste pacifiche della “marcia del ritorno” del 2018.

“Mina il loro diritto alla salute, all’istruzione, a uno standard di vita adeguato e, cosa più importante, il loro diritto a essere liberi dalla paura”.

Durante l’assalto del 2021, Israele ha ucciso 256 palestinesi, inclusi 66 minori. I razzi palestinesi hanno ucciso 13 persone in Israele, tra cui due minori.

Tra i palestinesi uccisi c’erano 11 minori di età compresa tra i 5 e i 15 anni che prima della campagna militare erano in cura per trauma presso il Comitato Norvegese per i Rifugiati.

Un altro giro di bombardamenti nell’agosto 2022 ha provocato la morte di 49 palestinesi tra cui 17 minori, il più giovane di quattro anni.

Circa otto mesi dopo è stata lanciata un’altra offensiva che ha ucciso 33 palestinesi, di cui sette minori. I razzi palestinesi hanno ucciso un israeliano.

Durante l’attacco del 2021, il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha descritto la vita dei bambini palestinesi a Gaza come “un inferno in terra”.

Non voglio sentire la parola ‘guerra’”

Joudi al-Samna, che fa la quinta elementare e soffre di disturbo da stress post-traumatico, gestisce bene le sue emozioni finché non sente la parola “guerra”.

Quando viene pronunciata vicino a lei da un genitore o da uno zio che discutono le notizie, smette immediatamente di ascoltare.

“Mi copro le orecchie con le mani e li prego di smetterla di parlarne”, ha detto l’undicenne residente a Gaza City.

“Dico ‘per favore cambiate argomento, per favore, mamma fagli cambiare argomento, non c’è nessuna guerra’”, aggiunge.

“Non importa se c’è una guerra o no, non voglio sentire la parola guerra, la odio”.

Samna ha crisi di panico quando sente dei rumori forti e cerca di essere costantemente vicino ai suoi genitori e fratelli.

“Durante l’ultima guerra a Gaza sono rimasta accanto a mia madre e mio padre quasi tutto il tempo. I miei due fratelli e i cugini andavano ogni giorno a giocare in giardino, ma io mi rifiutavo di andare con loro”, ha detto a MEE.

“Ma quando i miei genitori scendevano andavo con loro. Ho sempre paura che ci siano bombardamenti mentre sono lontano da loro”.

Durante i 51 giorni di attacco israeliano a Gaza a luglio e agosto 2014, Samna aveva due anni.

Ma Wejdan Ghannam, sua madre, afferma che il trauma di sua figlia è iniziato durante l’attacco del 2021.

Sebbene all’epoca avesse solo nove anni, Ghannam ha affermato che era ben consapevole di ciò che stava accadendo e che aveva “moltissima” paura per la sua vita e la sua famiglia.

“Faccio del mio meglio durante le offensive per distrarre l’attenzione dei miei figli dai rumori dei bombardamenti. Ogni volta che inizia un attacco porto loro libri da colorare e giocattoli. Faccio quasi tutto ciò che vogliono per tenerli occupati”, ha spiegato Ghannam.

“Ma quando il bombardamento è vicino non funziona. Lasciano semplicemente tutto e vengono da me piangendo. Joudi a volte si rannicchia sulle mie ginocchia finché non si addormenta.

“Sempre, qualunque cosa accada, la regola in casa nostra è di non menzionare mai le parole guerra, aggressione o bombardamento”.

Sicurezza “inesistente”

L’entità del danno psicologico che accusano i bambini di Gaza si fa sentire maggiormente durante gli attacchi israeliani.

Durante l’attacco del mese scorso, genitori e insegnanti a Gaza hanno condiviso disegni e conversazioni con i loro figli e studenti che esprimevano il loro shock e la loro angoscia mentre piovevano le bombe israeliane.

Maram Azzam ha pubblicato un disegno sulla lavagna di sua figlia Sham, una ragazza con degli scarabocchi sopra la testa.

“Sham ha disegnato questo e mi ha detto: ‘Ecco come [si sente] la mia testa coi rumori degli aerei” – così recita la didascalia che Azzam ha messo alla foto su Twitter.

Eman Basher, insegnante di inglese presso una scuola dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e il Lavoro (UNRWA) a Gaza, ha condiviso schermate di conversazioni con i suoi studenti che parlano della loro paura dei bombardamenti.

“Non dormiamo la notte per la paura, e se dormiamo è possibile che non ci svegliamo più”, ha scritto uno studente. “Per me non è ok. Il bombardamento era vicino a casa nostra. Non potevamo fuggire”, ha detto un altro.

In un’altra conversazione, Basher chiede al suo studente: “Chi sta sanguinando?” La ragazza risponde: “Il fratello di Malak, mio compagno di classe. La loro casa è piena di fumo per via del missile”.

E ancora un tweet di Yaser Abu Odeh il primo giorno dell’attacco di maggio diceva: “Mio figlio di dieci anni indossa abiti di Eid [una popolare marca di abiti, ndt.] e ripete ‘godiamoceli prima di essere martirizzati’. Mia figlia ha dodici anni e sta cercando di spendere tutti i suoi soldi; dice: ‘saremo martirizzati, a chi dovremmo lasciarli?'”

Secondo lo psichiatra di Gaza Sami Oweida, un trauma è causato da un evento inaspettato che va oltre l’esperienza della persona e che minaccia la sua vita.

Una volta causato, può portare a squilibri emotivi, cognitivi e comportamentali.

Ma per i bambini di Gaza, ciò di cui soffrono “non è un disturbo da stress post-traumatico, ma un trauma continuo”, ha affermato.

“Abbiamo shock continui che esauriscono le capacità difensive di qualsiasi essere umano”.

Oweda ha detto a MEE che la maggior parte dei bambini che frequentano la sua clinica arrivano dopo gli attacchi israeliani, qualcuno mesi dopo e altri che aspettano fino a due anni.

Il lasso di tempo dipende dalla capacità di ogni bambino di adattarsi e resistere ai sintomi all’indomani di ogni attacco.

“Chi alla fine fallisce, viene da noi”, ha detto il consulente in psichiatria infantile e adolescenziale.

“La maggior parte dei bambini inizia a mostrare reazioni anormali tra cui enuresi notturna, fonofobia [paura del suono], paura dell’oscurità, paura della morte, isolamento, insonnia, anoressia, pianto durante il sonno ecc.”, ha aggiunto.

“Simili traumi possono danneggiare i bambini emotivamente, psicologicamente e biologicamente e ostacolare il loro naturale sviluppo “.

Oweida ha affermato che non esiste una fascia di età specifica di minori che visitano la sua clinica a causa di traumi legati alla guerra, ma gli scolari in generale hanno maggiori probabilità di soffrire di traumi a causa della loro consapevolezza del concetto di bombardamento e morte.

“Il bisogno fondamentale di ogni bambino dopo cibo e acqua è sentirsi al sicuro”, ha spiegato. “La sicurezza a Gaza non esiste”.

* Nomi inventati per proteggere la privacy delle famiglie

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




La definizione di antisemitismo dell’IHRA “reprime il sostegno ai palestinesi in Europa”

Areeb Ullah

6 giugno 2023 – Middle East Eye

Uno studio dell’European Legal Support Centre ha scoperto che le persone di colore e gli ebrei che appoggiano la Palestina sono stati colpiti in modo sproporzionato da una definizione “errata”.

Un’organizzazione europea per i diritti umani ha denunciato che la definizione operativa di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto, organizzazione intergovernativa cui aderiscono 34 Paesi, per lo più europei, ndt.] (IHRA) ha avuto un impatto sproporzionato sulle persone di colore e sugli ebrei che appoggiano la Palestina, facendo sì che alcuni perdessero il lavoro oppure affrontassero la censura o azioni giudiziarie per presunti reati.

Basandosi su 53 casi in Austria, Germania e Regno Unito, l’European Legal Support Centre [Centro Europeo per il Sostegno Legale, che si occupa di appoggiare i gruppi filopalestinesi in Europa, ndt.] (ELSC) afferma che tutti e tre i Paesi hanno applicato la discussa definizione “come se fosse una legge”, nonostante essa sia definita come “non giuridicamente vincolante”.

L’ELSC critica anche la Commissione Europea per aver ignorato le crescenti preoccupazioni riguardo alla definizione.

In seguito alla pubblicazione martedì di un rapporto intitolato Suppressing Palestinian Rights Advocacy through the IHRA Working Definition of Antisemitism [Repressione del sostegno ai diritti dei palestinesi attraverso la definizione operativa di antisemitismo dell’IHRA], l’ELSC afferma in un comunicato che “tutti gli imputati sono stati presi di mira per il sostegno ai palestinesi e la denuncia delle prassi e delle politiche israeliane e/o per le critiche al sionismo come ideologia politica”.  

Quando sono state portate in tribunale, la maggior parte di queste accuse di antisemitismo sono state respinte in quanto senza fondamento.”

Il rapporto evidenzia casi di accademici, studenti e attivisti per i diritti dei palestinesi che sono stati penalizzati per aver espresso critiche a Israele.

Accuse di antisemitismo che fanno riferimento alla definizione operativa dell’IHRA nei casi documentati hanno colpito in modo assolutamente preponderante palestinesi, persone e organizzazioni ebraiche che sostengono i diritti dei palestinesi, suggerendo che la definizione dell’IHRA viene messa in pratica in modo discriminatorio,” segnala l’ELSC.

Sebbene la stragrande maggioranza dei ricorsi riguardanti la messa in pratica della definizione dell’IHRA abbia successo, le procedure disciplinari e le vertenze derivanti da false accuse di antisemitismo hanno prodotto un “effetto dissuasivo” sulla libertà di espressione e di riunione.”

L’ELSC afferma che tra le 53 persone intervistate per il rapporto 42 casi hanno preso di mira associazioni con “membri che sono di colore o individui che sono persone di colore, tra cui 19 palestinesi.

In 11 episodi sono stati presi di mira associazioni che si identificano come ebraiche o singoli ebrei, in particolare con opinioni antisioniste o simpatie nei confronti della lotta dei palestinesi per i diritti umani. Tutti i singoli individui e i gruppi che sono stati colpiti in questi episodi hanno manifestato simpatia per i diritti umani dei palestinesi,” nota l’ELSC.

Questi dati mostrano una potenziale discriminazione nel modo in cui la definizione dell’IHRA viene messa in pratica, suggerendo che i palestinesi e i loro alleati, ebrei, persone di colore o altri, sono i principali obiettivi di quanti utilizzano la definizione dell’IHRA per delegittimarli, calunniarli o sanzionarli.”

Aggiunge che alcuni dei partecipanti [alla ricerca] hanno perso offerte di lavoro o l’impiego e alcuni sono stati citati in giudizio da governi locali perché avrebbero violato la definizione dell’IHRA.

Eventi studenteschi legati all’Israeli Apartheid Week [Settimana contro l’Apartheid Israeliano] sono stati annullati per presunte violazioni della definizione dell’IHRA, compresa la conferenza di un sopravvissuto all’Olocausto presso l’università di Manchester.

La politica della Commissione Europea “dannosa per i diritti fondamentali”

Giovanni Fassina, direttore dell’ELSC, ha denunciato la Commissione Europea che ha promosso la definizione dell’IHRA attraverso un manuale sull’antisemitismo del 2021, affermando che l’ente ha “sistematicamente ignorato e respinto le crescenti preoccupazioni riguardo ai diritti umani relativi alla definizione dell’IHRA e non ha preso misure per impedire ogni suo impatto negativo su diritti fondamentali.

È tempo che la Commissione Europea riconosca e prenda in considerazione il fatto che la politica che ha promosso e implementato sulla base della definizione dell’IHRA, sia a livello di Unione Europea che di Stati membri, è estremamente dannosa per i diritti fondamentali e sta promuovendo il razzismo antipalestinese,” afferma Fassina in un comunicato.

La definizione dell’IHRA è stata formulata nel 2004 dall’esperto di antisemitismo Kenneth Stern in collaborazione con altri accademici per l’American Jewish Committee, un’organizzazione a favore degli ebrei fondata all’inizio del XX secolo e con sede a New York.

Stern ha affermato di aver formulato la definizione specificamente per ricercatori europei in modo da aiutarli a monitorare l’antisemitismo.

Ma chi la critica afferma che alcuni degli esempi che l’accompagnano confondono l’antisemitismo con l’antisionismo, o la critica a politiche del passato o attuali che portarono alla creazione dello Stato di Israele nel 1948, all’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi dalle proprie case nell’attuale Israele e alle continue violazioni dei diritti umani contro i palestinesi e l’occupazione delle terre palestinesi da parte di Israele.

Il Regno Unito è stato il primo Paese europeo ad adottare la definizione dell’IHRA nel 2016, seguito dall’Austria nell’aprile 2017. Nel settembre 2017 il governo federale tedesco, allora una coalizione tra i conservatori della CDU-CSU e i socialdemocratici della SPD, appoggiò la definizione dell’IHRA per decisione del consiglio dei ministri. Anche istituzioni locali e organizzazioni associative hanno adottato o votato per adottare in modo indipendente la definizione dell’IHRA.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Proposta di legge israeliana per impedire ai cittadini palestinesi di vivere in ‘zone ebraiche’

Elis Gjievori

6 giugno 2023 – Middle East Eye

Associazioni per i diritti umani si sono impegnate a combattere contro la proposta di legge che vedrebbe molte altre città israeliane impedire ai palestinesi di comprare o affittare appartamenti

Il governo israeliano propone una legge per “ebraizzare” la Galilea, una regione nel nord di Israele con una considerevole popolazione palestinese. 

La mossa fa parte di un accordo concluso lo scorso anno per formare il nuovo governo israeliano con i politici di estrema destra Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir, che vogliono espandere la colonizzazione ebraica nella regione.

In quanto parte del piano per “salvare la colonizzazione ebraica in Galilea,” il primo ministro Benjamin Netanyahu progetta di rafforzare significativamente la controversa legge del 2011 che darebbe a piccole comunità il potere di esaminare (e scartare) i potenziali nuovi arrivati.

Quando la legge fu approvata lo scopo era di aggirare una sentenza della Corte Suprema che proibisce alle comunità residenziali di affittare le terre solo ad ebrei.

Suhad Bishara di Adalah, il Centro legale per i diritti della minoranza araba in Israele, sostiene che le leggi danno “una discrezionalità quasi completa” a queste piccole comunità di scegliere chi ci vive.

“In pratica questa disposizione è principalmente un mezzo per scartare i cittadini palestinesi e impedire loro di risiedere in queste comunità e costituisce un meccanismo giuridico per la segregazione residenziale in molte località dello Stato di Israele,” ha detto Bishara a Middle East Eye.

All’inizio di questo mese il ministro della Giustizia Yariv Levin [del partito di Netanyahu, il Likud, ndt.] ha detto che in Israele l’acquisto di case da parte di palestinesi in paesi e cittadine sta spingendo gli ebrei a andarsene da queste zone.

“Gli arabi comprono appartamenti in comunità ebraiche in Galilea e ciò costringe gli ebrei ad abbandonare queste città perché non sono disposti a vivere con gli arabi,” dice Levin.

Ora il governo israeliano “vuole espandere e rafforzare questo sistema,” dice Bishara.

Il governo si è impegnato ad aumentare il numero di città che possono selezionare i nuovi arrivati estendendolo da quelle con 400 nuclei familiari a quelle con un massimo di 1000.

L’estensione della legge è sostenuta anche da alcuni parlamentari dell’opposizione. La prima versione della legge, che avrebbe permesso a cittadine con un massimo di 600 case di esaminare chi vi si trasferisce è stata approvata dal governo precedente.

Ufficialmente la legge non permette ai comitati di accettazione di respingere candidati alla residenza per motivi di razza, religione, genere, nazionalità, disabilità, classe, età, parentela, orientamento sessuale, Paese di origine, opinioni o affiliazione a un partito politico.

Tuttavia il testo della legge del 2011 permette ai comitati di respingere candidati che essi ritengono “inadatti al tessuto sociale e culturale” della comunità.

Sfacciata violazione della legge per i diritti umani’

All’inizio di questo mese il governo israeliano ha anche discusso una nuova proposta per imporre “valori sionisti ” in politiche governative che i critici sostengono potrebbero permettere agli ebrei israeliani di ricevere un trattamento preferenziale nella definizione dei piani regolatori e nella costruzione di case.

Cittadini palestinesi di Israele che vivono nella regione del Negev (Naqab) hanno da tempo accusato il governo israeliano di tentare con varie tattiche di sradicarli.

Queste includono la confisca di terre ai palestinesi trasformando i proprietari in affittuari. Inoltre il governo israeliano è stato accusato di impedire l’espansione dei villaggi palestinesi circondandoli con nuove colonie ebraiche.

Si intende espandere la nuova legge anche alla Cisgiordania occupata in zone dove Israele ha annesso territori in cui vivono anche palestinesi.

Bishara ha aggiunto che, se la proposta di legge passasse così com’è, potrebbe “essere soggetta a una verifica di costituzionalità in relazione alla sua applicabilità in Israele.”

“Questa è una sfacciata violazione del diritto internazionale umanitario e delle leggi per i diritti umani che si applicano alla Cisgiordania in quanto territorio occupato,” ha segnalato Bishara.

“Se approvata rafforzerebbe il meccanismo dell’annessione de facto di territori occupati e potrebbe essere considerato parte di un processo di annessione de jure, in totale violazione delle leggi relative a territori occupati,” aggiunge.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Campo di Aqbat Jabr ultimo obiettivo dei micidiali raid israeliani in Cisgiordania

Leila Warah, campo profughi Aqbat Jabr

MiddleEastEye – 4 giugno 2023

I ripetuti attacchi di Israele al campo profughi di Gerico trasformano una destinazione turistica palestinese in “zona di guerra”

Fidah Muqbil ha dovuto rivivere la notte più traumatica della sua vita quando l’esercito israeliano ha nuovamente fatto irruzione nel suo quartiere il 25 maggio.

Con la copertura della notte, le truppe hanno iniziato un’operazione su larga scala nel campo profughi di Aqbat Jabr nella Cisgiordania occupata dove vive Fidah.

L’accampamento, situato a sud-ovest di Gerico, è stato circondato da ogni parte e di fatto messo sotto assedio.

Decine di veicoli militari corazzati hanno chiuso i vicoli, accompagnati da soldati e cecchini appostati sui tetti.

Muqbil, 19 anni, e i suoi fratelli più piccoli erano soli e rannicchiati in casa mentre per ore si svolgevano le operazioni militari.

Unico conforto era la voce del padre al telefono, in videochiamata da una stanza d’ospedale a Ramallah mentre si prendeva cura della madre ferita in un simile raid israeliano poche settimane prima.

“Ogni rumore forte mi riporta a quella notte”, ha detto Muqbil a Middle East Eye, riferendosi alla mattina del 1° maggio. Quel giorno, circa 20 soldati israeliani hanno piazzato una bomba alla porta e fatto brutalmente irruzione in casa, ferendo la madre di Muqbil.

“Dormivamo tutti. Erano le 6:00. Ho sentito qualcosa esplodere, ho pensato che fosse la nostra bombola del gas. E sentivo mia madre gridare”, dice l’adolescente, ricordando il momento in cui sua madre è stata colpita dalle schegge.

Prima che potesse capire ciò che stava accadendo, un soldato l’ha spinta in soggiorno.

“Ero terrorizzata. Tutto quello che potevo vedere era la distruzione. Riuscivo a malapena a stare in piedi. Pensavo di stare per vomitare”, ha aggiunto.

I soldati hanno poi trascinato i vicini qui in casa, dice Muqbil, costringendo tutti a nasconderci sotto il tavolo da pranzo al buio, circondati da sedie, nuvole di polvere e frastuono. Non riuscivamo nemmeno a vederci in tutto quel caos”, racconta.

Per due ore e mezza sono rimasti tutti fermi così. Durante quel lasso di tempo un cecchino israeliano piazzato alla finestra della sua camera da letto ha sparato e ferito almeno tre palestinesi, tra cui il diciassettenne Jibril Muhammad al-Lada’a, che è stato colpito alla testa ed è poi morto in ospedale.

Circa un mese dopo Muqbil ha dovuto patire altri due raid israeliani su larga scala nel suo quartiere.

Il trauma che lei e i suoi fratelli hanno vissuto li ferisce ancora, dice, e ha portato la loro vita alla paralisi.

Il suo matrimonio, originariamente previsto per il 27 maggio, è stato annullato, mentre suo fratello Karam Muqbil, di sette anni, ha tuttora bisogno di costanti rassicurazioni e sostegno. Guardando la sorella che dorme nel pomeriggio, aggiunge che riescono a dormire solo quando c’è il sole.

Traumi e disabilità permanenti

Negli ultimi mesi, Aqabat Jabr è stata costantemente presa di mira da letali operazioni militari israeliane che hanno portato morte e distruzione a Gerico, una città turistica solitamente meno soggetta alla violenza israeliana rispetto ad altri luoghi della Cisgiordania.

Il campo di Aqabat Jabr è stato istituito nel 1948 per ospitare i rifugiati espulsi dalle loro case dalla milizia sionista per far spazio alla costituzione dello Stato di Israele.

Oggi ospita 30.000 persone ed è considerato il più grande campo profughi della Cisgiordania quanto ad estensione.

Le recenti incursioni nel campo seguono la crescente tendenza ad assalti mortali alle città della Cisgiordania da parte delle truppe israeliane, accanto a una ripresa della resistenza armata da parte dei palestinesi.

Proprio come a Nablus, Jenin, Tulkarem e Tubas, nel 2022 è sorto a Gerico un nuovo gruppo di resistenza chiamato Brigata Aqbat Jabr.

La Brigata e il campo sono saliti alla ribalta a febbraio, quando i soldati israeliani hanno ucciso cinque membri della Brigata in un “raid di 15 minuti”.

Nel campo da allora sono stati uccisi dalle forze israeliane altri quattro palestinesi tra cui due minori: al-Lada’a di 17 anni e Mohamed Faiz Balhan di 15 anni.

La gente del posto afferma che questi raid, che hanno portato all’arresto di oltre 100 palestinesi, stanno avendo effetti duraturi sui residenti.

Molte vittime di armi da fuoco si ritrovano con disabilità a vita e i bambini del campo sono traumatizzati.

Durante l’ultimo raid, i proiettili israeliani hanno ferito 13 persone e altre 14 sono state arrestate. I soldati hanno anche sfondato porte, saccheggiato e distrutto case e usato granate assordanti, provocando il panico nei quartieri.

“I cecchini hanno sparato a chiunque si muovesse per le strade”, ha detto a MEE Jamal Aweidat, capo del comitato popolare di Aqbat Jaber.

“Nessuno sapeva cosa fare; molti bambini erano così spaventati che durante il raid hanno bagnato i pantaloni “.

Complessivamente, quest’anno il fuoco israeliano ha ucciso almeno 118 palestinesi nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est, tra cui 18 minori. Altre 34 persone sono state uccise nella Striscia di Gaza, di cui sei minori.

Nello stesso periodo i palestinesi hanno ucciso almeno 19 israeliani.

Se si mantenesse l’attuale tasso di uccisioni entro la fine del 2023 il bilancio delle vittime palestinesi in Cisgiordania potrebbe risultare ben superiore alle 280 vittime, il che segnerebbe un aumento del 67% rispetto al conteggio dello scorso anno di 167, che era già il più alto registrato in quasi due decenni.

Incursioni controproducenti

I media israeliani affermano che le operazioni ad Aqbat Jabr mirano a reprimere una ripresa della resistenza nel campo.

Tuttavia Saleh Sanhourie, attivista politico e sociale, ha affermato che invece di soffocare la crescita dei gruppi armati, l’intensità e la frequenza delle operazioni militari stanno avendo l’effetto contrario.

“Questa quarta generazione di rifugiati non vede un futuro per sé sotto l’occupazione e, nonostante gli attacchi in corso, non hanno nessun altro posto dove andare. Quindi si stanno orientando verso la resistenza armata”, ha detto Sanhourie a MEE.

“Non appartengono a nessun partito politico e non sono finanziati da nessuno”, ha aggiunto.

Sanhourie e Aweidat sottolineano che i media occidentali omettono di mostrare lo squilibrio di potere tra l’equipaggiatissimo esercito israeliano che attacca un piccolo gruppo di giovani che spendono i pochi soldi che hanno per comprarsi le armi.

“È così che giustificano le uccisioni e gli attacchi quando in realtà hanno trasformato le nostre case in zona di guerra”, dice Sanhourie.

“Usano contro di noi bulldozer, razzi, aerei da combattimento, droni e un grande dispiego di soldati armati “.

Misure punitive

Oltre all’incremento di violenza militare nel campo Israele decreta regolarmente misure punitive contro i civili, come la revoca dei permessi di lavoro ai residenti del campo.

“Chiunque abbia un parente che sia stato ucciso o messo in prigione viene punito”, dice Sanhourie.

“Ci stanno punendo tutti, il che sta affossando la nostra economia”, aggiunge l’attivista, sostenendo che Israele vuole suscitare nella comunità del risentimento verso coloro che resistono.

Tuttavia ad Aqbat Jabr sta ottenendo l’effetto opposto, poiché tutti nel campo sono consci che “Insieme restiamo forti, in sintonia “. 

La politica delle punizioni collettive è estesa anche a Gerico, popolare meta turistica attraversata dai viaggiatori in visita in Cisgiordania.

Quest’anno le forze israeliane hanno messo Gerico sotto assedio due volte per settimane, sottraendo al settore del turismo decine di milioni di dollari secondo le stime ufficiali palestinesi.

La situazione nel campo profughi di Aqbat Jabr non è unica.

Le forze israeliane prendono sempre più di mira i campi profughi in tutta la Cisgiordania occupata, come si è visto nel campo profughi di Jenin, nel campo profughi di Nur Shams a Tulkarem e nel campo profughi di Shuafat a Gerusalemme.

Ma mentre i raid diventano sempre più letali e intensi sembrano emergere sempre più gruppi armati, che sfidano l’occupazione israeliana e probabilmente affronteranno ulteriori violenze da parte dei militari.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Un israeliano ucciso in una sparatoria vicino ad una colonia in Cisgiordania

Redazione di MEE

30 maggio 2023 – Middle East Eye

L’esercito sta cercando due assalitori ed ha eretto barriere nell’area attorno alla colonia di Hermesh.

Medici e fonti ufficiali dell’esercito hanno affermato che martedì un civile israeliano è stato colpito a morte vicino ad una colonia nella parte settentrionale della Cisgiordania occupata.

L’esercito israeliano ha affermato che l’uomo, identificato come Meir Tamari, è stato colpito molte volte mentre stava guidando verso l’ingresso della colonia di Hermesh. Secondo funzionari locali Tamari, di 32 anni, era un abitante della colonia a sudovest di Jenin.

L’esercito ha anche affermato che delle truppe stanno cercando i due assaltatori, senza averli ancora identificati, ed hanno eretto delle barriere dell’area circostante.

Un affiliato alle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa (legate ad Al-Fatah) ha affermato che l’attacco è stato realizzato per vendicare palestinesi uccisi dallo Stato di Israele.

Successivamente martedì coloni israeliani hanno indetto proteste in Cisgiordania.

Il funzionario del ministero israeliano della Difesa Yoav Gallant ha detto che in seguito alla sparatoria avrebbe “organizzato una valutazione della situazione insieme ad alti ufficiali delle istituzioni della difesa”.

In precedenza sempre martedì, le forze israeliane hanno arrestato cinque palestinesi durante molteplici incursioni in Cisgiordania.

Gli incidenti sono avvenuti perché il governo di estrema destra dello Stato di Israele adotta in modo crescente politiche a favore delle colonie in Cisgiordania, nel Naqab (Negev) e in Galilea a detrimento dei palestinesi, anche di quelli con cittadinanza israeliana.

Circa 700.000 israeliani vivono adesso nelle colonie della Cisgiordania e a Gerusalemme Est occupata che sono considerate illegali dalla comunità internazionale.

La scorsa settimana, coloni israeliani residenti nella colonia di Adei Ad a nord-est di Ramallah hanno aggredito agricoltori palestinesi che stavano lavorando la loro terra tra i villaggi di Turmus Ayya e al-Mughayyir, nella Cisgiordania centrale.

I coloni hanno lanciato pietre e sparato agli agricoltori ferendo almeno cinque persone.

Nel frattempo, dall’inizio dell’anno le truppe israeliane hanno effettuato incursioni quasi giornaliere in Cisgiordania

Da gennaio almeno 117 palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane e nello stesso periodo sono stati uccisi da palestinesi 19 israeliani.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Tantura: alla Bafta anteprima del film sul massacro nel villaggio palestinese durante la Nakba

Nadda Osman da Londra

23 maggio 2023 – Middle East Eye

Anche se il documentario è stato ampiamente apprezzato perché mostra le uccisioni a Tantura nel 1948, alcuni critici dicono che dà troppa rilevanza alla prospettiva israeliana

Lunedì sera la prestigiosa British Academy of Film and Television Arts, la londinese Bafta, è stata sede della proiezione del documentario Tantura, che indaga il massacro presso il villaggio palestinese durante la  Nakba.

La proiezione, organizzata dall’International Centre of Justice for Palestinians (ICJP, Centro Internazionale per la giustizia per i palestinesi), ha coinciso con il 75esimo anniversario del massacro avvenuto fra il 22 e il 23 maggio 1948 e nel film appaiono testimonianze registrate e interviste con vari veterani israeliani che presenziarono alle esecuzioni.

Si stima che siano oltre 200 le persone uccise durante il massacro. Un soldato israeliano commenta così il bilancio delle vittime: “Non ho contato. Non saprei proprio. Avevo una mitragliatrice con 250 pallottole.”

Tayab Ali, avvocato e direttore dell’ICJP, ha detto che l’episodio di Tantura sintetizza l’esperienza palestinese durante la Nakba e da allora in poi.

La storia di Tantura esemplifica la lunga esperienza di rimozione e perdita subita dai palestinesi durante la Nakba, ma in questo film è raccontata da coloro che l’hanno perpetrata,” afferma, e poi continua:

Ripercorrendo i fatti di Tantura in questo film non prendiamo una posizione nel dibattito, ma presentiamo i fatti indiscutibili di quello che gli israeliani fecero ai palestinesi non solo a Tantura e in altri villaggi nel 1948, [ma ciò che loro] continuano a fare.

“Fino ad oggi la comunità internazionale ha chiuso un occhio sui crimini Israeliani e peggio ancora ne è complice.”

Le registrazioni di Katz

Il regista [israeliano] Alon Schwarz concentra il suo lavoro sulle ricerche dell’israeliano Teddy Katz che scrisse la sua tesi sull’argomento all’Università di Haifa. 

In Israele Katz fu completamente marginalizzato per aver rivelato le sue scoperte e fatto oggetto di pressioni perché ritrattasse.

Un’ampia parte del film parla dell’impatto su Katz, incluse le cause legali contro lui e il suo licenziamento dall’università.

Il ricercatore aveva raccolto più di un centinaio di ore di registrazioni di testimonianze di 135 sopravvissuti palestinesi e di soldati israeliani che erano là.

Il film illustra come membri della brigata Alexandroni, parte dell’esercito israeliano, attaccarono il villaggio seminando morte fra la popolazione civile palestinese e costringendo altri a fuggire.

I palestinesi hanno da sempre detto che tali tattiche erano usate per scacciarli dalle loro terre storiche per far posto alla fondazione di Israele.

Il lavoro di Schwarz fa luce sulla mentalità delle unità dell’esercito israeliano e contiene l’ammissione da parte di israeliani di aver ucciso palestinesi.

Li abbiamo ammazzati. Naturalmente li abbiamo ammazzati. Non ci siamo fatti scrupoli,” dice un membro della brigata. 

Altri soldati raccontano di aver radunato donne e bambini separandoli dagli uomini che furono mandati in campi di prigionia, mentre gli altri furono uccisi. 

Molti degli intervistati ammettono di aver ucciso, ma dicono che cercano di dimenticarlo e di non parlarne con altri. 

Oggi il villaggio di Tantura, che si trova a sud della città di Haifa, è diventato un’area ricreativa israeliana dove la gente va a nuotare e per ammirare il panorama.

Nel documentario le voci narranti dicono che una sepoltura di massa palestinese dove avvenne il massacro è ora diventata un parcheggio alle spalle della spiaggia di Dor.

La pellicola è stata mostrata a Londra a un pubblico composto, fra gli altri, da avvocati, accademici, giornalisti e ad appartenenti alla diaspora palestinese.

C’è poi stata una tavola rotonda a cui hanno partecipato Yasmine Ahmed, direttrice per il Regno Unito di Human Rights Watch [organizzazione non governativa internazionale, ndt.], lo storico anglo-israeliano Avi Shlaim, l’accademico palestinese Nur Masalha e la regista palestinese Hala Gabriel.

Shlaim ha apprezzato che la regista abbia mostrato le uccisioni, ma ha messo in guardia sul fatto che il documentario “è un film molto israeliano “.

Secondo Shlaim “la ragione per cui suscita tante reazioni così forti è che va al cuore della percezione che ha Israele di sé, e la percezione che Israele ha di sé è quella di un Paese molto rispettabile, progressista e amante della pace.”

Ha aggiunto che la guerra che ha portato alla fondazione di Israele è da molto tempo vista all’interno del Paese come una guerra di difesa contro “gli aggressori arabi”.

“C’è una grande riluttanza a vedere il lato oscuro di questa guerra, in particolare la pulizia etnica avvenuta nel 1948,” ha aggiunto.

Rispondendo a una domanda circa il ruolo giocato dall’ideologia sionista nella pulizia etnica dei palestinesi nel 1948, Shlaim ha detto che il movimento era improntato a un’ideologia “esclusivista” e “razzista”.

Ha aggiunto: “Israele ama definirsi ebraico e democratico, ma come ha detto un parlamentare arabo: ‘Israele è una democrazia per gli ebrei’… Israele non può essere sia uno Stato ebraico razzista che uno democratico.”

La regista Gabriel è originaria del villaggio di Tantura e suo padre è stato un testimone della strage.

Come Shlaim, anche lei è lieta che si puntino i riflettori sugli eventi di Tantura nel 1948, ma chiede uguale attenzione per le opere dei palestinesi.

Per l’ICJP la speranza è che il film susciti il dibattito su altre violazioni israeliane dalla Nakba in poi.

“La prossima volta che vi diranno che i soldati e i coloni israeliani non uccidono impunemente i palestinesi, ricordatevi di Tantura,” ha aggiunto Ali, il direttore di ICJP, continuando:

“La prossima volta che vi diranno che Israele non compie atti di apartheid, ricordatevi di Tantura.

La prossima volta che qualcuno cerca di giustificare l’occupazione o le aggressioni israeliane affermando che Israele è una democrazia, ricordatevi di Tantura.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Gerusalemme: palestinesi aggrediti mentre ministri israeliani partecipano alla controversa ‘marcia della bandiera’

Latifeh Abdellatif

18 maggio 2023 – Middle East Eye

Il ministro di estrema destra Itamar Ben Gvir si unisce a migliaia di persone nella marcia accompagnata da violenze contro i palestinesi e da slogan di incitamento alla violenza, suprematismo ebraico e razzismo’

Gerusalemme

Giovedì a Gerusalemme poliziotti e ultranazionalisti israeliani hanno aggredito palestinesi e giornalisti mentre ministri israeliani e parlamentari di estrema destra partecipavano alla controversa ‘marcia della bandiera’.

I manifestanti hanno bersagliato con pietre un reporter di Middle East Eye e altri giornalisti che seguivano il raduno presso la Porta di Damasco nella Città Vecchia. Almeno due sono stati colpiti e feriti alla testa.

Decine di partecipanti hanno sventolato la bandiera nera del gruppo razzista di estrema destra Lehava urlando “il vostro villaggio brucerà”.

Altrove gli ultranazionalisti hanno attraversato il quartiere musulmano della Città Vecchia picchiando gli abitanti palestinesi e causando alcuni tafferugli. La polizia israeliana è intervenuta, ma aggredendo i palestinesi già sotto attacco.

L’attivista palestinese Iyad Abu Snainah è stato arrestato per aver urlato contro i poliziotti che non stavano proteggendo i palestinesi. 

Nel contempo migliaia di israeliani hanno continuato ad ammassarsi nella piazza della Porta di Damasco per partecipare all’annuale marcia che si tiene nella festività del “Giorno di Gerusalemme” per commemorare l’occupazione di Gerusalemme Est nel 1967. 

L’evento è associato a violenze contro i palestinesi e, secondo ONG israeliana Ir Amim, a “slogan di incitamento alla violenza, suprematismo ebraico e razzismo’”.

Fra i partecipanti di giovedì c’erano il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir, il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, di estrema destra, e quello ai Trasporti Miri Regev [del Likud, ndt.]. 

“Grazie al cielo qui ci sono migliaia di persone,” ha detto Ben Gvir al suo arrivo al luogo di partenza della marcia in King George Street. “Gerusalemme è nostra per sempre.”

Arrivata a un altro punto della marcia, Limor Son Har-Melech, la parlamentare di Potere Ebraico, il partito di estrema destra di Ben Gvir, ha dichiarato al Times of Israel [giornale israeliano di centro, ndt.] che vi partecipava per “celebrare la nostra vittoria contro gli arabi”.

Protetti da una massiccia sorveglianza, i manifestanti alla Porta di Damasco hanno cantato slogan razzisti, sventolando la bandiera israeliana e danzando, in attesa che altri si unissero a loro. 

La polizia israeliana ha schierato circa 3.000 poliziotti per garantire la sicurezza del raduno, che intende dimostrare la “sovranità” di Israele su Gerusalemme. 

È stato riferito che cecchini israeliani erano posizionati lungo le mura della Città Vecchia, mentre droni di sorveglianza della polizia sorvolavano la folla.  

È anche stato impedito a giornalisti e palestinesi il passaggio a tutte le strade di accesso alla Porta di Damasco.

La polizia israeliana ha negato l’accesso anche a una reporter di MEE, nonostante abbia esibito il suo tesserino stampa costringendola a fare un lungo giro per entrare da un’altra strada. 

All’inizio della giornata si è tenuta un’altra “marcia della bandiera” a Lydd (Lod), una città nel centro di Israele dove risiede una consistente popolazione palestinese. 

In risposta i palestinesi hanno inscenato un raduno nella Cisgiordania occupata e a Gaza sventolando la bandiera palestinese.

Manifestanti vicino alla barriera che separa la Striscia di Gaza da Israele sono stati dispersi dai soldati israeliani con lacrimogeni. 

Storia violenta

Negli scorsi anni i partecipanti israeliani alla “marcia della bandiera” avevano aggredito dei palestinesi e attaccato e coperto di graffiti e sputi attività commerciali e case palestinesi lungo il percorso. 

Avevano anche scandito slogan come “Morte agli arabi”, “La seconda Nakba sta arrivando ” e “Maometto è morto,” riferendosi al profeta dell’Islam.

Sempre nell’ambito delle celebrazioni della “Giornata di Gerusalemme” in precedenza nella stessa giornata coloni e politici israeliani hanno fatto irruzione nella moschea di Al-Aqsa. Una persona è stata ripresa nel cortile della moschea mentre insultava il profeta Maometto. 

Fra di loro c’erano parecchi parlamentari, fra cui Yitzhak Wasserlauf, ministro dello Sviluppo del Negev e della Galilea, appartenente al partito Potere Ebraico. 

Vi hanno partecipato anche Dan Illouz, Amit Halevi e Ariel Kallner, tre parlamentari del Likud, il partito del primo ministro Benjamin Netanyahu. 

La Giordania ha condannato l’assalto e ammonito che la marcia “provocatoria” potrebbe portare a un’escalation a Gerusalemme. 

Israele ha conquistato Gerusalemme Est nel 1967 e l’ha annessa nel 1980, una decisione che non è mai stata riconosciuta dalla comunità internazionale. 

Il controllo israeliano della città viola vari principi del diritto internazionale che stabilisce che una potenza occupante non ha la sovranità sul territorio che occupa e non può apportarvi alcun cambiamento permanente.

(traduzione di Mirella Alessio)




Gaza: i nomi dei bambini uccisi nell’attacco di Israele

Redazione Middle East Eye

11 maggio 2023 –  Middle East Eye

In cinque giorni di bombardamenti sono morti almeno sette minori palestinesi

Strazianti immagini sono giunte dalla Striscia di Gaza da quando il 9 maggio è iniziata l’offensiva di Israele nell’enclave assediata.

Edifici residenziali sono stati rasi al suolo mentre continuava il bombardamento israeliano con le famiglie costrette sulla strada.

I bambini sono stati i più colpiti, con almeno sette minori fra i 33 palestinesi uccisi.

In alcuni video che circolano online si vedono bambini che piangono di paura mentre sopra di loro continua il bombardamento, mentre altri cercano tra le macerie delle proprie case i loro cari e i loro beni.

Finora sono state danneggiate più di 500 unità abitative e i civili descrivono il terrore per la terra che trema sotto i loro piedi.

Ora diamo uno sguardo ai bambini uccisi nell’offensiva:

Mayar Tariq Ibrahim Ezz el-Din, 11 anni

Mayar Tariq Ibrahim Ezz el-Din è stata uccisa il 9 maggio 2023 a Gaza City. Aveva 11 anni.

Mayar e suo fratello Ali sono figli di Tareq Ibrahim Ezz el-Din, un comandante militare della Jihad islamica palestinese (PIJ).

La famiglia stava dormendo quando un jet da combattimento israeliano ha preso di mira l’intero piano del loro edificio residenziale nel quartiere di al-Remal nel centro di Gaza City.

Nell’attacco sono stati uccisi 15 palestinesi, compresi tre membri della PIJ, quattro bambini e quattro donne.

Secondo il Ministero della Sanità di Gaza altre 20 persone sono state ferite, compresi tre bambini e sette donne, alcuni dei quali sono in gravi e critiche condizioni.

Ali Tariq Ibrahim Ezz el-Din, nove anni


Ali Tariq Ibrahim Ezz al-Din è stato ucciso insieme a sua sorella Mayar il 9 maggio 2023 a Gaza City. Aveva 9 anni.

Ali, prima di essere ucciso, con sua sorella aveva comprato dei dolci e preparato i vestiti, eccitato per il giorno seguente, in cui doveva partire in gita scolastica.

Gli utenti dei social media hanno condiviso online fotografie dei fratelli durante gli allegri festeggiamenti e hanno pianto la loro perdita.

L’attacco ha distrutto completamente la casa della famiglia ed anche le abitazioni circostanti.

Hajar Khalil Salah el-Bahtini, cinque anni

Hajar Khalil Salah el-Bahtini, di cinque anni, è stata uccisa il 9 maggio 2023 a Gaza City insieme a sua madre di 44 anni, Layla el-Bahtini. E’ la figlia del comandante delle brigate Al-Quds Khalil al-Bahtini, anch’egli ucciso nel raid che ha colpito la loro casa.

Molti hanno condiviso foto di Hajar a scuola e hanno condannato Israele per aver preso di mira dei bambini negli attacchi.

Testimoni oculari che hanno parlato con Middle East Eye hanno descritto una sensazione di paura tra i bambini, che mostrano anche segni di disordine da stress post traumatico (PTSD).

Le scuole sono state chiuse mentre i ragazzi piangono i loro compagni e molti edifici hanno subito gravi danni.

Layan Bilal Maddoukh, otto anni

Layan Bilal Maddoukh, di otto anni, è stata uccisa il 10 maggio 2023 in un raid israeliano che ha colpito edifici residenziali nella via al-Sahaba a Gaza City.

Tamim Mohamed Dawoud, quattro anni

Tamim Mohamed Daoud, di quattro anni, è morto per un attacco di panico in seguito ad un attacco aereo israeliano sul suo quartiere a Gaza il 10 maggio 2023, ha detto suo padre a Middle East Eye.

Iman Adas, 17 anni 

Iman è stata uccisa insieme a sua sorella maggiore Dania, che si sarebbe sposata dopo pochi giorni.

Le sorelle sono state uccise in un attacco aereo che ha preso di mira la casa del loro vicino nelle prime ore del mattino.

I muri della loro casa sono diventati un mucchio di macerie mentre i loro beni si intravvedevano tra i frammenti di vetri e pietre.

Yazan Jawdat Elayyan, 16 anni

Centinaia di persone hanno partecipato ad un corteo funebre per l’adolescente, in cui hanno pianto la sua morte.

Testimoni hanno detto ai notiziari locali che dormivano quando è esploso il rumore assordante degli attacchi aerei e la casa di Elayyan si è sgretolata.

Io e mia moglie stavamo dormendo quando abbiamo sentito il rumore e i bambini sono saltati in piedi”, ha raccontato un testimone ai media locali.

Abbiamo guardato fuori e abbiamo visto l’edificio coperto di fumo e completamente distrutto. Tutto tremava…non vi è stato un preventivo avviso perché le persone se ne andassero.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




La Gran Bretagna e la Nakba: storia di un tradimento

Avi Shlaim

10 maggio 2023 – Middle East Eye

Un ininterrotto filo conduttore di doppiezza, menzogne e inganni lega la politica estera britannica da Balfour alla Nakba fino a nostri giorni.

La Gran Bretagna creò le condizioni che resero possibile la Nakba palestinese.

Nel 1948 i palestinesi sperimentarono una catastrofe collettiva di dimensioni enormi: circa 530 villaggi vennero distrutti, più di 62.000 case furono demolite, circa 13.000 palestinesi uccisi e 750.000, due terzi della popolazione araba del Paese, furono cacciati dalle proprie case e divennero rifugiati.

Questo fu il momento culminante della pulizia etnica sionista della Palestina.

Nella sua essenza il sionismo è sempre stato un movimento colonialista di insediamento. Il suo fine ultimo era la costruzione di uno Stato ebraico indipendente in Palestina sulla maggior quantità possibile di terra e con quanti meno arabi possibile all’interno dei suoi confini. I portavoce sionisti insistettero costantemente di non avere cattive intenzioni nei confronti degli abitanti arabi del Paese, di volerlo sviluppare a beneficio delle due comunità.

Ma si trattava in buona misura di retorica, kalam fadi in arabo, discorsi vuoti.

Il movimento sionista era spinto dalla logica del colonialismo di insediamento, una modalità di dominazione caratterizzata da quello che lo storico Patrick Wolfe ha denominato “una logica di eliminazione”. I regimi coloniali di insediamento intendono annientare la popolazione nativa, o quantomeno evitarne l’autonomia politica. L’eliminazione della popolazione autoctona è una precondizione per l’espropriazione della terra e delle sue risorse naturali.

Il movimento sionista era assolutamente spietato. Non prevedeva di collaborare con la popolazione araba nativa per il bene comune. Al contrario, intendeva sostituirla. L’unico modo in cui il progetto sionista avrebbe potuto essere realizzato e conservato era l’espulsione di un gran numero di arabi dalle loro case e l’appropriazione della loro terra.

Nel gergo sionista tali sgomberi ed espulsioni vennero ingannevolmente definiti e occultati con un termine meno brutale: “trasferimenti”.

Il cammino verso la statualità

Il colonialismo d’insediamento sionista era intrinsecamente legato alla Gran Bretagna, il principale potere coloniale europeo dell’epoca. Senza l’appoggio della Gran Bretagna il movimento sionista non avrebbe potuto raggiungere il livello di successo che ebbe nella sua impresa di costruire uno Stato.

La Gran Bretagna consentì al suo giovane alleato di lanciarsi nella sistematica appropriazione del Paese. Tuttavia il cammino verso la statualità era tutt’altro che agevole. Dalla sua nascita alla fine del XIX° secolo il movimento sionista incontrò un grande ostacolo sul suo cammino: la terra dei suoi sogni era già abitata da un altro popolo. La Gran Bretagna consentì ai sionisti di superare questo ostacolo.

Il 2 novembre 1917 la Gran Bretagna emanò la nota Dichiarazione Balfour. Prese il nome dal ministro degli Esteri Arthur Balfour e prometteva l’appoggio britannico alla creazione di un “focolare nazionale per il popolo ebraico in Palestina”.

Lo scopo della dichiarazione era il ricorso all’aiuto dell’ebraismo mondiale nell’impegno bellico contro la Germania e l’Impero Ottomano. Venne aggiunto un ammonimento, in base al quale “non sarà fatto nulla che possa danneggiare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina”. Mentre la promessa venne pienamente rispettata, l’ammonimento venne lasciato cadere e dimenticato.

Nel 1917 la zona in precedenza chiamata Palestina era ancora sotto il dominio ottomano. Gli arabi rappresentavano il 90% della popolazione del Paese, mentre gli ebrei erano il 10% e possedevano solo il 2% della terra. La Dichiarazione Balfour era un classico documento coloniale perché accordava diritti nazionali a una piccola minoranza, ma semplici “diritti civili e religiosi” alla maggioranza.

Aggiungendo danno alla beffa, faceva rifermento agli arabi, la grande maggioranza della popolazione, come “comunità non-ebraiche della Palestina”. La resistenza araba al potere britannico fu inevitabile fin dall’inizio.

C’è un detto arabo secondo cui qualcosa che inizia storto tale rimane. In questo caso, in ogni modo, è difficile vedere come l’amministrazione britannica della Palestina avrebbe potuto essere raddrizzata senza incorrere nell’ira dei suoi beneficiari sionisti.

L’11 agosto 1919 Balfour scrisse in un memorandum spesso citato: “Il sionismo, che sia giusto o sbagliato, buono o cattivo, è radicato in tradizioni secolari, in necessità attuali, in speranze future, di importanza molto maggiore dei desideri e pregiudizi dei 700.000 arabi che ora vivono in quella antica terra.”

In altre parole, gli arabi non venivano presi in considerazione, mentre i loro diritti, compreso il diritto naturale all’autodeterminazione nazionale, erano liquidati come nient’altro che “desideri e pregiudizi”.

Nello stesso memorandum Balfour affermò anche che “per quanto riguarda la Palestina, le potenze non hanno fatto alcuna constatazione che non sia evidentemente sbagliata, e nessuna dichiarazione politica che, almeno alla lettera, non abbiano sempre inteso violare.” Non ci potrebbe essere un’ammissione più decisa della duplicità britannica.

Sacra fiducia nella civiltà”

Nel luglio 1922 la Lega delle Nazioni diede alla Gran Bretagna il mandato sulla Palestina. Il compito del potere mandatario era preparare la popolazione locale all’auto-governo e lasciare il potere quando fosse stata in grado di governarsi da sola.

Nella Convenzione della Lega i mandati erano descritti come “una sacra fiducia nella civiltà”. I loro scopi dichiarati erano lo sviluppo del territorio a beneficio della sua popolazione nativa e la trasformazione delle ex-province arabe dello sconfitto Impero Ottomano in moderni Stati-Nazione. In realtà erano poco più di una copertura del neo-colonialismo.

Forti pressioni sioniste indussero la Gran Bretagna a insistere per l’incorporazione della Dichiarazione Balfour nel mandato per la Palestina. Spesso è stato detto che ciò trasformò una vaga promessa britannica in un obbligo legale vincolante. Non è così per due importanti ragioni.

Primo, il mandato contraddiceva l’articolo 22 della Convenzione che richiedeva che la popolazione dell’area coinvolta venisse consultata riguardo alla scelta del potere mandatario. Balfour si rifiutò di consultare gli arabi perché sapeva troppo bene che, se avesse potuto dire la loro, avrebbero veementemente rifiutato il potere britannico.

Secondo, la Gran Bretagna non avrebbe potuto assumere il mandato perché nel 1922 non aveva sovranità sulla Palestina. La potenza sovrana fino al 1924 era la Turchia, erede dell’Impero Ottomano. Questo argomento è stato energicamente proposto dal giurista statunitense John Quigley in un articolo non pubblicato intitolato “Il fallimento britannico nell’attribuire valore giuridico alla Dichiarazione Balfour.” Nel sommario egli riassume il ragionamento nel modo seguente:

Il documento che la Gran Bretagna redasse per governare la Palestina (mandato sulla Palestina) chiedeva la creazione del focolare nazionale ebraico citato nella Dichiarazione Balfour. Tuttavia il governo della Gran Bretagna sulla Palestina, presumibilmente soggetto allo schema mandatario della Lega delle Nazioni, non ebbe mai basi legali. Secondo la sua Convenzione, la Lega delle Nazioni non aveva il potere di attribuire valore giuridico al Mandato sulla Palestina o di dare alla Gran Bretagna il diritto di governarla.

La Gran Bretagna non riuscì a ottenere la sovranità, che era un prerequisito per governare la Palestina o per detenere il mandato. La Gran Bretagna diede spiegazioni diverse in momenti diversi nel tentativo di dimostrare di detenere la sovranità. Le Nazioni Unite non misero in discussione la posizione giuridica della Gran Bretagna in Palestina, ma accettarono la legittimità del mandato sulla Palestina come base per la divisione del Paese. Fino ad oggi il problema dei diritti territoriali nella Palestina storica rimane irrisolto.”

Secondo Quigley la Gran Bretagna non andò mai oltre lo status di occupante belligerante. Nel suo libro del 2022 Britain and its Mandate Over Palestine: Legal Chicanery on a World Stage [La Gran Bretagna e il suo mandato sulla Palestina: inganno giuridico sulla scena mondiale] sviluppa questo argomento con una grande quantità di prove schiaccianti. Inganno non è una parola troppo forte per descrivere il modo in cui la Gran Bretagna manipolò la Lega delle Nazioni per ottenere il potere sulla Palestina o in cui abusò di questo potere per trasformare la Palestina da uno Stato a maggioranza araba a uno a maggioranza ebraica.

L’obbligo di proteggere i diritti degli arabi

L’importanza di includere l’impegno per un focolare nazionale ebraico non può essere sottovalutato. È ciò che differenziò fondamentalmente il mandato sulla Palestina dagli altri mandati per le province mediorientali dell’Impero Ottomano.

Il mandato britannico per l’Iraq, quello francese per Siria e Libano riguardavano tutti la preparazione della popolazione locale all’autogoverno. Il mandato sulla Palestina riguardava il fatto di consentire a stranieri, ebrei da ogni parte del mondo, ma soprattutto dall’Europa, di unirsi ai loro correligionari in Palestina e trasformare il Paese in un’entità nazionale controllata da ebrei.

Il mandato includeva un obbligo esplicito di proteggere i diritti civili e religiosi degli arabi, le “comunità non ebraiche in Palestina”. La Gran Bretagna non protesse affatto questi diritti. Il primo alto commissario britannico per la Palestina, sir Herbert Samuel, era sia ebreo che fervente sionista.

Durante il suo incarico la Gran Bretagna introdusse una serie di ordinanze che consentirono un’illimitata immigrazione ebraica in Palestina e l’acquisizione da parte degli ebrei di terre coltivate per generazioni da palestinesi.

Gli arabi chiesero delle restrizioni all’immigrazione e all’acquisizione di terre da parte degli ebrei. Chiesero anche un’assemblea nazionale democraticamente eletta che sarebbe stata un riflesso della situazione demografica. La Gran Bretagna resistette a tutte queste richieste e impedì l’introduzione di istituzioni democratiche. Le linee guida fondamentali della politica mandataria erano di non concedere elezioni finché gli ebrei non fossero diventati maggioranza.

Nel 1936 scoppiò una rivolta araba contro il dominio britannico sulla Palestina. Fu una rivolta nazionalista che durò fino al 1939. Per reprimerla venne schierato l’esercito britannico, che agì con la massima brutalità e spesso in violazione delle leggi di guerra. I suoi metodi includevano tortura, uso di scudi umani, detenzioni senza processo, draconiane norme d’emergenza, esecuzioni sommarie, punizioni collettive, demolizioni di case, villaggi dati alle fiamme e bombardamenti aerei.

Buona parte di questa violenza non venne diretta solo contro i ribelli, ma contro contadini sospettati di aiutarli e di essere loro complici. La repressione dell’insurrezione da parte dei britannici indebolì gravemente la società palestinese: circa 5.000 palestinesi vennero uccisi, 15.000 feriti e 5.500 incarcerati.

Il tradimento finale dei britannici

L’eminente storico palestinese Rashid Khalidi ha sostenuto, a mio parere in modo convincente, che la Palestina non venne persa alla fine degli anni ’40, come si crede comunemente, ma alla fine degli anni ’30. La principale ragione che fornisce dal suo punto di vista è il danno devastante che la Gran Bretagna inflisse alla società palestinese e alle sue forze paramilitari durante la rivolta araba. Questo argomento viene proposto nel capitolo di Khalidi in un libro co-curato da Eugene Rogan e da me: The War for Palestine: Rewriting the History of 1948 [La guerra per la Palestina: riscrivere la storia del 1948].  

Il tradimento finale dei britannici nei confronti dei palestinesi avvenne mentre la lotta per la Palestina entrava nella sua fase cruciale in seguito alla fine della Seconda Guerra Mondiale. All’epoca la Gran Bretagna si scontrò con i suoi protetti, i sionisti, e gli estremisti tra loro condussero una campagna di terrore destinata a cacciare le forze inglesi dal Paese. L’episodio più noto di questa violenta campagna fu l’attentato nel luglio 1946 contro l’hotel King David a Gerusalemme, che ospitava gli uffici amministrativi britannici, da parte dell’Irgun, l’Organizzazione Militare Nazionale.

In seguito a questo e altri attacchi il governo britannico sotto attacco decise di rimettere unilateralmente il mandato. Il 29 novembre 1947 le Nazioni Unite approvarono una risoluzione per la partizione della Palestina mandataria in due Stati, uno ebraico e l’altro arabo.

Gli ebrei accettarono la partizione e gli arabi la rifiutarono. Di conseguenza la Gran Bretagna rifiutò di realizzare il piano di partizione dell’ONU in quanto esso non godeva del supporto di entrambe le parti.

Tuttavia c’era un’altra ragione: l’ostilità nei confronti della causa nazionale palestinese. Il movimento nazionalista palestinese era guidato da Hajj Amin al-Husseini, il gran muftì di Gerusalemme, che era in dissenso con i britannici e aveva lasciato il Paese durante la rivolta araba.

Agli occhi degli inglesi uno Stato palestinese era sinonimo di uno Stato del muftì. L’ostilità verso i dirigenti palestinesi e uno Stato palestinese fu pertanto una costante e un fattore caratterizzante nella politica estera britannica dal 1947 al 1949.

Il mandato terminò alla mezzanotte del 14 maggio 1948. L’uscita britannica dalle difficoltà fu incoraggiare un suo sottoposto, re Abdullah di Giordania, a invadere la Palestina allo spirare del mandato, e di conquistare la Cisgiordania, che l’ONU aveva destinato allo Stato arabo. Nel frattempo l’astuto re aveva raggiunto un tacito accordo con l’Agenzia Ebraica per dividere la Palestina tra loro a spese dei palestinesi.

Il tacito accordo era che gli ebrei avrebbero fondato uno Stato ebraico nella loro parte di Palestina, mentre Abdullah avrebbe conquistato il controllo sulla parte araba, e che avrebbero fatto la pace dopo che si fossero calmate le acque.

Falsa neutralità

Durante la guerra civile scoppiata in Palestina nel periodo precedente al 14 maggio, la Gran Bretagna rimase defilata, abdicando alla sua responsabilità di mantenere la legge e l’ordine. La sua falsa neutralità aiutò inevitabilmente la parte sionista, più forte. Durante gli ultimi mesi del mandato, le forze paramilitari sioniste passarono all’offensiva e intensificarono la pulizia etnica del Paese.

La prima grande ondata di rifugiati palestinesi avvenne sotto gli occhi dei britannici. La Gran Bretagna di fatto abbandonò i nativi palestinesi alla mercé dei colonialisti d’insediamento sionisti. In breve la Gran Bretagna creò attivamente le condizioni della fine del suo stesso egocentrismo imperialista, in cui potesse svolgersi la catastrofe palestinese, la “Nakba”. Un filo mai spezzato di doppiezza, menzogne, inganni e imbrogli unisce la politica estera britannica dall’inizio del suo mandato fino alla Nakba.

Il modo in cui il mandato finì fu la peggiore vergogna dell’intera esperienza britannica come principale potenza al governo della Palestina. Dimostrò quanto poco importasse alla Gran Bretagna del popolo che avrebbe dovuto proteggere e preparare all’autogoverno.

Quando la situazione si fece difficile il potere mandatario semplicemente se la diede a gambe. Non ci fu nessun passaggio ordinato del potere a un’entità locale. La “sacra fiducia nella civiltà” venne definitivamente, irreversibilmente e imperdonabilmente brutalizzata e tradita.

Il sogno di lord Balfour diventò un incubo per i palestinesi. Nella coscienza collettiva dei palestinesi la Nakba non è un evento isolato, ma un processo storico continuo. Oggi oltre 5,9 milioni di rifugiati sono registrati dall’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi.

Hanan Ashrawi ha coniato il termine “Nakba continua” per denotare la persistente esperienza palestinese di violenza e spoliazione per mano del colonialismo d’insediamento sionista. In un discorso alla conferenza dell’ONU del 2001 si riferì al popolo palestinese come “una nazione in cattività tenuta in ostaggio da una continua Nakba in quanto la più articolata e pervasiva espressione dell’apartheid, del razzismo e della vittimizzazione persistenti.”

Contraddizioni nella politica britannica

È triste dover aggiungere che nessun governo britannico ha mai chiesto scusa per la parte giocata dalla Gran Bretagna nella castrazione della Palestina storica. Gli ultimi cinque primi ministri conservatori, a cominciare da David Cameron, sono stati tutti accaniti sostenitori di Israele.

Nel 2017, nel centenario della Dichiarazione Balfour, l’allora prima ministra Theresa May affermò che fu “una delle lettere più importanti della storia. Dimostra il ruolo fondamentale della Gran Bretagna nella creazione di una patria per il popolo ebraico. Ed è un anniversario che celebreremo con orgoglio.” Non menzionò affatto le vittime palestinesi di questa importante lettera.

Nel suo libro del 2014 The Churchill Factor [Il Fattore Churchill] Boris Johnson descrive la Dichiarazione Balfour come “bizzarra”, “un documento tragicamente incoerente” e “una squisita opera indicibile del ministero degli Esteri”. Ma nel 2015 in un viaggio in Israele come sindaco di Londra Johnson celebrò la Dichiarazione Balfour come “un’ottima cosa”.

Nell’ottobre 2017, nel suo ruolo di ministro degli Esteri, Johnson avviò una discussione sulla Dichiarazione Balfour alla Camera dei Comuni. Ribadì l’orgoglio britannico per la parte giocata nella creazione di uno Stato ebraico in Palestina. Nonostante una larga maggioranza per il riconoscimento della Palestina come Stato, si rifiutò di farlo, affermando che non era il momento.

Ciò evidenziò una fondamentale contraddizione al cuore della politica britannica: sostenere la soluzione a due Stati ma riconoscerne solo uno.

Toccò a chi sostituì Johnson, Liz Truss, dimostrare la profonda indifferenza dei politici conservatori inglesi nei confronti della sensibilità palestinese e fino a che punto essi sarebbero arrivati per ingraziarsi Israele e i suoi sostenitori acritici in quel Paese. Durante la sua campagna per l’elezione a leader del partito Conservatore, ventilò l’idea di spostare l’ambasciata britannica da Tel Aviv a Gerusalemme.

Fortunatamente durante i suoi 49 giorni come prima ministra Truss non riuscì a dare seguito a questa idea idiota.

L’attuale politica estera britannica non si è scusata per la Nakba ed è spudoratamente filosionista. Il 21 marzo 2023 un documento programmatico stilato dal governo è stato intitolato “Percorso per le relazioni bilaterali tra Regno Unito e Israele fino al 2030”. Questo documento tratta di commercio e cooperazione in una vasta gamma di settori.

Ma include anche l’impegno britannico a opporsi al deferimento del conflitto israelo-palestinese alla Corte Internazionale di Giustizia, al movimento globale, di base e non violento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) per porre fine all’occupazione israeliana e a lavorare per ridurre la supervisione all’ONU su Israele.

In breve, il documento programmatico concede a Israele l’intera gamma di immunità per le sue azioni illegali e i suoi veri e propri crimini contro il popolo palestinese. Come tale, è un fedele riflesso della parzialità filosionista della politica estera britannica nel corso degli ultimi 100 anni.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Avi Shlaim è professore emerito di Relazioni Internazionali all’università di Oxford e autore di “The Iron Wall: Israel and the Arab World” [Il muro di ferro: Israele e il mondo arabo, Il Ponte editore] (2014) e di “Israel and Palestine: Reappraisals, Revisiones, Refutations” [Israele e Palestina: ripensamenti, revisioni, refutazioni] (2009).

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Una parlamentare statunitense reintroduce un disegno di legge per ridurre gli aiuti a Israele

Redazione di Middle East Eye

8 maggio 2023 – Middle East Eye

Presentato per la prima volta nel 2021, il disegno di legge chiede a Israele di smettere di utilizzare il denaro dei contribuenti per fare del male ai bambini palestinesi.

La parlamentare USA Betty McCollum ha ripresentato il suo disegno di legge per vietare al governo israeliano di usare i dollari dei contribuenti americani per commettere violenze sui bambini palestinesi.

Il disegno di legge denominato “Legge per difendere i diritti umani dei bambini palestinesi e delle famiglie che vivono sotto occupazione militare israeliana”, è stato presentato una prima volta nel 2021 e ripresentato venerdì scorso.

In una dichiarazione McCollum ha affermato che il Congresso ha la responsabilità di non ignorare “i maltrattamenti ampiamente documentati dei bambini e delle famiglie palestinesi” sotto occupazione israeliana.

Non 1 dollaro degli Stati Uniti deve essere impiegato per commettere violazioni dei diritti umani, demolire le case delle famiglie o annettere permanentemente terre palestinesi”, ha detto McCollum.

Ogni anno gli Stati Uniti forniscono miliardi di aiuti al governo israeliano e quei dollari devono essere indirizzati alla sicurezza di Israele, non ad azioni che violano il diritto internazionale e provocano danni.”

Il progetto di legge riporta una descrizione degli abusi israeliani contro i palestinesi sotto occupazione, inclusa l’incriminazione di minori in tribunali militari.

Il progetto di legge sostiene che “Nella Cisgiordania occupata da Israele ci sono due sistemi giuridici separati e diseguali, in cui ai palestinesi viene imposto il diritto militare, mentre ai coloni israeliani si applica il diritto civile israeliano”.

Il governo di Israele ed il suo esercito detengono ogni anno dai 500 ai 700 minori palestinesi di età tra i 12 e i 17 anni e li processano dinanzi a un sistema di tribunali militari che manca delle fondamentali e basilari garanzie del giusto processo, in violazione degli standard internazionali.”

Inoltre il disegno di legge chiede al governo israeliano di smettere di usare il denaro statunitense per sequestrare e distruggere le proprietà e le case palestinesi in violazione del diritto internazionale e di non usare denaro statunitense per agevolare l’annessione unilaterale delle terre palestinesi.

Attualmente vi sono 16 copresentatori del progetto di legge, incluse: Alexandra Ocasio Cortez, Rashida Tlaib, Ilhan Omar, Ayanna Pressley, Cory Bush e Barbara Lee.

Il progetto è appoggiato anche da più di 76 organizzazioni, comprese: Human Rights Watch, Amnesty International, Jewish Voice for Peace Action, J Street, US Campaign for Palestinian Rights e Ifnotnow Movement.

Importanti associazioni della società civile, come anche organizzazioni cristiane, ebraiche e musulmane, hanno firmato in appoggio a questo disegno di legge – perché noi tutti concordiamo che nessun bambino palestinese o ebreo debba andare a dormire la notte con la paura di continue violenze”, ha detto McCollum. 

Esiste una strada per un futuro di pace e richiede di seguire i nostri valori statunitensi di democrazia e giustizia uguale per tutti.”

Se il numero di copresentatori del progetto è scarso, l’iniziativa gode di grande appoggio da parte della base elettorale democratica.

Nel 2021 la società di sondaggi ‘Data for Progress’ riportava che il 72% dei democratici approvava il progetto legislativo.

McCollum è stata una convinta fautrice dei diritti dei palestinesi nel Congresso, ha sostenuto le leggi per commemorare la Nakba e limitare gli aiuti USA a Israele ed ha condannato le violazioni israeliane dei diritti umani, comprese le demolizioni di case e la detenzione di minori palestinesi.

E’stata anche spesso attaccata dalle associazioni lobbistiche filoisraeliane come Aipac.

Nel 2020 a McCollum è stato assegnato il premio ‘Campione dei diritti dei palestinesi’ da parte dei Musulmani Americani per la Palestina, per la sua proposta legislativa riguardo alla detenzione di minori palestinesi

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)